MARZO 2017
L’assedio di Malta,
avamposto del Cristianesimo*
di Salvatore Sfrecola
Mi sono ripromesso in questo breve intervento
sull’assedio di Malta ad opera dell’esercito ottomano,
noto anche come il “grande assedio”, in quei lunghi
mesi, dal maggio ai primi di settembre, del 1565, di
richiamare emozioni e di favorire quelle riflessioni
che, come sempre, gli avvenimenti di un tempo consegnano
ai contemporanei i quali, il più delle volte, pur
ripetendo che il ruolo della storia è quello di essere
magistra vitae, tuttavia con straordinaria
presunzione, sempre smentita dai fatti, ritengono che
comunque il tempo che essi vivono è diverso, diversi gli
uomini, diverse le circostanze. Tanto che Marc Bloch, il
grande storico francese, si chiedeva sgomento “a che
serve la storia?”, preoccupato di dove andava il mondo
alla vigilia della seconda guerra mondiale. In una
“erosione della memoria” (Bevilacqua) che nega quella
“utilità” della storia sulla quale gli studiosi cercano
di richiamare l’attenzione dei politici di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Considerando che la storia
nell’attualità diventa politica sicché, sempre secondo
Bloch, “l’incomprensione del presente nasce fatalmente
dall’ignoranza del passato”.
Iniziando, dunque, dalle emozioni, è
facile immaginare quella che, all’alba di quel venerdì
18 maggio del 1565, sui bastioni di Malta, provarono le
vedette, allertate alla notizia di un attacco imminente
dell’armata turca, quando scorsero, all’orizzonte della
costa orientale, le vele dei primi vascelli che issavano
le insegne di Solimano il Magnifico. A svegliare la
popolazione quella mattina furono i primi colpi di
cannone, tre, dal Forte S. Elmo, poi da Forte S. Angelo,
dalla Notabile e da Gozo, mentre il dispositivo
difensivo, messo a punto da Fra’ Jean Parisot de la
Valette, 49° Gran Maestro dell’Ordine di Malta, si
attivava immediatamente e gli addetti ai lavori di
fortificazione tornavano sui cantieri, laddove si
dovevano completare muri, approfondire fossati, alzare
terrapieni, tutte opere necessarie a far fronte ad un
assedio che l’esperienza preannunciava duro e lungo.
Come i Cavalieri sapevano bene per averlo subito nella
precedente sede di Rodi, sempre ad opera di Solimano il
Magnifico poco più di quarant’anni prima. Nei mesi
precedenti il Gran Maestro aveva dovuto affrontare anche
non pochi problemi finanziari. Per assoldare combattenti
ed acquistare tonnellate di vettovaglie. Alla fine fu
costretto a imporre una tassa di 30.000 scudi a ciascuna
commenda dell’Ordine e i singoli cavalieri misero a
disposizione le loro finanze personali. In prestito dai
banchieri genovesi arrivarono 12.000 scudi, 20.000 li
fornirono i notabili maltesi, 10.000 giunsero dal Papa.
Le dimensioni dello schieramento ottomano apparvero
subito imponenti, come riferiscono le cronache. Le navi,
secondo le indicazioni di Giovanni Bosio, storico
ufficiale dell’Ordine, e il diario dell’assedio di
Francisco Balbi di Correggio, un mercenario
italo-spagnolo, altra fonte di informazioni sulle forze
in campo, erano circa 250, trireme, bireme,
galere,
galeotte (piccole galee),
galeazze (grandi galee, meno agili ma con
maggiore potenza di fuoco, grandi navi da
trasporto (i mahon), con rifornimenti e cavalli.
In funzione dell’assedio l’armata schierava 64 pezzi d’artiglieria
(tra cui una dozzina di
colubrine e un enorme
basilisco capace di scagliare proiettili di
ferro da 100
kg).
A terra, esclusi i marinai, l’armata d’invasione era
costituita da alcuni corpi d’élite, 6.500 spahi,
cavalleria pesante, 6.000 giannizzeri, casta
militare e politica molto influente, formata da
cristiani rinnegati o, più spesso, da giovani rapiti nel
corso di scorrerie lungo le coste del continente,
indottrinati al fanatismo islamico e con un accurato
addestramento all’uso delle armi, archibugi (a Malta,
furono usati archibugi tedeschi a canna lunga), arco e
due scimitarre. A questi si aggiungono volontari e
corsari. Infine i 1.500 matasiete della guardia
del corpo di Turgut Reis, noto come Murad Dragut,
ammiraglio, corsaro feroce, noto per le sue scorribande,
tra l’altro, sulle coste italiane, da Palmi a
Portoferraio. Erano guerrieri fanatici vestiti con pelle
di leone e armati di scimitarre. Il loro nome - che
derivava dallo spagnolo matar, e siete che
significa molti - verrà poi italianizzato in
“ammazzasette”.
In tutto circa 40.000 uomini, a fronte dei quali la
guarnigione di Malta poteva contare su 550 cavalieri
ospitalieri con 100 aiutanti e soldati di varia
nazionalità, 400 spagnoli, 800 italiani, 500 delle
galere (fanteria da sbarco), 200 siciliani, 100 soldati
della guarnigione di Sant’Elmo, 500 minatori, 3.000
soldati reclutati tra il popolo maltese. In totale 6.100
uomini.
All’assedio della
fortezza cristiana Solimano il Magnifico si era
preparato da tempo, come avevano rivelato gli
informatori che a Costantinopoli assistevano da mesi,
con crescente preoccupazione, alla mobilitazione della
flotta. L’obiettivo del Sultano era ambizioso e duplice.
Da un lato contrastare l’azione dei Cavalieri,
insediatisi a Malta, feudo imperiale loro assegnato da
Carlo V quasi otto anni dopo l’abbandono di Rodi (1522),
sopraffatti dall’orda ottomana nonostante l’epica difesa
dell’isola. Lasciata l’isola, dopo alcuni anni nei quali
l’Ordine aveva ricercato sedi in Italia, il Gran Maestro
fra’ Philippe Villers de l’Isle Adam aveva accettato,
d’intesa con Papa Clemente VII, l’offerta
dell’Imperatore in cambio della rendita annua simbolica
di un falcone ma con il più impegnativo obbligo di
presidiare la città di Tripoli. Sicché, nel prendere
possesso dell’isola il 26 ottobre del 1530, l’Ordine
assumeva la denominazione “di Malta”.
Rispetto a Rodi,
Malta è piccola ma ha una posizione geografica
strategica. A sud della Sicilia e in vista delle coste
africane, poteva facilmente assicurare il controllo del
commercio tra le rotte occidentali e
orientali del
Mediterraneo. Dotata di eccellenti porti
naturali, l’isola sarebbe divenuta presto una
roccaforte in un mare che nel XVI secolo era
diventato ormai un lago islamico, dopo la caduta di
Costantinopoli (1453) e la sconfitta al largo di Gerba
(Djerba), l’isola a sud ovest del golfo di Gabès, di
fronte alla Tunisia quando, nel 1560,
la flotta cristiana composta di circa 54 navi e 14.000
uomini, che nelle intenzioni del Re Filippo II avrebbe
dovuto cacciare i corsari barbareschi dalla loro base di
Tripoli, intercettata e sorpresa dalle forze
dell’ammiraglio Piyale Paşa, perse circa metà delle
navi.
L’evento segnò l’apice della dominazione ottomana nel
Mediterraneo.
Tuttavia Malta non fu attaccata immediatamente, così
lasciando il tempo a Jean de la Valette di richiamare
tutti gli appartenenti all’Ordine ed alla Spagna di
ricostruire le proprie armate.
Malta, uno
scoglio battuto dal sole, terra soprattutto di
pescatori, senza fortificazioni degne di nota a parte
quelle della Città Notabile (o Notabile, oggi Medina) e
con un’economia basata quasi esclusivamente su quello
che il mare poteva offrire, ma con significative
coltivazioni in particolare di cotone, fu trasformata
dal Cavalieri in una poderosa fortezza. Fu adottata una
legislazione moderna e divenne uno dei paesi più ricchi
del Mediterraneo.
L’Ordine lottò
contro i
corsari barbareschi che, guidati da Dragut e Uliç Alì,
storpiati nell’italiano Occhialì, un rinnegato
cristiano, calabrese di Le Castella di nome Giovanni
Dionigi Galeni, infestavano le acque del Mediterraneo
attaccando le navi e le località costiere cristiane. In
particolare delle isole Baleari, terra dalla quale
provenivano molti cavalieri, che furono teatro
dell’attacco portato a Pollença (Pollensa) nel 1550, una
cittadina popolosa a nord ovest dell’isola di Maiorca. I
turchi ne uscirono sconfitti.
Oltre 60 furono i
vascelli corsari e commerciali catturati. Sicché i
governatori delle roccaforti barbaresche chiedevano
insistentemente a Solimano di allestire un corpo di
spedizione per espugnare Malta.
Il Sultano, le cui preferenze andavano alle spedizioni
terrestri nelle quali poteva cavalcare alla testa delle
sue armate che in quel momento aveva indirizzato verso
l’Ungheria e la ricca Vienna, le cui mura aveva sfiorato
per due volte, tardava a decidere. Mura fatali quelle di
Vienna, un desiderio lungo secoli che s’infrangerà
definitivamente il 12 settembre 1638 quando l’esercito
ottomano guidato dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa
Pasha, nonostante la superiorità numerica, dovette
abbandonare il campo con gravissime perdite. Quella
mattina, al termine della Messa, il re Giovanni III
Sobieski, al comando di un esercito
polacco-austro-tedesco, si era rivolto ai suoi ufficiali
ricordando che la vittoria sotto quelle mura avrebbe
salvato non solamente la città ma l’umanità intera. E fu
così. Decisivo in quella battaglia un generale italiano
agli ordini del Margravio del Baden, il Principe Eugenio
di Savoia.
Solimano, dunque, fu distolto dalle brume delle pianure
ungheresi, convinto, come si racconta, più che
dall’insistenza dei suoi generali e ammiragli, dalla più
influente delle sue concubine e ordinò l’allestimento di
una flotta d’attacco, sulla scia di precedenti
iniziative, come nel 1551, quando Dragut e l’ammiraglio
turco Sinàn avevano attaccato le isole maltesi e, con
10.000 uomini, avevano aggredito Gozo, costretta alla
resa quando, dopo un bombardamento di diversi giorni, il
governatore, considerando inutile ogni ulteriore
resistenza, consegnò la cittadella.
Già allora il Gran Maestro dell’Ordine, fra’ Juan de
Homedes, aveva deciso di rafforzare le difese del forte
Sant’Angelo in Birgu (cittadella oggi chiamata
Vittoriosa), e di costruire due nuovi forti, il San
Michele nel promontorio di Senglea, e Sant’Elmo, sulle
pendici della penisola del Monte Sceberras (oggi, centro
urbano di La Valletta). I due nuovi fortini, ultimati in
soli sei mesi nell’anno 1552, saranno di importanza
cruciale per l’esito del “Grande assedio”. In
particolare Sant’Elmo costituiva una fortificazione
straordinariamente avanzata dal punto di vista
dell’ingegneria militare.
La voce di una
enorme armata turca, pronta a muovere nella primavera
del 1565, aveva terrorizzato l’intera Europa. Era
evidente, infatti, che la caduta di Malta
avrebbe avuto conseguenze disastrose per l’intero
continente, in particolare per i commerci con l’Oriente
che sarebbero stati assoggettati ad un continuo
taglieggiamento da parte degli ottomani, data la
debolezza delle potenze europee, effetto anche della
loro esasperata litigiosità.
Va considerato il momento storico in un’Europa
sottoposta alla pressione continua e terribile
dell’Impero ottomano che, iniziata secoli prima, già
nella seconda metà del 600, aveva portato, l’una dopo
l’altra, all’occupazione dei territori rivieraschi del
Mediterraneo costringendo le popolazioni cristiane alla
conversione forzata. Siamo a poco più di cento anni
dalla caduta di Costantinopoli, sei anni prima di
Lepanto (7 ottobre 1571).
La capitale dell’impero romano d’Oriente, isolata e
pertanto indebolita dalla incapacità delle potenze
europee di comprenderne il ruolo strategico di fronte al
crescente espansionismo islamico, più volte assalita
invano, aveva capitolato il 29 maggio 1453 a seguito
dell’ennesimo attacco sferrato dalle truppe Maometto II,
chiamato il conquistatore, colui che ha forgiato la
organizzazione amministrativa e militare dell’Impero al
quale ha dato una prospettiva politica, quella di
conquistare il mondo con la violenza delle armi,
approfittando delle divisioni in campo occidentale,
dell’inanità di molti sovrani preoccupati del proprio
particulare, incapaci di ragionare in termini
globali di civiltà e di radici cristiane, immemori di
Roma, del suo ruolo nel Mediterraneo e del Sacro Impero,
pronti ad ogni compromesso pur di mantenere il potere,
allungando la corda che li avrebbe impiccati,
politicamente s’intende. E c’era chi, oltre a pagare
ingenti tributi al “Gran turco“ (o “La sublime porta” o
“La porta ottomana”), armava quell’impero. Come la
Francia che, in odio alla Spagna, forniva per le navi e
le fortezze del Sultano cannoni che recavano impresso il
giglio borbonico, come dire made in France.
Quel giorno, sulle mura di Bisanzio sgretolate
dall’artiglieria e dalle mine degli ottomani, dove
Costantino XI “trovò la morte che cercava”, come ha
scritto il più grande storico dell’Impero Bizantino,
Georg Ostrogorsky, venivano definitivamente estirpate le
radici greco-romane e Maometto II “creò l’unità
dell’Impero ottomano e diede nuovo slancio alla sua
espansione”.
L’imponente flotta turca non sbarcò immediatamente
uomini e mezzi. Infatti l’ammiraglio Piyale Paşa preferì
scegliere un approdo sicuro, al riparo dai venti del
Mediterraneo, nel Grande Porto di Marsa Scirocco, una
decisione che lo mise in contrasto con il comandante
delle forze terrestri, il Visir Kizil Ahmedli Mustafa
Paşa che avrebbe preferito puntare immediatamente sulla
vecchia capitale, Medina, al centro dell’isola, per poi
attaccare via terra i forti San Michele e Sant’Angelo.
La spuntò l’ammiraglio, convinto che Sant’Elmo con 100
cavalieri e 500 miliziani non avrebbe potuto resistere
più di un paio di giorni. Così, il giorno 24 maggio
posizionò, intorno al piccolo forte, 21 batterie di
cannoni per cominciare subito bombardamenti continui e
pesanti, tanto che si contarono di media ben 6 mila
colpi al giorno. Lo scopo era quello di non dare tregua
ai difensori fiaccandone prima di tutto il morale.
Il forte fu ridotto in macerie in meno di una settimana,
ma la Valette, e i cavalieri degli altri due forti,
rimpiazzarono i feriti con truppe fresche e ripararono
la fortezza di notte passando per un sentiero nascosto.
Il forte, nonostante gli incessanti bombardamenti,
continuò a resistere con i cavalieri annidati tra le
macerie.
La mattina del 3 giugno i giannizzeri scagliarono un
potente attacco contro le mura. Con urla e spari
all’impazzata, stimolati dall’hashish che veniva
distribuito prima della battaglia, tentarono di scalare
le mura con scale e corde. Su di essi i cavalieri
rovesciarono il “fuoco greco”, un antico misto di pece,
salnitro, zolfo, nafta e calce viva (la cui presenza
impediva che fosse possibile spegnere il fuoco con
l’acqua) che li trasformava in torce umane. E poi
“pignatte”, rudimentali bombe a mano riempite di un
potente composto incendiario, accese mediante una corta
miccia, una sorta di molotov. E ancora “trombe”, tubi
che sputavano fuoco, una sorta di lanciafiamme. Molto,
inoltre, impressionò i soldati turchi, il “cerchio”, un
anello di legno ricavato dalle botti e rivestito di un
tessuto imbevuto di pece. Veniva acceso e fatto rotolare
giù dalle mura contro i nemici con effetti devastanti.
Ogni cerchio mandava a fuoco da tre a sei turchi,
creando un grave scompiglio.
Chi raggiungeva la cima delle mura, tuttavia, trovava
cavalieri interamente ricoperti di ferro, armati di
spade e lance, forti della fede e di un accurato
addestramento militare. Corazze impenetrabili, che
tuttavia assicuravano una notevole agilità. Costruite su
misura, il peso ben distribuito, non temevano né i
fendenti di scimitarra, né le frecce. Solamente un colpo
di archibugio sparato a bruciapelo poteva provocare
danni. Ma i turchi ne avevano pochi. Infatti, a parte i
giannizzeri, i soldati erano equipaggiati alla leggera e
con indosso un corpetto corazzato.
Quel giorno l’assalto terminò a mezzogiorno quando
Mustafà fece suonare la ritirata. I turchi lasciarono
sul campo oltre 2.000 morti. 10 furono i cavalieri che
persero la vita, 70 i miliziani.
I bombardamenti continuarono per giorni, alternati a
massicci assalti dei giannizzeri sempre respinti. I
soldati dei rispettivi eserciti si massacrarono a
vicenda, convinti che se la morte li avesse colti
durante la battaglia avrebbero ottenuto una preziosa
ricompensa, gli ottomani il paradiso delle huri,
i cavalieri l’indulgenza plenaria concessa da Papa Paolo
IV.
Tanti furono gli episodi di valore da entrambe le parti,
ma anche di autentica ferocia, con esibizione di corpi
straziati e spediti al nemico allo scopo di
terrorizzarlo. Sarebbe sbagliato, tuttavia, giudicare
quegli eventi con la mentalità di oggi e con la realtà
delle guerre attuali che non ignorano episodi di estrema
crudeltà. È la guerra di per sé inumana.
Gli scontri tra gli opposti armati erano quotidiani, i
bombardamenti incessanti. Sicché l’8 giugno i cavalieri
chiesero al Gran Maestro di poter morire con la spada in
pugno in una sortita in campo nemico. de La Vallette
rispose che se i Cavalieri dovevano morire era meglio
che morissero nel modo che lui aveva ordinato:
“sacrificando le nostre vite una ad una, faremo
guadagnare tempo all’Europa e alla Cristianità”.
Il 18 giugno Sant’Elmo era ormai un cumulo di macerie.
Stava per capitolare. Ma la sorte fu propizia alle armi
cristiane. Mustafà e Dragut si erano spinti su una
collina convinti di assistere all’assalto finale. Ma un
oscuro artigliere siciliano, Giovanni Antonio Grugno,
cambiò le sorti della battaglia. Aveva notato i vessilli
dei due comandanti, diresse verso di loro il suo cannone
e fece fuoco, nonostante fossero al limite della
gittata. Dragut, ferito alla fronte da una scheggia di
pietra morì dopo poco.
Il 21 Giugno, il Gran Maestro celebrava la festa del
Corpus Domini
pregando per i suoi confratelli di S. Elmo
proprio mentre iniziava l’assalto finale. Duecento
assediati contro decine di migliaia di turchi. Tre gli
assalti delle milizie ottomane, sempre respinti. I
Cavalieri stremati, arsi dal caldo e feriti si preparano
alla morte ricevendo i sacramenti.
Un disperato tentativo di far giungere altri soldati a
S. Elmo con cinque galee fallisce nella notte.
All’alba del 23, nel forte di S. Elmo ognuno va a
occupare il posto prestabilito “per
morire nel letto d’onore”. Rimangono in 60.
Sotto le mura, ci sono 10.000 ottomani. La spianata
davanti al forte, abbandonata dai Cavalieri, viene
occupata dal nemico, che da quella posizione inizia a
tirare all’interno. Un vero e proprio tiro al bersaglio,
poiché i Cavalieri non hanno più polvere da sparo.
Rimasti a difendere la breccia con picche e spadoni, gli
ultimi soldati cristiani vengono spazzati via
dall’ultimo assalto. All’interno di S. Elmo, i turchi
trovano seicento fra morti e moribondi. Questi ultimi
prendono la prima arma a disposizione e cercano di
trovare una morte onorevole. Nessuno di loro sopravvive
al massacro. I corpi dei cavalieri catturati,
crocifissi, vennero spinti sulle acque del porto verso
gli altri forti. La risposta fu altrettanto crudele, i
prigionieri turchi furono decapitati e le loro teste
sparate dai cannoni verso il campo nemico.
Mustafà perse 8.000 dei suoi uomini migliori per
prendere un cumulo di macerie. Il forte Sant’Elmo era
stato conquistato ad un prezzo troppo alto, oltre ad
essere costato la vita a Dragut. Si dice che, guardando
verso il grande forte Sant’Angelo, ancora intatto e con
i cannoni tuonanti, il generale turco abbia gridato:
“Allah! Se un figlio così piccolo è costato tanto caro,
quale prezzo dovremo pagare per un padre così grande?”.
Intanto la notizia dell’assedio e del suo andamento si
era diffusa nel continente provocando grande panico
nella consapevolezza che un esito negativo per le armi
cristiane avrebbe potuto decidere la lotta tra l’Impero
ottomano e l’Europa. Una volta presa l’isola, i turchi,
com’era nei piani del Sultano, avrebbero invaso l’Italia
da sud pur continuando la conquista dell’Ungheria e
della penisola balcanica.
Si decise, dunque, di organizzare una spedizione di
salvataggio, il “Gran Soccorso”, capitanata dal genovese
Gianandrea Doria, che comprendeva galee di tutti gli
stati mediterranei ad eccezione della Francia e della
Repubblica di Venezia, timorose di guastare i loro
rapporti con l’Impero ottomano. Anche Filippo II, che
era stato scottato a Gerba, era della partita ma con
poco onorevole ambiguità, tanto da ordinare al viceré di
Sicilia, García Álvarez de Toledo y Osorio, angosciato
per la sorte del figlio che militava tra le truppe
maltesi, di non impegnare le sue galee
Ci fu chi tentò invano di violare il blocco navale turco
per portare viveri e rinforzi agli assediati, compreso
Enrique de la Valette, nipote del Gran Maestro. Solo il
28 giugno giunsero a Malta circa 600 uomini, compresa
una compagnia spagnola d’élite, 150 cavalieri e molti
volontari al comando di Juan de Cardona, in quattro
galere inviate dal viceré di Sicilia che pagherà cara
questa sua insubordinazione al Sovrano.
Partecipò ai rinforzi anche il Duca di Savoia che aveva
organizzato una spedizione, chiamata “Piccolo Soccorso”,
guidata dall’Ammiraglio piemontese Andrea Provana di
Leinì.
Nel corso dell’estate la sorte volse in favore dei
difensori che ebbero la meglio sugli assalitori, anche
per essere stati messi al corrente da un disertore turco
di un attacco via mare che gli ottomani stavano
preparando e che ritenevano risolutivo. de La Valette
ebbe il tempo di far costruire sbarramenti sottomarini
contro i quali le navi turche si schiantarono. Alcune
rimasero intrappolate tra le catene predisposte a tutela
del porto. E quando i turchi tentarono di distruggere
quelle difese furono aggrediti dai nuotatori maltesi che
ingaggiarono con essi un violento corpo a corpo. Una
decina di vascelli carichi di giannizzeri arrivò a tiro
dei cannoni schierati ai piedi del forte Sant’Angelo.
Dopo poche salve nove barche affondarono trascinando con
sé gli equipaggi.
Il 7 agosto, di fronte a due massicci attacchi
simultanei contro forte San Miguel e contro la
cittadella di Birgu, mentre i turchi si avvicinarono
alle mura, de la Vallette decise un’improvvisa sortita
contro gli assedianti. Racconta Balbi nel suo diario:
“Il Gran Maestro si rivolse ai suoi uomini con queste
parole: “Sono certo, che se io cadrò ciascuno di voi
sarà in grado di prendere il mio posto e di continuare a
combattere per l’onore dell’Ordine e per amore della
nostra Santa Chiesa. Signori Cavalieri. Andiamo a morire
che è giunto il nostro giorno!”” I cavalieri si
lanciarono contro i turchi menando fendenti con il
pesante spadone a due mani. La battaglia durò nove ore
fin quando i turchi non si ritirarono.
Mustafà, pensando che i cavalieri avessero ricevuto
rinforzi, decise di ricorrere ad un nuovo, massiccio
bombardamento contro San Michele e Birgu alternando
sporadiche sortite di giannizzeri laddove si aprivano
delle brecce nelle mura, come avvenne il 18 agosto
quando una mina aprì un varco nel quale si riversarono
gli assedianti, costringendo lo stesso Gran Maestro ad
intervenire gettandosi nella mischia. Il suo gesto fu
d’esempio per i difensori che si precipitarono verso le
mura dando vita ad un violento corpo a corpo. L’assalto
fu respinto ma de la Vallette rimase ferito ad una gamba
da una granata.
Intanto la flotta del Gran Soccorso tardava a prendere
il largo. Salpò solamente il 5 settembre. Il colpo di
grazia per gli assedianti fu lo scontro nella piana di
Pietranera al quale parteciparono i cavalieri usciti in
massa dai forti. Dopo cinque ore di combattimento i
turchi si ritirarono e s’imbarcarono sulle loro navi.
Il 12 settembre la flotta ottomana lasciò l’isola
abbandonando parte delle navi, date alle fiamme per non
lasciarle al nemico.
Le perdite registrate da Balbi furono: 31.000 turchi,
239 cavalieri di Malta, 2.500 fanti di tutte le
nazionalità, 7.000 cittadini maltesi (uomini, donne e
bambini).
La notizia della vittoria delle armi cristiane si
diffuse nel continente con la stesa velocità con la
quale nei mesi precedenti si era sparso il terrore per
l’attacco turco. In tutte le chiese si tennero funzioni
di ringraziamento. Giunsero doni da tutta Europa e quei
rinforzi che durante l’assedio erano stati lesinati,
anche da Filippo II. Che inviò circa 6.000 uomini di
rinforzo, un’ingente somma di denaro ed un regalo a la
Vallette: una spada e un pugnale con incise queste
parole: plus quam valor valet la Vallette. Papa
Pio IV gli offrì la porpora cardinalizia. Ma il Gran
Maestro oppose un garbato diniego: voleva vivere i suoi
ultimi anni sulla sua isola, dove morì il 21 agosto
1568. A lui fu dedicata la nuova capitale: La Valletta.
Per l’Impero ottomano la sconfitta di Malta fu un grave
colpo anche sul piano finanziario, poiché l’economia
turca si reggeva principalmente sulle razzie e sul
bottino di guerra: la moneta fu svalutata. Meno di un
terzo dell’esercito ritornò ad Istambul e la flotta fu
guidata nel porto in piena notte per evitare che il
popolo si rendesse conto dei danni subiti.
Solimano aveva in animo di riprendere l’offensiva contro
l’isola l’anno successivo. Malta, con le distruzioni
subite avrebbe difficilmente potuto resistere. Ma un
nuovo attacco non ci fu. Durante l’inverno, sabotatori
dell’Ordine di Malta diedero fuoco al deposito delle
polveri dell’arsenale di Kostantiniyye, distruggendo
parte della flotta turca che era ormeggiata nei bacini.
Lo riferisce l’Abate de Vertot, nella sua storia
dell’Ordine.
Il sultano cambiò i suoi piani e nel 1566 tornò a
combattere in terra verso l’Ungheria ma durante questa
campagna trovò la morte.
Gli ottomani non attaccarono mai più Malta.
L’eroica resistenza dei Cavalieri dimostrò all’Europa
che era possibile sconfiggere l’Impero ottomano e si
diffuse un sentimento di fiducia e di rivalsa. Molti
volontari furono arruolati nelle flotte che erano in
costruzione in tutti gli arsenali europei poiché, per la
prima volta, la Sublime Porta era stata sconfitta.
E se è vero, per richiamare ancora Bloch ne
L’apologia della storia, che si può “comprendere il
presente unicamente alla luce del passato”, dobbiamo
evitare che qualcuno sia indotto a ripetere oggi quel
che egli sentì dire negli uffici dello stato maggiore
francese nel giugno del 1940, il giorno dell’ingresso
dei tedeschi a Parigi, mentre si rimuginava sulle cause
del disastro: “dobbiamo dunque credere che la storia ci
ha ingannati?” Più probabilmente era mancata la capacità
di leggere gli avvenimenti che si stavano dipanando in
quegli anni nei quali l’aggressività del regime nazista
era stata sistematicamente sottovalutata dalle potenze
democratiche.
29 marzo 2017
Riferimenti bibliografici essenziali
A.
Barbero, Lepanto, Laterza, Bari, 2010
B.
P. Bevilacqua, L’utilità della storia,
Donzelli, Roma, 2007
C.
M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di
storico, Einaudi, Torino 1969
E. Bradford, Storia dei Cavalieri di Malta,
Mursia, Milano, 1975
N. Capponi, Lepanto 1571, Mondolibri, 2008
E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi,
Torino, 1961
A. Demurger, I Cavalieri di Cristo, Garzanti,
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Morcelliana, 1979
N. Henderson, Eugenio di Savoia, Corbaccio,
Milano, 1964
M. Meschini, Assedi medievali, Il Giornale,
Biblioteca Storica, 2006
G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino,
Einaudi, Torino, 1968
A. Petacco, La Croce e la Mezzaluna, Mondadori,
Milano, 2005
A. Wheatcroft, Infedeli, Laterza, Bari,
*
Riproduce, con alcune integrazioni, la relazione
tenuta al Convegno “Malta, avamposto
dell’Occidente”, tenutosi il 29 marzo 2017 a
Roma a Palazzo Ferrajoli per iniziativa
dell’UNAMS, Unione degli Artisti, l’Associazione
Andar per Arte e l’Associazione Italiana
Giuristi di Amministrazione.
Circolo di Cultura ed Educazione Politica
REX
Domenica 26 marzo 2017 ore 10.30
Sala Uno, Via Marsala 42 , Roma
Il Senatore Lucio Toth,
Vice Presidente Federazione degli istriani, fiumani e dalmati
e
il Dr. Marino Micich,
Direttore Archivio Museo Storico di Fiume
illustreranno gli eventi successivi all’iniquo trattato
di pace e la situazione attuale dell’associazionismo
degli esuli:
“A 70 anni dalla firma del Trattato di Pace di Parigi
(1947-2017): il destino delle terre istriane e dalmate
tra storia e futuro”
***
Sarà possibile acquistare la ristampa del volume del
Circolo REX dedicato alla Grande Guerra, 1915-1918 , con
prolusione del grande storico Gioacchino Volpe , già
pubblicato nel 1968, in occasione del Cinquantenario, ed
ora nuovamente edito per i “Libri del Borghese”, di
“Pagine” di Roma
Il C.N.E.L. sopravvissuto al referendum costituzionale
ignorato dal Governo
di Salvatore Sfrecola
La notizia di contrasti tra il Segretario generale,
Franco Massi, ed il Presidente facente funzioni, Delio
Napoleone, raccolta da alcuni giornali, ha ricordato
agli italiani che il C.N.E.L., Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro, sopravvissuto alla proposta
di soppressione Renzi-Boschi, bocciata dal referendum
costituzionale del 4 dicembre 2016, attende di
riprendere in pieno la propria attività. Da quella data,
tuttavia, la Presidenza del Consiglio dei ministri non
ha trovato il tempo di procedere alle nomine previste
dalla
legge 30 dicembre 1986, n. 936,
che disciplina il funzionamento dell’organo. Un po’ come
accade per le province delle quali era scontata la
soppressione e che continuano ad esistere con rilevanti
competenze, si pensi solo alla manutenzione delle
strade, migliaia di chilometri, alla sicurezza della
scuole e all’ambiente, ma i loro bilanci sono stati
tagliati.
Previsto dall’art. 99 della Costituzione, “composto.. di
esperti e di rappresentanti delle categorie produttive,
in misura che tenga conto della loro importanza numerica
e qualitativa”, il C.N.E.L. è “organo di consulenza
delle Camere e del Governo e per le materie e secondo le
funzioni che gli sono attribuite dalla legge”, “ha
l’iniziativa legislativa e può contribuire alla
elaborazione della legislazione economica e sociale”. Il
testo è quello che aveva proposto Edoardo Clerici,
democristiano, comasco, avvocato, che era stato capace
di interpretare l’idea di molti Costituenti di
assicurare a Parlamento e Governo la consulenza di un
organo rappresentativo degli interessi economici e
sociali, un po’ come accadeva in Francia con il
Consiglio economico ed a somiglianza del
“sub-parlamento economico”, proposto a Londra da
Churchill.
Funzioni importanti, dunque, eppure gli italiani non si
sono praticamente accorti della sua presenza. Per la
verità le persone informate ricordano studi e proposte
di legge consegnate in libricini con la copertina
azzurra molto documentati, che hanno interessato anche
per l’autorevolezza di quanti hanno presieduto il
Consiglio, da Meuccio Ruini, già Presidente della
Commissione “dei 75” che ha redatto la bozza di
Costituzione, ad Antonio Marzano, economista, che ha
assunto quell’incarico nel 2005 dopo essere stato
Ministro delle attività produttive, dimessosi nel 2015,
quando si cominciò a parlare di riforma costituzionale e
della soppressione del C.N.E.L.. Lo hanno presieduto
anche Pietro Campilli, più volte ministro, Bruno Storti
e Sergio Larizza, sindacalisti, Giuseppe De Rita,
sociologo, Presidente del CENSIS.
In oltre cinquant’anni di attività (si è insediato nel
1958) il Consiglio ha elaborato circa 1380 documenti,
pareri, osservazioni e proposte, disegni di legge,
rapporti su tematiche istituzionali, studi e indagini,
relazioni, protocolli d’intesa, organizzato convegni e
dibattiti. Inoltre cura il notiziario dell’archivio dei
contratti collettivi di lavoro, nonché una banca dati
sul mercato del lavoro, sui costi e sulle condizioni di
lavoro, alla cui formazione ed aggiornamento concorrono
gli enti pubblici che compiono istituzionalmente
rilevazioni in queste materie.
L’ultimo parere è del 15 maggio 2014, in tema di orari
di apertura degli esercizi commerciali, richiesto dalla
Camera dei deputati. In precedenza aveva manifestato il
proprio avviso sulla Relazione al Parlamento sulla
Sicurezza Stradale del Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti, sul Documento programmatico relativo alla
politica dell’Immigrazione e degli stranieri nel
territorio dello Stato per il triennio 2007-2009, sul
disegno di legge delega in tema di tutela della salute e
sicurezza nel lavoro, sulle direttive COVIP su forme
pensionistiche complementari, sulla legge delega
fiscale. Si è occupato, inoltre, di Ambiente, borsa e
attività finanziarie, politica dei redditi,
privatizzazioni, emigrazione, italiani all’estero,
Europa e rapporti internazionali, finanza pubblica,
regionale e locale, fisco, legge finanziaria, soggiorno
e integrazione immigrati, federalismo, riforme, cultura.
Perché, dunque, la politica non interpella il C.N.E.L.?
Senza tema di smentite i pareri autorevoli dati da un
Consiglio, nel quale siedono esperti designati delle
organizzazioni rappresentative del mondo dell’economia e
del lavoro, costringerebbero i parlamentari ed il
governo a fare i conti con questi documenti e, questo,
l’arroganza dei politici non può tollerarlo, anche
perché se non ne seguissero le indicazioni
inevitabilmente l’opposizione e la stampa lo farebbero
notare e sarebbe occasione di polemiche.
Ma il C.N.E.L. esiste ed il Governo ha il dovere di
farlo funzionare al meglio, anche per giustificare le
risorse, poche, che gli sono destinate in bilancio.
Vietato, dunque, mettere a capo del Consiglio una mezza
figura, tanto per farlo morire d’inedia. Ancora una
volta ignorando che gli elettori si sono pronunciati.
Molti non sapevano cosa fosse il C.N.E.L. e come
funzionasse. Ma la maggioranza aveva intuito che la
riforma costituzionale era pessima e, per bocca degli
stessi fautori del SI, “non priva di difetti e
discrasie”. Con buona pace per il rispetto dovuto alla
Carta fondamentale dello Stato.
(da La Verità, 23 marzo, pagina 10)
Grillo, il Risorgimento, Torino
di Pier Franco Quaglieni*
Lo sappiano, i torinesi. Grillo detesta il Risorgimento.
Di recente ha richiesto l’istituzione per il 13 febbraio
di un ennesimo Giorno della Memoria per ricordare quelle
che lui definisce le vittime del Risorgimento,
nell’anniversario della caduta di Gaeta e della fine del
Regno borbonico delle Due Sicilie che concluse la
spedizione dei Mille di Garibaldi, dopo l’incontro a
Teano tra il condottiero dei Due Mondi e Vittorio
Emanuele II.
Forse Grillo pensa di sottrarre voti alla Lega, temibile
concorrente al Nord nella rincorsa populistica,
demonizzando la nostra storia come fece Bossi in
passato. La Lega in effetti ha accantonato i temi
antisorgimentali e addirittura il 24 maggio 2015 -
centenario dell’ingresso dell’Italia nella Grande
Guerra - Salvini e Zaia sono andati in riva al Piave ad
attingere acqua del "fiume sacro" come Bossi faceva alle
sorgenti del Po.
Grillo nella sua sbornia demagogica vuole travolgere
tutto, in primis la democrazia rappresentativa con il
ricorso al mito di un nuovo Rousseau in rete. Il
richiamo a Rousseau, almeno alle persone colte, dovrebbe
essere sufficiente per capire cosa si celi dietro quel
nome: la giustificazione a priori del giacobinismo che
dalla Rivoluzione francese a quella russa di cent’anni
fa ha intossicato due secoli con ghigliottine, terrore e
stragi.
Ma come è possibile che nessuno a Torino abbia levato la
sua voce contro la proposta di Grillo di celebrare le
presunte vittime del Risorgimento ?
È passato esattamente un mese dalla proposta, ma il
silenzio l’ha fatta da padrone.
La Torino che fu prima capitale d’Italia e prima
protagonista del Risorgimento, avrebbe dovuto, a livello
pubblico, prendere posizione contro Grillo. Tutti hanno
taciuto. Magari alcuni per disinformazione, altri per
disprezzo verso le sparate di Grillo, ma sicuramente
alcuni hanno taciuto per convenienza. Se oggi fosse in
vita, un uomo come Narciso Nada, storico del
Risorgimento, ma anche degli Antichi Stati italiani
preunitari, non avrebbe avuto esitazioni a replicare a
muso duro per le rime in quella che Adolfo Omodeo
definiva la “difesa del Risorgimento”. Lo fece insieme
a me anche agli albori del leghismo. Il meridionale
Croce parlò addirittura di “Sorgimento” per sottolineare
come esso fosse l’unica grande pagina della storia
italiana.
Alcuni pallidi risorgimentalisti torinesi si baloccano
con altre cose, ma non hanno avuto il coraggio di
replicare a Grillo, come in passato non lo ebbero nei
confronti dei leghisti.
D’altra parte le cattedre di Storia del Risorgimento
nelle Università italiane vengono sistematicamente
eliminate a favore della Storia contemporanea, ritenendo
che il Risorgimento non meriti più studi specifici.
Solo Dino Cofrancesco, la mente più illuminata
dell’Università di Genova, gran nemico di quello che lui
definisce il “gramsciazionismo" torinese, ha scritto il
suo dissenso e la sua indignazione, ricordando le parole
di Rosario Romeo, il grande biografo di Cavour: “La
crisi dell’idea di Nazione ha indotto molti italiani a
rinunciare al rispetto di sé stessi come collettività e
come civiltà”.
E ha ricordato la grande lezione di Francesco de Sanctis
che, in esilio a Torino, fu anche professore nella
nostra Università. De Sanctis, sommo critico e storico
della letteratura italiana e primo ministro della
Pubblica istruzione del nuovo Regno, scelto da Cavour,
patì il carcere sotto i Borboni.
Bisognerebbe opporre a Grillo la grande lezione degli
storici italiani, molti dei quali originari del Sud, che
hanno scritto la storia del Risorgimento, contestando le
tesi fortemente ideologiche ma storicamente fragili di
Gobetti e Gramsci che vollero vedere nel processo di
unificazione una rivoluzione mancata o una conquista
regia.
Mi limito, rispondendo a Grillo da modesto storico del
Risorgimento, con le parole di Giame Pintor scritte al
fratello nel 1943 poco prima di morire, quando stava
iniziando il suo impegno nella Resistenza: “Il
Risorgimento fu l’unico episodio storico-politico... che
(ha) restituito all’Europa un popolo di africani e di
levantini".
Non va dimenticato che Pintor era sardo come Gramsci.
15 marzo 2017
*
Pier Franco Quaglieni, storico, giornalista, è
Presidente del Centro Mario Pannunzio di
Torino
Circolo di Cultura
ed Educazione Politica REX
**
Domenica 19 marzo 2017 ore 10.30
Sala Uno, Roma Via Marsala 42
LUCIANO GARIBALDI
Giornalista, Storico, Autore di numerosi saggi
sulla seconda Guerra Mondiale
Parlerà sul tema
“I Giusti del 25 aprile”
Con particolare riguardo alla figura di Aldo Gastaldi
Medaglia d’Oro – Primo patriota d’Italia”
***
sarà possibile
acquistare la ristampa del volume del Circolo REX
dedicato alla Grande Guerra, già pubblicato nel 1968 in
occasione del Cinquantenario, ora edito dalla Casa
Editrice Pagine
nella
collana “I Libri del Borghese”
La saggezza del Senato del Regno,
cioè della Camera dei Lord
di Salvatore Sfrecola
“L’élite aiuta la democrazia?” si è chiesto Gianluca Mercuri su
La Repubblica del 9 marzo, a pagina 13, a
proposito della decisione con la quale la Camera dei
Lord (House of Lords) ha stabilito limiti rigidi
alle iniziative del governo sulle modalità di uscita
dall’Unione Europea. Richiamando regole di civiltà
giuridica e di democrazia, la salvaguardia dei diritti
dei cittadini europei residenti nel Regno Unito, tre
milioni, secondo l’associazione che ne tutela i diritti
che, appunto, si chiama Tree milions e che si
appella anche al Parlamento europeo perché li tuteli. Un
argomento forte perché comune anche agli inglesi
presenti in centinaia di migliaia in altri paesi
dell’Unione, in Spagna, in particolare, dove i pallidi
figli di Albione, specie da pensionati, si trasferiscono
per godere del sole, del mare e dell’allegria dei
concittadini del Rey Felipe VI.
Ma soprattutto va apprezzato il richiamo alla necessità che la
Camera dei comuni si pronunci sull’accordo finale tra
Londra e Bruxelles, ciò che nella patria del regime
parlamentare non doveva neppure essere dubitato. Dalla
Magna Charta (1215) in poi la Camera dei Comuni
è, infatti, al centro della vita politica del Regno,
frutto di quell’antico patto tra il Re Giovanni
Senzaterra e il popolo, i comuni, appunto, i
contribuenti che in quel lontano anno ottennero che la
riscossione delle imposte da parte del sovrano fosse
autorizzata da chi avrebbe dovuto pagarle. Ai quali
spettava e spetta anche il controllo sull’utilizzazione
di quelle somme da parte dello stato.
La vicenda insegna alcune cose importanti anche per il nostro
Paese. Che, in democrazia, il “decisionismo” dei
governi, certamente da auspicare, non può fare a meno
del confronto parlamentare, con l’assemblea degli
eletti. Ed è sintomatico che a ricordarlo sia
un’assemblea di nominati, la Camera dei Lord, appunto,
che nella vulgata dei patrocinatori della riforma
costituzionale Renzi-Boschi era del tutto ignorata,
volendosi sostenere che il bicameralismo l’avessimo
“solo noi” e che fosse un relitto del passato. Mentre
una Camera non eletta dimostra tutta la sua vitalità e
la sua indipendenza, da condizionamenti elettorali e da
vincoli di partito, perché, scrive Mercuri, i lords “non
rappresentano lobby ma solo l’interesse generale: perché
sono così distanti dai bisogni e dalle beghe di parte da
poterlo individuare con più facilità rispetto a chi
parteggia per definizione”.
Sono, i lords, persone scelte per competenza e senso dello stato,
come coloro che, nella vigenza dello Statuto
Albertino, sedevano nel Senato del Regno,
individuati nell’ambito delle categorie indicate
dall’art. 33, alti dignitari dell’Amministrazione dello
Stato, delle Forze armate, delle istituzioni culturali.
Quindi anche scienziati e letterati, da Manzoni a
Marconi, da Einaudi a Croce passando per Righi e
Carducci, insomma il meglio dell’Italia dell’epoca.
Uomini indipendenti, tanto che, anche quando fu il
Cavaliere Benito Mussolini a proporre alcune nomine al
Sovrano, questi senatori, immersi in un’assemblea libera
per definizione, mantennero fede al loro compito di
rappresentanti di una élite culturale che si era formata
sui banchi di scuola, nelle istituzioni dello Stato dove
esercitavano le loro funzioni “col solo scopo del bene
inseparabile del Re e della Patria” (art. 49 dello
Statuto), cioè con “disciplina ed onore”, come preciserà
poi la Costituzione della Repubblica all’art. 54.
I Costituenti avevano evidentemente in mente questo modello e,
pur volendosi distaccare dalla Monarchia, pensarono che
fosse utile al Paese un’assemblea “di esperti e di
rappresentanti delle categorie produttive”, “organo di
consulenza delle Camere e del Governo”, con iniziativa
legislativa in modo da “contribuire alla elaborazione
della legislazione economica e sociale”. Così l’art. 99
della Costituzione che ha istituito il Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro che i
riformatori del 2016 volevano cancellare, soprattutto
perché la politica si era dimenticata di impegnarlo
nell’approfondimento delle questioni economiche e
sociali che tanto assillano quotidianamente Governo e
Parlamento. E, in primo luogo, i cittadini.
Sicché Mercuri, a conclusione del suo pezzo si chiede se
“affidarsi a un’élite indipendente per bilanciare il
potere esecutivo, è da democrazie logore o da democrazie
mature?”
14 marzo 2017
L’Asterisco, di
Fernanda Fraioli, tutti i commenti di un anno di cronaca
di Salvatore Sfrecola
I magistrati sono abituati a scrivere, citazioni, ordinanze,
sentenze. A volte scrivono anche libri, spesso di
diritto, ovviamente. Ma anche romanzi, non solamente
gialli, come sappiamo. Tuttavia non sempre la loro prosa
è coinvolgente, scorre gradevolmente di riga in riga, di
pagina in pagina. L’abitudine alla prosa fredda del
diritto è difficile da superare, da trasformarsi in quel
linguaggio giornalistico che, per definizione, è il più
piacevole. Ai più. Invece Fernanda Fraioli riesce a
superare la barriera della prosa legale per assumere una
connotazione più fruibile nel quotidiano, con un
linguaggio che, pur colto, è facilmente apprensibile e
resta dentro. Anche quando racconta e chiosa fatti di
cronaca, come quelli che settimanalmente affronta sulle
colonne del Corriere dell’Umbria e che oggi
consegna a L’Asterisco, il titolo della sua
rubrica, 388 pagine che saranno presentate il 15
pomeriggio, alle ore 15.00, nella Sala Aldo Moro a
Palazzo Montecitorio su invito del Vicepresidente della
Camera Marina Sereni. I proventi delle
vendite, ha precisato l'Autrice, saranno devoluti all'Associazione
antiviolenza.
Gli asterischi sono di argomento vario, come la cronaca presenta
all’attenzione del giornale umbro, riletti attraverso
l’occhio di una donna, con le valutazioni e le
sensazioni proprie di un cuore e di una mente che
nell’essere donna trova le ragioni delle sue relazioni
con gli altri e con il mondo che la circonda. Non
mancano i temi della violenza sulle donne, del mondo
della scuola, delle storie di costume che arricchiscono
le cronache. Sono andato a leggere alcuni pezzi di
Fernanda (mi consentirà la Signora Vice Procuratore
Generale l’approccio col nome) scelti con abilità fra i
tanti che la cronaca pone all’attenzione del lettore,
sempre coinvolgenti, da leggersi tutti d’un fiato. E non
a motivo della contenuta dimensione dello scritto. Anche
un testo breve può essere abbandonato alla decima riga
se non appare subito stimolante, se non conduce il
lettore a guardare oltre il dato della cronaca, se
all’immediatezza imprigiona la mente e non la porta a
guardare oltre, a collocare l’episodio in una realtà più
ampia, a dargli una prospettiva che sia in qualche modo
“didascalica” guardando avanti “ad una società che si
trasforma, ad antichi vizi duri a morire per un futuro
migliore”, come ha scritto nella prefazione Anna
Mossuto, Direttore responsabile del Gruppo Corriere.
E Gianluca Nicoletti, che ha scritto la presentazione
sottolinea il tratto tipico della femminilità, un modo
di vedere le cose che non è e non può essere degli
uomini, la capacità “d’intravedere sotto traccia quello
che noi uomini non riusciamo a scorgere, o peggio
facciamo finta di non aver visto”. Il fascino di una
capacità di vedere e di interpretare le cose che è ciò
che più ci attira nell’altro sesso, che marca una
differenza che lungo i millenni ci ha indotti a guardare
alle donne con un interesse che va al di là dell’aspetto
fisico che forse il più delle volte marca la prima
attenzione ma che poi si arricchisce proprio di questa
diversità in qualche modo complementare a quella che
caratterizza da sempre l’uomo con le attitudini che nel
tempo lo hanno caratterizzato.
Così Fernanda Fraioli passa alla lente della sua femminilità e
della sua cultura, anche giuridica ovviamente, i fatti
che ripropone all’attenzione dei lettori nell’ottica
propria di chi esprime valutazioni sulla base di
convincimenti e di sensazioni che i lettori hanno
dimostrato di apprezzare per le regole di vita che
richiama, per i valori umani e spirituali che, non
evocati espressamente, corroborano gli asterischi, fino
a farne, non un “manuale del vivere civile” che, osserva
Nicoletti, “sarebbe una riduzione a rango di testo
scolastico che la leggerezza del tratto di questa
autrice non merita”, ma un poderoso trattato al
femminile della società del nostro tempo. Anche se il
“manuale” non è necessariamente un testo riduttivo,
formale e scontato.
Queste cose che scriviamo, prendendo spunto da questo o
quell’asterisco, possono sembrare al lettore di questa
recensione un ossequio formale all’Autrice, dovuto in
virtù di un’antica amicizia. Ma chi conosce Fernanda
Fraioli, comprende subito che questa scrittrice “in
toga” è espressione di una femminilità non formale, di
quelle che non si fanno condizionare dalle mode ma che,
proprio per questo, la sua personalità appare ancor più
circondata di un fascino antico e modernissimo, come
vorremmo sempre in una donna che tale rimanga anche
quando fa un lavoro che per molto tempo è stato
esclusivo degli uomini.
12 marzo 2017
“La guerra 1915 – 18”, di U. D’Andrea, V. Tur, E. Avallone, R.
Lucifero, con prefazione di Gioacchino Volpe
a parte un di Salvatore Sfrecola
Nei giorni scorsi è tornato in libreria, edito da Pagine
nella collana “i libri del Borghese”, la casa editrice
diretta da Luciano Lucarini, “La guerra 1915-18”,
(pp-171, € 17,00), un volume che pubblica i testi delle
conversazioni tenute presso il Circolo di Cultura ed
Educazione Politica Rex nelle domeniche del 1965,
per illustrare le vicende della Grande Guerra, secondo
un organico programma indicato da Gioacchino Volpe, il
grande storico che del libro ha scritto la prolusione, e
che introduce agli scritti di Ugo d’Andrea, “l’Italia
del 1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”,
Enzo Avallone, “L’Esercito italiano nella guerra 1915 –
1918”, Vittorio Tur, “La Marina italiana nella guerra
1915 – 1918”, e Roberto Lucifero, “La vittoria e il Re
soldato”.
Osserva Gioacchino Volpe che “l’Italia ufficiale non sembra si
riscaldi troppo per questo evento. Forse perché esso fu
nazionale o irredentista, laddove oggi,
per chi ci governa, tutto è o dovrebbe essere
internazionale, europeo, atlantico, cosmopolita? e la
parola “Nazione” viene quasi cancellata dal vocabolario
politico, come che i due concetti siano contraddittori?
O perché si teme di urtare partiti di Sinistra e del
Centro-Sinistra che, nei mesi fra il 1914 e il ‘15
furono e poi si mantennero avversi alla guerra e fecero
quel che poterono per insidiarla o svigorirla? O perché,
quando si parla di quei fatti, non è sempre possibile,
neppure ricorrendo a ridicole circonlocuzioni o al
silenzio, come si suole, nascondere certi nomi e
innanzitutto un nome di Re? O perché oggi penne e lingue
sono tutte affaccendatissime a parlare di “Resistenza”,
a glorificare la “Resistenza” di cui ricorre il
ventennale?”
Per Volpe la Grande Guerra è la “prova dell’Italia unificata,
conclusione o consacrazione del Risorgimento”. E ricorda
le parole del Re “siate un Esercito solo”. E “prima
resistettero alle poderose offensive austroungariche:
poi presero essi l’iniziativa dell’azione, ripassarono
il Piave, liberarono le province invase, giunsero a
Trieste e Gorizia e Trento e Fiume e Zara, cioè ai
“confini che natura pose”. Giornate inebrianti per chi
le visse”. Fu la prima occasione di un popolo finalmente
unificato nel Regno consacrato dal voto popolare nei
plebisciti che lungo gli anni si tennero nei territori
già sotto dominio straniero, nei regni e nei principati
confluiti nello Stato nazionale. Per poi venire a
parlare del tempo presente, della democrazia sociale che
“con la sua scarsa sensibilità nazionale, con le sue
solidarietà ideologiche oltre i confini, con suo
regionalismo, non ci dà molto affidamento”. Valutazioni
valide anche per l’oggi.
Il testo della prima conversazione è di Ugo d’Andrea,
giornalista, scrittore (sua la voce Nazionalismo
nell’Enciclopedia Italiana), parlamentare: “L’Italia nel
1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”, una
ricostruzione approfondita dell’evoluzione della storia
politica e sociale del nostro Paese a partire dai primi
anni del regno di Vittorio Emanuele III, con l’azione
sociale di Giolitti, il suffragio allargato, il
monopolio delle assicurazioni, la guerra di Libia nel
1911 ampiamente condivisa. Ricorda l’azione politica
fortemente innovativa, spesso ardita, dello statista di
Dronero, la sua apertura ai radicali con Credaro, Nitti,
Ettore Sacchi, il dibattito politico con Gaetano Mosca,
il ruolo del Corriere della Sera di Albertini.
D’Andrea ripercorre le tensioni politiche ideali di
quegli anni il nazionalismo nato 1910, i similari
movimenti francesi, con l’Action Française e
Maurras. C’è una ricognizione importante del pensiero e
delle opere di quanti operarono in questo momento
straordinario dalla parte dell’irredentismo. E racconta
le iniziative politiche diplomatiche del Marchese di San
Giuliano e la preparazione dell’intervento, la difficile
ma determinata modifica dell’equilibrio internazionale
con l’abbandono della Triplice Alleanza per
puntare su un’intesa che, definita a Londra in un
trattato firmato il 26 aprile, alla vigilia
dell’ingresso in guerra, avrebbe riportato l’Italia in
una alleanza con le potenze marittime, già in passato
ritenuta necessaria, “perché abbiamo 8.000 Km di coste
da difendere” che ci farà vincere, come, invece,
avendola abbandonata, perderemo nella guerra 1940 - 45.
“L’Esercito italiano nella guerra 1915-1918” è di Enzo Avallone e
si sofferma sulle difficili condizioni dell’Esercito
italiano all’inizio della guerra che già aveva impegnato
le potenze europee nel 1914. Per descrivere le
condizioni dell’arduo amalgama di forze prive di un
autentico passato militare, se si esclude l’esercito
piemontese e quello napoletano. Al di fuori di questi
ambienti non c’era una “tendenza militare delle
famiglie, che trasmettesse l’abitudine all’esercizio
delle armi di padre in figlio”, quella tradizione che
era stata sempre, ricorda, una forza dell’esercito
germanico. Le condizioni dei mezzi, degli armamenti,
oltre che dell’addestramento vengono analizzate con
dovizia di particolari ricordando l’opera di
rammodernamento degli armamenti del generale Pollio ed
in particolare dell’artiglieria che si rivelerà
essenziale nel corso di un conflitto nel quale un ruolo
speciale ebbero le posizioni fortificate del nemico
sulle montagne del Trentino che si dovettero
smantellare, una dopo l’altra, con l’impiego di grossi
obici. Avallone richiama anche quello che ha scritto
Salandra, il Presidente del consiglio all’atto
dell’intervento in un volume di recente ripubblicato in
anastatica, sulle insufficienze delle Forze Armate che
avevano consumato ingenti risorse nella recente guerra
di Libia. E dà conto dell’impegno di quanti erano tenuti
a provvedere, comprese le incertezze negli
approvvigionamenti a causa della posizione politica di
neutralità che l’Italia aveva assunto. Significativo il
caso delle mitragliatrici. Erano state ordinate già da
due anni alle industrie inglesi che tuttavia tardavano a
consegnarle per ragioni politiche, non essendo certo il
Regno Unito, nel 1914, della scelta che l’Italia,
impegnata a fianco degli imperi centrali dal 1882,
avrebbe fatto. Si dovete pertanto provvedere a
progettare una mitragliatrice italiana, la Fiat 14, con
la conseguenza che, entrato in guerra, l’Esercito
italiano disponeva di quell’arma, già da tempo ritenuta
sempre più importante nella guerra moderna, in quantità
nettamente inferiore al necessario.
L’Autore segnala una serie di errori delle autorità di governo,
dovute in primo luogo all’incertezza della scelta del
campo nel quale schierarsi e della segretezza della
decisione di abbandonare la Triplice Alleanza per
schierarsi a fianco del Regno Unito e della Francia, a
seguito del Trattato di Londra, rimasto a lungo segreto,
tanto che Sonnino non volle darne una copia a Salandra
finché non lo poté trascrivere di proprio pugno e il
Capo di stato maggiore italiano fu tenuto all’oscuro
della firma del patto e di una clausola importantissima
di esso, cioè che entro 30 giorni dalla firma (26
aprile) l’Italia doveva entrare in guerra. E fu,
infatti, il 24 maggio, il passaggio del Piave. Racconta
Avallone che “Cadorna venne a conoscenza di questa
clausola per vie secondarie, quando un colonnello del
Comando supremo, a Parigi, ne ebbe notizia dai
francesi”. “Il Governo evidentemente – scrive Avallone –
non si rendeva conto del tempo necessario a una
mobilitazione, a una radunata, all’apprestamento delle
Forze armate; il Governo credeva bastasse premere un
bottone perché l’esercito e la marina si potessero
scagliare oltre le frontiere o fuori dai porti”. Una
mentalità formatasi sull’esperienza delle guerre
dell’800.
Il testo ricorda vari aspetti della conduzione della guerra, ben
noti ma ricostruiti con molta precisione sicché il
lettore viene guidato lungo gli eventi, con particolare
riferimento a quelli drammatici, delle battaglie
sull’Isonzo, od a Caporetto quando emerse
l’intollerabile insufficienza organizzativa e di comando
del nostro esercito, con le conseguenze anche
psicologiche che avrebbero creato un grave sbandamento
militare, politico e psicologico in un Paese costretto
dagli immani sacrifici dell’economia di guerra. Una
crisi politico militare riscattata a Peschiera quando il
Sovrano, alla prospettiva del nuovo schieramento
arretrato proposto dagli Stati maggiori alleati, li
convinse sulla base di una appassionata rivendicazione
del valore del soldato italiano del cui impegno di
faceva garante, certo che l’Esercito avrebbe saputo
fermare il nemico, riconquistare le posizioni perdute e
riprendere l’avanzata verso Trento e Trieste. Poi
l’impegno del nuovo Capo di Stato maggiore, generale
Armando Diaz, e l’offensiva trionfale di Vittorio Veneto
dopo la battaglia difensiva del giugno in pianura.
Si legge tutto d’un fiato questo capitolo nel quale sono
descritte le operazioni militari, l’impegno dei Corpi
d’armata, delle divisioni, dei reggimenti, e
dell’Aeronautica, che pure vantava una storia recente,
avendo esordito soltanto nella campagna di Libia nel
1911. C’è, poi, la pagina degli eroi della Grande
Guerra, da Cesare Battisti a Fabio Filzi, da Damiano
Chiesa a Enrico Toti. In concomitanza alle operazioni
militari ed in ragione di esse Avallone ricorda come la
“Famiglia
Reale, con tutti i suoi componenti, sia stata in
primissimo piano nel lavoro, nel sacrificio,
nell’esempio. La Regina trasformò il Quirinale in
ospedale per feriti e mutilati (1915-1919) e se stessa
in materna infermiera; con lei la Duchessa d’Aosta. Il
Re, lasciata la direzione dello Stato, per quanto
atteneva alle attività interne, a Tommaso duca di Genova
nominato luogotenente generale del Regno, partì fin dal
primo giorno per il fronte rientrò solo a guerra finita;
né al fronte, si limitò al controllo diretto della
situazione e a visitare quotidianamente le truppe di
linea e i comandi (una volta, rovesciatosi il berretto e
imbracciato all’improvviso il fucile d’un soldato, volle
sparare anche lui contro un aeroplano nemico che
sorvolava le prime linee) contribuendo con la sua
onnipresenza a mantenere elevato il morale; ma, quando
necessario, seppe intervenire con energia assumendosi
anche responsabilità che andavano al di là dei Suoi
doveri costituzionali”, come a Peschiera, lo abbiamo già
ricordato, nel corso della riunione degli Stati maggiori
degli eserciti dell’alleanza che lui stesso aveva
convocato.
Il capitolo si chiude con il bollettino della vittoria.
“La Marina italiana nella guerra 1915 1918”si deve alla penna di
Vittorio Tur, ammiraglio, che descrive innanzitutto i
compiti della Forza Armata, in particolare quello di
bloccare efficacemente l’Adriatico, di proteggere
l’avanzata dell’esercito verso Trieste e di impedire
qualsiasi sbarco alle sue spalle. Inoltre la Marina
doveva proteggere i nostri convogli militari il
vettovagliamento e i rifornimenti alla Nazione
provenienti da Gibilterra e da Suez.
Tra le forze armate la Marina certamente aveva per tempo
provveduto a un rafforzamento e ad un ammodernamento
delle unità sotto la direzione dell’ammiraglio Paolo
Thaon di Revel che “aveva anche provveduto ad assicurare
efficienza e protezione alle basi navali, agli
approvvigionamenti di combustibili, alle armi e, avendo
sempre sostenuto la grande importanza in guerra di
siluranti, sommergibili e aviazione, disdisse - per
poter provvedere alla loro costruzione - quella delle
grandi corazzate da 30.000 tonnellate in progetto,
contro il parere dei sostenitori di esse, tanto più che
i piani non garantivano loro la incolumità dalle offese
subacquee”. In particolare, ricorda Tur, Thaon di Revel
era stato sempre un sostenitore dell’aviazione e “grazie
a lui, la Marina poté avere, al principio della guerra
degli idrovolanti, seppure in numero minimo rispetto ai
150 iniziali da lui richiesti e che riteneva rispondenti
alle necessità, numero che poté però, sempre grazie a
lui, essere accresciuto in seguito. Infatti durante la
guerra arrivammo al 1.645 idrovolanti e aeroplani e a 49
dirigibili di vario tipo”.
Anche questo capitolo sulle operazioni in mare è una lettura
appassionante delle imprese dei nostri marinari che,
abilmente guidati resero praticamente inerte, incapace
di operare la marina austriaca che anzi perse per
l’aggressione dei nostri mas prestigiose unità
come la corazzata Santo Stefano e la Viribus
Unitis. Il testo dà conto delle nostre unità, della
loro dislocazione, delle operazioni nelle quali sono
state impegnate. Il lettore troverà anche i nomi di
valorosi ufficiali e marinari e delle loro straordinarie
imprese, dalla “beffa di Buccari” alla vittoria di
Premuda, l’affondamento delle corazzate Wien nella rada
di Trieste ad opera di Luigi Rizzo, Tegetthoff e Szent
Istvàn (Santo Stefano). In tutti questi avvenimenti
emerge il nome di Luigi Rizzo il quale sarà decorato di
medaglia d’oro e insignito dell’Ordine Militare di
Savoia e Conte di Grado. Altro insigne marinaio,
l’Ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, Comandante
delle forze navali destinate a Pola.
Il volume si chiude con una conversazione di Roberto Lucifero
intitolato “La vittoria e il Re soldato”, pagine che
sottolineano il ruolo e l’impegno del Sovrano nella fase
precedente l’entrata in guerra e nella sua presenza al
fronte nel corso dell’intero conflitto. Ricorda, in
particolare, quanto gli aveva riferito il padre a
proposito di una serie di colloqui con Vittorio Emanuele
III, già nell’estate del 1914. Il Re aveva chiara l’idea
che per motivi storici era inevitabile che fosse giunto
il momento della completamento dell’unità d’Italia che
non si era potuta raggiungere prima. Inoltre era
consapevole dello sviluppo del conflitto e
dell’inevitabile impegno degli Stati Uniti d’America che
sarebbe avvenuto soltanto nel 1917, ma che lui ben tre
anni prima riteneva certo.
“Il Re, dunque, volle la guerra. E, io credo, possiamo dire che
in certo senso la impose perché, a un determinato punto,
se il governo non avesse avuto lo stimolo e l’appoggio
del Re di fronte alle resistenze del Parlamento e di
gran parte del Paese, con le minacce del socialismo
sempre pronto a crear disordini ogni volta che il Paese
avesse particolare bisogno d’ordine, probabilmente a
quella decisione non si sarebbe venuti”.
In conseguenza di ciò scrive Lucifero: “il 24 maggio si chiama
Vittorio Emanuele III. Ma anche la guerra si chiama
Vittorio Emanuele III sotto tutti gli aspetti multiformi
del Re: del Re il quale sapeva di esser Lui mallevadore
di quella battaglia condotta dal suo popolo; dell’uomo,
che si accompagnava ai soldati nei luoghi più rischiosi
giorno per giorno, ora per ora, che in mezzo agli scoppi
delle granate mangiava il suo fagottino seduto sopra un
sasso; del capo di una Famiglia, il quale ha voluto che
tutti i Principi di Casa Savoia partecipassero alla
guerra (e uno c’è morto, il Conte di Salemi); ha voluto
che tutte le donne della Sua famiglia partecipassero
alla guerra. E le avete viste nella uniforme gloriosa
della Croce Rossa, con alla testa quella Regina di cui,
nel Suo ultimo viaggio, ebbero tanta paura da non
consentirLe di passare alcune ore in cabina nel porto di
Napoli, quando dall’Egitto doveva trasferirsi a
Montpellier”. Una sosta per incontrare un medico che si
sperava potesse alleviare le sue sofferenze, una sosta
che le fu impedita dalle autorità della repubblica.
La figura del Sovrano e della Regina Elena riempiono con il
ricordo di episodi significativi della loro vita questo
capitolo conclusivo, come in un modo diverso non sarebbe
stato possibile, per sottolineare, nel centenario della
Grande Guerra, che per il Regno d’Italia, fu la Quarta
guerra d’indipendenza, come fu portata a completamento
l’unità nazionale. Un impegno del Circolo di cultura
ed educazione politica Rex, istituzione culturale
che risale al 1948, indipendente, sostenuta
esclusivamente dai soci, e che ha visto alla presidenza
e nel Consiglio direttivo personalità della cultura,
della politica delle Forze Armate e dell’Amministrazione
dello Stato, per ricordare eventi ed approfondire
momenti salienti della storia italiana, sempre con la
serenità di chi crede nei valori e nella identità
nazionale.
12 marzo 2017
Associazione Italiana
Giuristi di Amministrazione
Conversazioni di Diritto pubblico
Salvatore Sfrecola
Avvocato, già Presidente di Sezione
della Corte dei conti
parlerà sul tema
Finanza pubblica e finanza locale
tra regole e controlli
(Riflessioni per politici e funzionari suggerite dalle relazioni
per l’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti)
Venerdì 10 marzo 2017
Ore 17,00
Roma, via Ferrari 1
(Salone dei Padri Pallottini)
Tra incarichi dirigenziali e posizioni organizzative
Le
agenzie fiscali continuano ad aggirare la Costituzione
di Salvatore Sfrecola
L’accusa è pesante, gravissima. E proviene dalla Corte
costituzionale. Le agenzie fiscali (delle entrate,
delle dogane e del territorio) hanno aggirato la “regola
del concorso pubblico”, secondo la quale “agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante
concorso”, come sta scritto nell’ultimo comma dell’art.
97 della Costituzione, di seguito ad altri principi,
quali il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione. Insomma le regole della legalità.
E tanto per non perdere l’abitudine le medesime Agenzie
fiscali continuano ad aggirare la Costituzione e le
leggi. Infatti, mentre con il decreto “Milleproroghe”
hanno ottenuto che le procedure concorsuali per
l’acquisizione dei dirigenti slittassero al 31 dicembre
2017, nel frattempo attribuiscono “posizioni
organizzative speciali ed a tempo” riproducendo “le
medesime metodologie fin qui praticate nonostante la
bocciatura del giudice delle leggi”, come si legge in un
comunicato della DIRSTAT, la Federazione fra le
associazioni ed i sindacati nazionali dei dirigenti, a
firma del Vice segretario generale, Pietro Paolo Boiano.
Le agenzie avrebbero dovuto, invece, nelle more delle
procedure concorsuali, procedere all’affidamento delle
reggenze, come aveva indicato la Corte costituzionale
nella sentenza n. 37 del 17 marzo 2015, quella che
denuncia, appunto, l’“aggiramento”, sancendo
l’illegittimità delle disposizioni urgenti in materia di
semplificazioni tributarie che avevano consentito il
conferimento di incarichi dirigenziali che, secondo la
giurisprudenza della Consulta, deve avvenire in ogni
caso “previo esperimento di un pubblico concorso”
concorso “necessario anche nei casi di nuovo
inquadramento di dipendenti già in servizio”.
Perché la Corte parla di aggiramento? Perché le agenzie,
avendo proceduto alla copertura provvisoria di vacanze
nelle posizioni dirigenziali mediante la stipula di
contratti individuali di lavoro a termine con propri
funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento
economico dei dirigenti, “fino all’attuazione delle
procedure di accesso alla dirigenza” e comunque fino ad
un termine finale predeterminato, lo ha di volta in
volta prorogato a partire dal 2006. “Le reiterate
delibere di proroga del termine finale – si legge nella
sentenza - hanno di fatto consentito, negli anni, di
utilizzare uno strumento pensato per situazioni
peculiari quale metodo ordinario per la copertura di
posti dirigenziali vacanti”.
Ma il Governo fa orecchie da mercante e le agenzie,
bocciati gli incarichi dirigenziali, ricorrono alle
“posizioni speciali a tempo” di cui si è detto, per
guadagnare mesi e forse anni e creare situazioni di
fatto nella speranza o nell’aspettativa di qualche
sanatoria, cioè di un nuovo aggiramento della
Costituzione e delle leggi, nonostante la delusione del
personale più elevato in grado, impegnato a combattere
l’evasione fiscale, che pure ha vinto su tutti i fronti
nei giudizi amministrativi e di costituzionalità.
Continua, dunque, la protesta e continuerà il
contenzioso dinanzi ai tribunali amministrativi
regionali ed al Consiglio di Stato di fronte
all’improntitudine dei governi.
(Pubblicato da La verità del 5 marzo 2017)