AGOSTO 2016
Rottamo, non rottamo, rottamo ma non troppo
I magistrati e la margherita di Renzi
di Salvatore Sfrecola
Tutto inizia con il decreto-legge numero 90 del 2014 nel quale il
Presidente del consiglio, sotto una rubrica accattivante
che parla di “ricambio generazionale”, ha previsto la
soppressione delle norme che consentivano il
trattenimento in servizio di coloro che avessero
superato il limite di età. Si tratta di una norma antica
che, in relazione al limite di età previsto per i
magistrati, prima ha previsto il trattenimento in
servizio fino a 72 anni e successivamente al compimento
del 75º anno di età. Per i funzionari dello Stato il
trattenimento era previsto per due anni, quindi da 65 a
67.
È stato fatto osservare in quei giorni al Presidente del
consiglio ed al Ministro della giustizia che questa
norma avrebbe falcidiato immediatamente i vertici dei
Tribunali delle Corti d’appello e delle Procure generali
e posizioni similari al Consiglio di Stato ed alla Corte
dei conti. Naturalmente la norma era ben vista da coloro
che seguivano in ruolo le persone che avrebbero perduto
il posto di funzione. Abilissimo, dunque, Matteo Renzi a
giocare su questa rivalità per dividere diversamente
interessati anche all’interno dell’Associazione
Nazionale Magistrati.
Poi si è reso conto o gli hanno fatto capire, considerata la sua
scarsa esperienza, che l’abolizione immediata
dell’istituto del trattenimento in servizio avrebbe
causato danni agli uffici giudiziari. Così, dopo aver in
un primo tempo fissato al 31 ottobre 2014 l’applicazione
della norma l’ha rinviata al 31 dicembre 2015.
Successivamente, soltanto per la Corte dei conti, ha
previsto una ulteriore proroga al 30 giugno 2016 sulla
quale molti hanno malignato, considerato che il
presidente al momento in carica sarebbe stato in ogni
caso collocato in pensione ai primi di luglio.
Adesso si parla con insistenza di una ulteriore proroga e della
determinazione al 72º anno di età, a regime, del termine
del pensionamento.
Renzi, dunque, sfoglia i petali della margherita, rottamo, non
rottamo, rottamo forse, dimostrando ancora scarsa
conoscenza della situazione degli uffici giudiziari nei
quali il carico di lavoro è spesso determinato da
fattori estranei all’impegno professionale dei
magistrati, che tra l’altro denunciano la più alta
produttività accertata dall’osservatorio europeo sulla
giustizia, quali le norme processuali della mancanza di
personale di cancelleria e gli archivio.
Questa vicenda, dunque, in qualche modo si conclude. Rimane
l’immagine di un Presidente del consiglio avventato, che
si impegna in una vicenda che all’evidenza non conosce e
che molto probabilmente gli è stata suggerita, sulla
quale si intestardisce e che propone all’opinione
pubblica come una soluzione diretta al ricambio
generazionale, scelta anche condivisibile purché fosse
stata disciplinata in modo adeguato all’esigenza,
graduando le uscite e gli ingressi. Perché, se è
evidente che il ricambio generazionale non si può fare
contestualmente, uno esce e l’altro entra, considerati
anche i tempi necessariamente non brevi delle procedure
concorsuali, va sempre ricordato che l’operazione presta
il fianco a critiche e in particolare al sospetto che
essa sia stata immaginata per alcune persone scomode da
togliere da alcuni uffici.
Concludendo, vorrei ricordare ai nostri attenti lettori che il
tema della giustizia è troppo serio e complesso per
essere affidato ad iniziative estemporanee ed avventate.
E non sia considerata una presa di posizione
preconcetta, perché il Presidente del consiglio ha
dimostrato di non conoscere la materia quando ha
insistito nel voler modificare la disciplina delle ferie
dei magistrati facendo intendere ai cittadini che
fossero superiori a quelle degli altri dipendenti
pubblici e che giudici e pubblici ministeri fossero
imputabili di scarso rendimento. Invece era chiaro che,
per i magistrati addetti agli uffici giudiziari, erano
di 15 giorni superiori a quelle riservate ai colleghi
del ministero della giustizia (30 giorni) allo scopo di
consentire ai giudici di redigere le sentenze e le
ordinanze relative alle ultime udienze tenute prima
delle ferie. Essendo evidentemente illogico e ingiusto
pretendere che un giudice debba scrivere sentenze mentre
è in vacanza.
Un’improvvisazione inaccettabile ovunque nel mondo.
26 agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 9
Il neocentralismo e la mortificazione delle regioni
di Salvatore Sfrecola
Premetto che sono fortemente ostile all’istituto
regionale in quanto considero quegli enti inutili e
costosi. Avrei, dunque, abolito le regioni e seguito una
indicazione del 1862 del Ministero dell’interno Marco
Minghetti che propose la costituzione di “consorzi di
province”, enti più vicini alla gente, espressione della
cultura, dell’economia e dell’ambiente delle comunità
dislocate su territori omogenei quanto meno sotto il
profilo storico. Invece sono state soppresse le
province.
Rimaste le regioni nondimeno va convenuto con il
Comitato per il NO al referendum costituzionale
che la riforma sostituisce nei rapporti Stato-regioni al
pluralismo e alla sussidiarietà un esasperato
centralismo destinato inevitabilmente a conflitti e,
quindi, inefficienze. La stessa riforma del
Titolo V della Costituzione, così come riscritta,
tornando ad accentrare materie che, nel riordino
effettuato nel 2001, erano state assegnate alle Regioni,
matura l’eccesso opposto, ovvero un centralismo che non
è funzionale all’efficienza complessiva del sistema (Ritorno al centralismo,
La Repubblica, 16 maggio 2016, 9).
Aumenterà la spesa
statale, e quella regionale e locale, specie per il
personale, non diminuirà. Colpiti, dunque, il
pluralismo istituzionale e la sussidiarietà espressione
della partecipazione dei cittadini all’attività
pubblica, un retaggio della dottrina sociale della
Chiesa, recepita nei Trattati dell’Unione europea e
trasfusi nella Costituzione vigente all’art. 118.
Non basta, infatti, l’argomento del taglio dei costi,
che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse.
Né basta l’intento dichiarato di costruire una più
efficiente Repubblica delle autonomie, che è
clamorosamente smentito dal farraginoso procedimento
legislativo e da un rapporto Stato-Regioni che non
valorizza per nulla il principio di responsabilità e
determina solo un inefficiente e costoso
neo-centralismo.
Intanto, come ha ricordato Roberta Calvano, ricercatore
di Diritto costituzionale nell’Università di Roma, il
fitto contenzioso nato all’indomani della riforma del
2001 a causa della previsione di competenze concorrenti
fra stato e regioni è stato in gran parte superato dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale che, cito alla
lettera, ha determinato un “assestamento che rendeva il
sistema dei rapporti tra centro e periferia abbastanza
stabile”. Semmai sono proprio le equivoche formulazioni
utilizzate nella Renzi-Boschi che genereranno nuovo
contenzioso. È d’altro canto ora di fare chiarezza: non
tutte le regioni hanno governato male e per quanto
riguarda molte regioni del Nord, ma anche del Centro,
l’efficienza dei loro governi è senz’altro superiore a
quella dello stato centrale. G. Valditara, Le ragioni
del NO, cit..
Merita particolare attenzione in ordine alla gestione
delle risorse da parte degli apparati regionali le
ricerche citate nel testo, in particolare quella di
Unimpresa,
che ha rilevato come negli ultimi due anni il debito di
comuni e regioni italiani sia calato di 15 miliardi,
mentre quello delle amministrazioni centrali è salito di
quasi 100 miliardi, a seguito dell’aumento delle spese,
cresciute del 4%: il rosso degli enti locali è dunque
diminuito del 14% mentre il debito delle amministrazioni
centrali è salito del 5%, e quella di Scenari
Economici oltre alle relazioni della Corte dei conti
in tema di costi del personale.
Non è dunque un riaccentramento di competenze la strada
corretta per una riduzione della spesa pubblica, ma
l’attuazione di un sistema che responsabilizzi i
territori premiando quelli virtuosi. Si favoleggiava
anni addietro di federalismo fiscale perché i cittadini
fossero vicini al decisore politico e ne controllassero
le scelte in regime di risorse disponibili che, essendo
sempre meno, esigono comportamenti virtuosi. Questo è il
punto vero della questione italiana: ognuno deve essere
responsabile di come usa le risorse pubbliche e i
trasferimenti per esigenze di solidarietà e coesione
nazionale devono essere finalizzati e vincolati per
esigenze reali, concrete, trasparenti e quindi
verificabili e verificate nella massima trasparenza.
La riforma, invece, trasforma le regioni in super
province. Si mantengono intatti i loro costi e le loro
burocrazie, ma si riducono grandemente le loro
competenze, centralizzando anche materie di dettaglio
come mai si è fatto in 70 anni di storia repubblicana.
Tutto ripasserà dunque dai ministeri, creando peraltro
alcune potenziali sovrapposizioni di ruoli fra stato e
regioni. La riforma dà inoltre al governo e alla sua
maggioranza parlamentare il potere di intervenire anche
nelle residue competenze delle regioni laddove lo
richiedano la “tutela dell’unità giuridica ed economica
della repubblica” e “l’interesse nazionale”. Ciò non
solo rischia di realizzare un centralismo mai visto
prima, ma, siccome la definizione di “interesse
nazionale” e di tutela delle esigenze unitarie non può
essere discrezionalmente stabilita una volta per tutte
dal governo (ché altrimenti sarebbe un grave vulnus
alla democrazia), trattandosi di un concetto talmente
fumoso “da autorizzare qualunque governo a immischiarsi
in qualsiasi materia che anche la legge di revisione
lascia ancora in mano alle Regioni” (M. Travaglio – S.
Truzzi, Perché votare NO), è certo che si scatenerà un
nuovo contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale.
Come, del resto ha scritto Valerio Onida constatando
come l’autonomia legislativa delle Regioni venga
praticamente ridotta a zero, senza nemmeno il beneficio
di una maggiore chiarezza nel riparto di competenze. Si
pensi, a questo riguardo, all’oscurità insita in norme
come quelle che riservano alla competenza “esclusiva”
dello Stato materie tipicamente regionali, quali il
governo del territorio, ma limitandola al compito di
dettare “disposizioni generali e comuni”. Che vuol dire
“disposizioni generali e comuni”, al di là dell’ovvietà
per cui le norme legislative sono “generali e astratte”,
non contengono provvedimenti concreti e “valgono in
tutto il territorio nazionale”, si è chiesto Valditara?
Senza contare i problemi che potranno determinarsi nel
settore della sanità. Alle regioni spetteranno solo
compiti di organizzazione dei servizi sanitari entro le
norme generali e comuni fissate dallo Stato, che esse
dovranno rispettare ed attuare. Se tutto questo si
accompagna alla riforma Madia, che attribuisce al
ministro la nomina dei vertici della sanità delle
singole regioni, il loro ruolo è praticamente azzerato.
Naturalmente un giudizio di merito è legato alla
concezione centralista o articolata (più o meno
federalista) dello Stato.
Prendiamo poi l’istruzione e la formazione
professionale. Persino la Costituzione del 1948 le
attribuivano alla competenza regionale, pur nei limiti
dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato. La riforma del 2001 ha assegnato formazione e
istruzione professionale alla competenza esclusiva delle
regioni. Adesso persino la formazione professionale
passa alla competenza dello Stato centrale. Carlo
Cattaneo, che nel 1838 definiva l’istruzione
professionale pilastro dello sviluppo di un territorio,
si rigirerà nella tomba. Tutto questo è compatibile con
il principio fondamentale dell’autonomia scolpito
nell’art. 5 della Costituzione? È lecito dubitarne.
Torniamo allo stato ottocentesco, risorgimentale. Ma
dov’è un Cavour?
Intanto, mentre gli italiani chiedevano la riduzione dei
privilegi delle regioni a statuto speciale, si aumenta
invece in modo del tutto sproporzionato e ingiustificato
lo squilibrio fra regioni a statuto speciale a cui sono
mantenute tutte le attuali prerogative e le regioni a
statuto ordinario (S. Calzolaio, Quella
ingiustificata e inutile asimmetria delle Regioni
speciali, in Guida al Diritto, 34-35, 13
agosto 2016, 52).
Se, poi, le modifiche al Titolo V della Costituzione
sono state immaginate per arginare una cattiva gestione
dei fondi aumentando le competenze dello Stato centrale,
Zagrebelsky si dice contrario perché servirebbe,
piuttosto, limitare la potestà legislativa esclusiva
dello Stato alle sole materie necessarie a tutelare e
garantire l’omogenea applicazione delle fondamentali
funzioni dello Stato nazionale, delegando alle Regioni
l’autonomia legislativa su tutte le altre materie.
Soltanto le amministrazioni più vicine ai cittadini
possono comprendere appieno specifici bisogni e
necessità della popolazione ed indirizzarvi in maniera
razionale le risorse. Soltanto questa soluzione permette
un vero risparmio sulla spesa pubblica. La Lega
lo aveva già proposto nella devolution, in cui si
prevedeva un vero federalismo fiscale basato su un
modello di rifermento virtuoso di fabbisogni e costi
applicato in tutto il territorio nazionale, senza
dimenticare le specificità di ogni regione. Purtroppo i
governi che ci hanno succeduto non hanno ancora compreso
appieno le potenzialità di quella riforma, rimasta in
parte inattuata, motivo per cui non ha potuto
dispiegare appieno i suoi effetti.
Quanto al superamento del bicameralismo perfetto in
funzione del Senato delle autonomia
un gruppo di costituzionalisti, tra i quali Antonio
Baldassarre, Francesco Paolo Casavola, Enzo Cheli, Ugo
De Siervo, Valerio Onida, in un documento “Sulla riforma
costituzionale” (si può leggere
integralmente in L. Mazzella nel suo Riflessioni
varie sul referendum costituzionale, in La
riforma costituzionale ai raggi X, 27-32),
ritengono che l’obiettivo “sia stato perseguito in modo
incoerente e sbagliato”. Infatti, “invece di dare a una
seconda Camera che sia reale espressione delle
istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per
realizzare un vero dialogo e confronto fra
rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui
temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato
estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali
per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso
non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione
di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto
regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido
strumento di concertazione fra Stato e Regioni”.
L’effetto che si ritiene ne derivi è quello di un
“assetto regionale… fortemente indebolito attraverso un
riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi
ogni spazio di competenza legislativa, facendone
organismi privi di reale autonomia, senza garantire
adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità
anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia
intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il
dichiarato intento di ridurre il contenzioso tra Stato e
Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto
che le radici del contenzioso medesimo non si trovano
nei criteri di ripartizione delle competenze per materia
– che non possono no mai essere separate con un taglio
netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente
legislazione statale di attuazione: senza dire che il
progetto da un lato pretende di eliminare le competenze
concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una
competenza “esclusiva” dello Stati riferita però,
ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”
20 agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 8
Il pasticcio della nuova disciplina della legislazione
di Salvatore Sfrecola
Tanto per “semplificare”, parola chiave della narrazione
renziana sulla legge di revisione costituzionale,
l’articolo 70, che riguarda la legislazione, a leggerlo,
anche a non essere raffinati giuristi, è un pasticcio
difficilmente immaginabile. Una complicazione verbale e
concettuale evidente: intanto il nuovo testo passa dalle
9 parole dell’attuale formulazione a ben 451 parole,
mentre il nuovo procedimento legislativo, che oggi ha 4
variabili, prevede una serie di percorsi sui quali i
costituzionalisti si interrogano, incerti se siano 8 o
più, in relazione a possibili variabili non
necessariamente d’obbligo. Infatti c’è chi ne conta 9
avvertendo che siamo di fronte “ad un numero di
procedimenti non ben definito” per cui “ogni
classificazione ha margini di discrezionalità elevati”
(Emanuele Rossi, “Una Costituzione migliore? Contenuti e
limiti della riforma costituzionale”, PISA University
press, 2016, 83).
Procedimenti comunque da ripartire in due grandi classi:
le leggi che seguono un procedimento bicamerale
paritario, quelle che seguono un tipo monocamerale, con
la competenza generale e finale della Camera dei
deputati e la possibilità per il Senato di esaminare il
testo approvato dalla Camera e deliberare proposte di
modifica. Non finisce qui perché, come vedremo, vi sono
altre variabili, anche solo eventuali, quelle
numericamente incerte cui si è fatto cenno.
I fautori del SÌ spiegano che “i procedimenti
legislativi vengono articolati in due modelli
principali, a seconda che si tratti di revisione
costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di
raccordo fra Stato e autonomie, dove Camera e Senato
approvano i testi su basi paritarie, mentre si prevede
in generale una prevalenza della Camera politica,
permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte
le leggi, impedendo eventuali colpi di mano della
maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l’ultima
parola. La questione della complicazione del
procedimento legislativo non va sopravvalutata, poiché
non appare diversa la situazione di tutti gli Stati
composti: in ogni caso, e di nuovo in continuità con le
esperienze comparate, la riforma prevede la prevalenza
della Camera politica”.
Non è una buona riforma. Innanzitutto è scritta
malissimo, ridondante e in molti passaggi è di equivoca
interpretazione. Ci sono incongruenze non solo lessicali
e autentiche perle di cattiva legislazione, ma anche
contraddizioni grossolane, con un risultato che “non
appare del tutto convincente”, in particolare in
relazione alla “proliferazioni di variazioni
procedimentali”, anche se “potrebbe crearsi un
meccanismo virtuoso nella prassi applicativa capace di
migliorare il procedimento stesso” (Malaschini). Quel
che si è sempre detto: la strada maestra era quella di
operare sui regolamenti parlamentari. Senza bisogno di
scomodare la Costituzione.
Insomma un pasticcio. Mutato profondamente il
procedimento legislativo: la partecipazione paritaria
delle due Camere (ma non si doveva abolire il Senato per
tagliare i costi?) sarà circoscritta ad un numero
limitato ma non irrilevante di leggi bicamerali (leggi
costituzionali e leggi in materia di elezione del
Senato, referendum popolare e ordinamento degli
enti territoriali, “le forme e i termini della
partecipazione dell’Italia alla formazione e
all’attuazione della normativa e delle politiche
dell’Unione europea”). E scusate se è poco, considerato
che in materia amministrativa già oggi la normazione
europea è fortemente invasiva. Per tutte le altre il
Senato potrà solo proporre modifiche sulle quali la
Camera si pronuncia in via definitiva. Ma se il Senato,
con deliberazione, adottata a maggioranza assoluta dei
suoi componenti, richiede alla Camera di esamiare un
disegno di legge, “la Camera dei deputati procede
all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi
dalla data della deliberazione del Senato” (art. 71,
comma 2). È introdotto il giudizio preventivo di
costituzionalità sulle leggi elettorali delle Camere: è
riconosciuta ad un terzo dei senatori o ad un quarto dei
deputati la possibilità di sottoporre alla Corte
Costituzionale le leggi elettorali prima della loro
promulgazione. Un evidente pasticcio perché è da
chiedersi se la decisione della Corte costituzionale in
questo esame preventivo esclude o meno un eventuale
giudizio di costituzionalità sollevato incidenter
tantum da un giudice nel corso di un processo.
Probabilmente l’intento è quello di escludere un
giudizio di costituzionalità, quello, per intenderci,
che ha messo fuori legge il Porcellum e ha all’esame l’Italicum.
L’iter di formazione delle leggi, come abbiam
accennato, si complica: dall’unico oggi previsto saranno
una decina le diverse modalità previste dalla riforma
per approvare una legge. È consistente il rischio di
aumentare il contenzioso davanti alla Corte
costituzionale. Saranno i Presidenti di Camera e Senato
a risolvere i (prevedibilmente numerosi) casi
controversi, ovvero se seguire l’uno o l’altro iter
di formazione.
L’esame dei disegni di legge è avviato dalla Camera che,
dopo l’approvazione, trasmette immediatamente il testo
al Senato che, se decide di esaminarlo, può proporre
modifiche al testo e la Camera può scegliere se
accoglierle o meno. Le proposte di modifica riferite a
progetti di legge in cui è prevista la “clausola di
supremazia” (in ragione dell’interesse nazionale),
adottate dal Senato a maggioranza assoluta, sono
superabili dalla Camera solo con maggioranza assoluta.
L’esame da parte del Senato dei disegni di legge in
materia di bilancio e di quelli con cui è prevista la
“clausola di supremazia” è necessario, ma i tempi del
procedimento sono ridotti. Nel procedimento legislativo
sono introdotti specifici termini per singole fasi:
nella (spesso) eventuale o (raramente) necessaria fase
senatoria i termini si riferiscono alla deliberazione se
discutere o meno sul testo inviato dalla Camera e (in
caso affermativo) a quello di approvazione delle
modifiche (che possono non essere prese in
considerazione dalla Camera). Anche per il procedimento
di conversione dei decreti –legge se il Presidente della
Repubblica chiede una nuova deliberazione alle Camere di
un disegno di legge di conversione di un decreto -
legge, il termine per la conversione in legge è
differito di ulteriori 30 giorni (60 + 30).
Introdotti alcuni vincoli alla decretazione d’urgenza -
peraltro oggi già fissati dalle leggi ordinarie e dai
principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale -
la possibilità di ricorso al decreto-legge è
espressamente esclusa per le leggi in materia
costituzionale ed elettorale, le deleghe al Governo,
l’autorizzazione alla ratifica di trattati
internazionali, l’approvazione di bilanci e il
ripristino di norme che la Corte costituzionale ha
dichiarato illegittime. Una elencazione non necessaria.
È già così, ma forse nessuno l’aveva detto alla Boschi.
Una perla è la possibilità data al Governo di chiedere
il “voto a data certa” per assicurare una corsia
preferenziale (votazione entro 70 giorni) ai disegni di
legge essenziali per l’attuazione del suo programma, con
l’esclusione di alcune tipologie di leggi (leggi ad
approvazione paritaria di Camera e Senato, leggi in
materia elettorale, leggi di autorizzazione alla
ratifica dei trattati internazionali, leggi di
concessione dell’amnistia e dell’indulto e legge che
reca il contenuto della legge di bilancio, le norme
fondamentali e i criteri per l’equilibrio di bilancio).
Questo comporta che il Governo può chiedere alla Camera
dei deputati di deliberare, entro 5 giorni dalla
richiesta, che un disegno di legge sia iscritto con
priorità all’ordine del giorno; il disegno di legge
dovrà essere sottoposto alla pronuncia in via definitiva
della Camera dei deputati entro il termine di 70 giorni;
sono ridotti della metà i termini già esigui per la
deliberazione di proposte di modificazione da parte del
Senato. Ma poiché il termine finale può essere differito
fino a 15 giorni, in relazione ai tempi di esame da
parte della Commissione nonché alle complessità del
disegno di legge”, l’approvazione da parte della sola
Camera può arrivare a 90 giorni (tre mesi).
C’è da rimanere senza parole.
18 agosto 2016
Allarme in USA ed Europa per l’economia italiana.
Ma non c’entra l’ipotesi della vittoria del NO
di Salvatore Sfrecola
Molto risalto sui giornali italiani e sulle televisioni per
alcuni articoli comparsi a Ferragosto su Wall Street
Journal, New York Times, Financial Times
e El Pais a commento dei dati ISTAT sulla
crescita zero del secondo trimestre. La Repubblica,
per la firma di Federico Rampini, dedica un paginone ai
commenti formulati al di qua e al di là dell’Oceano, sui
pericoli per l’Italia e per l’Europa se Renzi dovesse
perdere, come si profila in molti sondaggi, la sfida del
referendum sulla legge di revisione costituzionale e
lasciare la guida del Governo. Dovizia di ipotesi su
quanto sarebbe necessario per rimettere in moto la
crescita e dubbi che ciò possa avvenire in caso di crisi
politica e mancando gli strumenti di una accelerazione
rimessa alle nuove procedure legislative previste dalla
riforma costituzionale, incuranti tutti che i migliori
costituzionalisti le abbiano bollate come confuse e
pasticciate e niente affatto acceleratrici dell’iter
delle leggi, in teoria e in pratica, avendo il premier
portato a casa tutte le norme che voleva facendo
violenza sulle Camere con reiterati ricorsi al voto di
fiducia.
Venendo al pratico, a questi giornalisti della migliore stampa
economica internazionale e della sinistra spagnola
dovremmo fare alcune osservazioni. In primo luogo che il
dottor Matteo Renzi governa indisturbato da oltre due
anni e mezzo, avendo “rottamato”, secondo il suo eloquio
elegante alti dirigenti dello Stato, magistrati e grand
commis. Di più, ha presieduto, anche se praticamente
nessuno ne ha potuto valutare le conseguenze, l’Unione
europea, compito sul quale aveva, alla vigilia,
manifestato intenzioni guerresche, prefigurando una
serie di iniziative dirette a restituire smalto alle
istituzioni europee e vantaggi per le economie, come la
nostra, che hanno patito i rigori di Bruxelles. Non è
accaduto niente di tutto questo ed oggi, ricordando che
il Financial Times ha sostenuto che Renzi “deve
ottenere libertà di manovra dall’Unione europea”,
Rampini scrive che “molti osservatori ricordano che
Bruxelles ha già dimostrato tolleranza verso la Francia,
la Spagna e il Portogallo quando non hanno rispettato i
vincoli di bilancio”. In queste parole sta la condanna,
senza appello, del giovane premier di Rignano sull’Arno,
sbarcato a Roma senza altra esperienza che quella di
aver svolto funzioni di sindaco di una meravigliosa
Città d’Arte con una popolazione inferiore al più
piccolo dei municipi della Capitale, con molta spocchia,
circondato di avventurosi uomini d’affari variamente
vestiti e modestissimi compagni di governo.
Sta qui il problema italiano. Nella incapacità di un leader, che
pure inizialmente è stato visto con qualche simpatia, di
guardare lontano al di là degli slogan a volte gustosi,
tipici del popolino toscano, per puntare alla crescita
che non poteva, come forse immaginava, essere promossa
dagli 80 euro erogati a pioggia e poi a carico di molti
recuperati. L’Italia ha bisogno di altro, soprattutto ad
iniziativa dell’autorità pubblica, in presenza di una
classe imprenditoriale modesta, che oggi tramite
Confindustria si schiera opportunisticamente con il SÌ,
non rischia quasi mai in proprio, che ha una visione
provinciale dell’economia che soffrirebbe ancora di più
se non vi fossero alcuni imprenditori del settore
manifatturiero e di quello che rappresenta l’eccellenza
italiana a tirare la carretta e a battere i mercati
esteri con grande determinazione.
Non temano per l’economia italiana Wall Street Journal,
New York Times, Financial Times, El Pais
e La Repubblica, ipotizzando una sconfitta di
Renzi in Italia e in Europa. Non è questo il governo che
serve al Paese, come ha dimostrato in due anni e mezzo
ed oltre di permanenza a Palazzo Chigi, un periodo
suggellato da una crescita zero prevista e prevedibile
da tutti, tranne dai funzionari di via XX Settembre,
indottrinati ed allineati.
17 agosto 2016
Italia crescita ZERO.
Renzi chiede flessibilità in Europa. E c’è da essere certi che
cercherà di convincere Bruxelles e gli italiani che la
merita per le riforme costituzionali che con la crescita
non c’entrano
di Salvatore Sfrecola
Il piano è chiaro. Di fronte alla crisi economica, che secondo i
dati ISTAT relativi al secondo trimestre del 2016,
registra una crescita zero, il peggiore risultato in
Europa, Renzi si appresta a chiedere maggiore
flessibilità a Bruxelles sostendendo questa sua
perorazione dicendo che sta facendo le riforme. Ma
quali? Non quelle che ci chiedono da tempo realmente i
nostri partners europei, della pubblica amministrazione,
che strozza cittadini e imprese, della giustizia, che
dissuade italiani e stranieri ad investire, del fisco,
predatorio, che disincentiva i consumi. Per Renzi “le
riforme” sono essenzialmente quella della Costituzione
che con la crescita non ha niente a che fare, che non
darà nessuna ulteriore opportunità all’Italia se non più
potere al premier ed al suo partito. Che non c’è scritto
ovviamente nella Carta fondamentale. Ma se vincesse alle
prossime elezioni, avrebbe, in virtù del premio di
maggioranza assicurato dall’Italicum (340 seggi
alla Camera su 630 deputati), un potere senza
precedenti, distorsivo delle regole democratiche che
prevedono che gli istituti di garanzia, il Presidente
della Repubblica, la Corte costituzionale ed il
Consiglio Superiore della Magistratura siano eletti
con il più ampio concorso parlamentare, cioè d’intesa
con le minoranze, come è accaduto finora. Con quella
maggioranza potrebbe nominarli da solo.
Renzi oggi fa di tutto, dopo aver sostenuto per mesi che il
referendum era in realtà un plebiscito sulla sua
politica (“se perdo me ne vado, lascio la politica”),
per tenere distinto il governo e lui stesso dalla scelta
sul referendum ed insiste che la legge elettorale
non c’entra. Invece, come si è visto, “il sistema di
voto è parte integrante dell’assetto istituzionale”,
come ha osservato Gaetano Quagliariello, aggiungendo: “è
difficile immaginare il sistema inglese o francese senza
la rispettiva legge elettorale” (“Perché è saggio dire
NO”, Rubettino, a pagina 31).
Un nuovo inganno, dunque, materia nella quale il premier è
espertissimo da quando propina agli italiani ogni
giorno, 24 ore su 24, considerati i notiziari notturni,
una narrazione della sua azione politica che non
corrisponde alla realtà di quello che il Paese può
constatare facilmente. Un Paese bloccato, inondato di
leggi inutili, tutte o quasi approvate con ricorso al
voto di fiducia che mortifica il Parlamento, leggi che
non fanno fare un passo avanti all’Italia che pure
avrebbe bisogno di più flessibilità, non in Europa, ma
qui, per intraprendere e, quindi, accrescere la
produzione e l’occupazione e, quindi, i consumi.
Invece il Paese è ingessato a le scelte attuate sono deleterie.
Un esempio per tutti? Proprio in questa stagione di
vacanze viene da pensare alla tassazione delle seconde
case, di cui si è anche parlato stamattina ad Omnibus,
la trasmissione di approfondimento de La7, una
tassazione che impoverisce quel patrimonio immobiliare,
come dimostra la stasi delle transazioni, e confonde un
bene, spesso modesto, lasciato in eredità da genitori e
nonni, in un indice di ricchezza. Ho anche scritto altra
volta che il deperimento del valore delle seconde case,
molte delle quali abbandonate e trascurate anche nelle
opere di manutenzione, danneggia l’economia locale. La
danneggia, anche in conseguenza della volontà predatoria
dei sindaci che si accaniscono su quel patrimonio
immobiliare, perché disincentiva l’acquisto e la
costruzione di nuovi immobili e le opere di manutenzione
che impegnano mano d’opera locale, una delle poche
occasioni di lavoro nelle piccole realtà al mare o ai
monti nelle comunità che poco altro hanno da offrire. Ed
anche dove ristorazione e artigianato reggono l’economia
locale, la riduzione del numero dei vacanzieri interni
danneggia certamente quelle comunità.
Un esempio tra i tanti che si potrebbero fare con riferimento ad
una azione di governo della quale il premier si riempie
la bocca mentre si vuotano le tasche degli italiani. I
quali spesso, anche in passato, si invaghiscono di
leader dalla parola dagli slogan facili fino a quando
non ne pesano le concrete capacità di soddisfare le
esigenze della comunità. Intanto gli unici che sono
soddisfatti dell’azione governativa di Matteo Renzi sono
i suoi amici e gli amici dei suoi amici, tutti
accuratamente sistemati in posti di potere laddove il
potere del premier consente di allocarli.
16 agosto 2016
Riflessioni a margine di un nuovo anglicismo
Job Posting,
il lavoro a portata di mouse
ovvero una selezione trasparente
di Salvatore Sfrecola
Leggo sul Il Fatto Quotidiano di ieri un
trafiletto che parla del Job Posting, cioè del
lavoro a portata di mouse, come spiega
internet, che permette ai dipendenti di candidarsi
direttamente per le posizioni lavorative vacanti interne
ad una amministrazione, ad una azienda. “Un sistema di
selezione trasparente”, richiamato dal giornale a
proposito della vicenda della RAI tenuta, prima di
procedere ad assunzioni esterne, a pubblicizzare tramite
il suo circuito internet le cariche da occupare, in modo
che coloro i quali ritengono di avere i requisiti
richiesti possano farsi avanti e partecipare al bando.
Un modo che permette di velocizzare i processi di
selezione di nuovo personale e ai dipendenti di cogliere
nuove opportunità di crescita.
Per la verità alcune amministrazioni già operano
attraverso avvisi che segnalano i posti da coprire e i
requisiti di professionalità richiesti. Si chiamano
“interpelli”, pubblicizzati nei siti internet, modalità
da estendere perché la pratica della previa indicazione
dei posti da affidare non è così diffusa e non è così
trasparente come dovrebbe essere, nonostante efficienza
e rispetto delle persone e delle professionalità interne
dovrebbe sempre consigliarla. Perché è assurdo e
ingiusto, oltre che fonte di danno e di malessere
interno, andare a ricercare una personalità esterna per
ricoprire un posto in un ministero, in un ente o in una
azienda ove quella professionalità esista all’interno
della forza lavoro. Con effetti positivi, in quanto la
scelta verrebbe a premiare le eccellenze interne (che
sarebbero così stimolate) con l’effetto di mettere in
campo immediatamente chi vanta un’esperienza specifica
che non ha certo un esterno anche se dotato di un
curriculum universitario e post universitario ed
esperienze importanti.
Purtroppo la politica ha bisogno di sistemare i “suoi”
uomini, incurante del fatto che i pubblici dipendenti e
tutti coloro che operano all’interno delle pubbliche
amministrazioni, sono “al servizio esclusivo della
Nazione” (art. 98 Cost.) e non del partito al governo,
del sindaco o assessore di turno. Per cui accade che
l’interpello vada deserto nel senso che nessuno dei
candidati viene ritenuto idoneo, così aprendo la strada
a chiamate dirette, di interni o di esterni.
In sostanza troppo speso non c‘è trasparenza, parolina
magica tanto evocata in Italia quanto poco praticata
come regola dell’agire nelle amministrazioni e nelle
aziende pubbliche. E qui mi piace ricordare un recente
intervento di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC), in occasione di un
convegno alla Corte dei conti proprio sugli illeciti,
quando ha ricordato la risposta che gli aveva dato il
Ministro della funzione pubblica del Regno di Svezia il
quale, alla domanda di come contrastassero la corruzione
in quel paese, gli aveva risposto “trasparenza totale”.
Quando riusciremo in Italia a raggiungere un tale
standard di comportamento?
Non posso chiudere, tuttavia, senza dire ai miei lettori
che se la trasparenza è ovviamente importante e il
job posting prezioso, l’espressione inglese è
fastidiosa, come, in genere, l’uso delle parole
straniere diffuso oltre ogni ragionevolezza, in
particolare dai politici che dovrebbero dare il buon
esempio e parlare italiano. Lo ha sottolineato anche l’Accademia
della Crusca nel tentativo di frenare un po'
l'anglomania italica frutto di un antico eccesso di
provincialismo che per molti costituisce una esibizione
stucchevole, a volte per confondere le idee, come fanno
alcuni politici che ci inondano, in particolare dalla
televisione, di Job act,
spending review, et similia
(è latino, e va bene)
quasi che contratto di lavoro o revisione della spesa
non
siano
idonei ad individuare il contenuto di leggi o di
iniziative governative,
che invece gli italiani capiscono benissimo.
Anglicismi troppo numerosi che rischiano di
mortificare una lingua, l’italiano, straordinariamente
ricca di sostantivi ed aggettivi che tutto riescono a
descrivere ed a valorizzare. Senza aggiungere che un
uomo pubblico dovrebbe sentire il dovere di parlare un
buon italiano mentre molti indulgono nell’uso del
dialetto che con gli anglicismi realizza un misto
perverso fastidiosissimo. Quando dovrebbero riservare il
dialetto, che ha un suo valore, una sua storia ed una
sua letteratura spesso pregevolissima, ai conversari
privati. Un romano come me riconosce in Trilussa e Belli
lo spirito dei quiriti, ironici e sbruffoni, quando si
ricordano della propria grandiosa storia fatta di
cultura politica e di straordinaria capacità di
organizzare la vita civile attraverso infrastrutture
ancora oggi ineguagliate, strade, acquedotti, fognature,
dove si misura la civiltà di una società, un po’ meno
quando trascurano o non s’indignano per un presente
fatto di inefficienza, sprechi e sporcizia.
15 agosto 2016
Intollerabile malagestione che mortifica lo Stato
Il dovere del governo: restituire prestigio ai suoi
funzionari
di Salvatore Sfrecola
Pressoché all’unanimità i giornali di ieri, a proposito
del decreto legislativo sulla dirigenza pubblica
esaminato dal Consiglio dei ministri hanno parlato di
norme sulla valutazione e la licenziabilità degli alti
funzionari dello Stato. Ed hanno attribuito il rinvio
dell’approvazione al dissenso che sarebbe stato
manifestato in varie ambienti, ministeriali e sindacali,
in sostanza “alle resistenze dell’alta burocrazia
ministeriale rispetto agli incarichi a termine ed al
ruolo unico”. Così riassume le “voci” che si ricorrono
Nuova Etica Pubblica che, al riguardo, “ribadisce
le preoccupazioni già manifestate in occasione del varo
della legge delega e torna ad affermare la necessità che
il decreto contenga la previsione del diritto
all’incarico. Ovvero, che ogni dirigente pubblico, alla
cessazione dell’incarico rivestito, in assenza di una
valutazione negativa sul suo operato ha diritto ad un
nuovo incarico di importanza equivalente a quella del
precedente, come previsto dal Contratto collettivo
nazionale di lavoro tuttora vigente”. Il presupposto è
che vanno realizzate “valutazioni indipendenti, serie e
perciò credibili” (Sergio Rizzo, Corriere della sera
). “Senza le quali, non può accadere che, nel gioco
dell’assegnazione dei nuovi incarichi, un dirigente
possa restare fuori e finire nel ruolo unico anche se il
suo operato precedente non ha dato luogo a censure”.
La polemica sconta mali antichi che si trascinano, tra
riforme e controriforme, lungo una strada inclinata che
porta l’Italia lontano dalle democrazie nelle quali
l’efficienza del settore pubblico è la regola, nel
rispetto della legalità e della trasparenza. Stentano,
infatti, i partiti ed i governi a comprendere che il
perseguimento degli obiettivi contenuti nell’indirizzo
politico, parlamentare e di governo, sono
inevitabilmente affidati all’efficienza degli apparati
pubblici i quali, per funzionarie secondo le
aspettative, hanno bisogno di norme precise e facilmente
percepibili, procedure che le rendano applicabili, e
funzionari che “al servizio esclusivo della Nazione”,
secondo l’articolo 98 della Costituzione siano dotati
della occorrente professionalità.
Se analizziamo queste affermazioni alla luce della
realtà lo scoramento è assicurato. Le leggi che
disciplinano le materie attinenti all’esercizio delle
funzioni pubbliche sono spesso inadeguate rispetto
all’effettivo perseguimento degli obiettivi, in
particolare per quanto concerne i tempi che sono un
valore generalmente trascurato. Un valore per il sistema
amministrativo, per i cittadini e le imprese che operano
nelle professioni e nella produzione di beni e servizi,
con inevitabili aggravi che incidono sull’economia e sui
consumi. Queste situazioni di incertezza determinano
spesso un contenzioso pesante e lungo in sede civile e
amministrativa che costituisce esso stesso un costo e
dissuade dall’intraprendere italiani e stranieri. La
giustizia lenta, infatti, non è solamente quella civile.
Spesso si ha la sensazione che si provochino i ritardi
per evitare il soddisfacimento dei diritti.
In questa incertezza, che è essa stessa
malamministrazione, si inseriscono comportamenti
criminali nella gestione degli appalti, dalla fase di
deliberazione a contrattare con la individuazione dei
bandi di gara “non di rado” (è notoriamente un
eufemismo) costruiti a misura delle caratteristiche
dell’impresa che dovrà vincere l’appalto, in assenza di
adeguati controlli in corso d’opera e finali, sulle
opere e sulle forniture.
Tutto questo avviene molto spesso alla luce del sole
perché funzionari ed amministratori sono in combutta tra
loro, come dimostrano le cronache giudiziarie, che hanno
messo in risalto decisioni amministrative anomale rese
possibili dalla assenza di un potere politico capace di
dare direttive e di controllarne la attuazione. A volte
i funzionari operano di loro iniziativa, a volte sono
sollecitati e costretti ad agire dai politici ai quali
(l’aspetto negativo dello spoil system) devono la
nomina, la conferma e la determinazione dell’ammontare
del trattamento economico accessorio. In più gli
incarichi di rappresentanza dell’amministrazione presso
enti e aziende, posizioni di potere non indifferenti
che, al di là di spesso lauti appannaggi, consentono di
sistemare parenti e affini propri o del politico che,
poi, mostrerà riconoscenza.
A questo punto è evidente che il punto nodale è
l’indipendenza della dirigenza pubblica, perché sia
effettivamente “al servizio esclusivo della Nazione” e
non del politico di turno. Perché si realizzi questa
elementare regola è necessario che i dirigenti, come
tutti i pubblici dipendenti del resto, siano reclutati
mediante concorso pubblico (e serio), come prescrive
l’articolo 97, comma 3, della Costituzione, non con
“riconoscimento” di mansioni svolte o selezioni
addomesticate, per inserire nelle amministrazioni amici
degli amici e clientes vari il cui unico merito è
quello di aver operato da portaborse o da consulenti,
nella migliore delle ipotesi, nelle segreterie di
partito e di ministri e sottosegretari, sindaci e
assessori, presidenti di regioni e via discorrendo.
Questa gente non va inserita nelle pubbliche
amministrazioni. Se utile alle esigenze dell’attività
politica rimane a lato, per il tempo della durata
dell’incarico politico cui accedono, con un trattamento
economico predeterminato dalla legge in relazione alle
professionalità ed ai titoli di studio. L’inserimento di
queste persone nella pubblica amministrazione, molto
spesso incompetenti, privi di esperienza quanto
arroganti, è stata causa di gravi disfunzioni, a
cominciare dalla mortificazione del personale di
carriera che, ovviamente, si defila quando non rema
contro. Questa prassi deve assolutamente finire per
restituire al pubblico dipendente quel prestigio del
quale deve essere circondato in uno stato di diritto.
Da ultimo deve essere chiaro che il pubblico dipendente
il quale è un professionista che spesso ha scelto di
operare in una pubblica amministrazione, civile o
militare, per il desiderio di prestare servizio allo
Stato per tradizioni familiari od altro deve essere
remunerato secondo quanto richiede la sua
professionalità ed il suo impegno. Vale per tutti, dal
più piccolo al più grande. A cominciare dai docenti di
ogni ordine e grado, perché nella scuola si formano i
cittadini ed i professionisti di domani. La scuola è un
investimento per uno stato serio, un investimento che
deve consentire la selezione dei migliori ed il loro
continuo aggiornamento. Un docente che, di fronte ad un
libro del costo di trenta o quaranta euro che
consentirebbe un importante aggiornamento della sua
cultura, da riversare ai suoi studenti, rinuncia perché
non può permetterselo è un delitto contro la società.
I lettori troveranno in queste mie riflessioni un
impegno ed una passione che è tratta dall’esperienza, da
quel che ho visto nelle amministrazioni dove ho svolto
funzioni di consulente ministeriale, in quelle che ho
controllato o sulle quali ho indagato per accertare la
responsabilità di danni erariali spesso assai rilevanti.
È anche la ribellione di un cittadino di fronte
all’inconsistenza di una classe politica che da troppo
tempo trascura i veri problemi di un Paese che, infatti,
non cresce, anche per la pesantezza assurda e inutile
dei suoi apparati, per la mancanza di prospettive
offerte ai suoi giovani che devono andare all’estero per
ottenere il giusto apprezzamento di una professionalità
raggiunta sui banchi di una scuola che mantiene, grazie
al sacrificio di molti docenti, una sua dignità,
nonostante le ripetute “riforme” ne abbiano alterato i
caratteri e la capacità di approfondimento in una
rincorsa assurda a togliere o ridurre insegnamenti, a
volte per sembrare più “moderni” per inseguire
esperienze, o presunte tali, di paesi che, invece,
apprezzano la nostra cultura di base e specialistica,
come dimostra il successo dei nostri “cervelli in fuga”
ovunque nel mondo.
13 agosto 2016
Capi
dello stato o capi di un partito?
di Domenico Giglio
Barak Obama è
stato eletto Presidente degli Stati Uniti quale
candidato del Partito Democratico, ed è logico che speri
che anche il prossimo presidente provenga dal suo
partito, ma è in ogni caso rappresentante di tutti i
cittadini statunitensi siano essi democratici o
repubblicani o di qualsiasi altra ideologia o che non ne
abbiano nessuna. E infatti dopo ogni elezione il
candidato vincente dichiara che vuole essere il
presidente di “tutti”, specie perché in tutte queste
elezioni le maggioranze sono sempre minime ed in questi
stati, non solo gli USA, ma anche la Francia e
recentissimamente l’Austria, l’elettorato appare diviso
a metà, specie dopo campagne elettorali sempre più
costose, come negli USA, e sempre più violente e volgari
nel linguaggio e nei metodi. Ora nelle recente
Convention del partito democratico che ha visto la
nomina a candidato ufficiale del partito della signora
Hillary Rhodam, maritata Clinton, il presidente Obama
non si è limitato ad inviare un messaggio di saluto, ma
ha prima mandato come oratrice e sostenitrice della
Hillary, la propria consorte, che non ha nessuna carica,
ma solo il merito di essere la moglie del presidente, e
poi è pesantemente intervenuto personalmente a favore
della candidata senza che questo intervento di parte,
cioè “partigiano”, suscitasse sdegno o scandalo. A
questo punto mi sembra necessario ed opportuno un
riscontro: sono veramente capi e rappresentanti di tutti
i cittadini questi eletti? Anche nel caso che invece di
repubblica presidenziale si tratti di repubblica dove
l’elezione avvenga indirettamente con il voto dei
deputati o altri delegati non è sempre eletto
l’esponente di un partito o di uno schieramento politico
più o meno ampio, che non dimentica né la sua origine né
chi lo ha proposto e sorretto?. E tutto questo in
entrambi casi porta poi a nomine negli organismi statali
da parte degli eletti non certo per meriti obiettivi, ma
di parte, e dove, specie negli USA importanti incarichi,
ad esempio, di ambasciatori vengono assegnati come
compenso per l’appoggio dato al candidato, risultato
vincente, quando invece sarebbe necessario personale
appositamente istruito e competente, come è stato, ad
esempio, senza falsi orgogli nella ultracentenaria
storia d’Italia. Ben diversa infatti è la figura, il
ruolo ed il significato degli ultimi, purtroppo non
numerosi Sovrani, che invece rappresentano l’unità del
popolo e dello stato, nella sua storia e nelle sue
tradizioni, e che esercitano questo ruolo “super
partes”, in virtù del principio ereditario che fa dire
“è morto il Re, o la Regina, viva il Re o la Regina”,
perché se negli USA l’eventuale successo della signora
Clinton, significherebbe essere la stessa prima donna,
dal 1789 e dopo 44 presidenti, ad assurgere al ruolo
presidenziale, nelle monarchie le donne “regine”,
esistono da migliaia di anni dalla mitica Didone, alla
storica Zenobia, per non parlare di Elisabetta I e della
Elisabetta II, che nel suo lungo regno ha visto
l’alternarsi di decine di primi ministri conservatori e
laburisti!
Quando abbiamo
scritto “purtroppo”, al numero ridotto di monarchie oggi
esistenti, pensavamo a tutti gli stati in Europa ed in
altre parti del mondo, dove la caduta di questa
istituzione millenaria non ha visto seguire nessun
miglioramento nella vita dei popoli, cominciando
dall’impero russo che si stava aprendo alle istituzioni
parlamentari ed è stato sostituito sanguinosamente dal
regime comunista, ai regni balcanici, Jugoslavia,
Bulgaria e Romania, che nel 1945 subirono la stessa
sorte, ed ora restituiti alla libertà, pur rimanendo
repubbliche, hanno accolto con tutti gli onori gli
esponenti delle dinastie, regnanti a suo tempo,
restituendo alle stesse i beni confiscati, ed onorando i
loro rappresentanti, sia vivi che morti, e, caso
Bulgaria e Romania, rimettendo la corona nello stemma
statale, e se non è avvenuta una restaurazione, la
stessa non è escluso possa avvenire in futuro, perché in
questi paesi non esiste nella loro costituzione
l’articolo 139! Non parliamo poi delle monarchie extra
europee, dalla Libia del Senusso, cui seguì Gheddafi e
l’attuale caos, l’Egitto di Farouk, cui seguirono la
dittatura nasseriana e l’attuale di Al Sissi, l’Iran che
dallo Scià passò a Komeini, poi Kamenei, all’Irak dove
la dinastia fu massacrata, per poi avere i Kassem,
Saddam Hussein e l’attuale caos, come infine accaduto
nello Yemen! L’unico paese, l’impero ottomano, dove il
regime susseguito, la repubblica laica turca di Kemal
Pascià, Ataturk, aveva costituito un indubbio progresso
civile, economico e sociale, dopo la morte del suo
fondatore, non ha certo visto ulteriori miglioramenti!
Considerazioni
tutte che non trovano spazio nella pubblicistica e nella
stampa attuale, mentre invece andrebbero approfondite,
perché se la storia è maestra di vita, cancellarla
impedisce la vera crescita culturale e politica dei
popoli, con i risultati che sono sotto gli occhi di
tutti.
12 agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 7
I rischi di un premierato assoluto
di Salvatore Sfrecola
Revisione costituzionale e riforma elettorale spianano
la strada a quello che per i contestatori della riforma
è un autentico “mostro giuridico” che travolge i
principi supremi della Costituzione e della democrazia
parlamentare.
“In
effetti l’impostazione di fondo che c’è dietro questo
progetto di grande riforma (comprensivo della riforma
elettorale) – ha detto il Professore Domenico Gallo
nella sua introduzione all’atto della presentazione del
Comitato per il NO -, non è quello della revisione della
Costituzione, ma del suo superamento, cioè
dell’abbandono del progetto di democrazia costituzionale
prefigurato dai padri costituenti per entrare in un
nuovo territorio, dove le decisioni sono più “semplici”,
perché, per legge, il governo è attribuito ad un unico
partito, sciolto dagli impacci di dover mediare con
partiti e partitini di una coalizione; dove il
Parlamento è ridotto ad un’unica Camera (che legifera e
dà la fiducia, mentre l’altra Camera, il Senato, ha un
ruolo sostanzialmente decorativo), sottoposta ad un
ferreo controllo da parte del Governo del partito unico,
al quale la legge elettorale garantisce una maggioranza
assicurata e la riforma costituzionale garantisce il
controllo dell’agenda dei lavori parlamentari, dove le
istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica,
Corte costituzionale) sono deboli e non possono
interferire con l’esercizio dei poteri di governo che,
invece, sono “forti””.
Aggiungendo di ritenere “sempre valide le considerazioni di
Raniero La Valle in occasione della riforma Berlusconi
del 2005: “Cadute le linee di difesa del patto
costituzionale, venuti meno i pastori posti a presidio
dei cittadini, il popolo rimane ora l’ultimo depositario
della legittimità costituzionale e l’ultima risorsa,
l’ultima istanza in grado di salvare la democrazia
rappresentativa nel nostro paese. Esso non dovrà
semplicemente “difendere” la Costituzione del 48, ma
dovrà instaurarla di nuovo. Non dovrà solo sottrarla
all’oscuramento cui oggi è condannata, ma riscoprirla ed
illuminarla come mai ha fatto finora”.
Le considerazioni ulteriori sono molto dure: “solamente la
cancellazione della memoria può consentire di far
passare come innovazione delle riforme istituzionali che
tendono a restaurare forme di potere autocratico
superate dalla storia. Soltanto attraverso la
cancellazione della memoria si può far passare per
innovativa una legge elettorale che restaura gli stessi
meccanismi manipolatori della legge Acerbo”. Per chi ha
studiato poco la storia o ha scarsa memoria il
riferimento è alla legge che consentì a Mussolini di
dilagare nelle elezioni alla Camera dei deputati nel
1924.
È la preoccupazione di Gustavo Zagrebelsky. Per il presidente
emerito della Corte costituzionale, uno dei massimi
giuristi del diritto pubblico, la riforma del Senato
sommata all’Italicum (legge elettorale della
Camera) “realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare
la politica a favore delle tecnocrazie” (Il mio No
per evitare una democrazia svuotata, La
Repubblica, 19 gennaio 2016).
L’Italicum, infatti, aggiunge all’azzeramento della
rappresentatività del Senato e al centralismo che
depotenzia il pluralismo istituzionale, l’indebolimento
radicale della rappresentatività della Camera dei
deputati. In particolare, il premio di maggioranza alla
singola lista consegna la Camera nelle mani del leader
del partito vincente — anche con pochi voti (minoranza
dell’elettorato e ancor più minoranza in relazione agli
aventi diritto al voto) — nella competizione elettorale,
secondo il modello dell’“uomo solo al comando”, come
indicato nel dibattito politico giornalistico. Ne
derivano effetti collaterali negativi anche per il
sistema di checks and balances. Ne risente
infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti
della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore
della Magistratura. E ne esce indebolita la stessa
Costituzione. Il sistema complessivo dei bilanciamenti,
ovvero di quei pesi e contrappesi necessari per
garantire l’equilibrio politico istituzionale tra
poteri, e tra le diverse forze politiche in campo, è
ordinato a piena garanzia del popolo sovrano. In
sostanza un rischio evidente per la democrazia,
un cambiamento surrettizio della forma di governo
che rapidamente porterebbe ad una sorta di “Premierato
assoluto” denunciato senza mezzi termini di Michele
Ainis (Nella riforma di Renzi c’è un
pericolo nascosto,
L’Espresso, 5 ottobre 2015).
Un modello che, come sottolineato da molti osservatori,
potrebbe avere effetti preoccupanti. In proposito vale
la pena di sottolineare che, nella sentenza che ha
giudicato illegittima la legge elettorale, la Corte
costituzionale ha chiaramente sottolineato che le
ragioni della governabilità non devono comunque
prevalere su quelle della rappresentatività. In
particolare, il fatto che il nuovo sistema conceda il
premio di maggioranza ad una sola lista, e che la
Camera, con i suoi 630 deputati, possa senza difficoltà
decidere, a maggioranza, in merito a tutte o quasi tutte
le cariche istituzionali. Per questo motivo, si
sostiene, il Premier ha ridotto i senatori ma lasciato
un numero abnorme di deputati, superiore a quelli di
ogni altra democrazia occidentale, compresi gli Stati
Uniti d’America che, con una popolazione di oltre 381
milioni di abitanti, hanno 435 deputati. Lì, secondo i
critici, sta la prova della strumentalità della scelta
“riformatrice”.
La nuova legge elettorale, inoltre, mantiene un numero
rilevante di nominati dai partiti (i “capilista” almeno
100 deputati, ma potenzialmente di più) e garantisce un
notevole premio in seggi ad una lista che al primo turno
potrebbe aver ottenuto solamente il 30% (o meno) dei
voti. Con il 30% al primo turno, una lista che si
affermi al ballottaggio, può dunque avere ben 340 seggi,
vale a dire il 54% del plenum dell’Assemblea di
Montecitorio.
11 agosto 2016
Col referendum il Premier non si può sottrarre ad un voto sulla sua
persona: la riforma costituzionale e l’Italicum
se li è intestati lui e sono intimamente connessi (e già
che ci sono gli italiani giudicheranno anche l’azione
del governo)
di Salvatore Sfrecola
Va riconosciuto a Renzi, almeno all’inizio della campagna
referendaria, un tratto di onestà intellettuale quando
ha invitato a votare SÌ perché il prevalere del NO
avrebbe significato la bocciatura della sua iniziativa
politica per cui si sarebbe ritirato dalla vita
politica. Così riconoscendo, avendo proposto la riforma
costituzionale e quella della legge elettorale (l’Italicum),
che l’insuccesso nel referendum avrebbe bocciato più che
le leggi la sua politica. Infatti revisione della Carta
fondamentale e nuova legge elettorale, intimamente
connesse, costituiscono elementi di un piano complessivo
diretto all’occupazione solitaria del potere.
Il Segretario del Partito Democratico voleva la revisione
della Costituzione e la nuova legge elettorale.
Certamente legittima aspirazione di un politico.
Sennonché è antica tradizione che il Governo non assuma
quelle iniziative che, come si dice, “appartengono al
Parlamento”. Piero Calamandrei, che il Premier cita
frequentemente, era stato esplicito: quando si discute
di Costituzione i banchi del governo devono rimanere
vuoti. Avrebbe potuto affidare l’iniziativa legislativa
in entrambi i casi a parlamentari del suo partito,
solitamente i Presidenti dei Gruppi parlamentari. Invece
ha voluto intestarsi queste iniziative e, pertanto, deve
essere pronto a subirne le conseguenze. Anzi il
giudizio, che sarà inevitabilmente su di lui, riguarderà
anche la sua politica, essendo evidente che, essendo
fortemente criticato sulla politica complessiva del
governo, come si deduce da alcuni sondaggi, per la
mancata riduzione delle imposte, l’inadeguatezza della
azione governativa per la crescita e l’occupazione, la
politica dell’immigrazione, l’inesistenza dell’Italia
negli scenari dell’Unione Europea, tanto per fare
qualche esempio, gli italiani lo riterranno anche
inadeguato a modificare la Carta fondamentale dello
Stato, tra l’altro portata avanti con forzature che
attestano la sua propensione a prevaricare gli
oppositori interni ed esterni senza mai accettare
confronti. E si amplierà la platea di quanti ritengono
che, in realtà, il Presidente-comunicatore sia un
missus di poteri che non stanno nei partiti né in
Parlamento.
Renzi si è accorto del pericolo e, già da alcune settimane ed
ancora ieri in occasione di una Festa dell’Unità,
ha voluto separare il giudizio sul governo da quello sul
referendum e e sull’Italicum ribadendo che la
riforma costituzionale e la legge elettorale non sono
collegate. E qui sbaglia perché è evidente che gli
effetti del voto, così come sarebbero determinati dalle
regole dell’Italicum, avrebbero conseguenze
pesanti sulla stessa forma di governo quale conseguenza
del potere incontrollato che una minoranza avrebbe in
ragione del premio “di maggioranza” che assicurerebbe al
partito che risultasse vincitore, per aver ottenuto il
40% dei voti o se prevalesse nel ballottaggio, di
eleggere il Presidente della Repubblica, i Giudici
costituzionali e i componenti laici del Consiglio
Superiore della Magistratura. Va detto, al riguardo, che
il quoziente attribuito in sede di ballottaggio, è
rapportato agli elettori che potrebbero diminuire
rispetto al primo turno in ragione dell’assenteismo
spesso determinato dall’assenza di partiti che erano
stati votati nel primo confronto.
Renzi dice che non cambia nulla nella forma di governo. Non è
vero. Questa capacità di scegliere legittimamente, in
forza della sua maggioranza, il Capo dello Stato e i
giudici Costituzionali altera l’equilibrio dei poteri.
Lo si è visto con l’impegno profuso da Napolitano, molto
al di là del ruolo che tradizionalmente hanno rivestito
i capi dello Stato che ha indicato a Renzi la riforma
nei sui dettagli, l’ha difesa e la difende strenuamente
definendola la sua “eredità”. Contemporaneamente il
Presidente del Consiglio, ricorrendo in continuazione
alle mozioni di fiducia nel corso della discussione di
importanti provvedimento legislativi (compresa la legge
elettorale) ha mortificato il ruolo delle Camere
costrette a votare senza la possibilità di vedere
discussi emendamenti parlamentari, di fatto incidendo su
una delle caratteristiche del nostro Stato, la natura
parlamentare, nel senso che la sovranità che, ai sensi
dell’art. 1, “appartiene al popolo che la esercita nelle
forme e nei limiti della Costituzione” viene di fatto
trasferita all’Esecutivo. Quella sovranità il popolo la
esercita in maniera diretta, con le elezioni ed il
referendum, e indiretta, attraverso i suoi
rappresentanti. Ed è evidente che se i Rappresentanti
del popolo subiscono gravi limitazioni nell’esercizio
delle loro funzioni parlamentari, quello di votare le
leggi, si incide su uno dei requisiti fondamentali della
Repubblica parlamentare. Aggiungo, in un clima di
intolleranza come dimostrato dalla iniziativa del
Ministro Boschi che ha criticato pesantemente chi fa
propaganda per il NO perché in tal modo “non rispetta il
lavoro fatto dal Parlamento”. In nessun paese
democratico un ministro avrebbe osato tanto. E se lo
avesse fatto sarebbe stato garbatamente invitato a
dimettersi.
Gli italiani, dunque, giudicheranno Renzi e la sua politica.
Anche sotto un altro aspetto. Ritenere che i limiti
della politica vadano ricercati nella Costituzione è un
abuso della credulità dei nostri concittadini i quali
sanno bene che vantaggi e svantaggi li subiscono per
leggi inadeguate, per una burocrazia che applica regole
superate, per una classe politica e di governo
estremamente modesta. E qui un ruolo lo ha la
televisione che porta alla ribalta personaggi della
politica che meglio potrebbero svolgere altre funzioni.
Un tempo si diceva “braccia sottratte all’agricoltura”.
Un po’ offensivo per la nobilissima professione
dell’agricoltore. Ma rende bene l’idea. È gente che
dovrebbe fare un altro mestiere.
10 agosto 2016
Segnali preoccupanti di intolleranza
Il Ministro Boschi disprezza l’elettorato che vota NO
di Salvatore Sfrecola
“Chi propone di votare no al referendum e buttare via
due anni di lavoro in Parlamento, vuol dire che non
rispetta il lavoro fatto dal Parlamento”. Lo ha detto il
ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, alla
presentazione della rivista 'Strade' dedicata alle
ragioni del Sì per il referendum costituzionale. Il
Ministro, infatti, ha sottolineato che in Parlamento
“c'è stato un dibattito vero” e che la riforma è stata
“votata democraticamente. Noi - ha sottolineato -
abbiamo scelto di rispettare l'art. 138 della
Costituzione e non abbiamo scelto strade alternative,
gruppi ristretti o assemblee costituenti”, mettendo
anche in evidenza che “i parlamentari hanno votato 120
modifiche rispetto al testo portato dal governo. Ora con
i referendum - ha ricordato - questa scelta del
Parlamento può essere votata dai cittadini. Siamo tutti
noi a dire Sì o No al cambiamento che stiamo proponendo
al Paese”.
“Stavolta credo che potremo riuscire a cambiare passo
con il Sì al referendum. L'appello fatto dal governo è
per un voto che riguarda il futuro del Paese. Non per i
prossimi sei mesi ma per i prossimi trent'anni”, ha
proseguito il ministro. “A prescindere dalla simpatia o
dall'antipatia che si può avere per questo governo - ha
aggiunto - si tratta di un voto per la democrazia e per
le prossime generazioni del nostro Paese. Mi auguro che
nel 2026 non si debba ancora discutere dell'ennesimo
tentativo non andato a buon fine”.
“Non è la riforma ideale ma per i suoi pregi è positiva
e fa fare passi avanti al Paese”, ha ammesso. “Inoltre -
ha spiegato - incide anche economicamente, può essere la
base per lo sviluppo del Paese e per il miglioramento
dei nostri conti. E non solo per i risparmi che
oggettivamente ci sono, 500 milioni di risparmio ogni
anno come dice la Ragioneria dello Stato”.
Ho voluto riportare integralmente il passo di
huffingtonpost.it con la sola eccezione del termine
“ministra”, che a me non piace, per dar conto di una
impostazione che, sulla bocca di un membro del governo,
dimostra ignoranza ed intolleranza gravissime per le
regole della democrazia. Ignoranza perché una persona
laureata in giurisprudenza dovrebbe sapere che il
referendum in tutte le sue forme è espressione di
democrazia diretta con la quale le costituzioni attuano
una forma di controllo, affidata al popolo, delle
decisioni assunte in Parlamento dai rappresentanti di
quello stesso popolo. In sostanza il referendum è teso a
verificare l’esistenza dell’assonanza tra popolo e
parlamentari. È, pertanto, uno strumento di democrazia
nei confronti del quale occorre rispetto, il massimo
rispetto.
È, dunque, il Ministro Boschi a mancare di rispetto nei
confronti degli italiani chiamati dalla Costituzione a
votare. Una mancanza di rispetto intollerabile.
Ma vi è di più, come dicono gli avvocati quando in una
memoria di costituzione in giudizio vogliono insistere
su un concetto che ritengono dimostri la validità della
loro tesi. Quella legge di revisione costituzionale è
stata votata non “con larga maggioranza”, come
sostengono i documenti del comitato per il SÌ, perché si
può definire “larga” solamente “se la legge è approvata
nella seconda votazione di ciascuna delle Camere a
maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”, come si
legge nell’art. 138, comma 3, della Costituzione. Quindi
non solamente una questione di diritto, perché è
evidente che un’uscita come quella del Ministro Boschi,
incompatibile con un ruolo istituzionale, è anche la
dimostrazione che la tensione sale e salgono le
preoccupazioni per le previsioni non proprio favorevoli
alla scelta del SÌ raccolte dagli istituti di
rilevazioni demoscopiche.
In ogni caso sarebbe auspicabile un intervento del
Presidente della Repubblica perché la campagna
referendaria, pur nella naturale vivacità del dibattito
e delle polemiche che lo accompagneranno, mantenga
comunque rispetto per le persone e per le istituzioni.
9 agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 6
Quel bicameralismo presunta fonte di tutti i mali. Non è
così ma pare vero
di Salvatore Sfrecola
Il superamento del bicameralismo paritario (o perfetto o
più-che-perfetto per dirla con Giovanni
Pitruzzella) è il pezzo forte della riforma
costituzionale targata Renzi-Boschi. È sulla bocca di
tutti. A giudizio dei fautori del SÌ “viene superato
l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato,
con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo
fra Camera dei deputati e Governo. Pregio principale
della riforma, il nuovo Senato delinea un modello di
rappresentanza al centro delle istituzioni locali. È
l’unica ragione che oggi possa giustificare la presenza
di due Camere. Ed è una soluzione coerente col ridisegno
dei rapporti fra Stato-Regioni. Ne trarrà vantaggio sia
il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, che
rimane in capo alla sola Camera dei deputati, superando
così i problemi derivanti da sistemi elettorali diversi,
sia l’iter di approvazione delle leggi”. Sarebbe così,
favorita la governabilità attraverso lo snellimento
delle procedure legislative. Inoltre si avrebbero
significativi risparmi nei costi della politica.
Molte parole che, come vedremo più avanti, non
corrispondono alle aspettative.
Tra i fautori del SÌ il Professore Ceccanti, che ha
lavorato al testo della riforma, richiama Costantino
Mortati che considerava il Senato un inutile doppione
della Camera e sottolinea come la nuova legge
costituzionale lo valorizzi, visto che gli sono
attribuite funzioni differenziate. “Ci sono due Camere
con un ruolo diverso. In questi anni – considerate le
difficoltà decisionali del Parlamento – sono stati
trovati dei bypass cardiaci che hanno spostato una serie
di poteri sul Governo, a cominciare dall’uso della
decretazione d’urgenza. La riforma della Costituzione
mira a risolvere le cause che hanno determinato questo
bypass cardiaco e cerca di far funzionare la
circolazione sanguigna in modo normale. Per un verso,
dunque, pone alcuni limiti ai decreti per ricondurli a
una dimensione fisiologica mentre, dall’altro lato,
garantisce tempi certi alle iniziative legislative del
governo, in modo tale che non sia costretto a fare i
decreti ma faccia i disegni di legge”. Per la verità la
letteratura scientifica è ricca di esempi quanto all’uso
improprio, più esattamente all’abuso, dei decreti legge,
reiterati più volte ancora agli inizi degli anni
Novanta, prima che la Corte costituzionale fermasse
questo scempio dell’art. 77 della Costituzione.
Tra chi è sceso in campo per il SÌ, l’ex Presidente del
Consiglio e attuale giudice della Corte Costituzionale,
Giuliano Amato, intervenuto in un dibattito promosso da
Formiche.it. L’esigenza, per così dire storica,
di riformare la seconda parte della Costituzione è da
lui pienamente condivisa: “Personalmente, ne scrissi
la prima volta 40 anni fa”, ha esordito,
considerando comunque positivo il semplice fatto che in
Italia “ci sia una riforma costituzionale approvata e
da discutere nel merito”. Da parte dei cittadini? Un
azzardo logico, considerata la difficoltà di
interpretare le norme e di comprenderne gli effetti.
Naturalmente le opinioni di Amato hanno tutta
l’autorevolezza del personaggio ma la considerazione che
si viva in un sistema in cui “il governo non è così
forte e il Parlamento, invece, troppo debole” va
certamente corretta, restituendo alla politica, non alle
istituzioni, la responsabilità della attuale,
insufficiente conduzione della cosa pubblica. È la
politica ad essere debole sul piano professionale ed,
assai spesso, etico. L’esperienza ci presenta, infatti,
partiti assai poco coesi anche sui temi di maggiore
rilevanza, ideologicamente modesti, rissosi al loro
interno, con un personale dotato di scarsa esperienza e
qualificazione professionale facilmente guidato da
lobby e interessi vari, come dimostra la cronaca,
anche giudiziaria che i nostri lettori conoscono bene.
Per cui se è certo utile, come si dice da anni nelle
sedi più qualificate, della politica e della cultura
costituzionalista, superare il bicameralismo perfetto,
nel quale Camera e Senato svolgono esattamente le stesse
funzioni, attribuire all’attuale legge di revisione la
soluzione di tutti i problemi appare indubbiamente
eccessivo. A meno che non ci si riferisca agli effetti,
contestati, della nuova legge elettorale.
La decisione che solo Montecitorio voti la fiducia al
governo secondo Amato “rafforzerà l’esecutivo ma non
indebolirà necessariamente il Parlamento. Infatti, la
previsione di una Camera “verso la quale il Governo
non può porre la questione di fiducia, non è detto che
non costituisca un limite per il governo stesso”.
Riesce difficile comprendere come.
Altra novità fondamentale, introdotta dalla riforma, è
la modifica dei rapporti tra Stato e regioni. Le
autonomie saranno rappresentate nel nuovo Senato in cui
troveranno posto i consiglieri regionali e i sindaci
delle principali città italiane. “Sono sempre stato
favorevole ad avere nella legislazione nazionale il
punto di vista delle regioni”, ha commentato Amato.
Sulla nuova ripartizione di competenze – con molte
materie che torneranno ad essere di potestà legislativa
esclusiva dello Stato – l’ex premier ha fatto
chiaramente intendere tutti i limiti del sistema
attuale. Il problema principale – come si osserva da più
parti – è l’elevatissimo contenzioso cui l’attuale
distribuzione delle competenze ha dato luogo.
Vista da Sabino Cassese, amministrativista, la riforma
del bicameralismo è attuata in forma di un
“monocameralismo temperato”. L’ex giudice della Corte
Costituzionale – per sottolinearne i pregi – parte dai
primissimi esempi di democrazia in Inghilterra, passa
attraverso Montesequieu e De Tocqueville e giunge fino
ai giorni nostri. Un affresco storico-giuridico che
Cassese delinea per arrivare al suo commento sulla
riforma voluta dal Governo. “Le vere funzioni del
bicameralismo si sono esaurite”, ma non ha spiegato.
L’unica esigenza che permane – un po’ sul modello
americano – è quella di dare voce a livello nazionale
alle regioni, che altrimenti manterrebbero una “rappresentanza
amministrativa e non costituzionale”. Non è poco, ma
è dubbio che i consiglieri regionali, messo il cappello
del senatore, possano parlare in rappresentanza
dell’ente di provenienza. Né del relativo corpo
elettorale non essendo eletti.
L’obiettivo della riforma del bicameralismo è
“condivisibile” dai fautori del NO e sarebbe anche
condiviso sennonché, come attuato, “si rischia di creare
disfunzioni istituzionali”. Le critiche si concentrano
sulle competenze del Senato. In quanto il superamento
del bicameralismo è stato perseguito “in modo incoerente
e sbagliato” e si è configurata “una pluralità di
procedimenti legislativi differenziati”, “con rischi di
incertezze e di conflitti”.
Per Zagrebelsky “il Senato è un dettaglio, o un’esca.
Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme
che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti
denunciamo (rappresentanti che non rappresentano,
partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato,
cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma
costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di
vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della
politica a favore di un misto di interessi che trovano i
loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie
burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un
continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”,
e così il pensiero è messo fuori gioco” (Renzi e il
referendum, il mio No per una democrazia svuotata, 26 maggio
2016, 10-11).
Si è detto che la riforma del bicameralismo sarebbe
richiesta in primo luogo dalla necessità di accelerare
la produzione legislativa. In realtà secondo uno studio
di Valerio Di Porto l’Italia ha la più abbondante
produzione legislativa d’Europa: il Parlamento approva
oltre 3 volte le leggi di Spagna e Regno Unito, oltre
due volte quelle della Francia e complessivamente più
leggi della Germania e della Svezia. Secondo
Openpolis, al 10 ottobre 2014 la media di
approvazione di un disegno di legge presentato dal
governo era di 77 giorni, al 13 febbraio 2015 era di 109
giorni. Nella precedente legislatura il tempo medio è
stato di 116 giorni. Su molti temi, infatti, il nostro
Parlamento è velocissimo. Sempre secondo Openpolis,
dati ripresi anche da L’Espresso, quando si parla
di imprese e giustizia i tempi medi di approvazione di
un disegno di legge sono di 46 giorni, un record
europeo. Interventi sul territorio, economia, cultura e
finanza impiegano rispettivamente 52 e 53 giorni. Il
decreto cosiddetto Svuotacarceri è stato
approvato in 38 giorni, il decreto lavoro in 40 giorni,
il decreto competitività in 44 giorni, velocissima la
riforma costituzionale relativa all’art. 81, una norma
chiave in materia di bilancio e di copertura delle leggi
di spesa, che, tra l’altro, ha introdotto l’obbligo del
pareggio di bilancio. Le leggi finanziarie (oggi di
stabilità), che introducono norme complesse con
centinaia di commi in materie che attengono alla
gestione delle risorse pubbliche, impiegano mediamente
50 giorni.
Decisiva è, in ogni caso, la volontà politica di
approvare un provvedimento, non il sistema parlamentare.
E, come ricorda Stefano Passigli, quando ci sono
stati ritardi, gli intoppi sono venuti sempre dalla
Camera, la più “politica” delle due assemblee, non dal
Senato. Volontà politica che significa coesione della
maggioranza: nella legislatura 2001/2006, la XIV
(governo Berlusconi) ben i 3/4 dei disegni di legge di
iniziativa governativa vennero approvati contro neanche
la metà della XIII legislatura (governi Prodi, D’Alema,
Amato) e addirittura contro un terzo della XV
legislatura (governo Prodi).
C’è poi da dire del ruolo dei “voti di fiducia”, con i
quali il governo ha condizionato la propria maggioranza
e l’intero Parlamento costretto a votare, senza un
adeguato approfondimento, il testo governativo. Con
l’attuale governo i voti di fiducia sono aumentati,
tanto che il 34% delle leggi è stato approvato in questo
modo. È evidente la crisi del ruolo del Parlamento,
massima espressione della volontà dell’elettorato. Le
leggi di iniziativa parlamentare sono appena due su
dieci. L’80% delle leggi, dunque, le fa il governo.
Degli emendamenti presentati, quelli parlamentari hanno
un tasso di approvazione che non raggiunge l’1%, ben il
47% invece, quelli governativi, spesso accolti in un
maxiemendamento sul quale il governo pone la fiducia. I
decreti legge sono in media due al mese. È aumentato in
modo significativo il numero delle leggi delega con cui
le Camere attribuiscono al governo il potere
legislativo, spesso con deleghe giudicate “in bianco” o,
comunque, generiche, mentre la Costituzione, all’art.
76, prevede che la delega sia concessa “con
determinazione di principi e criteri direttivi e
soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”. I
decreti legislativi di attuazione delle deleghe sono
soggetti ad un voto parlamentare in funzione consultiva,
tra l’approvazione preliminare e quella definitiva del
Consiglio dei ministri. È l’immagine di un Parlamento
subordinato all’iniziativa del governo.
Osserva Zagrebelsky, intervistato per La Repubblica
da Ezio Mauro (Renzi
e il referendum,
cit.),
che “in realtà il Senato è stato pensato dai nostri
costituenti come la camera di riflessione, non come un
Senato federale vero e proprio. La rappresentanza su
base regionale serviva infatti a dare voce alle
diversità territoriali del nostro Paese, ma
l’istituzione delle regioni ordinarie arrivò soltanto
nel 1970. Tanto è vero che il solo riferimento al
carattere regionale del Senato è nell’articolo 57 della
Costituzione che prevede l’elezione a suffragio
universale su base regionale. Il vero Senato federale
non si realizza soltanto con la presenza dei delegati
regionali e territoriali, ma con l’attribuzione di
funzioni e competenze specifiche relative alle decisioni
nazionali di interesse regionale, cosa che questa
riforma non fa. Cosa del resto già prevista nella
riforma costituzionale approvata dal parlamento grazie
soprattutto alla Lega Nord (Devolution) che istituiva il
Senato Federale e che è stata affossata”. Inoltre la
trasformazione del Senato avviene in un contesto di
decisa centralizzazione del potere, trasferito per molte
materie dalle regioni allo Stato.
Premesso che ampio è da anni il consenso sul superamento
del bicameralismo così come com’è oggi, con proposte
alternative tratte da importanti esperienze straniere, i
fautori del NO denunciano un depotenziamento della
rappresentanza popolare in uno squilibrio, anche nei
rapporti Parlamento-Governo che concorre ad alterare
l’intero quadro istituzionale.
Vogliono, quindi, sfatare un mito: tutti i Paesi del G8
sono bicamerali: Canada, Francia, Germania, Giappone,
Regno Unito, Russia e Stati Uniti. 15 Paesi del G20 sono
bicamerali: gli stessi Paesi del G8 più Argentina,
Australia, Brasile, India, Messico e Sud Africa. La
stessa Unione Europea suddivide il potere legislativo
tra Parlamento e Consiglio Europeo. Sono, invece,
monocamerali, per esempio: Arabia Saudita, Cina, Corea,
Indonesia e Turchia, non proprio dei modelli di
democrazia. Sono monocamerali anche i Paesi scandinavi,
ma non potrebbero essere diversamente considerata la
scarsa popolazione, la forte omogeneità sociale e
politica, la forma di stato accentrata. Hanno un
bicameralismo perfetto grandi democrazie come gli Usa e
la Svizzera. Quattro miliardi di persone su cinque
miliardi e mezzo (Cina esclusa) sono rappresentati da
Parlamenti bicamerali. È vero, molti fra questi Paesi
hanno un bicameralismo imperfetto, ma pressoché tutti
sono autenticamente federali e il Senato rappresenta
effettivamente il luogo di compensazione fra le istanze
regionali e quelle centrali, il contrario di quello che
fa questa riforma (Le
ragioni del NO,
cit., in Logos,
www.logos-rivista.it, giugno 2016).
Anche per il fatto che i “senatori” non sono eletti dal
popolo. Sembra che i partiti abbiano una certa allergia
per il voto di preferenza. A volte sostenendo che
favorisce il “voto di scambio”, soprattutto in alcune
aree del Paese. E propendono per elezioni “primarie”
nelle quali il voto di scambio, sempre in quelle aree
del Paese, è stato ripetutamente accertato dalla
magistratura.
Per i fautori del NO il nuovo Senato è un pasticcio.
Le funzioni attribuite sono ambigue e il modo di
elezione dei nuovi senatori confuso, prevedendo peraltro
che siano rappresentati enti territoriali (regioni e
comuni) i quali svolgono funzioni molto diverse. Il
Senato diventa organo ad elezione indiretta composto da
95 senatori (74 Consiglieri regionali, 21 Sindaci e 5
Senatori nominati dal Presidente della Repubblica), non
vota la fiducia al Governo ed ha funzioni legislative
limitate, ma non irrilevanti (basti pensare ai trattati
internazionali ed alla normativa di derivazione
dell’Unione Europea) e comunque interferenti, come
vedremo, con quelle della Camera. La durata del mandato
dei senatori coincide con quella dell’organo
dell’istituzione territoriale da cui sono eletti, ossia
con la durata dei consigli regionali (art. 57, comma 5).
È, dunque, un organo a rinnovo parziale anche nel corso
della legislatura della Camera, non soggetto a
scioglimento. Non è chiaro se i senatori rappresentano
le Regioni, i gruppi consiliari o le popolazioni.
Probabilmente rappresentano solamente il partito al
quale sono iscritti.
Il superamento del bicameralismo perfetto, tuttavia,
lascia inalterato il peso istituzionale della seconda
Camera
che non solo non è stata abolita, come era stato
inizialmente propagandato, ma non è affatto vero che
eviterà la seconda lettura delle leggi, tanto
criminalizzata, additata come causa principale dei
ritardi (molto si è favoleggiato sulla cosiddetta
navetta, cioè il passaggio dei disegni di legge da
una Camera all’altra). Infatti, su richiesta di appena
un terzo dei senatori, si potranno sempre proporre
modifiche ai testi approvati dalla Camera, così
obbligandola ad una seconda lettura. Verosimilmente non
si tratterà di una eccezione, dal momento che, a
differenza di oggi, Camera e Senato saranno diversamente
composti e spesso in competizione. Il Senato sarà
infatti composto da consiglieri regionali e sindaci
eletti in tempi diversi, con leggi diverse e per
contingenze politiche diverse da quelle che
caratterizzano la elezione dei deputati. Nessuno si
sofferma sul fatto che questi senatori dovranno
dividersi tra la Capitale e il capoluogo regionale, con
il rischio di fare male in entrambe le sedi (a proposito
non si parla neppure di diaria, spese di viaggio, vitto
e alloggio e oneri per la segreteria, ausilio
indispensabile per un legislatore). Non solo, se
rapportato agli attuali tempi medi di approvazione di
alcuni disegni di legge, l’art. 70 prevede già che si
raggiungano quei tempi solo per il passaggio in Senato:
il progetto approvato dalla Camera, dopo una discussione
che non sarà necessariamente breve, deve essere
trasmesso al Senato che entro 10 giorni può decidere di
esaminarlo. Nei 30 giorni successivi il Senato può
proporre modifiche. A quel punto il testo ritorna alla
Camera per la discussione e il voto definitivo. I 40/50
giorni ricordati da Openpolis, necessari per
approvare molte delle leggi votate da un Parlamento che
nella vigente Costituzione ha spesso avuto una
maggioranza simile fra Camera e Senato, sono già
abbondantemente superati in una realtà che vedrà due
maggioranze non necessariamente collaborative. Anche per
sempre possibili interferenze estere (le lobby).
Il Senato dovrà obbligatoriamente approvare tutte le
leggi costituzionali, le leggi ordinarie che riguardano
comuni e regioni, ma soprattutto le leggi di ratifica
dei trattati negoziati nel quadro UE e la cosiddetta
“legge comunitaria” che disciplina le modalità di
partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione
delle norme comunitarie. Un bel po’ di questioni di
rilevante interesse. Basti pensare che il diritto
amministrativo interno è oggi, e già da tempo, quasi
esclusivamente di derivazione europea. E che il 36%
delle leggi riguarda la ratifica di trattati, buona
parte dei quali deriva dalla appartenenza dell’Italia
alla UE, dunque di competenza anche del Senato. Sono fra
l’altro proprio queste leggi di ratifica quelle che
impiegano più tempo e che fanno alzare la media dei
tempi di approvazione.
“Questa riforma, che non appare per nulla urgente, né
rilevante – scrive Giuseppe Valditara, ordinario di
Diritto romano a Torino, direttore scientifico della
rivista Logos, nel cui Comitato scientifico
siedono i massimi esperti della Lega Nord e di
NoiConSalvini -, rischia dunque di impedire un vero
processo costituente che riveda per esempio il
funzionamento del CSM, la composizione della Corte
costituzionale, le modalità di applicazione di alcuni
trattati Ue, che chiarifichi i rapporti fra il nostro
ordinamento e quello europeo fissando i confini di
quest’ultimo, che riveda i limiti oggi previsti nella
Carta ad una tutela più efficace della proprietà privata
che introduca un avanzato modello di federalismo
fiscale, e un accorpamento di alcune regioni, che
farebbe risparmiare, questo sì, miliardi di euro, che
ripensi il ruolo del Presidente della repubblica, che
attribuisca al Presidente del consiglio il potere di
nominare e sostituire direttamente i ministri - di
essere un premier e non un primus inter pares,
condizionato dal Presidente della repubblica - l’unico,
vero potere decisionale di cui si sentiva il bisogno,
riforma tanto attesa e curiosamente dimenticata”. Nei
giorni scorsi le cronache da Londra ci hanno dimostrato
l’efficienza del sistema parlamentare e di governo del
Regno Unito. Il Primo Ministro si è dimesso, il suo
partito ha designato il successore, la Regina lo ha
incaricato e si è subito insediato al n. 10 di Downing
Street. Il tutto nel giro di pochi giorni.
Siamo su un altro pianeta.
La cosa più rilevante per il cittadino è senza dubbio la
decisione di configurare un Senato che, pur mantiene
compiti molto importanti, non è eletto dai cittadini, ma
è nominato dai consigli regionali. Un Senato che, oltre
alle competenze legislative ricordate, concorre ad
eleggere il Presidente della Repubblica, alcuni giudici
della Corte costituzionale, ed i componenti del
Consiglio Superiore della Magistratura, non sarà scelto
dagli italiani ma dai gruppi regionali nei quali finora
la molto ha attecchito la malapianta degli sprechi di
denaro pubblico e della corruzione, come leggiamo, quasi
quotidianamente, nelle cronache.
Inoltre, non solo la riforma non abolisce i senatori
nominati dal Presidente della Repubblica, ma li aumenta
proporzionalmente perché addirittura diventano il 5% del
totale (100), mentre prima erano 5 sui 315.
Per i fautori del NO in primo luogo non si comprende poi
quale sia la funzione di raccordo di questo nuovo Senato
in ragione, nei procedimenti legislativi, del ruolo
della Conferenza Stato-regioni sempre più determinante.
Ma soprattutto, come ha sottolineato il Professore Enzo
Cheli, la “non chiara definizione dei rapporti fra le
due Camere e tra lo Stato e le regioni” rischia di
generare una forte conflittualità destinata a
compromettere l’operatività del nuovo modello”. C’è una
ipotesi concreta del moltiplicarsi delle liti e delle
controversie, il contrario di ciò che una buona riforma
della Costituzione dovrebbe fare.
La cancellazione dell’elezione diretta dei senatori, la
drastica riduzione dei componenti — lasciando immutato
il numero dei deputati — la composizione fondata su
persone selezionate per la titolarità di un diverso
mandato politico, collegato al ruolo di consiglieri
regionali o di sindaci, colpiscono irrimediabilmente il
principio della rappresentanza politica e gli equilibri
del sistema istituzionale. È la tesi del NO. Non basta
l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio si
poteva perseguire con scelte diverse e che, come vedremo
in un successivo capitolo, riguarda spiccioli. Né
l’intento dichiarato di costruire una più efficiente
Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e
farraginoso procedimento legislativo e da un rapporto
Stato-Regioni che solo in piccola parte realizza quegli
obiettivi di razionalizzazione e semplificazione che
pure erano necessari, determinando, senza valorizzare
per nulla il principio di responsabilità, fortissimi
rischi di inefficiente e costoso neo-centralismo.
È possibile accogliere una riforma che assicuri più
efficienza e miglior funzionamento dell’istituzione, che
non significa necessariamente “maggiore velocità”, ma
razionalità, responsabilità e tutela della
rappresentanza delle istituzioni democratiche. La
riforma del Governo, invece, stravolge l’impianto della
Costituzione del 1948, ed affronta un momento storico
difficile e una pesante crisi economica concentrando il
potere sull’esecutivo, producendo un impatto
indiscutibile e decisivo sulla partecipazione
democratica, sul pluralismo istituzionale, sulla
sovranità popolare, sulla rappresentanza.
In proposito, alla domanda se, con la nuova riforma,
l’approvazione delle leggi sarà più rapida e renderà i
governi più stabili. Zagrebelsky ha affermato che “se è
vero che viene garantita la stabilità governativa, ci si
riuscirà solo in ragione di un accentramento del potere
che l’Italia non conosce più da tempo. Non era infatti
necessario abrogare il bicameralismo, ma correggerlo
soltanto in alcuni suoi vizi, come il continuo rinvio
tra le due Camere, e prevedere un Senato federale con
propria iniziativa e competenza legislativa sulle
materie di interesse regionale, in modo che ci fosse
veramente una Camera dedicata ai territori come in tutti
i modelli federali democratici che questa riforma invece
di emulare, ignora completamente”.
9 agosto 2016
Arturo Martucci di Scarfizzi e Claudio Galtieri nominati
Presidente e Procuratore Generale della Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola
Dal 1°agosto sono stati rinnovati i vertici della Corte
dei conti, Presidente e Procuratore Generale.
Nel rispetto delle indicazioni del Consiglio di
Presidenza, il CSM della Magistratura contabile, il
Consiglio dei ministri ha proceduto alla nomina dei
magistrati che sostituiranno, rispettivamente, Raffaele
Squitieri e Martino Colella, collocati a riposo con
decorrenza 1° luglio.
Arturo Martucci di Scarfizzi, nuovo Presidente della
Corte dei conti è un magistrato con grande e variegata
esperienza nei settori del controllo e della
giurisdizione contabile, le attribuzioni costituzionali
della Corte previste dagli articoli 100, comma 2, e 103,
comma 2, Cost..
Nato a Napoli il 19 agosto 1947, già funzionario del
Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica,
Martucci di Scarfizzi è entrato a far parte della
Magistratura della Corte dei conti nel 1979, a seguito
di pubblico concorso.
Nel corso della carriera ha svolto numerosi e
prestigiosi incarichi fornendo importanti contributi
anche in ambito scientifico. Presidente Aggiunto della
Corte dei conti dal 1° febbraio 2015, e pertanto
componente di diritto del Consiglio di Presidenza, è
stato Presidente coordinatore delle Sezioni riunite in
sede giurisdizionale e componente delle Sezioni riunite
in Sede consultiva e deliberante.
Martucci di Scarfizzi ha iniziato la carriera di
magistrato contabile presso l’allora Delegazione
regionale di controllo per la Puglia (oggi Sezione
regionale di controllo), la Delegazione regionale per il
Lazio e presso la Commissione amministrativa regionale
di controllo per il Lazio. Successivamente ha prestato
servizio presso la Procura Generale ed il Servizio
Massimario e Rivista (Rivista della Corte dei conti, la
pubblicazione bimestrale di servizio, diretta dal
Presidente di Sezione Gaetano D’Auria, un tempo edita
dall’Istituto Poligrafico dello Stato, poi da Maggioli,
oggi da Rubettino). Successivamente ha ricoperto
l’incarico di Procuratore Regionale per la Campania.
È autore di numerosi scritti in materia amministrativa e
contabile. Nelle stesse materie ha tenuto relazioni in
importanti convegni di studio.
La Famiglia Martucci di Scarfizzi è originaria del
cosentino. Il titolo di Marchesi di Scarfizzi è stato
concesso da Re Ferdinando IV il 31 maggio 1788.
Anche Claudio Galtieri, romano, nuovo Procuratore
Generale, vanta una lunga esperienza nella magistratura
della Corte dei conti nella quale è entrato a far parte
a seguito di concorso nel novembre 1976. Dopo una prima
esperienza nell’ambito delle attività di controllo su
Amministrazioni periferiche e centrali dello Stato
(1976-1980), poi Direttore dell'Ufficio di coordinamento
del controllo preventivo (1980-1989), dal 1987 al luglio
1996 Galtieri è stato componente della Prima Sezione
giurisdizionale per le materie di contabilità pubblica,
prima giudice di primo grado e poi d’appello. Dal luglio
1996 al dicembre 2001 ha svolto funzioni di Vice
Procuratore Generale presso la Procura generale in Roma,
con incarico di responsabile del coordinamento delle
Procure regionali. Dal 1° gennaio 2002 ha svolto le
funzioni di Procuratore regionale presso la Sezione
giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione
Toscana. Successivamente, dal 21 febbraio 2011, ha
assunto le funzioni di Presidente della Sezione
giurisdizionale per la Regione Lombardia per poi tornare
a Roma a presiedere la Prima Sezione d’Appello.
Dal 1981 al 1994 ha fatto parte del Servizio Massimario
e Rivista e dal 1991 al 1994 è stato responsabile
dell’Ufficio studi del Consiglio di Presidenza.
Ha svolto anche prestigiosi incarichi di consulenza:
presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici dall’ottobre 2000 al settembre 2008; la
Presidenza del Consiglio dei Ministri dall’ottobre 2001
al dicembre 2005 per le questioni concernenti l’attività
contrattuale di Palazzo Chigi; in tale veste ha
collaborato alla revisione del Regolamento di
contabilità.
Del dottor Galtieri si conoscono anche rilevanti
attività scientifiche, di studio e di insegnamento. Ha
collaborato a numerose riviste giuridiche, di alcune
delle quali è stato redattore capo per molti anni
(Rassegna del Consiglio di Stato, Rassegna dei Tribunali
amministrativi regionali, La Settimana giuridica,
Rassegna giuridica della sanità, Archivio giuridico
delle opere pubbliche). Ha pubblicato numerosi articoli
in materia di diritto amministrativo, finanza locale,
informatizzazione giuridica, danno ambientale, controlli
di gestione e responsabilità, attività contrattuale
della P.A..
È coautore di numerose opere in materie amministrative,
con particolare riguardo all’attività contrattuale (da
ultimo: Appalti pubblici di servizi - Il Sole 24 ore
1996-1998; Appalti pubblici di forniture, Il Sole 24
ore 2001; Il leasing e la Pubblica amministrazione,
Il Sole 24 ore 2001; La realizzazione dei lavori
pubblici, CEL 2004).
Galtieri ha anche svolto una intensa attività didattica
collaborando per molti anni alla cattedra di Diritto
amministrativo presso l'Università degli Studi di Roma
“La Sapienza” ed ha svolto, come professore a contratto,
l’insegnamento integrativo di “Attività contrattuale
della P.A.” presso la cattedra di Diritto amministrativo
della Facoltà di Economia dell’Università di Perugia.
È docente nell’ambito dell’annuale Corso sui contratti
pubblici presso la Scuola di perfezionamento in diritto
amministrativo dell’Università di Bologna – SPISA,
presso la quale ha tenuto anche il corso di “Contabilità
di Stato”.
Ha tenuto anche lezioni sugli appalti pubblici e il
danno nell’ambito dei Corsi per Ufficiali superiori
presso la Scuola di Polizia tributaria della Guardia di
finanza.
Al Presidente ed al Procuratore Generale le
congratulazioni e gli auguri di www.unsognoitaliano.it
che spesso si occupa di tematiche concernenti le
attribuzioni di controllo e giurisdizionali della Corte
dei conti.
7 agosto 2016
Il caso del PM dell’incidente ferroviario di Andria che ha rinunciato
all’inchiesta dopo le foto che la ritraggono con
l’avvocato difensore di uno degli imputati
L’indipendenza dei giudici tra l’essere e l’apparire
di
Salvatore Sfrecola
Infine il Sostituto Procuratore della Repubblica di
Trani, titolare dell’inchiesta sull’incidente
ferroviario di Andria con morti e feriti, ha rinunciato
all’incarico. Dopo che su Facebook erano state
pubblicate, postate come si dice, foto che dimostravano
una notevole familiarità con un avvocato, difensore di
uno dei capostazione indagati. Il magistrato ha lasciato
l’inchiesta ma non potrà evitare che del suo caso si
occupi il Consiglio Superiore della Magistratura. La
procedura, infatti, è stata avviata.
La vicenda porta nuovamente all’attenzione dell’opinione
pubblica una questione antica, oggi enfatizzata dalla
possibilità di diffusione delle notizie anche personali
sui mezzi di comunicazione di massa, quella della
indipendenza dei magistrati, giudici e pubblici
ministeri, un requisito minimo, essenziale per chi
amministra la giustizia. Un requisito che la
Magistratura stessa è da sempre impegnata a tutelare,
considerato che il comportamento e, quindi, l’immagine
di ognuno ricade sull’immagine di tutti.
Un’indipendenza che deve essere osservata non solamente
nel concreto esercizio delle funzioni, giudicanti o
requirenti, ma che occorre sia evidente, secondo la
regola antica che non basta essere indipendente, è
necessario anche apparire tali agli occhi della gente. E
non c’è dubbio che il PM che oggi ha rinunciato
all’inchiesta è stata imprudente avendo consentito ad un
avvocato confidenze che neppure in un luogo privato, in
presenza di altre persone, dovevano essere permesse, tra
l’altro testimoniate da più foto pubblicate sempre sui
social network.
Allo stesso tempo l’avvocato ha dimostrato gravissima
scorrettezza, in particolare se fosse effettivamente
legato da un rapporto di amicizia al magistrato,
mettendola in una condizione di gravissimo imbarazzo, a
meno che non si sia comportato in tal modo per ottenere
il risultato di eliminare quel Pubblico Ministero dalla
sua strada. Ipotesi che, allo stato, non è sorretta da
alcun indizio.
Ingenuità o malafede non conta. Il danno all’immagine
della Giustizia è fatto, perché resta nell’immaginario
di chi ha visto quelle foto la possibilità di rapporti
non limpidi, e si sente legittimato a generalizzazioni
ed illazioni ingiuste.
6 agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti - 5
Una riforma approvata da un Parlamento delegittimato
di Salvatore Sfrecola
Per i fautori del SÌ la legge di revisione della
Costituzione è stata approvata “con una larga
maggioranza” peraltro non sufficiente ad evitare il
referendum (non sarebbe stato necessario, ai sensi
dell’art 138, comma 2, Cost. se la legge fosse stata
“approvata nella seconda votazione da ciascuna delle
Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”).
Per il Comitato del NO, e per quanti condividono questa
posizione, è stata una “finta maggioranza”. Anzi, “una
minoranza che, grazie alla sovrarappresentazione
parlamentare (il premio di maggioranza, n.d.A.) fornita
da una legge elettorale dichiarata (anche per questo
motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è
divenuta maggioranza solo sulla carta, non può spingersi
fino a cambiare, con un violento colpo di mano, i
connotati della Costituzione”. Infatti la sentenza della
Corte costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014
(Presidente Silvestri, relatore Tesauro), che ha
dichiarato illegittimo il Porcellum, la legge con
la quale le attuali Camere sono state elette (e che ha
assicurato il “premio”), pur non delegittimando il
Parlamento, in ragione del “principio della continuità
dello Stato” largamente contestato in sede scientifica,
avrebbe tuttavia richiesto una limitata sopravvivenza di
quelle Camere, giusto il tempo di varare una nuova legge
elettorale per poi essere sciolte ed andare a nuove
elezioni.
Una soluzione “diplomatica”, si direbbe, ma chiara. Le
Camere non possono venir meno immediatamente ma hanno
una limitata legittimazione. Possono solo occuparsi
dell’emergenza. Invece sono ancora in carica, ad oltre
due anni e mezzo dalla sentenza che si è pronunciata sul
Porcellum. Tra l’altro il rinvio al principio di
continuità dello Stato, criticatissimo come si è detto,
è motivato in modo assai fragile, con riferimento a due
articoli della Costituzione (gli artt. 61, comma 2, e
77, comma 2) che riguardano, rispettivamente, la proroga
dei poteri delle Camere sciolte (ma regolarmente
elette), in attesa della prima riunione delle “nuove”, e
la convocazione delle Camere “anche se sciolte” ai fini
della conversione dei decreti legge. È chiaro che si
tratta di due situazioni giuridiche molto diverse. Non
ci azzeccano, direbbe Di Pietro.
Questo Parlamento, dunque, legittimato a funzionare solo
in ragione dell’emergenza, non poteva spingersi fino a
cambiare la Costituzione. Il Comitato per il NO parla di
“un violento colpo di mano di una minoranza che
artificiosamente è divenuta maggioranza”.
Su questa realtà il Capo dello Stato avrebbe dovuto
vigilare perché fosse rispettata la sentenza della
Consulta. Invece il 22 aprile 2013, di fronte al
Parlamento in seduta comune, il giorno del suo secondo
insediamento, Napolitano ha sostenuto, come ricorda
Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico
comparato all’Università di Perugia, fautore del SÌ, che
la prosecuzione della legislatura si giustificava
proprio in funzione di riforme necessarie e non più
eludibili.
Senza dubbio una forzatura. Neppure particolarmente
elegante.
Tra i fautori del SÌ c’è anche il Prof. Stefano
Ceccanti, costituzionalista, il quale ritiene che “la
legittimità è un argomento che non si può usare. O si è
legittimi o non si è legittimi. O bisognava andare a
votare subito e il Parlamento non poteva fare più
niente. Oppure non era necessario andare a votare e il
Parlamento può fare tutto. Come può votare la fiducia al
governo ed eleggere il Presidente della Repubblica e i
giudici costituzionali, così allo stesso modo il
Parlamento può riformare la Costituzione. Dopodiché, se
esiste un dubbio di rappresentatività, sarà sciolto dal
voto referendario”.
Non è così. Le Camere dovevano essere sciolte. Avrebbe
dovuto provvedere in tal senso il Presidente della
Repubblica. Non l’ha fatto e questo non si risolve come
dice il Prof. Ceccanti con il voto referendario. Perché
quel voto non può legittimare ciò che legittimo non è,
perché il referendum non costituisce verifica della
legittimità del procedimento legislativo. In diritto la
forma spesso è sostanza, soprattutto quando si tratta
delle regole della democrazia rappresentativa e della
legalità costituzionale. Ma non c’è modo di far fronte
alla prepotenza. Né è immaginabile un intervento della
Corte costituzionale.
È un problema di sensibilità politica. L’idea che un
Parlamento, eletto sulla base di una legge dichiarata
incostituzionale, possa non solo sopravvivere oltre un
ragionevole lasso di tempo ma addirittura si metta a
riformare la Costituzione sarebbe inimmaginabile in
qualunque democrazia liberale.
Anzi, interpellato da Formiche, Ceccanti va al
contrattacco e risponde alle critiche mosse sul Fatto
Quotidiano dal Presidente emerito della Corte
costituzionale Gustavo Zagrebelsky che in 15 punti ha
manifestato la propria contrarietà alla riforma. In uno
di questi il Presidente aveva affermato come la riforma
della Costituzione non debba garantire la governabilità
bensì un governo. Precisando di ritenere che “governo,
in democrazia, presupponga idee e progetti politici
capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno.
In assenza, la democrazia degenera in linguaggio
demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della
rassegnazione e dell’abulia”. Per Ceccanti quella di
Zagrebelsky è una “opzione di tipo culturale” e sposta
l’accento sull’esperienza delle democrazie europee di
pari importanza, le quali, “seppur con regole diverse –
hanno tutte sempre assicurato un governo di legislatura.
Ciò invece in Italia non è accaduto. Basta pensare alla
cancelliera tedesca Angela Merkel che nei vertici
europei ha visto alternarsi Prodi, Berlusconi, Monti,
Letta e Renzi. Mi pare difficile sostenere che in Italia
non ci sia un problema di governabilità e che le
soluzioni adottate con la riforma non lo riducano”.
Queste considerazioni rivelano un altro aspetto del
dibattito, spesso evocato ma non inquadrato nei suoi
esatti termini. La questione della governabilità è
evidentemente rimessa ad una saggia legge elettorale non
alla revisione delle istituzioni. L’Italia, infatti, con
questa Costituzione, ha avuto governi di legislatura
proprio in ragione di una legge elettorale, il
cosiddetto Mattarellum, che aveva sperimentato
collegi uninominali, sostituita da quella dichiara
incostituzionale, approvata in fretta e furia sul
crepuscolo della legislatura 2001-2006, quando la
maggioranza di Centrodestra, comprendendo di
avere scarse possibilità di tornare a vincere nelle
elezioni del giugno 2006, aveva cercato di parare il
colpo, “riuscendo” a perdere per soli 24 mila voti.
Insomma, come è accaduto altre volte, una legge fatta a
misura degli interessi di chi la propone. Ed, infatti,
la modifica della legge elettorale è avvenuta
ripetutamente negli ultimi trenta anni.
Sono riforme dal fiato corto, che rivelano la cura di
interessi particolari, quelli del partito egemone o che
pensa di diventarlo.
Questo, comunque, attesta della stretta connessione tra
Costituzione e legge elettorale. Infatti la
governabilità non è assicurata dalla riforma
costituzionale ma dalla maggioranza conquistata in sede
elettorale, maggioranza che, a sua volta, assicura al
partito egemone la possibilità di eleggere in solitario
il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali
ed i componenti laici del Consiglio Superiore della
Magistratura. È evidente che c’è un pericolo per la
democrazia.
In difficoltà nel difendere la decisione di Napolitano
di far sopravvivere le Camere, Clementi afferma che
questa riforma è comunque valida perché “migliorerà la
qualità della democrazia” spiegando che ciò è possibile
“perché affronta i principali problemi che da decenni
vengono sottolineati da ogni partito o schieramento
politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre
istituzioni di fronte al tempo che cambia”.
Una risposta apodittica che fa il paio con
l’affermazione che, grazie a questa riforma “ci sarà un
miglioramento della qualità della legislazione, tanto
nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla
decretazione d’urgenza ai referendum propositivi
e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro
ordinamento”. Apodittica perché la qualità della
legislazione è dato dalla professionalità del
legislatore, come sanno bene coloro che, giudici,
avvocati, funzionari pubblici, s’interrogano
quotidianamente sul significato delle parole della legge
per cercare di comprendere quale sia l’obiettivo che si
è voluto perseguire, sovente senza riuscirci. Un impegno
arduo, perché frustrato dalla oscurità dei testi, dalla
loro inutile ridondanza, dal lessico approssimativo.
Come nella legge di revisione che non pochi hanno
osservato essere scritta in un italiano scadente e
ricordato nell’occasione come Meuccio Ruini, Presidente
della Commissione dei Settantacinque, che ha
redatto la bozza di Costituzione, avesse incaricato
Concetto Marchesi, famoso storico della letteratura
latina, Costituente, di farsi coadiuvare da alcuni
illustri linguisti per una revisione del testo, si
direbbe, “risciacquandolo” nel Tevere, come Manzoni
aveva risciacquato “i panni in Arno”, insoddisfatto
della prima stesura de I promessi sposi. “La
Costituzione – precisò Ruini – si rivolge direttamente
al popolo e deve essere capita”. Anche questa esigenza è
connotato fondamentale della democrazia. L’aveva
richiamata Piero Calamandrei in Assemblea Costituente il
4 marzo 1947, lodando esempi di “equilibrio e di armonia
stilistica”, riconosciuti proprio in un documento di
Ruini. Un po’ come dello Statuto Albertino, del quale
aveva sentito dire da un altro Costituente “guardate
come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare
l’Italia per quasi un secolo”
4
agosto 2016
La revisione della Costituzione: le parole e i fatti – 4
Per i fautori del SÌ quella che siamo chiamati ad
approvare o respingere con il referendum è una riforma
necessaria, attesa da anni, che ci chiede l’Europa, che
il Presidente Napolitano ha posto al vertice dell’agenda
del governo. Ma non è così
di Salvatore Sfrecola
Una riforma necessaria, attesa da anni, che ci chiede
l’Europa, che il Presidente Napolitano ha posto al
vertice dell’agenda del governo. Così i fautori del SÌ.
Di queste affermazioni, tuttavia, è vera solamente
l’ultima, quella del presidente Napolitano impegnato in
prima persona. E che adesso, terminato il suo mandato,
anche da “emerito” continua a premere affermando che con
il NO sarebbe a rischio la sua eredità !). Qualcuno
direbbe che basta questa affermazione per votare NO. Ma
sarebbe una battuta e noi vogliamo ragionare sulle cose.
Cominciamo, dunque, daccapo, inquadrando il messaggio
nell’esperienza degli ultimi decenni. Una riforma
urgente per la governabilità è tesi ricorrente, da Craxi
a Berlusconi a Renzi. Secondo questa lettura delle
questioni politiche tutte le insufficienze dell’azione
governativa, nell’amministrazione e nell’economia, non
sono conseguenza dell’inadeguatezza della classe
politica di governo e di maggioranza che lo sostiene, ma
dell’assetto istituzionale, in sostanza della
Costituzione che, per definizione, è legge solo di
principi, spesso composta di un limitato numero di norme
destinate a durare nel tempo. Mentre le politiche
pubbliche si perseguono con leggi ordinarie, regolamenti
e decreti vari.
Le costituzioni, naturalmente, non sono immodificabili.
Per cui ove emergesse per la nostra Carta fondamentale
l’esigenza di intervenire, le modifiche dovranno
comunque essere approvate con l’ampio consenso con il
quale a suo tempo, a fine 1947, è stata approvata.
Questa riforma, invece, non è stata
approvata “nella
seconda votazione da ciascuna Camera a maggioranza di
due terzi dei suoi componenti” (art. 138,
comma 3) circostanza che avrebbe evitato il referendum.
Altro che “larga maggioranza”.
Quel che sfugge al partito della riforma, che pure non è
nuovo a colpi di mano, come quando nel 2001 approvò con
soli tre voti, la riforma del Titolo Quinto oggi
disconosciuta, è che approvare una riforma con un solo
voto di maggioranza non è nello spirito dei Costituenti.
Infatti la Carta fondamentale vive nel consenso più
ampio delle Camere. Conseguentemente con il voto dei due
terzi del Parlamento non si fa luogo a referendum.
Questa regola, una procedura definita “aggravata” per la
necessità del più ampio consenso delle Camere, è
conseguenza della natura “rigida” della Costituzione,
voluta dai Costituenti a seguito dell’esperienza delle
sventure conseguenti all’alterazione delle regole
statutarie dovute, nel periodo fascista, alla natura
“flessibile” dello Statuto Albertino che ne consentiva
la modifica con legge ordinaria. Dal 1948 la Carta
fondamentale è, dunque, parametro di riferimento della
legislazione ordinaria presidiata dalla Corte
costituzionale, quale giudice delle leggi. Uno dei
“contrappesi” che rischiano di venir meno al loro ruolo
in ragione dell’ampio potere di nomina dei giudici
costituzionali che è assicurata dalla legge elettorale,
il cosiddetto Italicum, alla maggioranza di
governo che, avendo il potere incontrastato di fare le
leggi (in ragione dei numeri di cui dispone alla Camera
a seguito del premio di maggioranza), influirebbe in
misura determinante anche sulla compagine del collegio
che ne giudica la legittimità costituzionale. Infatti,
oltre ai giudici eletti dalla maggioranza parlamentare,
che è anche maggioranza governativa, ve ne sono altri
cinque nominati dal Presidente della Repubblica che con
la nuova legge elettorale è eletto in solitario dalla
medesima maggioranza. Uguale cosa può dirsi della
elezione del Presidente della Repubblica, dei Giudici
costituzionali e dei componenti laici del Consiglio
Superiore della Magistratura.
Sul sistema dei pesi e dei contrappesi nell’assetto
costituzionale, che, come detto, con questa riforma
sarebbero condizionati dal “premio” di maggioranza di
340 seggi alla Camera, che porterebbe il partito
vincitore ad essere autosufficiente in ogni votazione,
sbaglia, dunque, il Ministro per le riforme, Maria Elena
Boschi, quando afferma che “non
corrisponde alla realtà” un pericolo per la
tenuta delle istituzioni di garanzia. A suo giudizio,
infatti, la Repubblica rimane parlamentare, il
Presidente della Repubblica mantiene il ruolo di garante
della correttezza istituzionale, le funzioni attribuite
alla Corte Costituzionale e l’autonomia della
magistratura non vengono intaccate. “Nulla
di quello che è stato modificato con la riforma, incide
sui pesi e sui contrappesi“, sostiene.
I dubbi, invece, ci sono e fondati, in quanto la
maggioranza ha i numeri per prendere tutto, una
preoccupazione già manifestata da Bersani in via di
principio al momento della votazione sulla legge
elettorale (Corriere della Sera, 9 aprile 2014).
Dubbio che è espressione di onestà intellettuale e non
di un calcolo politico, quello che aveva indotto Renzi a
prevedere un tetto del 40% per il vincitore (anche meno,
ovviamente, in caso di ballottaggio) nella convinzione
che il livello di consensi ottenuto dal Partito
Democratico nelle elezioni europee (superiore al
40%) sarebbe stato mantenuto nel tempo.
Di qui le ragioni del NO nel prossimo referendum,
istituto che nella storia delle democrazie occidentali e
nel nostro ordinamento, è espressione della cosiddetta
“democrazia diretta”, le cui ragioni storiche e
politiche vanno essenzialmente individuate nella
necessità di attribuire al popolo, cioè al corpo
elettorale, la verifica di alcune delle decisioni
assunte dagli organi della rappresentanza popolare, i
Parlamenti.
Chi ha manifestato nel tempo contrarietà al
referendum ha individuato nell’istituto “difetti e
svantaggi, come, ad esempio, l’inidoneità e
l’incompetenza dei comuni cittadini nel deliberare in
ordine agli affari di governo spesso tecnicamente
complessi; l’impossibilità di giungere ad un compromesso
tra le due opposte posizioni, così che il referendum
obbliga ad adottare una delle due soluzioni
necessariamente antagoniste, e non favorisce la ricerca
del consenso su decisioni intermedie, il pericolo che,
mediante la rigorosa e forzata utilizzazione del
criterio maggioritario, le minoranze risultino ancor più
oppresse” (G. M. Salerno). Ha osservato, in proposito,
Michele Ainis come “questo referendum ci confisca il
diritto di scegliere fra i suoi diversi petali, ma non è
colpa dei costituenti: l’art. 138 venne concepito per
interventi singoli, chirurgici, puntuali” (L’Espresso
del 4 febbraio 2016). È questo il motivo per il quale,
forse nel timore che possa prevalere il NO, si vanno
facendo strada proposte di “spacchettamento” del quesito
referendario (nel senso di prevedere quesiti distinti su
singoli punti della riforma) che dovrebbero,
nell’intenzione di chi lo propone, acquisire consensi su
alcuni degli aspetti più condivisi. Soluzione non
praticabile in ragione della connessione esistente tra
le norme. Il Presidente del Consiglio si dice contrario
a spacchettare: “no a quesiti à la carte”, ha
detto in un’intervista a Il Sole 24 Ore il 12
luglio. È la tesi anche di Stefano Ceccanti, docente di
Diritto pubblico comparato all’Università di Roma “La
Sapienza”, secondo il quale “la riforma costituzionale è
una sorta di patto, dal punto di vista tecnico e
politico. Questi interventi prevedono delle
compensazioni interne: si cede su un articolo, si
bilancia con un altro. Tutto si tiene, è inimmaginabile
cancellarne solo una parte”. Unico dubbio è: il “patto”
con chi è stato fatto se la maggioranza si è tenuta
stretta intorno alla sua base escludendo pressoché tutti
gli emendamenti dell’opposizione?
Quesito onnicomprensivo, dunque, a fronte del quale
l’immagine, offerta dal Presidente del Consiglio
attraverso i media, dell’elettore che legge,
capisce, valuta e decide non corrisponde alla realtà di
un testo che anche gli esperti giudicano di difficile
interpretazione, probabilmente perché non privo “di
difetti e discrasie”. A mio giudizio un quesito
referendario pressoché indecifrabile è una autentica
“truffa” ai danni dei cittadini elettori. Una questione
che i fautori del SÌ tentano di aggirare affermando,
come ha fatto il gesuita Padre Occhetta (su Civiltà
Cattolica), che “va anzitutto compresa la logica
referendaria”, ricordando che “l’elettore è chiamato a
dare un giudizio sintetico e globale, avendo presente il
testo vigente (quello che sarebbe confermato in caso di
successo del No) e quello approvato dalla riforma Boschi
(…)”.
Quindi SÌ o NO all’intero pacchetto, indipendentemente
dalle norme, e questo riduce obiettivamente – come ha
scritto Michele Ainis - gli spazi di libertà
dell’elettore cui la decisione finale è affidata.
Insomma si vota “la logica” e si fa finta di niente
quanto alle singole norme.
Abbiamo detto iniziando che i fautori del SÌ sostengono
che la riforma fosse necessaria, attesa da anni, che ci
chiede l’Europa, che il Presidente Napolitano ha posto
al vertice dell’agenda del governo. Secondo i
firmatari del manifesto del SÌ e quanti si sono
impegnati nel sostenere le ragioni della legge di
revisione costituzionale, esponenti dei partiti, dei
sindacati, delle associazioni di categoria (dalla
Confindustria alla Confartigianato) e del mondo
accademico, la riforma, varata in Parlamento “con una
larga maggioranza” affronta “efficacemente alcune fra le
maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. “Nel
progetto - scrivono - non c’è forse tutto, ma c’è molto
di quel che serve, e non da oggi”. È la tesi della
riforma attesa “da tempo”, senza che venga in mente a
chi la sostiene che se non è stata proposta e approvata
vuol dire che non c’era consenso, che in un ordinamento
costituzionale è la misura della democrazia.
Le “emergenze istituzionali” sono in vario modo
individuate nella necessità di superare il
“bicameralismo paritario” ed assicurare la
“governabilità”, in tandem con la nuova legge elettorale
entrata in vigore il 1° luglio 2016. Si afferma, in
particolare, che la Governabilità va individuata nel
fatto che, superato “l’anacronistico bicameralismo
paritario indifferenziato” si prevede “un rapporto
fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo”.
Il Senato, infatti, non vota la fiducia. Argomento forte
nel dibattito politico e come tale ricorrente nei
confronti televisivi come nei conversari della gente,
anche se non poteva che essere così. Una Camera i cui
componenti non sono eletti dal popolo non può votare la
fiducia. Anche il Senato del Regno, di nomina regia, non
votava la fiducia. Nessuno lo ha mai dubitato,
nonostante quell’assemblea fosse composta dalle maggiori
personalità della cultura e delle istituzioni (da
Manzoni a Verdi, a Carducci, Einaudi, Croce, Pacinotti,
Righi, per fare qualche nome tra quelli più noti al
grosso pubblico, se non altro perché ad essi sono
intestate scuole e vie).
Una riforma, si sostiene, che “ci chiede l’Europa”. In
realtà l’Unione Europea chiede quel che si può
realizzare prevalentemente con leggi ordinarie: una
giustizia più celere, per favorire gli investimenti e la
circolazione dei capitali, procedure amministrative più
snelle e più veloci e, soprattutto, più trasparenti, il
contrasto all’evasione fiscale e alla corruzione che
incidono sulla libertà di concorrenza, uno dei cardini
dell’Unione, ai sensi dell’art. 81 del Trattato.
In una visione più ampia dei rapporti tra l’Italia e
l’Unione Europea Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito
della Corte costituzionale, scrive: “Diteci che cosa
rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il
tentativo di garantire equilibri economico-finanziari
del Continente per venire incontro alla “fiducia degli
investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono
dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno
d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i
Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5
agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero
e proprio programma di governo ultra-liberista, in
materia economico-sociale, associato all’invito di darsi
istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità.
Continua Zagrebelsky: dite: “Ce lo chiede l’Europa” e
tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad
analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche
d’affari internazionali, che chiede riforme
istituzionali limitative degli spazi di partecipazione
democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in
perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme”
in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede
l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è
l’Europa alla quale volete dare risposte?. “L’Europa –
aveva detto a La Repubblica - è una scelta, non
un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede
la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a
favore di organismi internazionali, ma a condizione che
ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che
cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata
alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto
concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria
a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa
dovrebbe significare più, non meno democrazia”.
Una riforma, infine, che il Presidente della Repubblica
ha posto ad obiettivo dell’agenda del Governo, come
ripetutamente affermato dal Ministro per le riforme
Maria Elena Boschi, che se l’è intestata, insieme al
Presidente del Consiglio. L’impegno di Giorgio
Napolitano, in effetti, è stato rilevante e continuo,
tanto da rivendicare apertamente la paternità della
riforma, con interventi ripetuti e pressanti non
consueti ad un Capo dello Stato in una Repubblica
parlamentare, affermando che, se prevalesse il NO,
considererebbe il risultato una sua personale sconfitta,
un disconoscimento della sua iniziativa (“col
referendum, a rischio la mia eredità”), aggiungendo che
in tal caso “per le riforme è finita: l’Italia apparirà
come una democrazia incapace di riformare il proprio
ordinamento e mettersi al passo con i tempi” (Corriere
della Sera del 3 maggio 2016). Una indicazione che
il Presidente, sappiamo, non poteva dare. L’indirizzo
politico è nelle scelte dell’elettorato (che non ne ha
date al riguardo) e nel voto delle Camere che approvano
le dichiarazioni programmatiche del Governo. Per cui la
lettura “presidenzialista”, di cui si è molto parlato
(riassunta giornalisticamente nell’espressione “Re
Giorgio”), è fuori della Costituzione.
Un comportamento entrato ancora nel mirino di
Zagrebelsky che, nell’accusare il Governo di
“arroganza”, ha sottolineato come “queste riforme sono
state avviate dall’esecutivo con l’impulso di chi, per
debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi
anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della
Repubblica; sono state recepite nel programma di governo
e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione
del Parlamento con ogni genere di pressione” (in Loro
diranno, noi diciamo, Laterza).
Per chi ha sensibilità democratica e crede nel ruolo del
Parlamento, riflesso delle speranze dell’elettorato, ci
sono troppe forzature delle regole lungo il percorso
riformatore perché non si possa che votare NO.
1° agosto 2016