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MARZO 2017

 

L’assedio di Malta,

avamposto del Cristianesimo*

di Salvatore Sfrecola

Mi sono ripromesso in questo breve intervento sull’assedio di Malta ad opera dell’esercito ottomano, noto anche come il “grande assedio”, in quei lunghi mesi, dal maggio ai primi di settembre, del 1565, di richiamare emozioni e di favorire quelle riflessioni che, come sempre, gli avvenimenti di un tempo consegnano ai contemporanei i quali, il più delle volte, pur ripetendo che il ruolo della storia è quello di essere magistra vitae, tuttavia con straordinaria presunzione, sempre smentita dai fatti, ritengono che comunque il tempo che essi vivono è diverso, diversi gli uomini, diverse le circostanze. Tanto che Marc Bloch, il grande storico francese, si chiedeva sgomento “a che serve la storia?”, preoccupato di dove andava il mondo alla vigilia della seconda guerra mondiale. In una “erosione della memoria” (Bevilacqua) che nega quella “utilità” della storia sulla quale gli studiosi cercano di richiamare l’attenzione dei politici di tutti i tempi e di tutti i paesi. Considerando che la storia nell’attualità diventa politica sicché, sempre secondo Bloch, “l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato”.

Iniziando, dunque, dalle emozioni, è facile immaginare quella che, all’alba di quel venerdì 18 maggio del 1565, sui bastioni di Malta, provarono le vedette, allertate alla notizia di un attacco imminente dell’armata turca, quando scorsero, all’orizzonte della costa orientale, le vele dei primi vascelli che issavano le insegne di Solimano il Magnifico. A svegliare la popolazione quella mattina furono i primi colpi di cannone, tre, dal Forte S. Elmo, poi da Forte S. Angelo, dalla Notabile e da Gozo, mentre il dispositivo difensivo, messo a punto da Fra’ Jean Parisot de la Valette, 49° Gran Maestro dell’Ordine di Malta, si attivava immediatamente e gli addetti ai lavori di fortificazione tornavano sui cantieri, laddove si dovevano completare muri, approfondire fossati, alzare terrapieni, tutte opere necessarie a far fronte ad un assedio che l’esperienza preannunciava duro e lungo. Come i Cavalieri sapevano bene per averlo subito nella precedente sede di Rodi, sempre ad opera di Solimano il Magnifico poco più di quarant’anni prima. Nei mesi precedenti il Gran Maestro aveva dovuto affrontare anche non pochi problemi finanziari. Per assoldare combattenti ed acquistare tonnellate di vettovaglie. Alla fine fu costretto a imporre una tassa di 30.000 scudi a ciascuna commenda dell’Ordine e i singoli cavalieri misero a disposizione le loro finanze personali. In prestito dai banchieri genovesi arrivarono 12.000 scudi, 20.000 li fornirono i notabili maltesi, 10.000 giunsero dal Papa.

Le dimensioni dello schieramento ottomano apparvero subito imponenti, come riferiscono le cronache. Le navi, secondo le indicazioni di Giovanni Bosio, storico ufficiale dell’Ordine, e il diario dell’assedio di Francisco Balbi di Correggio, un mercenario italo-spagnolo, altra fonte di informazioni sulle forze in campo, erano circa 250, trireme, bireme, galere, galeotte (piccole galee), galeazze (grandi galee, meno agili ma con maggiore potenza di fuoco, grandi navi da trasporto (i mahon), con rifornimenti e cavalli. In funzione dell’assedio l’armata schierava 64 pezzi d’artiglieria (tra cui una dozzina di colubrine e un enorme basilisco capace di scagliare proiettili di ferro da 100 kg).

A terra, esclusi i marinai, l’armata d’invasione era costituita da alcuni corpi d’élite, 6.500 spahi, cavalleria pesante, 6.000 giannizzeri, casta militare e politica molto influente, formata da cristiani rinnegati o, più spesso, da giovani rapiti nel corso di scorrerie lungo le coste del continente, indottrinati al fanatismo islamico e con un accurato addestramento all’uso delle armi, archibugi (a Malta, furono usati archibugi tedeschi a canna lunga), arco e due scimitarre. A questi si aggiungono volontari e corsari. Infine i 1.500 matasiete della guardia del corpo di Turgut Reis, noto come Murad Dragut, ammiraglio, corsaro feroce, noto per le sue scorribande, tra l’altro, sulle coste italiane, da Palmi a Portoferraio. Erano guerrieri fanatici vestiti con pelle di leone e armati di scimitarre. Il loro nome - che derivava dallo spagnolo matar, e siete che significa molti - verrà poi italianizzato in “ammazzasette”.

In tutto circa 40.000 uomini, a fronte dei quali la guarnigione di Malta poteva contare su 550 cavalieri ospitalieri con 100 aiutanti e soldati di varia nazionalità, 400 spagnoli, 800 italiani, 500 delle galere (fanteria da sbarco), 200 siciliani, 100 soldati della guarnigione di Sant’Elmo, 500 minatori, 3.000 soldati reclutati tra il popolo maltese. In totale 6.100 uomini.

All’assedio della fortezza cristiana Solimano il Magnifico si era preparato da tempo, come avevano rivelato gli informatori che a Costantinopoli assistevano da mesi, con crescente preoccupazione, alla mobilitazione della flotta. L’obiettivo del Sultano era ambizioso e duplice. Da un lato contrastare l’azione dei Cavalieri, insediatisi a Malta, feudo imperiale loro assegnato da Carlo V quasi otto anni dopo l’abbandono di Rodi (1522), sopraffatti dall’orda ottomana nonostante l’epica difesa dell’isola. Lasciata l’isola, dopo alcuni anni nei quali l’Ordine aveva ricercato sedi in Italia, il Gran Maestro fra’ Philippe Villers de l’Isle Adam aveva accettato, d’intesa con Papa Clemente VII, l’offerta dell’Imperatore in cambio della rendita annua simbolica di un falcone ma con il più impegnativo obbligo di presidiare la città di Tripoli. Sicché, nel prendere possesso dell’isola il 26 ottobre del 1530, l’Ordine assumeva la denominazione “di Malta”.

Rispetto a Rodi, Malta è piccola ma ha una posizione geografica strategica. A sud della Sicilia e in vista delle coste africane, poteva facilmente assicurare il controllo del commercio tra le rotte occidentali e orientali del Mediterraneo. Dotata di eccellenti porti naturali, l’isola sarebbe divenuta presto una roccaforte in un mare che nel XVI secolo era diventato ormai un lago islamico, dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e la sconfitta al largo di Gerba (Djerba), l’isola a sud ovest del golfo di Gabès, di fronte alla Tunisia quando, nel 1560, la flotta cristiana composta di circa 54 navi e 14.000 uomini, che nelle intenzioni del Re Filippo II avrebbe dovuto cacciare i corsari barbareschi dalla loro base di Tripoli, intercettata e sorpresa dalle forze dell’ammiraglio Piyale Paşa, perse circa metà delle navi.

L’evento segnò l’apice della dominazione ottomana nel Mediterraneo.

Tuttavia Malta non fu attaccata immediatamente, così lasciando il tempo a Jean de la Valette di richiamare tutti gli appartenenti all’Ordine ed alla Spagna di ricostruire le proprie armate.

Malta, uno scoglio battuto dal sole, terra soprattutto di pescatori, senza fortificazioni degne di nota a parte quelle della Città Notabile (o Notabile, oggi Medina) e con un’economia basata quasi esclusivamente su quello che il mare poteva offrire, ma con significative coltivazioni in particolare di cotone, fu trasformata dal Cavalieri in una poderosa fortezza. Fu adottata una legislazione moderna e divenne uno dei paesi più ricchi del Mediterraneo.

L’Ordine lottò contro i corsari barbareschi che, guidati da Dragut e Uliç Alì, storpiati nell’italiano Occhialì, un rinnegato cristiano, calabrese di Le Castella di nome Giovanni Dionigi Galeni, infestavano le acque del Mediterraneo attaccando le navi e le località costiere cristiane. In particolare delle isole Baleari, terra dalla quale provenivano molti cavalieri, che furono teatro dell’attacco portato a Pollença (Pollensa) nel 1550, una cittadina popolosa a nord ovest dell’isola di Maiorca. I turchi ne uscirono sconfitti. Oltre 60 furono i vascelli corsari e commerciali catturati. Sicché i governatori delle roccaforti barbaresche chiedevano insistentemente a Solimano di allestire un corpo di spedizione per espugnare Malta.

Il Sultano, le cui preferenze andavano alle spedizioni terrestri nelle quali poteva cavalcare alla testa delle sue armate che in quel momento aveva indirizzato verso l’Ungheria e la ricca Vienna, le cui mura aveva sfiorato per due volte, tardava a decidere. Mura fatali quelle di Vienna, un desiderio lungo secoli che s’infrangerà definitivamente il 12 settembre 1638 quando l’esercito ottomano guidato dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha, nonostante la superiorità numerica, dovette abbandonare il campo con gravissime perdite. Quella mattina, al termine della Messa, il re Giovanni III Sobieski, al comando di un esercito polacco-austro-tedesco, si era rivolto ai suoi ufficiali ricordando che la vittoria sotto quelle mura avrebbe salvato non solamente la città ma l’umanità intera. E fu così. Decisivo in quella battaglia un generale italiano agli ordini del Margravio del Baden, il Principe Eugenio di Savoia.

Solimano, dunque, fu distolto dalle brume delle pianure ungheresi, convinto, come si racconta, più che dall’insistenza dei suoi generali e ammiragli, dalla più influente delle sue concubine e ordinò l’allestimento di una flotta d’attacco, sulla scia di precedenti iniziative, come nel 1551, quando Dragut e l’ammiraglio turco Sinàn avevano attaccato le isole maltesi e, con 10.000 uomini, avevano aggredito Gozo, costretta alla resa quando, dopo un bombardamento di diversi giorni, il governatore, considerando inutile ogni ulteriore resistenza, consegnò la cittadella.

Già allora il Gran Maestro dell’Ordine, fra’ Juan de Homedes, aveva deciso di rafforzare le difese del forte Sant’Angelo in Birgu (cittadella oggi chiamata Vittoriosa), e di costruire due nuovi forti, il San Michele nel promontorio di Senglea, e Sant’Elmo, sulle pendici della penisola del Monte Sceberras (oggi, centro urbano di La Valletta). I due nuovi fortini, ultimati in soli sei mesi nell’anno 1552, saranno di importanza cruciale per l’esito del “Grande assedio”. In particolare Sant’Elmo costituiva una fortificazione straordinariamente avanzata dal punto di vista dell’ingegneria militare.

La voce di una enorme armata turca, pronta a muovere nella primavera del 1565, aveva terrorizzato l’intera Europa. Era evidente, infatti, che la caduta di Malta avrebbe avuto conseguenze disastrose per l’intero continente, in particolare per i commerci con l’Oriente che sarebbero stati assoggettati ad un continuo taglieggiamento da parte degli ottomani, data la debolezza delle potenze europee, effetto anche della loro esasperata litigiosità.

Va considerato il momento storico in un’Europa sottoposta alla pressione continua e terribile dell’Impero ottomano che, iniziata secoli prima, già nella seconda metà del 600, aveva portato, l’una dopo l’altra, all’occupazione dei territori rivieraschi del Mediterraneo costringendo le popolazioni cristiane alla conversione forzata. Siamo a poco più di cento anni dalla caduta di Costantinopoli, sei anni prima di Lepanto (7 ottobre 1571).

La capitale dell’impero romano d’Oriente, isolata e pertanto indebolita dalla incapacità delle potenze europee di comprenderne il ruolo strategico di fronte al crescente espansionismo islamico, più volte assalita invano, aveva capitolato il 29 maggio 1453 a seguito dell’ennesimo attacco sferrato dalle truppe Maometto II, chiamato il conquistatore, colui che ha forgiato la organizzazione amministrativa e militare dell’Impero al quale ha dato una prospettiva politica, quella di conquistare il mondo con la violenza delle armi, approfittando delle divisioni in campo occidentale, dell’inanità di molti sovrani preoccupati del proprio particulare, incapaci di ragionare in termini globali di civiltà e di radici cristiane, immemori di Roma, del suo ruolo nel Mediterraneo e del Sacro Impero, pronti ad ogni compromesso pur di mantenere il potere, allungando la corda che li avrebbe impiccati, politicamente s’intende. E c’era chi, oltre a pagare ingenti tributi al “Gran turco“ (o “La sublime porta” o “La porta ottomana”), armava quell’impero. Come la Francia che, in odio alla Spagna, forniva per le navi e le fortezze del Sultano cannoni che recavano impresso il giglio borbonico, come dire made in France.

Quel giorno, sulle mura di Bisanzio sgretolate dall’artiglieria e dalle mine degli ottomani, dove Costantino XI “trovò la morte che cercava”, come ha scritto il più grande storico dell’Impero Bizantino, Georg Ostrogorsky, venivano definitivamente estirpate le radici greco-romane e Maometto II “creò l’unità dell’Impero ottomano e diede nuovo slancio alla sua espansione”.

L’imponente flotta turca non sbarcò immediatamente uomini e mezzi. Infatti l’ammiraglio Piyale Paşa preferì scegliere un approdo sicuro, al riparo dai venti del Mediterraneo, nel Grande Porto di Marsa Scirocco, una decisione che lo mise in contrasto con il comandante delle forze terrestri, il Visir Kizil Ahmedli Mustafa Paşa che avrebbe preferito puntare immediatamente sulla vecchia capitale, Medina, al centro dell’isola, per poi attaccare via terra i forti San Michele e Sant’Angelo.

La spuntò l’ammiraglio, convinto che Sant’Elmo con 100 cavalieri e 500 miliziani non avrebbe potuto resistere più di un paio di giorni. Così, il giorno 24 maggio posizionò, intorno al piccolo forte, 21 batterie di cannoni per cominciare subito bombardamenti continui e pesanti, tanto che si contarono di media ben 6 mila colpi al giorno. Lo scopo era quello di non dare tregua ai difensori fiaccandone prima di tutto il morale.

Il forte fu ridotto in macerie in meno di una settimana, ma la Valette, e i cavalieri degli altri due forti, rimpiazzarono i feriti con truppe fresche e ripararono la fortezza di notte passando per un sentiero nascosto. Il forte, nonostante gli incessanti bombardamenti, continuò a resistere con i cavalieri annidati tra le macerie.

La mattina del 3 giugno i giannizzeri scagliarono un potente attacco contro le mura. Con urla e spari all’impazzata, stimolati dall’hashish che veniva distribuito prima della battaglia, tentarono di scalare le mura con scale e corde. Su di essi i cavalieri rovesciarono il “fuoco greco”, un antico misto di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva (la cui presenza impediva che fosse possibile spegnere il fuoco con l’acqua) che li trasformava in torce umane. E poi “pignatte”, rudimentali bombe a mano riempite di un potente composto incendiario, accese mediante una corta miccia, una sorta di molotov. E ancora “trombe”, tubi che sputavano fuoco, una sorta di lanciafiamme. Molto, inoltre, impressionò i soldati turchi, il “cerchio”, un anello di legno ricavato dalle botti e rivestito di un tessuto imbevuto di pece. Veniva acceso e fatto rotolare giù dalle mura contro i nemici con effetti devastanti. Ogni cerchio mandava a fuoco da tre a sei turchi, creando un grave scompiglio.

Chi raggiungeva la cima delle mura, tuttavia, trovava cavalieri interamente ricoperti di ferro, armati di spade e lance, forti della fede e di un accurato addestramento militare. Corazze impenetrabili, che tuttavia assicuravano una notevole agilità. Costruite su misura, il peso ben distribuito, non temevano né i fendenti di scimitarra, né le frecce. Solamente un colpo di archibugio sparato a bruciapelo poteva provocare danni. Ma i turchi ne avevano pochi. Infatti, a parte i giannizzeri, i soldati erano equipaggiati alla leggera e con indosso un corpetto corazzato.

Quel giorno l’assalto terminò a mezzogiorno quando Mustafà fece suonare la ritirata. I turchi lasciarono sul campo oltre 2.000 morti. 10 furono i cavalieri che persero la vita, 70 i miliziani.

I bombardamenti continuarono per giorni, alternati a massicci assalti dei giannizzeri sempre respinti. I soldati dei rispettivi eserciti si massacrarono a vicenda, convinti che se la morte li avesse colti durante la battaglia avrebbero ottenuto una preziosa ricompensa, gli ottomani il paradiso delle huri, i cavalieri l’indulgenza plenaria concessa da Papa Paolo IV.

Tanti furono gli episodi di valore da entrambe le parti, ma anche di autentica ferocia, con esibizione di corpi straziati e spediti al nemico allo scopo di terrorizzarlo. Sarebbe sbagliato, tuttavia, giudicare quegli eventi con la mentalità di oggi e con la realtà delle guerre attuali che non ignorano episodi di estrema crudeltà. È la guerra di per sé inumana.

Gli scontri tra gli opposti armati erano quotidiani, i bombardamenti incessanti. Sicché l’8 giugno i cavalieri chiesero al Gran Maestro di poter morire con la spada in pugno in una sortita in campo nemico. de La Vallette rispose che se i Cavalieri dovevano morire era meglio che morissero nel modo che lui aveva ordinato: “sacrificando le nostre vite una ad una, faremo guadagnare tempo all’Europa e alla Cristianità”.

Il 18 giugno Sant’Elmo era ormai un cumulo di macerie. Stava per capitolare. Ma la sorte fu propizia alle armi cristiane. Mustafà e Dragut si erano spinti su una collina convinti di assistere all’assalto finale. Ma un oscuro artigliere siciliano, Giovanni Antonio Grugno, cambiò le sorti della battaglia. Aveva notato i vessilli dei due comandanti, diresse verso di loro il suo cannone e fece fuoco, nonostante fossero al limite della gittata. Dragut, ferito alla fronte da una scheggia di pietra morì dopo poco.

Il 21 Giugno, il Gran Maestro celebrava la festa del Corpus Domini pregando per i suoi confratelli di S. Elmo proprio mentre iniziava l’assalto finale. Duecento assediati contro decine di migliaia di turchi. Tre gli assalti delle milizie ottomane, sempre respinti. I Cavalieri stremati, arsi dal caldo e feriti si preparano alla morte ricevendo i sacramenti.

Un disperato tentativo di far giungere altri soldati a S. Elmo con cinque galee fallisce nella notte.

All’alba del 23, nel forte di S. Elmo ognuno va a occupare il posto prestabilito “per morire nel letto d’onore”. Rimangono in 60. Sotto le mura, ci sono 10.000 ottomani. La spianata davanti al forte, abbandonata dai Cavalieri, viene occupata dal nemico, che da quella posizione inizia a tirare all’interno. Un vero e proprio tiro al bersaglio, poiché i Cavalieri non hanno più polvere da sparo.

Rimasti a difendere la breccia con picche e spadoni, gli ultimi soldati cristiani vengono spazzati via dall’ultimo assalto. All’interno di S. Elmo, i turchi trovano seicento fra morti e moribondi. Questi ultimi prendono la prima arma a disposizione e cercano di trovare una morte onorevole. Nessuno di loro sopravvive al massacro. I corpi dei cavalieri catturati, crocifissi, vennero spinti sulle acque del porto verso gli altri forti. La risposta fu altrettanto crudele, i prigionieri turchi furono decapitati e le loro teste sparate dai cannoni verso il campo nemico.

Mustafà perse 8.000 dei suoi uomini migliori per prendere un cumulo di macerie. Il forte Sant’Elmo era stato conquistato ad un prezzo troppo alto, oltre ad essere costato la vita a Dragut. Si dice che, guardando verso il grande forte Sant’Angelo, ancora intatto e con i cannoni tuonanti, il generale turco abbia gridato: “Allah! Se un figlio così piccolo è costato tanto caro, quale prezzo dovremo pagare per un padre così grande?”.

Intanto la notizia dell’assedio e del suo andamento si era diffusa nel continente provocando grande panico nella consapevolezza che un esito negativo per le armi cristiane avrebbe potuto decidere la lotta tra l’Impero ottomano e l’Europa. Una volta presa l’isola, i turchi, com’era nei piani del Sultano, avrebbero invaso l’Italia da sud pur continuando la conquista dell’Ungheria e della penisola balcanica.

Si decise, dunque, di organizzare una spedizione di salvataggio, il “Gran Soccorso”, capitanata dal genovese Gianandrea Doria, che comprendeva galee di tutti gli stati mediterranei ad eccezione della Francia e della Repubblica di Venezia, timorose di guastare i loro rapporti con l’Impero ottomano. Anche Filippo II, che era stato scottato a Gerba, era della partita ma con poco onorevole ambiguità, tanto da ordinare al viceré di Sicilia, García Álvarez de Toledo y Osorio, angosciato per la sorte del figlio che militava tra le truppe maltesi, di non impegnare le sue galee

Ci fu chi tentò invano di violare il blocco navale turco per portare viveri e rinforzi agli assediati, compreso Enrique de la Valette, nipote del Gran Maestro. Solo il 28 giugno giunsero a Malta circa 600 uomini, compresa una compagnia spagnola d’élite, 150 cavalieri e molti volontari al comando di Juan de Cardona, in quattro galere inviate dal viceré di Sicilia che pagherà cara questa sua insubordinazione al Sovrano.

Partecipò ai rinforzi anche il Duca di Savoia che aveva organizzato una spedizione, chiamata “Piccolo Soccorso”, guidata dall’Ammiraglio piemontese Andrea Provana di Leinì.

Nel corso dell’estate la sorte volse in favore dei difensori che ebbero la meglio sugli assalitori, anche per essere stati messi al corrente da un disertore turco di un attacco via mare che gli ottomani stavano preparando e che ritenevano risolutivo. de La Valette ebbe il tempo di far costruire sbarramenti sottomarini contro i quali le navi turche si schiantarono. Alcune rimasero intrappolate tra le catene predisposte a tutela del porto. E quando i turchi tentarono di distruggere quelle difese furono aggrediti dai nuotatori maltesi che ingaggiarono con essi un violento corpo a corpo. Una decina di vascelli carichi di giannizzeri arrivò a tiro dei cannoni schierati ai piedi del forte Sant’Angelo. Dopo poche salve nove barche affondarono trascinando con sé gli equipaggi.

Il 7 agosto, di fronte a due massicci attacchi simultanei contro forte San Miguel e contro la cittadella di Birgu, mentre i turchi si avvicinarono alle mura, de la Vallette decise un’improvvisa sortita contro gli assedianti. Racconta Balbi nel suo diario: “Il Gran Maestro si rivolse ai suoi uomini con queste parole: “Sono certo, che se io cadrò ciascuno di voi sarà in grado di prendere il mio posto e di continuare a combattere per l’onore dell’Ordine e per amore della nostra Santa Chiesa. Signori Cavalieri. Andiamo a morire che è giunto il nostro giorno!”” I cavalieri si lanciarono contro i turchi menando fendenti con il pesante spadone a due mani. La battaglia durò nove ore fin quando i turchi non si ritirarono.

Mustafà, pensando che i cavalieri avessero ricevuto rinforzi, decise di ricorrere ad un nuovo, massiccio bombardamento contro San Michele e Birgu alternando sporadiche sortite di giannizzeri laddove si aprivano delle brecce nelle mura, come avvenne il 18 agosto quando una mina aprì un varco nel quale si riversarono gli assedianti, costringendo lo stesso Gran Maestro ad intervenire gettandosi nella mischia. Il suo gesto fu d’esempio per i difensori che si precipitarono verso le mura dando vita ad un violento corpo a corpo. L’assalto fu respinto ma de la Vallette rimase ferito ad una gamba da una granata.

Intanto la flotta del Gran Soccorso tardava a prendere il largo. Salpò solamente il 5 settembre. Il colpo di grazia per gli assedianti fu lo scontro nella piana di Pietranera al quale parteciparono i cavalieri usciti in massa dai forti. Dopo cinque ore di combattimento i turchi si ritirarono e s’imbarcarono sulle loro navi.

Il 12 settembre la flotta ottomana lasciò l’isola abbandonando parte delle navi, date alle fiamme per non lasciarle al nemico.

Le perdite registrate da Balbi furono: 31.000 turchi, 239 cavalieri di Malta, 2.500 fanti di tutte le nazionalità, 7.000 cittadini maltesi (uomini, donne e bambini).

La notizia della vittoria delle armi cristiane si diffuse nel continente con la stesa velocità con la quale nei mesi precedenti si era sparso il terrore per l’attacco turco. In tutte le chiese si tennero funzioni di ringraziamento. Giunsero doni da tutta Europa e quei rinforzi che durante l’assedio erano stati lesinati, anche da Filippo II. Che inviò circa 6.000 uomini di rinforzo, un’ingente somma di denaro ed un regalo a la Vallette: una spada e un pugnale con incise queste parole: plus quam valor valet la Vallette. Papa Pio IV gli offrì la porpora cardinalizia. Ma il Gran Maestro oppose un garbato diniego: voleva vivere i suoi ultimi anni sulla sua isola, dove morì il 21 agosto 1568. A lui fu dedicata la nuova capitale: La Valletta.

Per l’Impero ottomano la sconfitta di Malta fu un grave colpo anche sul piano finanziario, poiché l’economia turca si reggeva principalmente sulle razzie e sul bottino di guerra: la moneta fu svalutata. Meno di un terzo dell’esercito ritornò ad Istambul e la flotta fu guidata nel porto in piena notte per evitare che il popolo si rendesse conto dei danni subiti.

Solimano aveva in animo di riprendere l’offensiva contro l’isola l’anno successivo. Malta, con le distruzioni subite avrebbe difficilmente potuto resistere. Ma un nuovo attacco non ci fu. Durante l’inverno, sabotatori dell’Ordine di Malta diedero fuoco al deposito delle polveri dell’arsenale di Kostantiniyye, distruggendo parte della flotta turca che era ormeggiata nei bacini. Lo riferisce l’Abate de Vertot, nella sua storia dell’Ordine.

Il sultano cambiò i suoi piani e nel 1566 tornò a combattere in terra verso l’Ungheria ma durante questa campagna trovò la morte.

Gli ottomani non attaccarono mai più Malta.

L’eroica resistenza dei Cavalieri dimostrò all’Europa che era possibile sconfiggere l’Impero ottomano e si diffuse un sentimento di fiducia e di rivalsa. Molti volontari furono arruolati nelle flotte che erano in costruzione in tutti gli arsenali europei poiché, per la prima volta, la Sublime Porta era stata sconfitta.

E se è vero, per richiamare ancora Bloch ne L’apologia della storia, che si può “comprendere il presente unicamente alla luce del passato”, dobbiamo evitare che qualcuno sia indotto a ripetere oggi quel che egli sentì dire negli uffici dello stato maggiore francese nel giugno del 1940, il giorno dell’ingresso dei tedeschi a Parigi, mentre si rimuginava sulle cause del disastro: “dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?” Più probabilmente era mancata la capacità di leggere gli avvenimenti che si stavano dipanando in quegli anni nei quali l’aggressività del regime nazista era stata sistematicamente sottovalutata dalle potenze democratiche.

29 marzo 2017

 

Riferimenti bibliografici essenziali

A.     Barbero, Lepanto, Laterza, Bari, 2010

B.     P. Bevilacqua, L’utilità della storia, Donzelli, Roma, 2007

C.     M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969

E. Bradford, Storia dei Cavalieri di Malta, Mursia, Milano, 1975

N. Capponi, Lepanto 1571, Mondolibri, 2008

E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino, 1961

A. Demurger, I Cavalieri di Cristo, Garzanti, Milano, 2004

J. Dobraczyń, Sotto le mura di Vienna, Morcelliana, 1979

N. Henderson, Eugenio di Savoia, Corbaccio, Milano, 1964

M. Meschini, Assedi medievali, Il Giornale, Biblioteca Storica, 2006

G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Torino, 1968

A. Petacco, La Croce e la Mezzaluna, Mondadori, Milano, 2005

A. Wheatcroft, Infedeli, Laterza, Bari,

 


 


* Riproduce, con alcune integrazioni, la relazione tenuta al Convegno “Malta, avamposto dell’Occidente”, tenutosi il 29 marzo 2017 a Roma a Palazzo Ferrajoli per iniziativa dell’UNAMS, Unione degli Artisti, l’Associazione Andar per Arte e l’Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione.

 

 

Circolo di Cultura ed Educazione Politica

REX

 

Domenica 26 marzo 2017 ore 10.30

Sala Uno, Via Marsala 42 , Roma

 

Il Senatore Lucio Toth,

Vice Presidente Federazione degli istriani, fiumani e dalmati

e

il Dr. Marino Micich,

Direttore Archivio Museo Storico di Fiume

 

illustreranno gli eventi successivi all’iniquo trattato di pace e la situazione attuale dell’associazionismo degli esuli:

“A 70 anni dalla firma del Trattato di Pace di Parigi (1947-2017): il destino delle terre istriane e dalmate

tra storia e futuro”

 

***

Sarà possibile acquistare la ristampa del volume del Circolo REX dedicato alla Grande Guerra, 1915-1918 , con prolusione del grande storico Gioacchino Volpe , già pubblicato nel 1968, in occasione del Cinquantenario, ed ora nuovamente edito per i “Libri del Borghese”, di “Pagine” di Roma

 

 

Il C.N.E.L. sopravvissuto al referendum costituzionale ignorato dal Governo

di Salvatore Sfrecola

 

La notizia di contrasti tra il Segretario generale, Franco Massi, ed il Presidente facente funzioni, Delio Napoleone, raccolta da alcuni giornali, ha ricordato agli italiani che il C.N.E.L., Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sopravvissuto alla proposta di soppressione Renzi-Boschi, bocciata dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, attende di riprendere in pieno la propria attività. Da quella data, tuttavia, la Presidenza del Consiglio dei ministri non ha trovato il tempo di procedere alle nomine previste dalla legge 30 dicembre 1986, n. 936, che disciplina il funzionamento dell’organo. Un po’ come accade per le province delle quali era scontata  la soppressione e che continuano ad esistere con rilevanti competenze, si pensi solo alla manutenzione delle strade, migliaia di chilometri, alla sicurezza della scuole e all’ambiente, ma i loro bilanci sono stati tagliati.

Previsto dall’art. 99 della Costituzione, “composto.. di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa”, il C.N.E.L. è “organo di consulenza delle Camere e del Governo e per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge”, “ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale”. Il testo è quello che aveva proposto Edoardo Clerici, democristiano, comasco, avvocato, che era stato capace di interpretare l’idea di molti Costituenti di assicurare a Parlamento e Governo la consulenza di un organo rappresentativo degli interessi economici e sociali, un po’ come accadeva in Francia con il Consiglio economico ed a somiglianza del “sub-parlamento economico”, proposto a Londra da Churchill.

Funzioni importanti, dunque, eppure gli italiani non si sono praticamente accorti della sua presenza. Per la verità le persone informate ricordano studi e proposte di legge consegnate in libricini con la copertina azzurra molto documentati, che hanno interessato anche per l’autorevolezza di quanti hanno presieduto il Consiglio, da Meuccio Ruini, già Presidente della Commissione “dei 75” che ha redatto la bozza di Costituzione, ad Antonio Marzano, economista, che ha assunto quell’incarico nel 2005 dopo essere stato Ministro delle attività produttive, dimessosi nel 2015, quando si cominciò a parlare di riforma costituzionale e della soppressione del C.N.E.L.. Lo hanno presieduto anche Pietro Campilli, più volte ministro, Bruno Storti e Sergio Larizza, sindacalisti, Giuseppe De Rita, sociologo, Presidente del CENSIS.

In oltre cinquant’anni di attività (si è insediato nel 1958) il Consiglio ha elaborato circa 1380 documenti, pareri, osservazioni e proposte, disegni di legge, rapporti su tematiche istituzionali, studi e indagini, relazioni, protocolli d’intesa, organizzato convegni e dibattiti. Inoltre cura il notiziario dell’archivio dei contratti collettivi di lavoro, nonché una banca dati sul mercato del lavoro, sui costi e sulle condizioni di lavoro, alla cui formazione ed aggiornamento concorrono gli enti pubblici che compiono istituzionalmente rilevazioni in queste materie.

L’ultimo parere è del 15 maggio 2014, in tema di orari di apertura degli esercizi commerciali, richiesto dalla Camera dei deputati. In precedenza aveva manifestato il proprio avviso sulla Relazione al Parlamento sulla Sicurezza Stradale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, sul Documento programmatico relativo alla politica dell’Immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2007-2009, sul disegno di legge delega in tema di tutela della salute e sicurezza nel lavoro, sulle direttive COVIP su forme pensionistiche complementari, sulla legge delega fiscale. Si è occupato, inoltre, di Ambiente, borsa e attività finanziarie, politica dei redditi, privatizzazioni, emigrazione, italiani all’estero, Europa e rapporti internazionali, finanza pubblica, regionale e locale, fisco, legge finanziaria, soggiorno e integrazione immigrati, federalismo, riforme, cultura.

Perché, dunque, la politica non interpella il C.N.E.L.? Senza tema di smentite i pareri autorevoli dati da un Consiglio, nel quale siedono esperti designati delle organizzazioni rappresentative del mondo dell’economia e del lavoro, costringerebbero i parlamentari ed il governo a fare i conti con questi documenti e, questo, l’arroganza dei politici non può tollerarlo, anche perché se non ne seguissero le indicazioni inevitabilmente l’opposizione e la stampa lo farebbero notare e sarebbe occasione di polemiche.

Ma il C.N.E.L. esiste ed il Governo ha il dovere di farlo funzionare al meglio, anche per giustificare le risorse, poche, che gli sono destinate in bilancio. Vietato, dunque, mettere a capo del Consiglio una mezza figura, tanto per farlo morire d’inedia. Ancora una volta ignorando che gli elettori si sono pronunciati. Molti non sapevano cosa fosse il C.N.E.L. e come funzionasse. Ma la maggioranza aveva intuito che la riforma costituzionale era pessima e, per bocca degli stessi fautori del SI, “non priva di difetti e discrasie”. Con buona pace per il rispetto dovuto alla Carta fondamentale dello Stato.

(da La Verità, 23 marzo, pagina 10)

 


 

Grillo, il Risorgimento, Torino

di Pier Franco Quaglieni*

 

Lo sappiano, i torinesi. Grillo detesta il Risorgimento. Di recente ha richiesto l’istituzione per il 13 febbraio di un ennesimo Giorno della Memoria per ricordare quelle che lui definisce le vittime del Risorgimento, nell’anniversario della caduta di Gaeta e della fine del Regno borbonico delle Due Sicilie che concluse la spedizione dei Mille di Garibaldi, dopo l’incontro a Teano tra il condottiero dei Due Mondi e Vittorio Emanuele II.

Forse Grillo pensa di sottrarre voti alla Lega, temibile concorrente al Nord nella rincorsa populistica, demonizzando la nostra storia come fece Bossi in passato. La Lega in effetti ha accantonato i temi antisorgimentali e addirittura il 24 maggio 2015 - centenario dell’ingresso dell’Italia  nella Grande Guerra - Salvini e Zaia sono andati in riva al Piave ad attingere acqua del "fiume sacro" come Bossi faceva alle sorgenti del Po.

Grillo nella sua sbornia demagogica vuole travolgere tutto, in primis la democrazia rappresentativa con il ricorso al mito di un nuovo Rousseau in rete. Il richiamo a Rousseau, almeno alle persone colte, dovrebbe essere sufficiente per capire cosa si celi dietro quel nome: la giustificazione a priori del giacobinismo che dalla Rivoluzione francese a quella russa di cent’anni fa ha intossicato due secoli con ghigliottine, terrore e stragi.

Ma come è possibile che nessuno a Torino abbia levato la sua voce contro la proposta di Grillo di celebrare le presunte vittime del Risorgimento ?

È passato esattamente un mese dalla proposta, ma il silenzio l’ha fatta da padrone.

La Torino che fu prima capitale d’Italia e prima protagonista del Risorgimento, avrebbe dovuto, a livello pubblico, prendere posizione contro Grillo. Tutti hanno taciuto. Magari alcuni per disinformazione, altri per disprezzo verso le sparate di Grillo, ma sicuramente alcuni hanno taciuto per convenienza. Se oggi fosse in vita, un uomo come Narciso Nada, storico del Risorgimento, ma anche degli Antichi Stati italiani preunitari, non avrebbe avuto esitazioni a replicare a muso duro per le rime in quella che Adolfo Omodeo definiva la “difesa del Risorgimento”. Lo fece  insieme a me anche agli albori del leghismo. Il meridionale Croce parlò addirittura di “Sorgimento” per sottolineare come esso fosse l’unica grande pagina della storia italiana.

Alcuni pallidi  risorgimentalisti torinesi si baloccano con altre cose, ma non hanno avuto il coraggio di replicare a Grillo, come in passato non lo ebbero nei confronti dei leghisti.

D’altra parte le cattedre di Storia del Risorgimento nelle Università italiane vengono sistematicamente eliminate a favore della Storia contemporanea, ritenendo che il Risorgimento non meriti più studi specifici.

Solo Dino Cofrancesco, la mente più illuminata dell’Università di Genova, gran nemico di quello che lui definisce il “gramsciazionismo" torinese, ha scritto il suo dissenso e la sua indignazione, ricordando le parole di Rosario Romeo, il grande biografo di Cavour: “La crisi dell’idea di Nazione ha indotto molti italiani a rinunciare al rispetto di sé stessi come collettività e come civiltà”.

E ha ricordato la grande lezione di Francesco de Sanctis che, in esilio a Torino, fu anche professore nella nostra Università. De Sanctis, sommo critico e storico della letteratura italiana e primo ministro della Pubblica istruzione del nuovo Regno, scelto da Cavour, patì il carcere sotto i Borboni.

Bisognerebbe opporre a Grillo la grande lezione degli storici italiani, molti dei quali originari del Sud, che hanno scritto la storia del Risorgimento, contestando le tesi fortemente ideologiche ma storicamente fragili di Gobetti e Gramsci che vollero vedere nel processo di unificazione una rivoluzione mancata o una conquista regia.

Mi limito, rispondendo a Grillo da modesto storico del Risorgimento, con le parole di Giame Pintor scritte al fratello nel 1943 poco prima di morire, quando stava iniziando il suo impegno nella Resistenza: “Il Risorgimento fu l’unico episodio storico-politico... che (ha) restituito all’Europa un popolo di africani e di levantini".

Non va dimenticato che Pintor era sardo come Gramsci.

15 marzo 2017


 


* Pier Franco Quaglieni, storico, giornalista, è Presidente del  Centro Mario  Pannunzio di Torino

 

Circolo di Cultura

 ed Educazione Politica REX

 **

Domenica 19 marzo 2017 ore 10.30

Sala Uno, Roma Via Marsala 42

 LUCIANO GARIBALDI

Giornalista, Storico, Autore di numerosi saggi

sulla seconda Guerra Mondiale

Parlerà sul tema

“I Giusti del 25 aprile”

Con particolare riguardo alla figura di Aldo Gastaldi

Medaglia d’Oro – Primo patriota d’Italia”

***

sarà possibile acquistare la ristampa del volume del Circolo REX dedicato alla Grande Guerra, già pubblicato nel 1968 in occasione del Cinquantenario, ora edito dalla Casa Editrice Pagine

 nella collana “I Libri del Borghese”

 

 

 

La saggezza del Senato del Regno,

cioè della Camera dei Lord

di Salvatore Sfrecola

 

“L’élite aiuta la democrazia?” si è chiesto Gianluca Mercuri su La Repubblica del 9 marzo, a pagina 13, a proposito della decisione con la quale la Camera dei Lord (House of Lords) ha stabilito limiti rigidi alle iniziative del governo sulle modalità di uscita dall’Unione Europea. Richiamando regole di civiltà giuridica e di democrazia, la salvaguardia dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito, tre milioni, secondo l’associazione che ne tutela i diritti che, appunto, si chiama Tree milions e che si appella anche al Parlamento europeo perché li tuteli. Un argomento forte perché comune anche agli inglesi presenti in centinaia di migliaia in altri paesi dell’Unione, in Spagna, in particolare, dove i pallidi figli di Albione, specie da pensionati, si trasferiscono per godere del sole, del mare e dell’allegria dei concittadini del Rey Felipe VI.

Ma soprattutto va apprezzato il richiamo alla necessità che la Camera dei comuni si pronunci sull’accordo finale tra Londra e Bruxelles, ciò che nella patria del regime parlamentare non doveva neppure essere dubitato. Dalla Magna Charta (1215) in poi la Camera dei Comuni è, infatti, al centro della vita politica del Regno, frutto di quell’antico patto tra il Re Giovanni Senzaterra e il popolo, i comuni, appunto, i contribuenti che in quel lontano anno ottennero che la riscossione delle imposte da parte del sovrano fosse autorizzata da chi avrebbe dovuto pagarle. Ai quali spettava e spetta anche il controllo sull’utilizzazione di quelle somme da parte dello stato.

La vicenda insegna alcune cose importanti anche per il nostro Paese. Che, in democrazia, il “decisionismo” dei governi, certamente da auspicare, non può fare a meno del confronto parlamentare, con l’assemblea degli eletti. Ed è sintomatico che a ricordarlo sia un’assemblea di nominati, la Camera dei Lord, appunto, che nella vulgata dei patrocinatori della riforma costituzionale Renzi-Boschi era del tutto ignorata, volendosi sostenere che il bicameralismo l’avessimo “solo noi” e che fosse un relitto del passato. Mentre una Camera non eletta dimostra tutta la sua vitalità e la sua indipendenza, da condizionamenti elettorali e da vincoli di partito, perché, scrive Mercuri, i lords “non rappresentano lobby ma solo l’interesse generale: perché sono così distanti dai bisogni e dalle beghe di parte da poterlo individuare con più facilità rispetto a chi parteggia per definizione”.

Sono, i lords, persone scelte per competenza e senso dello stato, come coloro che, nella vigenza dello Statuto Albertino, sedevano nel Senato del Regno, individuati nell’ambito delle categorie indicate dall’art. 33, alti dignitari dell’Amministrazione dello Stato, delle Forze armate, delle istituzioni culturali. Quindi anche scienziati e letterati, da Manzoni a Marconi, da Einaudi a Croce passando per Righi e Carducci, insomma il meglio dell’Italia dell’epoca. Uomini indipendenti, tanto che, anche quando fu il Cavaliere Benito Mussolini a proporre alcune nomine al Sovrano, questi senatori, immersi in un’assemblea libera per definizione, mantennero fede al loro compito di rappresentanti di una élite culturale che si era formata sui banchi di scuola, nelle istituzioni dello Stato dove esercitavano le loro funzioni “col solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria” (art. 49 dello Statuto), cioè con “disciplina ed onore”, come preciserà poi la Costituzione della Repubblica all’art. 54.

I Costituenti avevano evidentemente in mente questo modello e, pur volendosi distaccare dalla Monarchia, pensarono che fosse utile al Paese un’assemblea “di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive”, “organo di consulenza delle Camere e del Governo”, con iniziativa legislativa in modo da “contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale”. Così l’art. 99 della Costituzione che ha istituito il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro che i riformatori del 2016 volevano cancellare, soprattutto perché la politica si era dimenticata di impegnarlo nell’approfondimento delle questioni economiche e sociali che tanto assillano quotidianamente Governo e Parlamento. E, in primo luogo, i cittadini.

Sicché Mercuri, a conclusione del suo pezzo si chiede se “affidarsi a un’élite indipendente per bilanciare il potere esecutivo, è da democrazie logore o da democrazie mature?”

14 marzo 2017

 

 

 

L’Asterisco, di Fernanda Fraioli, tutti i commenti di un anno di cronaca

di Salvatore Sfrecola

 

I magistrati sono abituati a scrivere, citazioni, ordinanze, sentenze. A volte scrivono anche libri, spesso di diritto, ovviamente. Ma anche romanzi, non solamente gialli, come sappiamo. Tuttavia non sempre la loro prosa è coinvolgente, scorre gradevolmente di riga in riga, di pagina in pagina.  L’abitudine alla prosa fredda del diritto è difficile da superare, da trasformarsi in quel linguaggio giornalistico che, per definizione, è il più piacevole. Ai più. Invece Fernanda Fraioli riesce a superare la barriera della prosa legale per assumere una connotazione più fruibile nel quotidiano, con un linguaggio che, pur colto, è facilmente apprensibile e resta dentro. Anche quando racconta e chiosa fatti di cronaca, come quelli che settimanalmente affronta sulle colonne del Corriere dell’Umbria e che oggi consegna a L’Asterisco, il titolo della sua rubrica, 388 pagine che saranno presentate il 15 pomeriggio, alle ore 15.00, nella Sala Aldo Moro a Palazzo Montecitorio su invito del Vicepresidente della Camera Marina Sereni. I proventi delle vendite, ha precisato l'Autrice, saranno devoluti all'Associazione antiviolenza.

Gli asterischi sono di argomento vario, come la cronaca presenta all’attenzione del giornale umbro, riletti attraverso l’occhio di una donna, con le valutazioni e le sensazioni proprie di un cuore e di una mente che nell’essere donna trova le ragioni delle sue relazioni con gli altri e con il mondo che la circonda. Non mancano i temi della violenza sulle donne, del mondo della scuola, delle storie di costume che arricchiscono le cronache. Sono andato a leggere alcuni pezzi di Fernanda (mi consentirà la Signora Vice Procuratore Generale l’approccio col nome) scelti con abilità fra i tanti che la cronaca pone all’attenzione del lettore, sempre coinvolgenti, da leggersi tutti d’un fiato. E non a motivo della contenuta dimensione dello scritto. Anche un testo breve può essere abbandonato alla decima riga se non appare subito stimolante, se non conduce il lettore a guardare oltre il dato della cronaca, se all’immediatezza imprigiona la mente e non la porta a guardare oltre, a collocare l’episodio in una realtà più ampia, a dargli una prospettiva che sia in qualche modo “didascalica” guardando avanti “ad una società che si trasforma, ad antichi vizi duri a morire per un futuro migliore”, come ha scritto nella prefazione Anna Mossuto, Direttore responsabile del Gruppo Corriere. E Gianluca Nicoletti, che ha scritto la presentazione sottolinea il tratto tipico della femminilità, un modo di vedere le cose che non è e non può essere degli uomini, la capacità “d’intravedere sotto traccia quello che noi uomini non riusciamo a scorgere, o peggio facciamo finta di non aver visto”. Il fascino di una capacità di vedere e di interpretare le cose che è ciò che più ci attira nell’altro sesso, che marca una differenza che lungo i millenni ci ha indotti a guardare alle donne con un interesse che va al di là dell’aspetto fisico che forse il più delle volte marca la prima attenzione ma che poi si arricchisce proprio di questa diversità in qualche modo complementare a quella che caratterizza da sempre l’uomo con le attitudini che nel tempo lo hanno caratterizzato.

Così Fernanda Fraioli passa alla lente della sua femminilità e della sua cultura, anche giuridica ovviamente, i fatti che ripropone all’attenzione dei lettori nell’ottica propria di chi esprime valutazioni sulla base di convincimenti e di sensazioni che i lettori hanno dimostrato di apprezzare per le regole di vita che richiama, per i valori umani e spirituali che, non evocati espressamente, corroborano gli asterischi, fino a farne, non un “manuale del vivere civile” che, osserva Nicoletti, “sarebbe una riduzione a rango di testo scolastico che la leggerezza del tratto di questa autrice non merita”, ma un poderoso trattato al femminile della società del nostro tempo. Anche se il “manuale” non è necessariamente un testo riduttivo, formale e scontato.

Queste cose che scriviamo, prendendo spunto da questo o quell’asterisco, possono sembrare al lettore di questa recensione un ossequio formale all’Autrice, dovuto in virtù di un’antica amicizia. Ma chi conosce Fernanda Fraioli, comprende subito che questa scrittrice “in toga” è espressione di una femminilità non formale, di quelle che non si fanno condizionare dalle mode ma che, proprio per questo, la sua personalità appare ancor più circondata di un fascino antico e modernissimo, come vorremmo sempre in una donna che tale rimanga anche quando fa un lavoro che per molto tempo è stato esclusivo degli uomini.

12 marzo 2017

 

 

“La guerra 1915 – 18”, di U. D’Andrea, V. Tur, E. Avallone, R. Lucifero, con prefazione di Gioacchino Volpe

a parte un di Salvatore Sfrecola

 

Nei giorni scorsi è tornato in libreria, edito da Pagine nella collana “i libri del Borghese”, la casa editrice diretta da Luciano Lucarini, “La guerra 1915-18”, (pp-171, € 17,00), un volume che pubblica i testi delle conversazioni tenute presso il Circolo di Cultura ed Educazione Politica Rex nelle domeniche del 1965, per illustrare le vicende della Grande Guerra, secondo un organico programma indicato da Gioacchino Volpe, il grande storico che del libro ha scritto la prolusione, e che introduce agli scritti di Ugo d’Andrea, “l’Italia del 1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”, Enzo Avallone, “L’Esercito italiano nella guerra 1915 – 1918”, Vittorio Tur, “La Marina italiana nella guerra 1915 – 1918”, e Roberto Lucifero, “La vittoria e il Re soldato”.

Osserva Gioacchino Volpe che “l’Italia ufficiale non sembra si riscaldi troppo per questo evento. Forse perché esso fu nazionale o irredentista, laddove oggi, per chi ci governa, tutto è o dovrebbe essere internazionale, europeo, atlantico, cosmopolita? e la parola “Nazione” viene quasi cancellata dal vocabolario politico, come che i due concetti siano contraddittori? O perché si teme di urtare partiti di Sinistra e del Centro-Sinistra che, nei mesi fra il 1914 e il ‘15 furono e poi si mantennero avversi alla guerra e fecero quel che poterono per insidiarla o svigorirla? O perché, quando si parla di quei fatti, non è sempre possibile, neppure ricorrendo a ridicole circonlocuzioni o al silenzio, come si suole, nascondere certi nomi e innanzitutto un nome di Re? O perché oggi penne e lingue sono tutte affaccendatissime a parlare di “Resistenza”, a glorificare la “Resistenza” di cui ricorre il ventennale?”

Per Volpe la Grande Guerra è la “prova dell’Italia unificata, conclusione o consacrazione del Risorgimento”. E ricorda le parole del Re “siate un Esercito solo”. E “prima resistettero alle poderose offensive austroungariche: poi presero essi l’iniziativa dell’azione, ripassarono il Piave, liberarono le province invase, giunsero a Trieste e Gorizia e Trento e Fiume e Zara, cioè ai “confini che natura pose”. Giornate inebrianti per chi le visse”. Fu la prima occasione di un popolo finalmente unificato nel Regno consacrato dal voto popolare nei plebisciti che lungo gli anni si tennero nei territori già sotto dominio straniero, nei regni e nei principati confluiti nello Stato nazionale. Per poi venire a parlare del tempo presente, della democrazia sociale che “con la sua scarsa sensibilità nazionale, con le sue solidarietà ideologiche oltre i confini, con suo regionalismo, non ci dà molto affidamento”. Valutazioni valide anche per l’oggi.

Il testo della prima conversazione è di Ugo d’Andrea, giornalista, scrittore (sua la voce Nazionalismo nell’Enciclopedia Italiana), parlamentare: “L’Italia nel 1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”, una ricostruzione approfondita dell’evoluzione della storia politica e sociale del nostro Paese a partire dai primi anni del regno di Vittorio Emanuele III, con l’azione sociale di Giolitti, il suffragio allargato, il monopolio delle assicurazioni, la guerra di Libia nel 1911 ampiamente condivisa. Ricorda l’azione politica fortemente innovativa, spesso ardita, dello statista di Dronero, la sua apertura ai radicali con Credaro, Nitti, Ettore Sacchi, il dibattito politico con Gaetano Mosca, il ruolo del Corriere della Sera di Albertini. D’Andrea ripercorre le tensioni politiche ideali di quegli anni il nazionalismo nato 1910, i similari movimenti francesi, con l’Action Française e Maurras. C’è una ricognizione importante del pensiero e delle opere di quanti operarono in questo momento straordinario dalla parte dell’irredentismo. E racconta le iniziative politiche diplomatiche del Marchese di San Giuliano e la preparazione dell’intervento, la difficile ma determinata modifica dell’equilibrio internazionale con l’abbandono della Triplice Alleanza per puntare su un’intesa che, definita a Londra in un trattato firmato il 26 aprile, alla vigilia dell’ingresso in guerra, avrebbe riportato l’Italia in una alleanza con le potenze marittime, già in passato ritenuta necessaria, “perché abbiamo 8.000 Km di coste da difendere”  che ci farà vincere, come, invece, avendola abbandonata, perderemo nella guerra 1940 - 45.

“L’Esercito italiano nella guerra 1915-1918” è di Enzo Avallone e si sofferma sulle difficili condizioni dell’Esercito italiano all’inizio della guerra che già aveva impegnato le potenze europee nel 1914. Per descrivere le condizioni dell’arduo amalgama di forze prive di un autentico passato militare, se si esclude l’esercito piemontese e quello napoletano. Al di fuori di questi ambienti non c’era una “tendenza militare delle famiglie, che trasmettesse l’abitudine all’esercizio delle armi di padre in figlio”, quella tradizione che era stata sempre, ricorda, una forza dell’esercito germanico. Le condizioni dei mezzi, degli armamenti, oltre che dell’addestramento vengono analizzate con dovizia di particolari ricordando l’opera di rammodernamento degli armamenti del generale Pollio ed in particolare dell’artiglieria che si rivelerà essenziale nel corso di un conflitto nel quale un ruolo speciale ebbero le posizioni fortificate del nemico sulle montagne del Trentino che si dovettero smantellare, una dopo l’altra, con l’impiego di grossi obici. Avallone richiama anche quello che ha scritto Salandra, il Presidente del consiglio all’atto dell’intervento in un volume di recente ripubblicato in anastatica, sulle insufficienze delle Forze Armate che avevano consumato ingenti risorse nella recente guerra di Libia. E dà conto dell’impegno di quanti erano tenuti a provvedere, comprese le incertezze negli approvvigionamenti a causa della posizione politica di neutralità che l’Italia aveva assunto. Significativo il caso delle mitragliatrici. Erano state ordinate già da due anni alle industrie inglesi che tuttavia tardavano a consegnarle per ragioni politiche, non essendo certo il Regno Unito, nel 1914, della scelta che l’Italia, impegnata a fianco degli imperi centrali dal 1882, avrebbe fatto. Si dovete pertanto provvedere a progettare una mitragliatrice italiana, la Fiat 14, con la conseguenza che, entrato in guerra, l’Esercito italiano disponeva di quell’arma, già da tempo ritenuta sempre più importante nella guerra moderna, in quantità nettamente inferiore al necessario.

L’Autore segnala una serie di errori delle autorità di governo, dovute in primo luogo all’incertezza della scelta del campo nel quale schierarsi e della segretezza della decisione di abbandonare la Triplice Alleanza per schierarsi a fianco del Regno Unito e della Francia, a seguito del Trattato di Londra, rimasto a lungo segreto, tanto che Sonnino non volle darne una copia a Salandra finché non lo poté trascrivere di proprio pugno e il Capo di stato maggiore italiano fu tenuto all’oscuro della firma del patto e di una clausola importantissima di esso, cioè che entro 30 giorni dalla firma (26 aprile) l’Italia doveva entrare in guerra. E fu, infatti, il 24 maggio, il passaggio del Piave. Racconta Avallone che “Cadorna venne a conoscenza di questa clausola per vie secondarie, quando un colonnello del Comando supremo, a Parigi, ne ebbe notizia dai francesi”. “Il Governo evidentemente – scrive Avallone – non si rendeva conto del tempo necessario a una mobilitazione, a una radunata, all’apprestamento delle Forze armate; il Governo credeva bastasse premere un bottone perché l’esercito e la marina si potessero scagliare oltre le frontiere o fuori dai porti”. Una mentalità formatasi sull’esperienza delle guerre dell’800.

Il testo ricorda vari aspetti della conduzione della guerra, ben noti ma ricostruiti con molta precisione sicché il lettore viene guidato lungo gli eventi, con particolare riferimento a quelli drammatici, delle battaglie sull’Isonzo, od a Caporetto quando emerse l’intollerabile insufficienza organizzativa e di comando del nostro esercito, con le conseguenze anche psicologiche che avrebbero creato un grave sbandamento militare, politico e psicologico in un Paese costretto dagli immani sacrifici dell’economia di guerra. Una crisi politico militare riscattata a Peschiera quando il Sovrano, alla prospettiva del nuovo schieramento arretrato proposto dagli Stati maggiori alleati, li convinse sulla base di una appassionata rivendicazione del valore del soldato italiano del cui impegno di faceva garante, certo che l’Esercito avrebbe saputo fermare il nemico, riconquistare le posizioni perdute e riprendere l’avanzata verso Trento e Trieste. Poi l’impegno del nuovo Capo di Stato maggiore, generale Armando Diaz, e l’offensiva trionfale di Vittorio Veneto dopo la battaglia difensiva del giugno in pianura.

Si legge tutto d’un fiato questo capitolo nel quale sono descritte le operazioni militari, l’impegno dei Corpi d’armata, delle divisioni, dei reggimenti, e dell’Aeronautica, che pure vantava una storia recente, avendo esordito soltanto nella campagna di Libia nel 1911. C’è, poi, la pagina degli eroi della Grande Guerra, da Cesare Battisti a Fabio Filzi, da Damiano Chiesa a Enrico Toti. In concomitanza alle operazioni militari ed in ragione di esse Avallone ricorda come la “Famiglia Reale, con tutti i suoi componenti, sia stata in primissimo piano nel lavoro, nel sacrificio, nell’esempio. La Regina trasformò il Quirinale in ospedale per feriti e mutilati (1915-1919) e se stessa in materna infermiera; con lei la Duchessa d’Aosta. Il Re, lasciata la direzione dello Stato, per quanto atteneva alle attività interne, a Tommaso duca di Genova nominato luogotenente generale del Regno, partì fin dal primo giorno per il fronte rientrò solo a guerra finita; né al fronte, si limitò al controllo diretto della situazione e a visitare quotidianamente le truppe di linea e i comandi (una volta, rovesciatosi il berretto e imbracciato all’improvviso il fucile d’un soldato, volle sparare anche lui contro un aeroplano nemico che sorvolava le prime linee) contribuendo con la sua onnipresenza a mantenere elevato il morale; ma, quando necessario, seppe intervenire con energia assumendosi anche responsabilità che andavano al di là dei Suoi doveri costituzionali”, come a Peschiera, lo abbiamo già ricordato, nel corso della riunione degli Stati maggiori degli eserciti dell’alleanza che lui stesso aveva convocato.

Il capitolo si chiude con il bollettino della vittoria.

“La Marina italiana nella guerra 1915 1918”si deve alla penna di Vittorio Tur, ammiraglio, che descrive innanzitutto i compiti della Forza Armata, in particolare quello di bloccare efficacemente l’Adriatico, di proteggere l’avanzata dell’esercito verso Trieste e di impedire qualsiasi sbarco alle sue spalle. Inoltre la Marina doveva proteggere i nostri convogli militari il vettovagliamento e i rifornimenti alla Nazione provenienti da Gibilterra e da Suez.

Tra le forze armate la Marina certamente aveva per tempo provveduto a un rafforzamento e ad un ammodernamento delle unità sotto la direzione dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel che “aveva anche provveduto ad assicurare efficienza e protezione alle basi navali, agli approvvigionamenti di combustibili, alle armi e, avendo sempre sostenuto la grande importanza in guerra di siluranti, sommergibili e aviazione, disdisse - per poter provvedere alla loro costruzione - quella delle grandi corazzate da 30.000 tonnellate in progetto, contro il parere dei sostenitori di esse, tanto più che i piani non garantivano loro la incolumità dalle offese subacquee”. In particolare, ricorda Tur, Thaon di Revel era stato sempre un sostenitore dell’aviazione e “grazie a lui, la Marina poté avere, al principio della guerra degli idrovolanti, seppure in numero minimo rispetto ai 150 iniziali da lui richiesti e che riteneva rispondenti alle necessità, numero che poté però, sempre grazie a lui, essere accresciuto in seguito. Infatti durante la guerra arrivammo al 1.645 idrovolanti e aeroplani e a 49 dirigibili di vario tipo”.

Anche questo capitolo sulle operazioni in mare è una lettura appassionante delle imprese dei nostri marinari che, abilmente guidati resero praticamente inerte, incapace di operare la marina austriaca che anzi perse per l’aggressione dei nostri mas prestigiose unità come la corazzata Santo Stefano e la Viribus Unitis. Il testo dà conto delle nostre unità, della loro dislocazione, delle operazioni nelle quali sono state impegnate. Il lettore troverà anche i nomi di valorosi ufficiali e marinari e delle loro straordinarie imprese, dalla “beffa di Buccari” alla vittoria di Premuda, l’affondamento delle corazzate Wien nella rada di Trieste ad opera di Luigi Rizzo, Tegetthoff e Szent Istvàn (Santo Stefano). In tutti questi avvenimenti emerge il nome di Luigi Rizzo il quale sarà decorato di medaglia d’oro e insignito dell’Ordine Militare di Savoia e Conte di Grado. Altro insigne marinaio, l’Ammiraglio Umberto Cagni di Bu Meliana, Comandante delle forze navali destinate a Pola.

Il volume si chiude con una conversazione di Roberto Lucifero intitolato “La vittoria e il Re soldato”, pagine che sottolineano il ruolo e l’impegno del Sovrano nella fase precedente l’entrata in guerra e nella sua presenza al fronte nel corso dell’intero conflitto. Ricorda, in particolare, quanto gli aveva riferito il padre a proposito di una serie di colloqui con Vittorio Emanuele III, già nell’estate del 1914. Il Re aveva chiara l’idea che per motivi storici era inevitabile che fosse giunto il momento della completamento dell’unità d’Italia che non si era potuta raggiungere prima. Inoltre era consapevole dello sviluppo del conflitto e dell’inevitabile impegno degli Stati Uniti d’America che sarebbe avvenuto soltanto nel 1917, ma che lui ben tre anni prima riteneva certo.

“Il Re, dunque, volle la guerra. E, io credo, possiamo dire che in certo senso la impose perché, a un determinato punto, se il governo non avesse avuto lo stimolo e l’appoggio del Re di fronte alle resistenze del Parlamento e di gran parte del Paese, con le minacce del socialismo sempre pronto a crear disordini ogni volta che il Paese avesse particolare bisogno d’ordine, probabilmente a quella decisione non si sarebbe venuti”.

In conseguenza di ciò scrive Lucifero: “il 24 maggio si chiama Vittorio Emanuele III. Ma anche la guerra si chiama Vittorio Emanuele III sotto tutti gli aspetti multiformi del Re: del Re il quale sapeva di esser Lui mallevadore di quella battaglia condotta dal suo popolo; dell’uomo, che si accompagnava ai soldati nei luoghi più rischiosi giorno per giorno, ora per ora, che in mezzo agli scoppi delle granate mangiava il suo fagottino seduto sopra un sasso; del capo di una Famiglia, il quale ha voluto che tutti i Principi di Casa Savoia partecipassero alla guerra (e uno c’è morto, il Conte di Salemi); ha voluto che tutte le donne della Sua famiglia partecipassero alla guerra. E le avete viste nella uniforme gloriosa della Croce Rossa, con alla testa quella Regina di cui, nel Suo ultimo viaggio, ebbero tanta paura da non consentirLe di passare alcune ore in cabina nel porto di Napoli, quando dall’Egitto doveva trasferirsi a Montpellier”. Una sosta per incontrare un medico che si sperava potesse alleviare le sue sofferenze, una sosta che le fu impedita dalle autorità della repubblica.

La figura del Sovrano e della Regina Elena riempiono con il ricordo di episodi significativi della loro vita questo capitolo conclusivo, come in un modo diverso non sarebbe stato possibile, per sottolineare, nel centenario della Grande Guerra, che per il Regno d’Italia, fu la Quarta guerra d’indipendenza, come fu portata a completamento l’unità nazionale. Un impegno del Circolo di cultura ed educazione politica Rex, istituzione culturale che risale al  1948, indipendente, sostenuta esclusivamente dai soci, e che ha visto alla presidenza e nel Consiglio direttivo personalità della cultura, della politica delle Forze Armate e dell’Amministrazione dello Stato, per ricordare eventi ed approfondire momenti salienti della storia italiana, sempre con la serenità di chi crede nei valori e nella identità nazionale.

12 marzo 2017

 

 

 

Associazione Italiana

Giuristi di Amministrazione

 

Conversazioni di Diritto pubblico

Salvatore Sfrecola

Avvocato, già Presidente di Sezione

della Corte dei conti

 

parlerà sul tema

 

Finanza pubblica e finanza locale

tra regole e controlli

(Riflessioni per politici e funzionari suggerite dalle relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti)

 

Venerdì 10 marzo 2017

Ore 17,00

Roma, via Ferrari 1

(Salone dei Padri Pallottini)

 

Tra incarichi dirigenziali e posizioni organizzative

Le agenzie fiscali continuano ad aggirare la Costituzione

di Salvatore Sfrecola

 

L’accusa è pesante, gravissima. E proviene dalla Corte costituzionale. Le agenzie fiscali  (delle entrate, delle dogane e del territorio) hanno aggirato la “regola del concorso pubblico”, secondo la quale “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, come sta scritto nell’ultimo comma dell’art. 97 della Costituzione, di seguito ad altri principi, quali il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Insomma le regole della legalità. E tanto per non perdere l’abitudine le medesime Agenzie fiscali continuano ad aggirare la Costituzione e le leggi. Infatti, mentre con il decreto “Milleproroghe” hanno ottenuto che le procedure concorsuali per l’acquisizione dei dirigenti slittassero al 31 dicembre 2017, nel frattempo attribuiscono “posizioni organizzative speciali ed a tempo” riproducendo “le medesime metodologie fin qui praticate nonostante la bocciatura del giudice delle leggi”, come si legge in un comunicato della DIRSTAT, la Federazione fra le associazioni ed i sindacati nazionali dei dirigenti, a firma del Vice segretario generale, Pietro Paolo Boiano.

Le agenzie avrebbero dovuto, invece, nelle more delle procedure concorsuali, procedere all’affidamento delle reggenze, come aveva indicato la Corte costituzionale nella sentenza n. 37 del 17 marzo 2015, quella che denuncia, appunto, l’“aggiramento”, sancendo l’illegittimità delle disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie che avevano consentito il conferimento di incarichi dirigenziali che, secondo la giurisprudenza della Consulta, deve avvenire in ogni caso “previo esperimento di un pubblico concorso” concorso “necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio”.

Perché la Corte parla di aggiramento? Perché le agenzie, avendo proceduto alla copertura provvisoria di vacanze nelle posizioni dirigenziali mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti, “fino all’attuazione delle procedure di accesso alla dirigenza” e comunque fino ad un termine finale predeterminato, lo ha di volta in volta prorogato a partire dal 2006. “Le reiterate delibere di proroga del termine finale – si legge nella sentenza - hanno di fatto consentito, negli anni, di utilizzare uno strumento pensato per situazioni peculiari quale metodo ordinario per la copertura di posti dirigenziali vacanti”.

Ma il Governo fa orecchie da mercante e le agenzie, bocciati gli incarichi dirigenziali, ricorrono alle “posizioni speciali a tempo” di cui si è detto, per guadagnare mesi e forse anni e creare situazioni di fatto nella speranza o nell’aspettativa di qualche sanatoria, cioè di un nuovo aggiramento della Costituzione e delle leggi, nonostante la delusione del personale più elevato in grado, impegnato a combattere l’evasione fiscale, che pure ha vinto su tutti i fronti nei giudizi amministrativi e di costituzionalità. Continua, dunque, la protesta e continuerà il contenzioso dinanzi ai tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di Stato di fronte all’improntitudine dei governi.

(Pubblicato da La verità del 5 marzo 2017)

 

 

 

 

 


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