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MAGGIO 2016

 

Artisti e letterati ed il loro rapporto con l’identità nazionale*

di Domenico Giglio

 

La nascita ed il consolidamento dell’identità nazionale di un popolo può durare secoli e deve essere favorita da una unità statale o meglio, come è accaduto in Europa e particolarmente in Francia da una monarchia e nonostante ciò non sempre mette radici profonde, per cui dopo secoli possono esserci fenomeni di rigetto, come vediamo oggi in Catalogna, in Scozia e nelle Fiandre. Ora, in Italia, prima della proclamazione del Regno, il 17 marzo 1861, non è possibile trovare una identità nazionale se non in poeti, letterati e scienziati, cominciando da Dante, che, facendo incontrare nel Purgatorio i due mantovani, Virgilio e Sordello, prorompe nell’invettiva sulla “Serva Italia”, e sulle divisioni cittadine “vieni a veder Montecchi e Cappelleti”, e sempre all’Alighieri si deve la descrizione dei confini orientali dell’ Italia, “sì come a Pola, presso del Carnaro, che Italia chiude e suoi termini bagna”. Poco dopo segue l’altro massimo poeta, il Petrarca che sferza “I Signori d’Italia” ed indirizza una canzone, che è una invocazione all’Italia , “…latin sangue gentile..” e speranza”…che l’antico valore- negli italici cor non è ancor morto…”, e dopo anche l’ Ariosto, nello “Orlando Furioso”, trova modo di incitare gli italiani, “…dormi Italia imbriaca”, fattasi “ancella”. Niccolò Machiavelli, auspica “…che Dio le mandi qualcuno (all’Italia ), che la redima, un capo che provveda la pratica di armi proprie, con la virtù italica…”, per poi giungere a Leopardi, che invoca sì l’ Italia, “O Patria mia, vedo le mura e gli archi…ma la gloria non vedo…” e depreca che italiani abbiano combattuto fuori d’ Italia, riferendosi alle campagne militari napoleoniche, entrando in contrasto con il Foscolo, che proprio nelle truppe del Regno Italico, aveva visto rinascere l’antico spirito combattivo e dato prova di indubbio valore.

Questo filo italico che collega, attraverso cinque secoli di storia e di vita, non si limita a questi grandi poeti e pensatori, ma ne coinvolge numerosi altri, che forse è ingiusto definire minori, provenienti da ogni parte dell’ Italia, che pure denunciano e deprecano le risse, le divisioni, le rivalità interne, che portarono alle invasioni straniere ed al loro successivo governo in tante nostre regioni, auspicando invece l’ indipendenza dallo straniero, l’unificazione della penisola, dedicando all’Italia poesie, canzoni, lettere ed appelli., il tutto come scrive il grande critico Francesco Flora, nella sua “ Storia della letteratura italiana”: “soltanto nella lingua e nella poesia e nelle arti della luce e della pietra…i figliuoli dell’Italia riconobbero…una patria comune”.

Sono nomi, probabilmente oggi dimenticati, e dalla scuola e dalla società, che vanno dal Sassoferrato, “…piangi Italia, giardino del mondo…”, a Pietro Bembo, letterato e Cardinale, a Baldassarre Castiglioni, che descriveva la miseria dell’ Italia, con toni gravi e mesti, al Guicciardini, con la sua “Storia d’Italia”, a Gabriello Chiabrera, forse il maggior poeta del XVII secolo, al Filicaia, “…deh (Italia), fossi tu men bella, o almen più forte…”, ad un Tassoni, che non scrive solo “La secchia rapita”, che è anch’essa una critica, sia pure scherzosa” alle rivalità provinciali, ma anche le “filippiche”, contro gli spagnoli ,denunciando “…veramente quegli (italiani) infelici, che hanno l’animo tanto servile, che godono o almeno non curano d’essere dominati da stranieri, (per cui) non sono degni del nome d’italiani…”, ed è interessante notare che alcuni di questi autori non piemontesi, si rivolgano a Casa Savoia, particolarmente a Carlo Emanuele I, figlio del grande Emanuele Filiberto, come il ferrarese Fulvio Testi che lo definisce “ Carlo, quel generoso invitto core ,da cui spera soccorso Italia oppressa”, e a Vittorio Amedeo II, come Eustachio Manfredi, bolognese, che per la nascita del suo primo figlio scrive “Italia, Italia, il tuo soccorso è nato…” e come Felice Zappi, di Imola, che dedica un’ode “Al serenissimo principe Eugenio” dove è questo bellissimo verso “..dovunque vai Tu, va la vittoria..”.

Questi poeti e pensatori hanno dei valori comuni, compreso quello dell’eredità di Roma, che in molti di essi non è solo rimpianto, ma sprone per risollevare l’Italia dalle divisioni e dalla servitù e così bastarono pochi uomini, di secolo in secolo, a serbare la memoria della libertà e della dignità italiana ed a mantenere viva la fiamma dell’ identità nazionale, che, con il sorgere del XIX secolo, l’ascesa ed il declino dell’astro napoleonico, il sia pur breve Regno Italico, purtroppo limitato all’Italia settentrionale, il tentativo sfortunato di Gioacchino Murat, con il suo “Proclama di Rimini”, acquista luce e calore dando inizio a quello che sarà poi definito Risorgimento. Sia pure limitata quindi ad una ristretta cerchia di intellettuali, ai quali si aggiungono gli scienziati, con i loro congressi nella prima metà dell’Ottocento, tenuti nelle capitali dei vari stati preunitari, tanto che alcuni governi di questi stati, quasi si pentirono di aver dato spazio ai congressi stessi, questa identità si rafforza, anche se vi è un abisso con la maggioranza della popolazione, specie delle campagne, e per il predominante analfabetismo, e per una diffusa identità limitata solo al proprio comune e alla propria provincia, rara se non inesistente invece l’identità regionale, eccetto la Sicilia, ed anche qui con profonde divisioni, eredità di guelfi e ghibellini, e con la differenza tra Nord e Sud d’ Italia, separati ed impediti a conoscersi e comprendersi, dalla illogica e negativa presenza dello stato pontificio che ha diviso per un millennio l’Italia..

La ripresa e l’ espandersi di questa fiamma nazionale, vede nuovamente in prima linea letterati, poeti, pensatori, ed anche pittori e musicisti, ed abbiamo così Vittorio Alfieri, con il “Misogallo” e “Italia, Italia, egli gridava a’ dissueti dissueti orecchi, a i pigri cuori, a gli animi giacenti : Italia, Italia – rispondeano le urne d’ Arquà e Ravenna”, e particolarmente Cesare Balbo, con le sue “Speranze d’Italia”, e Vincenzo Gioberti con il famoso “Primato morale e civile degli italiani” e con il successivo “Rinnovamento civile d’Italia”, che dettero una base storica e dottrinale alla richiesta di riscatto, e poi Luigi Settembrini con la denuncia “Protesta del popolo delle Due Sicilie”, Giuseppe Mazzini con i “Doveri dell’uomo”, ed Antonio Rosmini, con “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, Silvio Pellico con “Le mie prigioni”, il racconto della sua prigionia allo Spielberg, e poi un Alessandro Manzoni, sia con “I promessi sposi”, sciacquati nell’Arno e con “Marzo 1821”, ricordando l’ Italia “una d’ arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor.” e ancora Ippolito Nievo, garibaldino, mancato a soli trent’anni, con le “Confessioni di un italiano” ed i già ricordati Giacomo Leopardi ed Ugo Foscolo di cui non possiamo dimenticare l’altissima poesia dei “Sepolcri”, dove parlando della Chiesa di Santa Croce, a Firenze :”…beata che in un tempio accolte, - serbi l’itale glorie, uniche forse - da che….l’alterna onnipotenza delle umane sorti – armi e sostanze t’invadeano ed are – e patria e, tranne la memoria, tutto.- Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia,-quindi trarrem gli auspici..”. A questi maggiori via via si uniscono tante altre voci, che diventano un vero e proprio coro, e così si raggiungono altri strati della popolazione culturalmente più avanzati e si approfondiscono i motivi autenticamente italiani della riscossa nazionale, e quindi della identità nazionale..

Il milanese Giovanni Berchet (1783- 1851), tra i fondatori de “Il conciliatore”, prende spunto dalla rievocazione del giuramento di Pontida, per incitare alla riscossa, un altro milanese, Giovanni Torti (1774-1851), scrive un inno, dedicato alle cinque giornate del 1848, l’abruzzese Gabriele Rosseti ( 1783-1854), canta “L’amor di Patria”, Angelo Brofferio, (1802-1866), piemontese, ed anche uomo politico, scrive un inno :”Viva il Re, dall’Alpi al mar – il Baiardo di Savoia – Re Vittorio l’ha giurato – che giammai non spergiurò”. Da Napoli, Alessandro Poerio (1802-1848) va a combattere e morire nel 1848, nella difesa di Venezia, e prima aveva scritto “Il Risorgimento” con “O patria, fiorente, possente, d’un solo linguaggio”, mentre il toscano Giuseppe Giusti (1809-1850), risponde al poeta francese Lamartine, con “La terra dei morti”, ed un giovanissimo poeta genovese, Goffredo Mameli ( 1827-1849), caduto nella difesa di Roma contro i francesi, scrive un primo “ Inno di guerra”, con “Viva l’Italia, era in sette spartita, le sue membra divulse”, ed un secondo ben più famoso, anche se vi è qualche dubbio sulla sua paternità, “Fratelli d’Italia”, musicato da Michele Novaro. All’inno di Mameli, si aggiunge un “Inno popolare di guerra” di Giovan Battista Niccolini ,( 1782-1861), toscano, più noto come drammaturgo, con i versi “Giuste leggi e non cieca licenza- libertade ad un tempo e potenza,- non servile ma forte unità”, ed il marchigiano, Luigi Mercantini (1821-1872), con i versi “l’ardente destriero, Vittorio spronò, a dir viva l’Italia, va il Re in Campidoglio” e la “Canzone italiana”, meglio conosciuta come “Inno di Garibaldi”, musicato da Alessio Olivieri, che ha un tono quasi religioso “Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti”. Sempre tra i poeti, anche se più noto per altre opere, fra le quali il grande “Dizionario della lingua italiana”, il dalmata, Niccolò Tommaseo (1802-1974), scrive una poesia “All’Italia”, nel 1834, incitando alla rinascita, ed un trentino, Giovanni Prati, (1814 – 1884), fedelissimo alla Casa Sabauda, ricordando i giovani universitari di Curtatone ,scrive “Viva la bella Italia! – orniam di fior la testa ;-o vincitori o martiri ,- bello è per lei cader”: A tale proposito è bene sottolineare che fino al 1849 i canti o gli inni non si rivolgevano solo a Casa Savoia, perché vi erano anche autori di fede mazziniana, ma fin da allora si deve notare una tendenza da parte di questi patrioti non monarchici di voler discriminare coloro che la pensavano diversamente, come nel caso di Prati, che per aver scritto un inno a Carlo Alberto si vide voltare le spalle dai repubblicani che lo additarono con avversione crescente per la sua intimità con la corte sabauda.

Oltre alla poesia una parte non trascurabile, forse anche più diffusa, di incitazioni patriottiche è dovuta ad opere teatrali ed ai romanzi storici, perché, anche se riferentisi ad eventi e personaggi del passato, gli autori, tutti patrioti, trovavano il modo di inserirvi elementi che facessero pensare ad eventi contemporanei o facendone i protagonisti, campioni d’ italianità, e di questo il caso più tipico e conosciuto è “Ettore Fieramosca” del piemontese Massimo Taparelli d’Azeglio, (1798-1866) rievocante la disfida di Barletta, tra cavalieri italiani e francesi, fra i quali si annida il rinnegato Gano che osava dire: “ho in tasca gli italiani, l’Italia e chi le vuol bene; servo chi mi paga, io . Non sapete …che per noi soldati dov’è pane è la patria”. Anche nella “Margherita Pusterla” del lombardo Cesare Cantù (1804-1895) grandeggia il motivo del Risorgimento sotto lo schermo di una storia lontana, e nella “Battaglia di Benevento”, del toscano Francesco Domenico Guerrazzi (1804 -1873), l’inizio del romanzo è un inno all’ Italia, “L’ Italia, che sedeva, regina del mondo”.

E così si giunge, il 17 marzo 1861, a conclusione di quello che un moderno studioso, Domenico Fisichella, ha definito “Il miracolo del Risorgimento”, alla proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia, e Cavour, nel suo genio multiforme, vuole onorare anche artisti e letterati, per cui chiede e quasi impone a Giuseppe Verdi, il grande, massimo musicista italiano, il cui nome preceduto da “Viva”, aveva anche significato “Viva V (ittorio) E (manuele) R (e) DI(talia), a presentarsi candidato per il primo parlamento del Regno, e pure fa appello all’altro grande Alessandro Manzoni. Dunque hanno vinto anche i poeti, i letterati ed altri artisti ,ma ora bisogna consolidare l’opera ed anche i pittori prima e poi gli scultori debbono ricordare le vicende del Risorgimento ed i suoi protagonisti, per allargare ulteriormente le conoscenze delle stesse e favorire l’identità nazionale.

Aveva iniziato il veneto Francesco Hayez (1791- 1882) con i suoi grandi quadri storici ed il famoso “Bacio”, poi un suo scolaro Domenico Induno (1815-1878) ed il fratello Gerolamo (1827-1890), con i soggetti militari, di cui ricorderemo “La battaglia di Magenta”, “La battaglia della Cernaia”, “La partenza da Quarto”, “Garibaldi al Volturno”, ( tutte esposte al Museo del Risorgimento di Milano), “Garibaldi in divisa di generale dell’esercito Sardo” ed il “Racconto del garibaldino”. I grandi quadri storici al Palazzo Madama, in Roma, sede del Senato, ed a Siena, nel palazzo comunale ,tra i quali “La consegna dei risultati del plebiscito di Roma a Vittorio Emanuele II”, sono opera del senese Cesare Maccari, (1840-1919) e sempre riguardanti il ciclo di affreschi di Siena, vi sono due lavori di un altro toscano, Amos Cassioli (1832 -1891) uno raffigurante “La battaglia di Palestro”, l’altro “La battaglia di San Martino” ed infine, il grossetano, Pietro Aldi (1852-1888), dipinge “L’armistizio di Vignale”. ”Garibaldi a Digione”, (esposto al Museo del Risorgimento di Milano), è del milanese Sebastiano De Albertis (1828 -1897), garibaldino, che dipinge pure “La carica dei Cavalleggeri di Monferrato a Montebello”, mentre sempre a Siena vi è il famoso “Incontro di Teano”, opera di Carlo Ademollo (1823 – 1911), fiorentino, autore anche della “Battaglia di San Martino (esposto al Museo del Risorgimento di Firenze), nonché della “Breccia di Porta Pia”, mentre Clemente Origo (1855-1921), romano, dipinge la carica della cavalleria alla Bicocca del 1849, e Gustavo Dorè (1832 – 1883) al quale dobbiamo le meravigliose tavole della “Divina Commedia”, disegna gli episodi principali dell’impresa garibaldina del 1860, e Carlo Alberto a Novara è ricordato da Gaetano Previati (1852 -1920), ferrarese, che dipinge anche il popolano milanese, Amatore Sciesa, condotto, nel 1851, alla fucilazione dagli austriaci, mentre pronuncia la celebre frase “tiremm innanz”. Vengono poi i “macchiaiuoli” toscani e fra questi Telemaco Signorini (1835 -1901), con il quadro degli “Zuavi francesi ed artiglieri italiani” (esposto al Museo del Risorgimento di Firenze), ed il loro maggiore esponente, Giovanni Fattori (1825-1909), che ai paesaggi maremmani seppe unire la rappresentazione dei nostri soldati in due momenti particolari, uno felice “Il campo di battaglia italiano dopo (la vittoriosa battaglia di) Magenta”, l’altro relativo alla sfortunata “Battaglia di Custoza” (esposti entrambi alla Galleria d’arte moderna di Firenze). Tutti dipinti che se al momento furono visti da una ristretta cerchia di persone, sarebbero successivamente divenuti le illustrazioni di libri di scuola e di storia e quindi conosciute da una più vasta platea, che così riviveva tanti principali episodi del Risorgimento, ed a questi pittori, dobbiamo doverosamente aggiungere Achille Beltrame, che sul settimanale “La Domenica del Corriere”, in edicola dall’8 gennaio 1899, disegnava delle bellissime tavole a colori, sui principali avvenimenti della settimana accaduti in Italia e nel Mondo, compresi quelli riguardanti i nostri Reali, che, data la tiratura del giornale che già dopo pochi anni aveva raggiunto le 600.000 copie, per superare poi il milione, arrivava in tante famiglie, anche di modeste condizioni economiche.

Dal punto di vista non solo artistico, ma della identità nazionale, fu senza dubbio la scultura, divenuta civile e patriottica, maggiormente atta a serbare le memorie, con le statue ed i monumenti, particolarmente di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi, e di altri artefici del Risorgimento, a coinvolgere anche la massa della popolazione, essendo per lo più situate nelle piazze principali di quasi tutte le città e nei Municipi. Pensiamo al ticinese, Vincenzo Vela (1820 – 1891), ai torinesi Carlo Marocchetti (1805 – 1867), con la statua equestre di Emanuele Filiberto nella piazza San Carlo, e Davide Calandra ( 1856 – 1915 ), con altra statua equestre di Amedeo di Savoia, ed il marchigiano, Ercole Rosa (1846-1898), a cui si deve il monumento equestre di Vittorio Emanuele II a Milano, nella piazza del Duomo, e sempre dedicati al Re, sono i monumenti a Venezia di Ettore Ferrari, e a Palermo di Benedetto Civitelli, mentre ad Enrico Chiaradia (1851- 1901), friulano, spetta la grande statua equestre del grande Re, nel “Vittoriano”, mirabile sintesi di architettura e scultura. Infatti questa opera monumentale, progettata dall’architetto bresciano Giuseppe Sacconi (1854- 1905), vincitore di un concorso nazionale indetto per erigere a Roma un monumento celebrativo della raggiunta Unità e del primo Re d’Italia, inaugurata dal nipote, il Re Vittorio Emanuele III, nel 1911, in occasione del cinquantenario del Regno, presenti i Sindaci di tutta Italia, nonché i rappresentanti di tutti i Reggimenti del Regio Esercito, che riempivano l’intera Piazza Venezia, rappresenta il maggiore contributo che l’architettura abbia dato all’affermazione dell’identità nazionale, per cui è anche chiamato “Altare della Patria”. Ritornando alla scultura ricordiamo che al senese Giovanni Duprè (1817 – 1882) si deve uno dei pochi monumenti del conte di Cavour, ed ai fiorentini, Cesare Zocchi, (1851 -1922) ed Emilio Gallori (1846 -1924), si devono rispettivamente, il grande monumento a Dante, inaugurato nel 1896, nella ancora asburgica Trento, a riaffermare l’italianità del trentino, e la statua equestre di Garibaldi sul Gianicolo, entrambe opere di notevolissimo valore artistico, sia scultoreo che architettonico, per terminare con il bresciano Angelo Zanelli ,(1879 -193.), vincitore del concorso per il grande fregio decorativo dell’Altare della Patria, e per la statua della Dea Roma, che sovrasta il sacello del Milite Ignoto.

Il ruolo dei letterati, dei poeti e degli scrittori non cessa, ma anzi si fa più costante e metodico per rafforzare i valori dell’unità ed indipendenza raggiunti, ed il campione di questa azione è il toscano Giosuè Carducci (1835- 1907), che con le sue poesie riguardanti storia e glorie passate, eventi, regioni, personaggi, avvicina tra loro le genti italiche, ne rafforza la coscienza nazionale, come pure con i suoi superbi discorsi celebrativi e commemorativi, tra i quali quello pronunciato il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia, per il centenario del tricolore, dove celebra il natale della Patria, ed esalta “la bella, la pura, la santa bandiera dei tre colori”, quasi come un sacerdote della religione della patria, che il suo erede, nella cattedra universitaria, il romagnolo Giovanni Pascoli (1855- 1912), avrebbe continuato ad officiare nei suoi discorsi, in occasione del cinquantenario della proclamazione del Regno, parlando all’Università di Bologna il 9 gennaio 1911, che chiamò “anno santo” della Patria e, poi il successivo 9 novembre all’Accademia Navale di Livorno ed infine il 26 dello stesso mese, a Barga, “La grande proletaria si è mossa.”, in occasione della guerra di Libia. Carducci con “Piemonte”, celebra la regione e lo stato sabaudo che dette inizio alla prima guerra d’indipendenza, e Carlo Alberto, “Re per tant’anni bestemmiato e pianto, che via passasti con la spada in pugno…”, con “Cadore”, celebra i montanari che si opposero agli austriaci, ed il loro comandante, “anima eroica, Pietro Calvi”, con il “Canto dell’amore” ricorda i perugini che si batterono per la libertà, e non ultima, anzi cronologicamente prima, con la canzone “Alla Croce di Savoia”, che è una mirabile sintesi risorgimentale della Toscana e di Firenze, con il Piemonte e la casa Savoia, di cui ricorda la storia italiana, con la rievocazione dei grandi italiani dei secoli bui, canzone che non esaurisce il suo valore storico e poetico, nella strofa più conosciuta “Dio ti salvi, o cara insegna, nostro amore e nostra gioia! Bianca Croce di Savoia, Dio ti salvi e salvi il Re”. Carducci capiva infatti che l’identità nazionale aveva bisogno di un punto di riferimento che non fosse solo un uomo, sia pure in molti casi necessario, se non indispensabile, come Garibaldi, al quale pure dedicò discorsi e poesie, ma una dinastia, un istituto che continua nel tempo, quale la Monarchia, artefice dell’unità, di cui scrisse “la Monarchia fu ed è un gran fatto storico e rimane per molta gente una idealità realizzata..” concludendo che “il capo della famiglia di Savoia, rappresenta l’Italia e lo Stato”, ed è così che si spiegano le sue liriche “Alla Regina d’Italia”, del 20 novembre 1878, “quali a noi secoli-si mite e bella ti tramandarono..” e la successiva “Il liuto e la lira”, entrambe dedicate alla prima Regina d’Italia, Margherita, “..figlia e regina del sacro- rinnovato popolo italiano.”, nelle quali parla dell’eterno femminino regale, e che Margherita lo incarnasse, rafforzando l’identità nazionale, lo conferma dopo oltre un secolo, uno storico contemporaneo, Giuseppe Galasso, che l’ha definita in un suo scritto: “Icona dell’Italia unita.”

E come Carducci a Bologna, dall’Università di Napoli, contribuiva alla creazione di questa coscienza unitaria, l’irpino Francesco De Santis (1817- 1883), patriota, carcerato dal governo borbonico ed uomo politico e ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo del Regno d’Italia, con Cavour, ed anche in successivi governi, con la sua “Storia della letteratura Italiana”, da lui inserita nella storia della nostra civiltà, così che dall’unità politica veniva a poco a poco nascendo una identità di cultura, opera sulla quale, successivamente, hanno studiato tante generazioni di studenti, e poi professori.

Su di un piano diverso, ma non meno importante, è la figura del ligure Edmondo De Amicis (1846 – 1908), militare, combattente nel 1866, viaggiatore, giornalista, scrittore, particolarmente con una sua opera “Cuore”, stampata per la prima volta nel 1886, la cui immediata fortuna e diffusione, protrattasi nel tempo, ha favorevolmente influito sulla coscienza nazionale, superando pregiudizi regionalistici e classisti, sia con il suo testo base, ambientato in una scuola elementare, vedi l’arrivo dell’allievo calabrese e la morte del “muratorino”, ma soprattutto e volutamente con i “racconti mensili”, dove De Amicis, sa trovare il modo di esaltare il comportamento di giovani di ogni parte dell’ Italia, dal “Piccolo patriota padovano”, alla “Piccola vedetta lombarda”, al “Piccolo scrivano fiorentino”, al “Tamburino sardo”, al “Sangue romagnolo”, a “L’infermiere di Tata”, al “Valore civile”, al giovane viaggiatore “dagli Appennini alle Ande”, ed infine al “Naufragio” . Ed effettivamente la scuola dette pure un importantissimo contributo all’identità nazionale con i suoi maestri e maestre, come la maestra descritta da Guareschi e così pure l’esercito, sia con l’istruzione civile, militare ed anche tecnica, nonché agricola, sia con le prime campagne nell’Africa Orientale, sia pure sfortunate e tragiche, dai cinquecento morti di Dogali, con il colonnello De Cristofori, e poi Macallè con Galliano, l’Amba Alagi con Toselli ed infine Adua, con ben due generali caduti sul campo ,Giuseppe Arimondi e Vittorio Dabormida, dove, ovunque risaltò il valore dei soldati italiani, quasi tutti contadini delle regioni italiane, per cui, Giovanni Pascoli, ad esempio, dedicò una sua poesia, inserita nella raccolta “Odi ed Inni”, “Alle Batterie Siciliane”, comandate dal capitano Masotto, medaglia d’oro al valor militare, per l’eroico comportamento tenuto ad Adua, dove aveva difeso con i suoi soldati siciliani, i cannoni fino alla morte.

Perciò nel 1911 poteva dirsi abbastanza diffuso il concetto d’identità nazionale, collegato alla diminuzione sensibile dell’analfabetismo ed al generale progresso economico e sociale, e sia le grandi celebrazioni del cinquantenario, sia la contemporanea conquista della Libia ne furono autorevoli testimonianze, anche se le nuove generazioni di letterati operanti nelle numerose riviste sorte nel primo decennio del novecento erano abbastanza critiche nei confronti dell’Italia, chiamata “Italietta”, per la quale auspicavano più alti destini e la stessa monarchia, così “borghese”, con il nuovo Re, non sembrava loro abbastanza autorevole e rappresentativa . Se leggiamo ad esempio Trilussa (Carlo Alberto Salustri – 1871-1950), nelle sue poesie romanesche più volte, in forma indiretta, critica la “democraticità” di un ipotetico Re, molto simile a Vittorio Emanuele. Letterati che poi si, però, si riscattarono nel maggio del 1915, partecipando alla guerra, che avevano chiesto, pagando un doloroso e sanguinoso prezzo! Ben diverso invece l’atteggiamento costruttivo, nei loro scritti, dei grandi storici da Benedetto Croce (1866-1952), a Gioacchino Volpe (1876-1971), entrambi abruzzesi, a Pietro Silva (1887-1954), parmense, ed a Niccolò Rodolico (1873 -1969), di Trapani, sui cui testi hanno studiato generazioni di studenti liceali, fin quasi agli anni ’50 del secolo scorso, nel valutare positivamente l’esperienza unitaria, specie se commisurata ai punti di partenza in tutti i settori. Un discorso a parte va dedicato a Gabriele d’Annunzio (1863- 1938), perché se aveva salutato l’avvento al trono di Vittorio Emanuele III, “…miri Tu lontano ?...Giovine, che assunto dalla morte –fosti Re nel mare”, negli anni successivi, anche lui era tra i meno entusiasti del governo dell’Italia, quella “…Italia, Italia – sacra alla nuova Aurora – con l’aratro e la prora!”, per cui si riavvicinò solo con la guerra di Libia, per la quale scrisse le “Canzoni delle gesta d’oltremare”, pubblicate integralmente, a tutta pagina, dal “Corriere della Sera”, salvo una dove aveva chiamato Francesco Giuseppe,”…l’angelicato impiccatore, l’angelo dalla forca sempiterna”, per poi essere tra i maggiori fautori del nostro intervento in guerra nel 1915 e dedicare al Re, un altra poesia, dove lo vede in panni bigi, vicino ai suoi soldati. A fronte di questa opera per l’identità nazionale, rifacentesi al Risorgimento, ai suoi artefici, tipica la riunione in stampe e dipinti di Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II, vi era una costante propaganda repubblicana, spesso con toni abbastanza abbastanza volgari e virulenti, tipico il giornale “L’Asino”, di Podrecca, sia proveniente dai repubblicani storici, che ritenevano la monarchia traditrice degli ideali risorgimentali in tema di irredentismo, arrivando a dire nel 1915 “O guerra o repubblica!”, sia dai socialisti, che erano per principio contro spese e campagne militari, che ritenevano dovute alla monarchia, di cui non vedevano o non volevano vedere l’azione di elevazione e pacificazione sociale ed il grande esempio di senso del dovere del Re e della sobrietà di vita e di costume dato della famiglia reale, concentrando questa loro opposizione proprio sulla Casa Savoia. “I Savoia” detto con tono di disprezzo, oppure “maledetti Savoia”, dinastia di cui ignoravano la storia e che, invece, con suoi esponenti, come il Conte di Torino, che aveva respinto sul terreno le ingiurie di un principe francese nei confronti dei soldati italiani che avevano combattuto ad Adua, ed il Duca degli Abruzzi, scalatore delle più importanti vette dall’America, all’Africa ed all’Asia, imprese che in tutto il mondo erano state seguite con interesse ed ammirazione, non ultima quella di raggiungere il Polo Nord, che non fu raggiunto, ma per l’epoca fu la spedizione che vi era giunta più vicino, avevano innalzato il nome ed il prestigio dell’Italia e degli italiani, specie quelli che erano emigrati all’estero, tranne i gruppi anarchici a cui era dovuta la progettazione e l’esecuzione dell’ assassinio del Re Umberto.

E questo senso dell’ identità nazionale, diffuso, ma ancora parziale, ci consentì di affrontare la guerra, e di condurla per quasi quarantadue mesi, dal 24 maggio del 1915 al 4 novembre 1918, e durante questi lunghi mesi, crebbe, sia pure ad un carissimo prezzo, sì che alla sua conclusione vittoriosa, potevasi dire che la guerra stessa, “Fu lo strumento, grazie al quale si rafforzò l’identità nazionale, la diretta conoscenza del RE, che moltissimi soldati avevano conosciuto, fino ad allora, solo sulle monete e sui francobolli, e si sviluppò il senso di una comune appartenenza allo Stato unitario, costruito attraverso tanti sacrifici e tante lotte”, come ha scritto Francesco Perfetti, in quanto fu la prima grande, difficile ed anche dolorosa esperienza collettiva di tutti gli italiani, e di questa identità fu, due anni dopo, testimonianza la moltitudine degli italiani che si assiepò lungo tutti i binari ad attendere ed onorare il passaggio del treno che da Aquileia trasportava a Roma, dove era ad attenderla il Re, la salma del Milite Ignoto, per essere deposta all’Altare della Patria, all’ombra della statua del grande Re, Vittorio Emanuele II, simbolo, ancor oggi, della nostra identità nazionale.

31   aggio 2016

*Relazione tenuta il 28 maggio al Convegno di studi promosso dall'Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Tombe Reali del Pantheon

Verso il referendum sulla riforma costituzionale

Il SI delle bugie

di Salvatore Sfrecola

Ancora un premier che racconta balle. Berlusconi si diceva il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni dall’unità d’Italia, ignorando che avevano ricoperto quella carica Cavour, Giolitti e De Gasperi, per fare solo qualche nome, Renzi ne dice una al giorno sulla “riforma” costituzionale, raccontando di risparmi ed “efficientamento” della produzione legislativa. Aggiungendo che, se prevalessero i NO si tornerebbe agli inciuci che, a suo dire, sarebbero esclusi dall’Italicum, la legge elettorale che prevede un premio al partito che raggiunge il 40% dell’elettorato, tetto fissato secondo l’illusione ottica provocata dall’esito delle elezioni europee. E sempre ricordando a noi stessi, come dicono gli avvocati, che il 40% dei voti espressi è intorno al 20% del corpo elettorale. Bisognerebbe ricordarlo ai reduci del comunismo degli anni ’54 ed ai loro emuli del Partito Democratico che definirono “truffa” la legge elettorale che dava un premio di maggioranza al partito che avesse ottenuto il 50% più 1 dei voti, cioè a chi aveva già la maggioranza assoluta.

Nella campagna referendaria che Renzi ha iniziato forse troppo presto, con ampio dispiegamento di giornali, televisioni e giuristi vari, che qualche giorno fa erano 100, poi sono diventati 184, in previsione (di Renzi) che arriveranno a 1000, in origine costituzionalisti, poi definiti, più prudentemente, giuristi, non meglio aggettivati, il premier esibisce il documento per il SI, un testo sbiadito sottoscritto per evidente dovere di appartenenza, senza entusiasmo.

Di bugia in bugia Renzi ne dice alcune di immediata percezione. Non è necessario essere dei costituzionalisti per capirlo. Basta un po’ di buon senso.

La prima bugia è quella secondo la quale la riforma costituzionale, modificando le competenze del Senato e riducendo il numero dei senatori, determinerà un risparmio. In effetti i senatori passano da 315 a 100, e va benissimo (è lo stesso numero dei senatori degli Stati Uniti d’America, un paese con oltre 281 milioni di abitanti, uno ogni 2 milioni e 800 cittadini) ma i deputati rimangono 630, un numero certamente eccessivo. Non averne prevista la riduzione dimostra l’intento di non incidere realmente sui numeri della casta, cioè sulle aspettative dei politici, quelli che hanno come unico mestiere e come unica lauta fonte di reddito la politica.

Ancora in tema di risparmio mi chiedo se qualcuno può ragionevolmente credere che i senatori, consiglieri regionali e sindaci verranno a Roma a proprie spese. Impensabile, ovviamente. Si dovrà pagare loro trasporto vitto e alloggio (in albergo a 4 stelle immagino!). Avranno ben diritto ad una segreteria che li assista degli impegni dell’attività legislativa e comunque nelle incombenze in aula e nelle commissioni. Nel frattempo nelle regioni e nelle città i consiglieri regionali ed i sindaci, divenuti senatori, non lavoreranno nell’esercizio delle loro funzioni non essendo previsto per loro il requisito dell’ubiquità.

C’è poi un’altra considerazione da fare. Solamente Renzi può pensare che le istituzioni dello Stato debbano essere valutate per quanto costano e non per quanto rendono in relazione alle attribuzioni sono proprie.

Tuttavia quello del risparmio, cioè del presunto risparmio, è un argomento che fa presa sulla gente che da sempre odia la casta, considerata luogo di privilegi che si riversano non solo sui politici ma su famiglie e clientes. È evidente che il taglio dei costi poteva essere perseguito più e meglio con scelte diverse.

Proseguiamo con le bugie. La presenza di due Camere che svolgono le stesse funzioni, quella condizione che chiamiamo di bicameralismo perfetto o paritario o piùcheperfetto, per dirla con Pitruzzella, secondo la vulgata renziana rallenterebbe i tempi della produzione legislativa. Lo si dice perché molte volte è stato necessaria la cosiddetta “navetta” (quando un provvedimento va avanti e indietro tra le Camere) ma si trascura di considerare che questo è avvenuto solamente quando sul testo non era stato raggiunto l’accordo nell’ambito della maggioranza. In presenza di accordi, le leggi sono state approvate rapidamente, anche nel giro di pochi giorni. E comunque si trascura di considerare che molti errori nella normativa in fieri sono stati corretti immediatamente dall’altra Camera. Senza andare molto lontano di recente, in televisione, il relatore al Senato sulla riforma della scuola a chi gli faceva osservare che vi erano degli errori di formulazione di alcune norme, ha risposto tranquillamente “li correggiamo alla Camera”.

Non è vero in ogni caso che il bicameralismo sia stato eliminato. La maggioranza non ha ritenuto di forzare la mano nella direzione del monocameralismo, da sempre caro alla sinistra comunista ignoto agli ordinamenti democratici. E così ha creato un sistema normativo complesso nel quale si intrecciano varie forme di legislazione con attribuzione al Senato delle materie delle autonomie e delle disposizioni di attuazione della normativa europea, sempre più pervasiva. Inoltre il Senato potrà chiedere di esaminare una legge di competenza della Camera che peraltro deciderà in ultima istanza. Un autentico pasticcio..

In questa prospettiva appare assurdo che i senatori non siano eletti dal popolo ma reclutati in relazione alla titolarità di un diverso mandato politico, con lesione del principio “della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale”, come osservato nel documento del Comitato per il NO. Che mette in risalto come “l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie (è) smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto Stato-Regioni che solo in piccola parte realizza quegli obiettivi di razionalizzazione e semplificazione che pure erano necessari, determinando, senza valorizzare per nulla il principio di responsabilità, per contro fortissimi rischi di inefficiente e costoso neo-centralismo”. Evidente, del resto, nel trasferimento di poteri già delle regioni allo Stato centrale.

Per non dire del pasticcio della soppressione delle province, l’autentica realtà storica, ambientale, culturale ed economica dei territori. Semmai si dovevano abolire le regioni, enti inutili e costosi, che gestiscono, come sappiamo, quasi esclusivamente i fondi del Servizio Sanitario Nazionale, sostanzialmente vincolati. Che senso ha avere un ente che decide solo sul 5-10% dei propri bilanci?

Preoccupa soprattutto il cambiamento surrettizio della forma di governo che si avvia a costituire una sorta di “Premierato assoluto” fondato su una legge l’Italicum che, con il premio di maggioranza di cui si è visto, consentirà al partito egemone di decidere in merito a tutte o quasi tutte le cariche istituzionali, dal Presidente della Repubblica ai giudici costituzionali, ai componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.

Nello spazio funzionale alla testata che pubblica queste riflessioni non c’è spazio per specifici approfondimenti che riserviamo a singoli contributi. Ma non può non rilevarsi che questo voluto da Renzi è stato il peggior modo di riscrivere la carta di tutti, attraverso molteplici forzature di prassi e regolamentari che hanno determinato nelle Aule di Camera e Senato spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo al voto finale con una maggioranza racimolata e occasionale. Un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale che ha “osato”, diranno gli storici del diritto, cambiare nientemeno che la Carta fondamentale dello Stato, un Parlamento che in quasi tre anni ha visto ben 244 membri (130 deputati e 114 senatori) cambiare Gruppo principalmente per sostenere all’occorrenza la maggioranza (in linguaggio politico si chiama inciucio), utilizzando gli strumenti parlamentari acceleratori più estremi, delineando un vero e proprio sopruso nei confronti delle garanzie e delle prerogative riconosciute in un ordinamento democratico alle minoranze.

Ed è grave che la Costituzione del 48, che certamente necessitava di essere riformata, venga alterata nella parte migliore della nostra tradizione costituzionale. Ne sono consapevoli anche i fautori del SI i quali scrivono che “il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie”, come se si trattasse di una legge ordinaria che è possibile modificare ed integrare con un semplice codicillo. Basti questo per segnalare la gravità di quello che si propone agli italiani dicendo fra l’altro, con straordinaria ipocrisia, che potranno approfondire il testo e così decidere come votare . Una presa in giro. Chi è in condizioni di approfondire un testo complesso e pasticciato come questo per poi decidere? Anche sotto questo profilo è innegabilmente leso il diritto politico degli italiani.

25 maggio 2016

Non è così in Italia

In Svezia “trasparenza totale” per battere la corruzione

di Salvatore Sfrecola 

“Trasparenza totale” è la ricetta adottata nel Regno di Svezia per battere la corruzione. Lo ha riferito Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), che, intervenendo ad un Convegno sui “Valori morali ed etica pubblica: presupposti per il perseguimento del bene pubblico in una società solidale” organizzato dal Gruppo di Presenza Cattolica della Corte dei conti, in un dialogo con il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, ha richiamato quanto gli aveva detto di recente il ministro della funzione pubblica di quello stato lassù, in cima all’Europa, in testa ai paesi più virtuosi secondo Transparency International, l’Istituto che rileva la percezione della corruzione, una realtà molto lontana da quella che relega l’Italia in coda alla medesima statistica.

Chissà che effetto avrà fatto quella regola svedese risuonata nell’Aula delle Sezioni Riunite della Corte dei conti, laddove i magistrati contabili ripetutamente denunciano l’opacità delle pubbliche amministrazioni, vizio antico del potere arrogante, ostile ad assoggettarsi al controllo di legalità. Anche in tema di accesso agli atti sempre riguardato dal destinatario della relativa istanza come un atto di lesa maestà, cui si aderisce spesso con fastidio, cercando di ritardare il più possibile la consegna degli atti, perché intuitivamente destinati all’esercizio della tutela giurisdizionale in presenza di un provvedimento ritenuto lesivo di diritti.

Anche da noi, infatti, la legge n. 190 del 2012 prevede la trasparenza amministrativa quale strumento di prevenzione della corruzione, come attesta sui siti delle amministrazioni e degli enti la pagina “amministrazione trasparente” dove spesso si rilevano significative omissioni.

“Trasparenza vo cercando”, si potrebbe dire a leggere oggi Il Fatto Quotidiano che si sofferma, in uno scritto di Thomas Mackinson, sul testo dell’ultimo decreto sulla trasparenza, firmato Madia, nel quale l’attento giornalista rileva un neo non di poco conto, che esenta dalla pubblicazione gli atti relativi agli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni a titolo gratuito, “ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. Letta superficialmente, come il potere vorrebbe che facessero gli italiani, la norma sembra neutrale, quasi logica. Il consulente scelto “discrezionalmente”, cioè senza riferimento a requisiti di professionalità (titolo di studio, esperienze pregresse), non è pagato a carico del bilancio dello Stato, quindi perché preoccuparsi del suo curriculum professionale e personale? Sennonché altro è l’interesse pubblico. In primo luogo il consulente che assiste e consiglia il politico di fatto si inserisce in procedimenti amministrativi diretti all’adozione di scelte dell’Amministrazione per cui ha un ruolo è rilevante in ragione del quale, in assenza della pubblicazione dei dati personali, potrebbe non rilevarsi una sua situazione di incompatibilità o di conflitto di interessi per attività pregresse o coesistenti. Inoltre è poco credibile che un professionista si impegni in un lavoro senza retribuzione. È evidente che, proprio in ragione della sua collaborazione gratuita con un “organo di indirizzo politico”, sarà compensato, come insegna l’esperienza di chi conosce la storia delle pubbliche amministrazioni, con “altra utilità” (un’espressione che significativamente il legislatore identifica all’art. 318, c.p. quale compenso per la corruzione) con altri incarichi per i quali la consulenza “gratuita” farà premio su possibili concorrenti in un continuum politica-amministrazione che è la negazione stessa della trasparenza. In quanto, come scrive Il Fatto Quotidiano la nuova normativa “fa calare un velo proprio sugli incarichi che, in assenza di un compenso in denaro, meglio si prestano a contropartite poco chiare”.

Del resto la storia del potere in Italia espone un catalogo ricchissimo di utilità conseguite all’ombra del potere. Ma anche di comportamenti virtuosi. Ancora una volta ricordo in proposito la lettera di Quintino Sella, in procinto di diventare Ministro delle finanze del Governo Rattazzi, il quale scrive al nonno per segnalargli che dal giorno del suo giuramento “le imprese di famiglia dovranno ritirarsi dagli appalti pubblici”. Altri tempi, altro stile!

21 maggio 2016

In un appello a Mattarella la denuncia di Zagrebelsky

Indebite pressioni del Governo per il SI al referendum

di Salvatore Sfrecola

L’appello, autorevolissimo, è diretto al Capo dello Stato. Lo fa Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte costituzionale, uno dei massimi costituzionalisti italiani, da sempre orientato a sinistra. Il quale, in occasione della presentazione a Torino, al Salone del Libro, del volume di Salvatore Settis, Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla, si rivolge, “con rispetto” al Presidente Mattarella affinché dica “al presidente del Consiglio che chi governa non può legare la sua sorte all’esito del referendum costituzionale”. Così attuando una forma di pressione indebita che fa comprendere quale sia il modo di intendere la democrazia da parte di Matteo Renzi.

Le ragioni dell’appello al Presidente della Repubblica sono fondatissime e muovono dalla considerazione che il referendum è “del popolo” e non “del governo”, così come del Parlamento e non del governo doveva essere la riforma costituzionale, ancorché a promuoverla fosse il partito del premier. Ed è facile tornare all’esperienza della Assemblea Costituente quando il dibattito in aula vedeva il banco del governo sistematicamente vuoto, convinti com’erano i padri costituenti e l’esecutivo che la costituzione fosse un atto proprio dell’assemblea. È accaduto il contrario con il governo Renzi, nel corso delle letture, che l’articolo 138 della Costituzione impone ad ogni modifica della Carta fondamentale, che il Premier ed il ministro delle riforme Maria Elena Boschi siano stati attori in prima linea della riforma costituzionale. Così facendo intendere che ad essa legavano le sorti del governo e della maggioranza che, sulla base del combinato disposto, come si usa dire, della riforma e della nuova legge elettorale, l’Italicum, consente al partito che vince le elezioni  di conquistare quell’ampio potere, per certi versi assoluto, che discende dal premio di maggioranza con la possibilità di eleggere, senza il concorso di altre forze politiche, il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e i membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura.

Quell’impegno improprio in sede di dibattito parlamentare oggi si ripropone nella campagna referendaria, nella quale il Presidente del Consiglio si spende in favore del SÌ, non come qualunque altro politico ma facendo intendere agli italiani che il voto negativo sulla riforma costituirebbe una bocciatura del governo con conseguenti sue dimissioni. Ed anche se, sul piano giuridico, questo collegamento è privo di qualunque fondamento costituzionale non c’è dubbio che l’essersi impegnato in prima persona nella riforma della Costituzione costringe oggi Renzi a prospettare in quel modo l’eventuale esito negativo della consultazione di ottobre per galvanizzare i suoi seguaci e confondere le idee degli italiani che quella riforma poco conoscono, essendo stato loro prospettato, tra l’altro, quasi solo un risparmio di spesa che all’evidenza è, in ogni caso, modesto essendo sufficiente considerare che, avendo ridotto i senatori da 315 a 100, un numero assolutamente congruo (si pensi soltanto che gli Stati Uniti d’America, con una popolazione di molto superiore alla nostra,  hanno un identico numero di senatori), ha mantenuto 630 deputati, certamente eccessivi. E senza considerare che le istituzioni della Repubblica non possono essere valutate per quanto costano ma per quanto la loro presenza giova al buon andamento della democrazia. Ciò che non è assolutamente dimostrato leggendo la pasticciata riforma che ci viene proposta.

“Ci va di mezzo la democrazia”, dice infatti Zagrebelsky, spiegando come le pressioni del governo e del premier si accompagnino alla previsione di  scenari drammatici in caso di sconfitta in un referendum che segue ad una campagna elettorale per il rinnovo di sindaci e consigli comunali che vede il partito democratico in forte affanno sicché, sull’onda di quei risultati, è prevedibile che l’ampio schieramento di quanti propongono di votare NO possa riservare al governo ed alla maggioranza brutte sorprese. Nonostante l’impegno di Renzi che non ha esitato, come in altri casi, a dare alla sua polemica il tratto sgradevole dell’offesa personale, come quando ha apostrofato i giuristi favorevoli al NO “archeologi travestiti da costituzionalisti”, rivolta agli stessi, tra cui proprio Gustavo Zagrebelsky, che Maria Elena Boschi, all’inizio del percorso parlamentare della riforma, aveva definito “professoroni” con evidente disprezzo, un atteggiamento che non si confà a chi riveste incarichi di governo, non dico a statisti, perché parliamo di persone modeste e di pochi studi la cui cultura giuridica è attestata in modo inequivoco dalla lettura della Gazzetta Ufficiale dove si leggono provvedimenti legislativi e amministrativi nei quali oltre al diritto assai spesso anche l’italiano è una variabile indipendente.

Tornando all’appello al Capo dello Stato non è dubbio che esso sia indirizzato a chi ha il dovere di assicurare un corretto esercizio dei diritti tra i quali indubbiamente vi è quello di esprimere il voto sulla riforma costituzionale in piena serenità e consapevolezza della scelta, senza pressioni indebite che costituiscono un vero e proprio ricatto nei confronti dei cittadini. Per cui l’appello contro “l’ideologia della rassegnazione”, come ha scritto Zagrebelsky nell’epilogo del suo bel libro “Moscacieca”, nonostante si debba constatare che oggi “negli organi di governo, nelle posizioni-chiave, siedono ormai solo uomini di fiducia dell’oligarchia finanziaria globalizzata”.

16 maggio 2016

Se l’università non prepara per la professione:

a colloquio con un giovane laureato in giurisprudenza

di Salvatore Sfrecola

Un colloquio di alcuni giorni fa con un giovane laureato in giurisprudenza in cerca di lavoro mi ha confermato una valutazione negativa del rapporto università-professione del quale sono consapevole da tempo, prima come studente, più di recente, come docente. Il giovane in cerca di lavoro, una brillante laurea, un master importante, la partecipazione ad attività didattiche, mi ha rappresentato la difficoltà di trovare un posto di lavoro in realtà privatistiche perché alla domanda, che gli viene sistematicamente rivolta sulla sua esperienza non può esibire altro che quella maturata nei corsi e nei master che ha effettuato. Poco, troppo poco in assenza di una esperienza professionale maturata presso uffici pubblici o privati.

Naturalmente formulata così, la domanda di chi conduce la selezione, compito non facile che comporta la capacità di intuire le attitudini e le potenzialità del candidato al di là del freddo linguaggio di un curriculum, non corrisponde alle aspettative reali di chi intende reclutare un venticinquenne. È evidente, infatti, che il giovane laureato non ha e non può avere una significativa esperienza lavorativa. Anche uno stage non è un vero e proprio lavoro, è meno di un apprendistato, assicura certamente una esperienza ma indubitabilmente limitata e comunque non significativa. Solamente una collocazione che prevede un impegno e delle responsabilità, sia pure circoscritte, assicurano che la formazione richiesta abbia la necessaria consistenza. Eppure non c’è dubbio che, rimanendo alla Facoltà di giurisprudenza, si rilevano gravi carenze sotto il profilo della preparazione dello studente all’impatto con il mondo del lavoro. Le lezioni ed i seminari, che danno una preparazione teorica significativa agli studenti trascurano alcuni aspetti che sono essenziali nella formazione del giovane nel momento in cui cercherà un impiego. In primo luogo, tranne casi rarissimi, nessuno studente è chiamato ad effettuare elaborazioni scritte se si esclude la compilazione della tesi di laurea. Alla quale arriva avendo in precedenza scritto l’ultima volta al liceo quando era chiamato a svolgere temi di critica letteraria, storia della letteratura, arte, storia. Il giovane che si appresta a redigere la sua tesi di laurea non ha mai scritto su temi di diritto e quindi, pur avendo letto molto trova sicuramente gravi difficoltà nella stesura del documento, tanto da rimanere sulle prime smarrito. Il linguaggio giuridico ha sue peculiarità che vanno affinate col tempo perché una sentenza o una memoria di costituzione non è necessariamente un orrore linguistico fatto di ripetizioni, assonanze e orribili neologismi forensi. Inoltre quello studente, nella maggior parte dei casi, non è stato educato a fare delle ricerche, a consultare le banche dati di dottrina e giurisprudenza e il più delle volte non ha neppure sfogliato una rivista giuridica della quale non conosce neppure il titolo, non ha visto, non dico letto, una sentenza né un’ordinanza e neppure un atto amministrativo, una istanza di accesso agli atti, una domanda di autorizzazione né un provvedimento adottato dall’autorità amministrativa e soggetto ad impugnazione davanti al giudice amministrativo. Nessuno avrà messo davanti a lui gli atti di una procedura concorsuale diretta alla stipula di un contratto di appalto di lavori o di fornitura di beni e servizi, l’attività più consistente delle pubbliche amministrazioni, quella che impegna una parte significativa delle risorse dei bilanci pubblici. Una materia che impegna quotidianamente i giudici civili, amministrativi e contabili e, di recente, sempre più spesso quelli penali.

Questa carenza informativa generalizzata fa sì che il giovane laureato, che non avrà certamente una preparazione pratica come quella che deriva dalla frequentazione di uno studio legale, di una segreteria giudiziaria o di un ufficio comunale o statale, sarà privo anche di quella preparazione teorica che attiene all’impatto quotidiano con la realtà delle leggi, delle sentenze degli atti dell’amministrazione. Con la conseguenza che si vedrà eccepita la mancanza di esperienza da un soggetto privato ma avrà anche una difficoltà di accedere ad uno studio legale perché, alla prima richiesta di come si fa una ricerca giurisprudenziale o di come si redige una memoria di costituzione in giudizio, probabilmente avrà non poche difficoltà.

Questa carenza dell’Università, che è antica, diviene tanto più grave nel momento in cui la ricerca di un posto di lavoro diventa sempre più difficile per un giovane in una realtà occupazionale complessa, dove i posti di lavoro sono pochi, remunerati pochissimo, più spesso quasi gratuiti e dove la richiesta di un’esperienza pregressa, che comunque è sempre difficile per un giovane appena laureato, si unisce alla richiesta di conoscenza della lingua straniera, normalmente l’inglese, non facile da maneggiare perché anche su questo la scuola italiana ha gravi carenze. La lingua di Sua Maestà Elisabetta II, facile nella grammatica, è in realtà difficile nella pronuncia. Devo dire, ad esempio, che nella mia esperienza, nei contatti con autorità diplomatiche italiane e straniere, ho notato che è difficile trovare chi abbia la capacità di dialogare in modo fluente. Inadeguata la preparazione delle scuole medie superiori, leggermente migliore quella delle università che spesso hanno docenti di madrelingua. Comunque nel complesso chi non ha la possibilità di soggiorni prolungati sulle rive del Tamigi e dintorni è difficile possa superare un colloquio in lingua inglese che spesso avviene, in una seconda fase della selezione, anche telefonicamente, prova assai più ardua e più selettiva.

Le considerazioni che nascono dall’esperienza e che sono state stimolate dal colloquio con il giovane laureato in cerca di lavoro dimostrano che, al di là degli slogan e delle dichiarazioni di principio di autorità pubbliche la scuola in generale e specialmente l’università ha bisogno di una riflessione profonda e di un adeguamento alle esigenze di una didattica che sia anche protesa verso la pratica verso quegli elementi di preparazione che consentono di avvicinarsi con maggiore sicurezza al mondo del lavoro. È vero che molti docenti hanno scelto la strada delle visite a Tribunali ed a Corti, ma questo non è sufficiente per sviluppare una conoscenza utile a fini professionali. Sono stati anche previsti degli stage. Ne ho promossi presso la Corte dei conti quando insegnavo Diritto amministrativo europeo alla LUMSA. Ho fatto conoscere alle persone che mi sono state assegnate biblioteca, archivi, segreterie in modo che avessero la possibilità di rendersi conto anche visivamente di come si lavora in un ufficio giudiziario tra l’altro con importanti attribuzioni di controllo su enti di diverse dimensioni e ruoli. È qualcosa, certamente, ma non è sufficiente. È necessario che i docenti, utilizzando anche i loro collaboratori di cattedra, assistenti e ricercatori, introducano realmente con delle simulazioni di attività giudiziarie o amministrative i loro studenti sulla via della professione, facendo sì che quel che hanno imparato sui libri, dove la dottrina insegue le leggi e sentenze, diventi viva conoscenza di come si lavora attraverso la guida di persone con esperienza, considerato che nella maggior parte dei casi i ricercatori, gli assistenti, i tutor svolgono anche attività professionale nei Tribunali, nelle Corti o nelle Amministrazioni.

Si tratta di iniziative tutto sommato semplici, facili da organizzare, idonee a perseguire quello scopo che dovrebbe essere proprio dell’Università, cioè assicurare agli studenti una preparazione, scientifica e pratica, adeguata alle esigenze professionali alle quali saranno chiamati nel mondo del lavoro.

Non potrei chiudere queste riflessioni originate dal colloquio con il giovane laureato se non facessi cenno, insieme alle carenze denunciate, da me individuate già al tempo dei miei studi universitari, anche un’ulteriore accusa che egli muove al nostro sistema scolastico, quella che la cultura della quale la scuola media superiore fornisce i nostri studenti attraverso lo studio della lingua e della letteratura italiana, del latino e del greco, della filosofia, della storia e delle materie scientifiche, sia in gran parte inutile per le prospettive di lavoro. Non è vero. Non è assolutamente vero, come insegna l’esperienza. La cultura, intesa come formazione a tutto campo attraverso l’acquisizione di conoscenze varie, soprattutto di quelle pertinenti alla nostra tradizione, in un quadro di solida formazione, costituisce la base sulla quale costruire la specializzazione universitaria. Ho, infatti, constatato nel corso degli anni come la padronanza della lingua italiana e la formazione classica siano fondamentali nello scritto come nei rapporti con le persone, collaboratori e superiori e interlocutori in genere. Costituiscono un valore aggiungo che in un colloquio diretto all’assunzione fa la differenza.

Quella base culturale è stata sempre la forza della nostra scuola. Del resto nelle scuole estere importanti la formazione di base è affidata a un percorso scolastico che ha le caratteristiche proprie della nostra formazione classica, ovunque negli istituti di maggiore rilievo.

Ricordo, al riguardo, una intervista televisiva fi alcuni anni fa a Furio Colombo, all’epoca corrispondente de La Stampa dagli Stati Uniti che lì viveva e lì studiavano le sue figlie. Alla domanda dell’intervistatore sulle scuole che frequentavano rispose “una scuola classica”. Ed alla domanda dell’intervistatore su cosa significasse quell’espressione nel paese della tecnologia più avanzata Colombo rispose: “Una scuola classica, studiano latino e greco”.

Forse quel brillante laureato in giurisprudenza mio interlocutore non si è reso conto del patrimonio che la scuola gli ha fornito e che forse non ha saputo valorizzare nei colloqui (un po’ di umiltà è indice di intelligenza) ed, amareggiato per non aver ancora trovato lavoro, lo addebita all’impegno della scuola media superiore nell’insegnamento di Dante e di Petrarca, di Giotto e di Michelangelo. Per concludere semplicisticamente “non serve”. Probabilmente altro è il problema.

16 maggio 2016

Renzi confuso tra Costituzione e Vangelo

di Salvatore Sfrecola

“Ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo”. A parte l’intrinseca volgarità della frase, il Presidente del Consiglio Segretario del Partito Democratico dimostra una inammissibile ignoranza per chi ricopre una elevata funzione istituzionale ed una colpevole semplificazione. Quella di ritenere che le questioni attinenti alla famiglia, al suo  ruolo nella società e, pertanto, ai suoi diritti, sia un problema religioso, in specie cattolico, come dimostra l’improprio riferimento al Vangelo. Visione distorta della realtà ma, purtroppo, diffusa nella classe politica, spesso frenata nella determinazione di misure di sostegno alle famiglie, specie a quelle numerose, nella convinzione che in tal modo si faccia un piacere alla Chiesa, anzi, per molti, “al Vaticano”.

Il Presidente del Consiglio, che sul documento ha giurato, dovrebbe ben conoscere la Costituzione che alla famiglia dedica norme importanti, le quali costituiscono un riferimento essenziale per il legislatore ordinario, quello, appunto, che ha votato la legge sulle cosiddette “unioni civili”, ignorando, è la tesi di chi si prepara a raccogliere le firme per un referendum abrogativo, i parametri di riferimento essenziali scritti nella Carta fondamentale dello Stato. Precisò, infatti, l’On. Tupini, in Assemblea Costituente, a nome della Commissione per la Costituzione, che il progetto constava “di due elementi fondamentali: uno di carattere normativo assoluto, l’altro di direttive al futuro legislatore perché vi si conformi e vi si adegui…”.

Ed ecco l’impianto. Cominciamo con l’art. 29, che apre il Titolo II dedicato ai “rapporti sociali”, dove si legge che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” che, precisa il secondo comma, “è ordinato all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Regole innovative che avrebbero dovuto, come precisato dall’on. Mortati e come è avvenuto, modificare il codice civile che all’epoca quella eguaglianza non assicurava in toto.

Qualificando la famiglia come “società naturale”, della quale lo Stato “riconosce” i diritti, il Costituente ha inteso prendere atto che essa, come ebbe a precisare l’on. Moro, “ha una sua sfera di ordinamento autonomo nei confronti dello Stato”, “un ordinamento di diritto naturale”, disse l’on. La Pira, al cui insegnamento Renzi afferma spesso di ispirarsi, un ordinamento che preesiste allo Stato, alla sua costituzione ed alle norme che lo disciplinano. Un dato storico, come insegnano quanti si sono occupati di ricostruire le vicende degli insediamenti umani ovunque sul pianeta, individuando modalità di formazione delle famiglie e delle regole che le riguardano individualmente ed in rapporto alle altre famiglie con le quali nel tempo si forma quell’“ordinamento generale” che più tardi si chiamerà stato.

Ma la Costituzione non ha soltanto le norme assolute, come abbiamo visto ricordare dall’on. Tupini, dà anche direttive al legislatore in forma che delineano chiaramente il ruolo della famiglia. Infatti nell’art. 30 si legge che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, ai quali “la legge assicura… ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”. Se ne deduce che la famiglia è ordinata in via prioritaria alla procreazione, all’istruzione e alla educazione dei figli che sono i futuri cittadini italiani, i futuri lavoratori, il cui ruolo nella società la Costituzione individua e intende tutelare. Infatti all’art. 31 “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”, precisando, al secondo comma, che “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Un bel pacchetto di indicazioni al legislatore molte delle quali, la gran parte delle quali, ignorate, come dimostra la legislazione fiscale che in nessun modo agevola le famiglie, così contravvenendo palesemente alla disposizione che impone l’adozione di misure dirette alla “formazione della famiglia” e all’adempimento dei compiti connessi. Ciò che è stato fatto e viene fatto in altri ordinamenti che, proprio per effetto delle agevolazioni assicurate ai nuclei familiari, hanno visto un consistente incremento delle nascite che in Italia invece, purtroppo, sono da tempo in calo.

Tutti sanno, perché se ne parla spesso, che altri paesi, i quali hanno a cuore il mantenimento della società con le sue caratteristiche culturali e storiche, dalla Francia alla Svezia alla Norvegia, per citare solo i più noti e con tradizioni diverse, in vario modo agevolano nuove famiglie escludendo dall’imposizione fiscale le spese per il mantenimento dei figli, assicurando una scuola gratuita (compresi i libri di testo) e capace di formare i futuri professionisti. Con agevolazioni economiche ai giovani fino all’ingresso nel mondo del lavoro.

Tutto questo non è, all’evidenza, un problema religioso, come il nostro premier vorrebbe far intendere, tanto è vero che in Assemblea Costituente, che si apprestava a votare articoli successivi a quelli che richiamano i Patti Lateranensi, fu respinta la proposta di affermare l’indissolubilità del matrimonio ritenendo quell’istituto più pertinente al profilo religioso, anche se l’on. Iotti (PCI, antenato del PD) affermò di non essere contraria “a fissare tale principio nella legge ordinaria”.

Il Premier ignora comunque che la stragrande maggioranza degli italiani, al di là del credo religioso, si riconosce nelle norme della Costituzione, nei suoi principi e nelle sue direttive. Gli italiani certamente vorrebbero fare più figli se lo Stato fosse consapevole del ruolo della famiglia, assicurando a tutti quelle agevolazioni che la Costituzione prevede, convinti che l’istruzione e l’educazione dei figli sia un dovere primario dello Stato rispetto alla società.

Ancora una volta con una buona dose di arroganza, che sempre si accompagna alla scarsa conoscenza di ciò di cui si parla, il Presidente del consiglio divide gli italiani in modo artificioso per guadagnarsi un pugno di voti trascurando che altri, molti, ne perderà a breve, anche per questo suo atteggiamento, e quando sarà posta ai voti popolari quella riforma della Costituzione che così palesemente dimostra di non conoscere o di voler ignorare.

13 maggio 2016

Mostra i muscoli per compattare una maggioranza incerta

Renzi e la mozione di fiducia: debolezza e arroganza di un leader

di Salvatore Sfrecola

Straordinaria vignetta di Giannelli oggi sul Corriere della Sera dal titolo Peccati Democratici con Renzi che confessa ad un sacerdote, che ha le sembianze di Mattarella, “non ho resistito alla tentazione di chiedere la fiducia”. Il Presidente-confessore lo interroga: “quante volte figliolo? Quante volte?”. Tante, viene da dire a noi osservatori, troppe in una democrazia parlamentare nella quale il Governo resta in carica fino a quando gode della fiducia delle Camere. Fiducia nel programma di Governo “che ha già avuto una investitura elettorale” (Manzella). Bastano queste poche parole di uno dei massimi studiosi del Parlamento per rendere evidente che  siamo fuori dalle regole costituzionali. Infatti il provvedimento oggetto della mozione di fiducia non faceva parte del programma del governo sul quale a suo tempo si sono espresse le Camere e il Governo non ha avuto sul punto una investitura elettorale.

Si comprende, dunque, la vivace polemica delle opposizioni ed i “mal di pancia” di parti significative della maggioranza in quanto l’anomalia, gravissima, di un voto di fiducia su un provvedimento che non è di iniziativa del governo, altera il ruolo dello strumento usato, attraverso il quale i governi ricompattano la loro maggioranza attraverso un voto su un provvedimento qualificante del programma che ha lo scopo di verificare che permanga il consenso che ne giustifica l’esistenza.

Con il ricorso improprio alla mozione di fiducia il Presidente del Consiglio ha voluto forzare la mano dei parlamentari della sua maggioranza, nonostante questa sia numerosissima e quindi capace di affrontare il voto anche senza bisogno della pressione del voto di fiducia. Che, in realtà, dà dimostrazione della “sfiducia” del Premier Segretario del Partito Democratico nella sua maggioranza, un segnale di debolezza considerato anche che Renzi aveva promesso di liberare i suoi parlamentari dal vincolo di partito trattandosi, nella specie, del voto su un provvedimento eticamente rilevante e significativo.

L’uso della forza, come insegna la storia, non solamente parlamentare, quando non necessaria è quasi sempre dimostrazione di debolezza. Chi ha la forza dei numeri, come in questo caso, non dovrebbe ricorrere ad uno strumento che ha come unico effetto quello di strozzare il dibattito parlamentare, evitando qualunque confronto di idee. Una scelta pensata per un esecutivo che teme di non godere più del consenso necessario per continuare a governare. Accade invece che da alcuni anni si sia abusato del ricorso al voto di fiducia, abuso al quale ha fatto ampio ricorso l’attuale Presidente del consiglio. In questo modo si delinea una trasformazione della Repubblica parlamentare incentrandosi di fatto ogni iniziativa legislativa rilevante nel governo anche quando la proposta nasce da un parlamentare. È una grave lesione del principio (art. 70 Cost.) secondo il quale la “funzione legislativa” è esercitata dalle Camere, tanto più grave quando viene esercitata in presenza di una maggioranza rilevante come in questo momento alla Camera a favore del governo Renzi. Al voto di fiducia si sono affidati anche governi precedenti, ma in casi più contenuti e sempre per provvedimenti d’iniziativa governativa. Anche il governo Berlusconi era stato criticato per il ricorso alla mozione di fiducia, avendo quel governo la più ampia maggioranza parlamentare della storia repubblicana. Ma quella maggioranza, di nominati e scelti senza attenzione all’esperienza ed al merito, era a tratti inaffidabile. Ed è quello che accade oggi. Per cui il premier mostra i muscoli. E se si considera che questo comportamento è posto in essere da chi si è fatto promotore della riforma costituzionale che di fatto concentra direttamente o indirettamente nel governo, anche quale effetto dell’Italicum, un porcellum elettorale riveduto e corretto, ampi poteri di legislazione e di gestione c’è da temere per la democrazia parlamentare che può piacere o no ma è senza dubbio la sola che assicura una adeguata rappresentanza al popolo.

Al riguardo sono state particolarmente puntuali alcune considerazioni di Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti e Vasto, il quale, in una intervista al Corriere della Sera di oggi, a proposito del voto di fiducia sulla legge sulle unioni civili, ha affermato esplicitamente che “la democrazia è tale se su tutte le questioni - ma specialmente su quelle che hanno uno spessore etico e ricadute sociali e culturali - c’è la possibilità di portare e discutere tutti gli argomenti, pro e contro, e valutarli in un dibattito libero e aperto”. E alla osservazione di Gian Guido Vecchi, che lo ha intervistato, secondo il quale “se ne discuteva da anni”, il prelato risponde “vero, ma è proprio nel momento in cui si arriva al voto che tutti hanno il sacrosanto diritto di esprimersi. Mi pare scorretto, tanto più in questo caso: sui temi etici le posizioni sono trasversali rispetto agli schieramenti. Se si vuole ricompattare con un sì o con un no, si fa un danno a tutti”.

E trasversali erano le opinioni dei parlamentari sulla riforma costituzionale, essendo in discussione ipotesi diverse, tratte dalla dottrina costituzionalista e dall’esperienza di altri paesi. Esempi sempre da tenere presenti sia pure considerate le diversità storiche e antropologiche dei vari popoli. Non si è voluto discutere e chi si è opposto non ha avuto risposte ma spesso solamente insulti, dall’epiteto di “professoroni” affibbiate da Maria Elena Boschi ai vari Zagrebelsky, Rodotà, Gallo e Azzariti, alla qualificazione di “archeologi” dallo stesso Renzi attribuita loro in quanto presunti fedeli del Codice di Hammurabi. Certo lui non lo ha letto. Ma è già un fatto positivo che ne abbia sentito parlare.

12 maggio 2016

Ben più della scelta dei sindaci

Le elezioni del 5 giugno sono un test sulla politica del Governo

di Salvatore Sfrecola 

Ha un bel dire Matteo Renzi che il 5 giugno alcuni milioni di italiani saranno chiamati a scegliere soltanto Sindaci e Presidenti di Municipi per amministrare città e quartieri. Per cui il test elettorale nulla avrebbe a che fare con il suo governo. Lo ha smentito in modo chiarissimo Stefano Fassina questa mattina ad OmnibusLa7 ricordando come i problemi dei comuni, quelli con i quali gli amministratori hanno a che fare quotidianamente, dalle buche al trasporto locale, dalla raccolta dei rifiuti al decoro urbano, sono significativamente aggravati dal fatto che Governo e Parlamento nel corso degli anni hanno progressivamente fatto scontare a comuni e province le difficoltà finanziarie dello Stato centrale. Ciò ai fini del rispetto del patto di stabilità interno e degli impegni assunti in sede europea, senza che sia stata avviata una riforma dell’amministrazione e della finanza degli enti locali, tra l’altro gravati da adempimenti che costituiscono voci di costo pesanti per i rispettivi bilanci.

Naturalmente non tutte le difficoltà dei comuni vanno addebitate ad errori od omissioni dello Stato. Buona parte dell’inefficienza dei comuni sono conseguenza delle cattive amministrazioni locali che non hanno saputo passare dai rimborsi statali sostanzialmente a piè di lista ad un regime di responsabilità finanziaria idoneo ad offrire servizi nell’ambito delle risorse disponibili, risparmiando dove possibile e gestendo in modo corretto ed economicamente proficuo ad esempio il patrimonio immobiliare, spesso dato in locazione a canoni assolutamente fuori mercato. Il caso di Roma, dove l’Amministrazione capitolina non sa quanti appartamenti ha, quanto e se pagano gli inquilini tenuti a canoni vecchi di decenni, non è solamente della capitale. Un autentico scandalo che fa immaginare intese fraudolente con funzionari ed amministratori quando non colpevoli omissioni, casi accertati un po’ dovunque in Italia, spesso oggetto di indagini da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. Che hanno portato a condanne nei confronti degli amministratori disattenti o dei funzionari complici.

La finanza locale, dunque, va riformata come parte essenziale della finanza pubblica e nel quadro dell’unità economica della Repubblica. Una sfida importante che non si affronta con le misure spot alle quali ci ha abituati il premier a fini di consenso elettorale e per distrarre l’attenzione degli italiani dalle difficoltà che giorno dopo giorno assillano un numero sempre più vasto di cittadini. Mentre s’intravedono all’orizzonte nuove stangate per i pensionati, in primo luogo.

Per questo le elezioni comunali sono inevitabilmente un test sul governo e sulla sua maggioranza che ha dato pessima prova di se, non solo per gli scandali che qua e là per l’Italia hanno messo sotto accusa amministratori assolutamente inadeguati ma sempre proni agli interessi dei settori economici di riferimento, ma soprattutto per l’incapacità di immaginare, al di là delle frasi ad effetto, che questo è effettivamente il Paese più bello del mondo che va in malora per una lunga serie di governanti incapaci di guardare al futuro, governi tra i quali spicca l’attuale che, a differenza degli altri che non facevano neppure finta di volere, cerca di confondere le idee agli italiani illudendoli che sia “la volta buona”. Auspicabile se il risultato delle elezioni dirà loro in modo inequivocabile che è ora vadano a casa.

8 maggio 2016

Dirigenti, generali, magistrati

Conflitti di interessi e illecite contiguità

di Salvatore Sfrecola

Con l’espressione conflitto di interessi l’opinione pubblica identifica normalmente situazioni diverse, di interferenza tra interessi pubblici e privati solo parzialmente corrispondenti a quelle previste dalle leggi che tutelano il corretto esercizio di funzioni pubbliche. La gente, infatti, si preoccupa che non si verifichino situazioni anche solo potenzialmente capaci di determinare influenze negative sulla gestione delle pubbliche amministrazioni con conseguente deviazione dalle finalità istituzionali e dispendio di denaro pubblico. E si sofferma sulle vicende professionali di alcuni alti esponenti delle pubbliche Amministrazioni che destano perplessità.

Vediamo qualche esempio. Accade da molto tempo che personalità che hanno operato con funzioni di vertice nelle amministrazioni pubbliche, alti dirigenti dello Stato, delle regioni e degli enti locali, gradi elevati delle Forze Armate ed anche magistrati con importanti funzioni requirenti o giudicanti, all’atto del pensionamento, quando non si avviano verso qualche libera professione, vengano impiegati in imprese, pubbliche o private, quali amministratori o consulenti, in ragione dell’esperienza a lungo maturata negli uffici pubblici. Naturalmente ci riferiamo ad attività che vengono prestate, con funzioni di consulenza o di gestione, in strutture che operano nel settore degli appalti di opere pubbliche o di forniture di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni. Accade anche per alti gradi delle Forze Armate che hanno maturato importanti esperienze nell’approvvigionamento di materiali di carattere strategico, dagli armamenti alle infrastrutture tecnico scientifiche, i quali, dismessa l’uniforme, passino ad amministrare industrie che lavorano anche per l’Esercito, la Marina e l’Aeronautica. Ovviamente in linea di principio non c’è nulla di male nel fatto che imprese del genere si avvalgano della collaborazione di esperti, particolarmente qualificati, che ben conoscono le esigenze delle Forze Armate. Il dubbio, che costituisce per il cittadino motivo di giusta preoccupazione, è che la utilizzazione di queste professionalità derivi da una contiguità con l’attività già svolta in servizio. È evidente, infatti, che se ci fosse stato un condizionamento delle amministrazioni nella scelta delle forniture attraverso una persona di riferimento nella struttura pubblica si determinerebbe una situazione di conflitto che potrebbe aver determinato scelte distorte, effettuate nell’interesse non dello Stato ma dell’impresa. Per cui il successivo passaggio al privato, come dirigente o consulente, sarebbe il frutto di un non corretto esercizio di un ruolo istituzionale, che abbia assicurato vantaggi non dovuti all’impresa dal dipendente infedele. Ciò quando non si configurasse una vera e propria ipotesi delittuosa qualificabile come corruzione.

Ugualmente per i magistrati, i quali hanno svolto attività requirente o giudicante in una certa area geografica, sarebbe assolutamente inopportuno assumere un incarico di consulenza in favore di un’autorità politica o amministrativa i cui atti potrebbero essere stati oggetto di valutazione sotto il profilo della liceità/legittimità nella veste di pubblico ministero o di giudice. Situazione imbarazzante ove si trattasse, di un magistrato di una Procura della Repubblica al quale fossero state segnalate o denunciate irregolarità di un amministratore locale dal quale poi fosse chiamato a collaborare. Ma anche di un magistrato amministrativo che abbia deciso su questioni importanti di interesse per l’ente o per un appaltatore. Lo stesso può dirsi di chi ha svolto funzioni di revisore dei conti in rappresentanza di una pubblica amministrazione vigilante il quale andasse, all’indomani del collocamento a riposo, a fare il consulente presso l’ente già vigilato.

Naturalmente queste ipotesi possono essere solamente inopportune e non necessariamente illecite. L’utilizzazione dell’ex dirigente, dell’ex generale o dell’ex magistrato può avvenire senza che ci sia stata in passato alcuna sua complicità nei confronti dell’ente o dell’impresa con la quale, da pensionato, va a collaborare

La materia è molto delicata e attiene alla libertà di esercizio di una funzione professionale che non si può negare ad un dipendente pubblico a riposo, a meno che pretenda di svolgerla presso l’amministrazione appena lasciata. Ma questa ipotesi è stata disciplinata dalla legge e precisata da una circolare del Ministro Madia.

Le legittime aspettative dell’opinione pubblica alla chiarezza ed alla trasparenza, inducono ancora una volta a tornare alla storia, ad un esempio che sovente richiamo per essere espressione di un comportamento che indica straordinaria correttezza morale e istituzionale, quello del ministro delle finanze del 1862, Quintino Sella. Chiamato all’incarico governativo ed in vista del giuramento di fedeltà al Re, Sella, si rivolge al nonno, il patriarca della famiglia, per segnalargli l’esigenza inderogabile che, da quel giorno, le imprese di famiglia si sarebbero dovute ritirare dagli appalti pubblici. Siamo in un periodo storico che costituisce il nerbo morale e politico dell’Italia risorgimentale, quando nella costituzione del nuovo Stato si impegnano personalità della politica e della cultura di elevatissimi valori morali. Quell’Italia e quegli uomini e le idee che hanno portato avanti negli anni sono espressione della cultura liberale che è l’unico patrimonio politico del nostro Paese, sopravvissuto al Fascismo e che ha permeato la primissima fase della Repubblica, rapidamente scivolata verso Tangentopoli. Oggi quelle idee, quei comportamenti sembrano lontanissimi e fanno quasi sorridere. Mentre dilaga la corruzione, della quale, come ha detto Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, oggi non si vergogna più nessuno, il nostro Paese sembra aver perso ogni riferimento morale, il senso della dignità della funzione che altrove è richiesta inderogabilmente per chi esercita un ruolo pubblico. Anche la nostra Costituzione richiama l’esigenza di comportamenti virtuosi, quando afferma, all’articolo 54, che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempiere con disciplina ed onore”. Tuttavia la sensibilità dei partiti e dei cittadini non è certamente uguale a quella che si registra in alcuni paesi, in Germania, ad esempio, dove non molto tempo fa il ministro della difesa, astro nascente del partito di maggioranza, ha sentito il dovere di dimettersi perché gli era stato contestato di aver copiato qualche pagina della sua tesi di laurea una ventina di anni prima. Immagino che a quella notizia, enfatizzata dalla stampa internazionale, molti politici di casa nostra abbiano sorriso. Chissà quanto hanno copiato, a cominciare dai banchi di scuola, laddove si dovrebbe insegnare e imparare ad essere dei cittadini rispettosi delle leggi. O come il parlamentare inglese dimessosi per aver addebitato alla moglie una contravvenzione stradale che invece atteneva ad una sua infrazione.

Con Quintino Sella siamo lontani nel tempo, giusto 154 anni dall’unità d’Italia, con gli esempi tedesco ed inglese siamo ai giorni nostri, a dimostrazione del fatto che la moralità pubblica non ha tempo. Ma in casa nostra la politica sembra non saper selezionare i migliori, quanto a professionalità ed a rigore morale. Forse perché a scuola non si insegna a diventare italiani. Lo diceva già Massimo d’Azeglio all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia: “pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani”. All’epoca poteva essere una constatazione prematura. Oggi è una realtà.

3 maggio 2016

Legalità e controlli

Come si favoriscono sprechi e corruzione

di Salvatore Sfrecola

Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, è stato perentorio. Intervenuto qualche sera fa ad Otto e Mezzo, la trasmissione de La7 condotta da Lilli Gruber, ha addebitato alla soppressione dei Co.Re.Co., i Comitati regionali di controllo sugli atti degli enti locali, avvenuta nel 2001, il dilagare della illegalità e degli sprechi di pubblico denaro. Infatti, in assenza di controlli è difficile individuare tempestivamente l’atto o la condotta fonte dell’illecito e del danno.

Previsti dalla legge 10 febbraio 1953, n. 62 (cosiddetta Legge Scelba) in attuazione dell’art. 130 della Costituzione, anche se hanno iniziato ad operare solo nel 1971, a seguito dell’attuazione dell’ordinamento regionale, i Comitati esercitavano un controllo preventivo di legittimità su tutte le deliberazioni dei consigli e delle giunte (art. 59) ai quali, all’epoca, era attribuita la competenza ad adottare la maggior parte degli atti amministrativi degli enti locali, così garantendo la legalità dell’azione amministrativa. Inoltre, quando rilevavano fatti i quali potevano costituire un pregiudizio finanziario o patrimoniale per l’ente, ne riferivano alla Corte dei conti. Alla quale, dalla loro soppressione, le denunce arrivano col contagocce (per non dire che sono pari a zero). Infatti, in presenza dei Co.Re.Co., sindaci e presidenti delle province non volevano correre il rischio di essere imputati di omissione di denuncia e quindi di essere coinvolti nella responsabilità amministrativa. Sapevano che il Comitato, individuata una ipotesi di danno erariale, lo avrebbe immediatamente denunciato. E si mettevano al riparo.

La legge 833/1978 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale) ha esteso i controlli dei Co.Re.Co. alle deliberazioni delle unità sanitarie locali (art. 49) e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (art. 42). Controlli poi soppressi dall’art. 4, comma 8, della legge 412/1991.

Nel frattempo la legge 142/1990 aveva ridotto gli atti sottoposti a controllo di legittimità, rendendolo obbligatorio solo per le deliberazioni riservate alla competenza dei Consigli (art. 45). Passano pochi anni e nel 1997 arriva un’altra sforbiciata: gli atti sottoposti a controllo sono ulteriormente ridotti dall’art. 17, comma 33, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (cosiddetta legge Bassanini-bis), poi recepito dall’art. 126 del d.lgs 18 agosto 2000, n. 267 (T.U delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che lo limita a statuti, regolamenti di competenza del consiglio, bilanci e rendiconti. Insomma solamente ad atti generali, con esclusione, dunque, degli atti di gestione, laddove si annidano spreco e corruzione.

Non bastava ai fautori delle “mani libere” (nonostante non fosse poi tanto lontana l’esperienza di “mani pulite”). E così i controlli vengono aboliti per effetto dell’emanazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di riforma del Titolo V della Costituzione e dell’abrogazione dell’art. 130 Cost. che ne aveva previsto l’istituzione. I Co.Re.Co. potevano essere mantenuti in vita, come era previsto, con funzioni consultive. Anche i pareri, evidentemente sono invisi. Mettono in evidenza errori ed omissioni. Così tutte le regioni hanno scelto di sopprimere i Comitati.

“Quello che nel bene e nel male era stato un sistema che aveva assicurato il buon funzionamento degli enti locali e l’oculato utilizzo delle risorse pubbliche – ha scritto l’Avv. Alfredo Lonoce www.studiolonoce.it - è apparso all’improvviso in contrasto con il sistema costituzionale delle autonomie locali”. Aggiungendo che “con l’attuazione del federalismo si è introdotto il concetto della "pari soggettività" o "pari dignità" costituzionale fra Stato, Regioni, Comuni, Province e Città Metropolitane, enti autonomi tutti costituenti l'organizzazione dei pubblici poteri, per cui l’assetto della repubblica non è più piramidale ma orizzontale. Secondo questa singolare visione di federalismo il controllo di legittimità sugli atti, esercitato da un organo che emana da un'altra amministrazione (statale o regionale), comporterebbe una subordinazione dell’ente destinatario del controllo. Eppure nel resto d’Europa, anche negli stati federali, esistono controlli successivi che riguardano la legittimità degli atti, la loro efficacia, economicità e la regolarità dei bilanci. In Spagna e Germania, caratterizzati da forti autonomie, i controlli sono su base regionale, mentre nella realtà anglosassone sono di competenza  dello stato centrale. Addirittura in Irlanda e Svizzera agli organi regionali di controllo sono conferiti veri e propri poteri giurisdizionali. Obiettivamente non crediamo che le regioni autonome spagnole o quelle tedesche si sentano subordinate o menomate nella loro autonomia per il fatto di essere soggette a controlli esterni. Ecco quindi che non viene minimamente lesa l'autonomia degli Enti locali ex art. 114 della Costituzione”.

È la conferma che la verifica della legittimità degli atti non è nel dna dei nostri politici che, a confronto dei colleghi di altri, importanti stati europei di antica tradizione amministrativa, appaiono disattenti rispetto ad elementari principi del buon andamento e della imparzialità dell’amministrazione, che è regola costituzionale (art. 97) espressione del principio di legalità troppo spesso trascurato.

2 maggio 2016

 

 

 

 

 


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