MAGGIO 2015
Mentre si discute di una “riforma” che non convince,
docenti, famiglie e studenti
Scuola e cultura: le colpe della Destra e della Sinistra
di Salvatore Sfrecola
Desidero ricordare ancora una volta la frase, ascoltata a
Roma, in viale delle Milizie, nei pressi di uno dei più
noti licei romani (un tempo si diceva “prestigiosi”).
L’aveva pronunciata una ragazza rivolgendosi agli amici
con i quali si apprestava a varcare il cancello
d’ingresso: “se non avessi il cellulare non saprei come
passare il tempo a scuola”.
Si tratta di una persona evidentemente stupida, senza
interessi e senza valori. Tuttavia non ce la possiamo
cavare così. Diceva mio nonno, insegnante di italiano e
latino in un prestigioso liceo (questo sì) che quando un
ragazzo va male a scuola nella maggior parte dei casi la
responsabilità è del docente. Nel senso che non ha saputo
coinvolgere lo studente, interessarlo e stimolarlo
all’apprendimento che, in un liceo, che offre una vasta
gamma di discipline letterarie e scientifiche, da
affrontare anche in forma critica nutrendosi di
riflessioni e di dubbi, non è poi così difficile.
L’aneddoto ci dice qual è lo stato della nostra scuola.
Senza generalizzare, sempre sbagliato, non c’è dubbio che
per ognuno di noi che ha seguito i figli nel corso degli
studi si sia posto il confronto con i propri docenti dai
quali anni prima aveva imparato non solo a leggere di
greco e di latino ma, per ricordare il Poeta aveva appreso
anche di altre virtù, in primo luogo il senso di
appartenenza ad una comunità, le radici culturali
dell’Italia e dell’Europa e le singole materie, dalla
fisica alla biologia, dalla chimica alla storia dell’arte.
Quella nostra era certamente una “buona scuola”. Forse ne
è consapevole anche il Presidente del Consiglio, Matteo
Renzi, che questo slogan ha ripreso. Perché la scuola deve
tornare ad essere “buona”, ma – direi - anche “bella”, nel
senso di “funzionale” perché gli insegnamenti siano
impartiti in edifici costruiti con criteri moderni e
funzionali, idonei ad accogliere gli studenti ed a fornire
loro gli strumenti necessari, una biblioteca ricca e
aggiornata, laboratori, palestre.
Lo dico a ragion veduta perché a questi requisiti
rispondeva il mio ginnasio-liceo, il “Torquato Tasso”, una
grande costruzione umbertina della Roma neo capitale
d’Italia, grandi aule luminose per le imponenti vetrate,
una ricca biblioteca, un’aula magna dove si potevano
tenere conferenze e rappresentare spettacoli teatrali, due
aule ad anfiteatro, rispettivamente per le scienze
naturali e la fisica, con una dotazione assai rilevante di
apparecchiature per fare esperimenti. In particolare
l’aula di scienze naturali aveva una vastissima collezione
di minerali di ogni genere, di animali, dai più piccoli,
conservati in barattoli di formalina, ai grandi
imbalsamati e scheletri anche umani, che consentivano al
docente, assistito da un tecnico di laboratorio, di
presentare, ad illustrazione delle lezioni, reperti di
straordinario interesse che sono rimasti nella mente e
nella cultura degli studenti di quel liceo romano. Lo
continuavano a frequentare gli ex studenti iscritti a
medicina i quali si preparavano a conoscere tibie e crani
in abbondanza conservati nelle grandi vetrine.
Questo riferimento sta a dimostrare, a confronto delle
scuole successivamente costruite, un notevole degrado
dell’edilizia scolastica, che non solo non presenta quelle
importanti aule didattiche ma, spesso, neppure palestre
dove un tempo i docenti di educazione fisica univano agli
esercizi alla pertica o alla spalliera o al classico salto
della cavallina anche nozioni sul corpo umano, dalla
fisiologia della respirazione alle regole di postura per i
giovani impegnati in lunghe ore a tavolino.
Il degrado dell’edilizia scolastica, spesso le scuole sono
ubicate in edifici in origine destinati a civile
abitazione, con aule anguste e poco luminose è l’immagine
di una scuola che non è più in condizione di assicurare
agli studenti quella preparazione culturale e
professionale che ne dovrebbe fare cittadini responsabili
e professionisti pronti ad affrontare il mondo del lavoro.
Non si studia più, da tempo, l’educazione civica,
necessaria per la conoscenza dei diritti e dei doveri. Non
si studia più la storia in modo compiuto né la geografia,
ad essa intimamente connessa dacché è evidente che i
luoghi degli insediamenti umani fin dai tempi più antichi
ne hanno condizionato la vita e la politica. Se i Fenici
avessero avuto più terreno da coltivare e sul quale far
pascolare gli armenti forse non si sarebbero dedicati alla
navigazione. Lo hanno fatto anche perché potevano
costruire navi solide usando gli alberi delle grandi
foreste. Ed hanno attivato importanti scambi commerciali
su linee di navigazione che ancora oggi segnano molti
rapporti internazionali. È storia ma è anche politica
economica.
Lasciando il latino, che non si studia e non si
approfondisce come strumento di raccordo con le radici
della nostra cultura, anche l’italiano è trascurato. Lo si
deduce dai servizi televisivi e da molti articoli di
giornale, lo si vede nelle relazioni parlamentari, nei
testi di legge e financo nelle sentenze. Eppure una buona
conoscenza dell’italiano assicura una marcia in più in
qualunque professione, per l’ingegnere che scrive una
relazione tecnica, per il medico che ricostruisce
l’anamnesi del paziente, oltre, ovviamente, per un
avvocato o un giudice. Dico spesso ai miei colleghi che
anche un testo di diritto può essere scritto in un buon
italiano, evitando ripetizioni e assonanze e dando
all’esposizione il respiro di una lettura piacevole che
induce il destinatario a prestare la massima attenzione al
contenuto del documento.
Insomma, tutto sta a dimostrare il grave disinteresse
della classe dirigente di questo Paese per la formazione
dei giovani, incurante che nella scuola, a cominciare
dalle elementari, è la ricchezza della Comunità dal punto
di vista etico e delle capacità lavorative in tutti i
settori di interesse per lo sviluppo economico e sociale.
La trascuratezza dei locali e delle loro attrezzature ha
riguardato progressivamente anche il corpo docente. Non è
stato sempre così. Un tempo i professori godevano di stima
per la loro riconosciuta preparazione professionale. A
questo proposito ricordo spesso il mio professore di
storia e filosofia il quale, prima della guerra, essendo
laureato in giurisprudenza, aveva vinto la cattedra e,
nello stesso anno, il concorso in magistratura, ma aveva
optato per l’insegnamento perché, in quegli anni, i
professori di liceo avevano una retribuzione superiore a
quella dei magistrati. Raccontava spesso di questa scelta
inconsapevolmente sbagliata. Questo dimostra, ma non
vorrei passare per un laudator temporis acti, con
il rischio, che accetto, di apparire un nostalgico
dell’Italia liberale, che un tempo la classe politica
aveva maggiore considerazione della funzione docente.
Ripeto, a partire dalla scuola elementare, dove certamente
il “maestro” ha la responsabilità più grande, perché è li
che si stimola l’alunno alla curiosità e allo studio, alla
ricerca del metodo di apprendimento che lo segnerà anche
successivamente, nella scuola media, primaria e
secondaria, ed anche nell’università.
Al contrario, il ruolo degli insegnanti è stato svilito.
Ciò che è avvenuto agli occhi di tutti attraverso
l’attribuzione loro di un trattamento economico
assolutamente inadeguato, non solo alla vita ma anche alla
possibilità, che deve essere riconosciuta a una persona di
cultura che la deve trasmettere ai propri studenti, di
aggiornarsi attraverso l’acquisto di libri, l’abbonamento
a riviste, la partecipazione a corsi di aggiornamento e di
formazione, anche all’estero, in particolare per gli
insegnanti di lingue. È abbastanza evidente che con gli
stipendi attuali, inferiori a quelli degli altri paesi
europei, un docente di qualunque ordine e grado non è in
condizione di mantenere una famiglia e di studiare. Per
cui i migliori tirano avanti con le lezioni private.
La trascuratezza della classe dirigente è tanto della
Sinistra quanto della Destra. La prima ha prestato
attenzione ai docenti soltanto a fini di consenso
elettorale e ideologico, la seconda, ritenendo perduto
quel segmento della società italiana, non ha saputo
formulare una proposta riformista che, nel solco della
tradizione, restituisse efficienza alla scuola e alla sua
funzione di preparazione delle nuove classi dirigenti. Se
andiamo a analizzare le scelte private delle persone, di
destra e di sinistra, questa trascuratezza per la scuola
pubblica è fotografata dall’interesse per le scuole
private alle quali vengono iscritti i figli della classe
dirigente che poi all’università frequentavano istituzioni
straniere per completare il loro ciclo di studi e la
preparazione professionale. In questo clima “una classe
dirigente così “ontologicamente” ignorante sulla
centralità della scuola può soltanto mandare un paese allo
sfascio” ha scritto Massimo Cacciari in una lucida analisi
condotta su L’Espresso in edicola.
In questi anni la scuola è stata ritenuta un settore dove
si poteva facilmente tagliare fondi e rinviare
riconoscimenti. Così il merito, che obiettivamente è
sempre difficile da enucleare e premiare, è stato
sistematicamente trascurato.
Non è possibile procedere oltre, né la riforma,
renzianamente definita della “buona scuola”, sembra andare
nella direzione giusta ed è dubbio forte che l’assunzione
di un numero rilevante di precari, tra quelli che hanno
insegnato poco e si sono aggiornati meno, adattandosi ad
altre attività per sopravvivere, possa assicurare un grado
adeguato di istruzione nel tempo che viviamo nel quale
troppo spesso si confonde l’apertura alla tecnologia che
caratterizza tutte le professioni con quella solida
cultura, basata anche sugli insegnamenti tradizionali, che
è comunque alla base di una dotazione personale capace di
competere nel mercato del lavoro.
I nostri diplomati e laureati, infatti, perdono sempre più
competitività anche in Europa e quanti ancora riescono a
prevalere sono coloro che hanno, per impegno personale e
familiare, completato gli studi al di là dell’insegnamento
curriculare assicurato dai docenti delle scuole pubbliche.
Sono coloro che ci fanno fare bella figura all’estero, non
solo nelle discipline scientifiche, facilmente comparabili
con quelle insegnate nei paesi europei e nelle Americhe,
ma anche in quelle umanistiche, il che dimostra che una
base buona nella nostra scuola c’è stata anche se si va
esaurendo.
Andiamo verso una scuola che i posteri difficilmente
qualificheranno “buona”, perché non si vede all’orizzonte
una selezione adeguata della classe docente e il
riconoscimento del merito degli insegnanti e degli
studenti, perché la scuola non può essere un
“diplomificio” ma deve attribuire titoli di studio che, di
per sé, attestino che nella professione riferita al
diploma la persona ha una adeguata preparazione. Invece in
questi anni, da un lato si sono elargiti titoli non idonei
a consentire un adeguato impegno professionale, facendo di
molti diplomati degli scontenti perché non riescono a
trovare un impiego in un momento di difficoltà per il
mondo del lavoro, dall’altro, in molte aree del Paese vi è
una rilevante dispersione scolastica che costituisce un
danno enorme alle persone perché ne fa dei soggetti
professionalmente non qualificati e dei cittadini non
formati.
In questa situazione, da tutti verificabile, è mancata la
voce del centrodestra che non ha avuto la capacità di
mettere al primo posto della sua proposta politica la
centralità della scuola e della formazione professionale,
venendo meno ad una tradizione, quella delle scuole come
il liceo Tasso di fine ottocento e della scuola voluta da
Giovanni Gentile, che, con gli adattamenti richiesti dal
passare degli anni, avrebbe potuto formare cittadini e
professionisti, ”Dalla scuola alla vita”, come si intitola
un bel libro edito da Pagine, coordinato da Paola
Maria Zerman, nel quale ventidue studiosi hanno
approfondito l’etica delle varie professioni, indicando
anche il ruolo che le stesse rivestono nella società
moderna e nello sviluppo della cultura e delle attività
produttive. La Destra deve ripartire da lì.
27 maggio 2015
Il comunismo strisciante
ovvero come strangolare il ceto medio
di Domenico Giglio
La vicenda innescata dalla sentenza della Corte
Costituzionale di cancellazione del limite per
l’aggiornamento, oltre tutto parziale, delle pensioni
superiori a tre volte la pensione minima, introdotto
dall’accoppiata Fornero- Monti, sta dando origine ad un
ampio dibattito, che il Decreto Legge catenaccio del
Governo Renzi non può bloccare.
In questo dibattito dove la maggioranza degli intervenuti
ha espresso il parere che i rimborsi spettassero a tutti i
pensionati, sono venute fuori delle voci, cosiddette
“autorevoli”, da Maurizio Ferrera a Sabino Cassese, con
articoli sul “Corriere della Sera”, dove fra le righe si
può leggere o capire che i titolari delle “pensioni
d’oro”, meglio definibili “ pensioni di piombo”, non hanno
di che lamentarsi in quanto con le stesse possono vivere
con larghezza, e con la frase di Cassese che “…è difficile
sostenere che coloro che godono di pensioni superiori di
sei volte il minimo, non abbiano mezzi adeguati alle
esigenze di vita…”, tocchiamo veramente il fondo della
demagogia.
Non replicheremo chiedendo quanto guadagnino oggi sia il
Ferrera che il Cassese, anche se per amore di giustizia e
verità, ne avremmo un grande desiderio, ma ci limiteremo a
sottolineare come con questa frase si offendano coloro
che, statistiche alla mano, danno il maggior importo di
imposte dirette, leggi IRPEF, sono soggetti alle
“patrimoniali nascoste” sui titoli, ed alla patrimoniale
palese sulle abitazioni, l’IMU, basata su rendite
catastali elevate, in una parola danno allo Stato, molto,
ma molto di più di quello che ricevono, come già avevano
fatto prima di andare in quiescenza, nelle loro posizioni
di responsabilità .Ricorderemo anche agli illustri
scrittori che nel passaggio dall’attività lavorativa, alla
pensioni, gli stessi contribuenti, come ha dimostrato
cifre alla mano un lettore del “Corriere”, hanno subito
una decurtazione degli emolumenti mensili del 40% ed anche
più per cento! Ridotto l’adeguamento della pensione, nelle
annualità in cui era concesso, bloccato del tutto una
prima volta dal governo Prodi, poi dal già citato governo
Monti, sul quale è appunto intervenuta la Consulta,
lentamente, ma costantemente hanno visto ridursi il potere
d’acquisto, mentre avanzavano le altre pensioni per cui al
limite la pensione dell’usciere, categoria valida ed
utile, ma non certo con funzioni dirigenziali raggiungerà
nel tempo quella del suo antico dirigente! Non è questa
una forma di comunismo strisciante, di lento
strangolamento del ceto medio, quello che, oltre a tutte
le imposte già citate, si pagava viaggi e vacanze, che
acquistava e leggeva regolarmente giornali, periodici e
libri, che pagava per andare a teatro ed ai cinema, che
visitava mostre e musei, che esercitava la beneficenza,
che aiutava anche figli e nipoti, non “figli di papà”, il
che dà ragione alla frase scherzosa, ma non troppo, che “I
comunisti amano tanto i poveri, che vorrebbero che tutti
lo diventassero….”.
Venendo infine al Decreto Renzi, riguardante solo
3.700.000 pensionati su di un totale di 4.500.000, non
tutti hanno notato che lo stesso introduce un concetto
“razziale”, creando due categorie di cittadini italiani,
gli uni con determinati diritti, gli altri privi degli
stessi, il che ricorda qualcosa ed anche in questo caso
contrasta con principi di eguaglianza giuridica, che
credevamo fossero intangibili, e dei quali l’attuale
Costituzione mena gran vanto.
21 maggio 2015
L’attacco alla Consulta per le pensioni è indice di
inciviltà giuridica
di Salvatore Sfrecola
È in atto un’aggressione violenta e senza precedenti alla
Corte costituzionale “rea” di aver deciso che la “legge
Fornero”, quella che aveva bloccato gli adeguamenti delle
pensioni superiori a 1500 euro lordi, è contraria a
principi fondamentali della Carta della Repubblica.
Scendono in campo politici, giornali, commentatori dei
talk show, frequentatori di twitter e face
book. L’accusa è quella di non aver tenuto presente il
costo della restituzione degli adeguamenti bloccati. E si
arriva a enfatizzare i contrasti all’interno del collegio
giudicante per una sentenza adottata a maggioranza, con il
voto determinante del presidente. Sennonché accade tutti i
giorni in tutti i collegi di giustizia che le decisioni
siano spesso adottate a maggioranza, soprattutto quando i
giudici sono numerosi, come i quindici della Consulta, gli
undici della Cassazione a Sezioni Unite o della Corte dei
conti a Sezioni Riunite. Ma anche nei collegi a tre o a
cinque spesso si decide a maggioranza.
Lo sanno tutti ma fanno finta di non saperlo per poter
attaccare una decisione che non fa comodo al governo il
quale aveva spudoratamente preannunciato di disporre di un
misterioso “tesoretto” da distribuire in vista delle
elezioni, come gli 80 euro alla vigilia delle europee.
Misterioso, perché spuntato all’improvviso da un Consiglio
dei ministri che si era riunito con l’incubo di dover
reperire risorse per non far scattare l’aumento dell’IVA!
Ma torniamo alla querelle sul costo della sentenza.
Su quanto il Governo e l’INPS dovranno reperire per
restituire ai pensionati quanto era stato loro tolto con
il blocco delle rivalutazioni deciso dal Governo Monti in
una operazione effettuata “in considerazione della
contingente situazione finanziaria”, sulla base di
indicazioni provenienti dall’Unione Europea, non essendo
stato capace di individuare altrove le risorse necessarie.
Si afferma da parte di taluni che la Corte costituzionale,
quale giudice delle leggi, quando adotta una sentenza che
dichiara l’illegittimità di una norma che ha effetti
finanziari, dovrebbe darsi carico anche della copertura
degli oneri derivanti dalla sua pronuncia.
Questa tesi è giuridicamente infondata ed estremamente
pericolosa per la tutela dei diritti delle persone. Non
solo perché getta discredito sulla più alta magistratura
dello Stato, quella che deve verificare la conformità di
una norma ai principi contenuti nella Carta fondamentale
dello Stato. La Consulta, in sostanza, deve accertare se
la questione di costituzionalità ritenuta “non
manifestamente infondata” da un giudice, questa è la
formula che usano i tribunali della Repubblica, merita
accoglimento sulla base delle ipotizzate lesioni di alcuni
principi fondamentali della Costituzione, a cominciare da
quello di parità di trattamento e di imparzialità che più
spesso ricorrono. Ne discende che se la norma ritenuta
incostituzionale ha effetti finanziari, cioè determina una
spesa o, come nel caso di specie, riduce una spesa, esula
dalla valutazione della Corte l’effetto ripristinatorio
della spesa e, quindi, non può darsi carico delle
conseguenti coperture. Sarebbe, infatti, assurdo che, se
governo e Parlamento adottassero una serie di disposizioni
gravemente lesive di diritti fondamentali con conseguenti
riduzioni di spese il cittadino non potesse avere
giustizia.
Ovviamente di questa vera e propria intimidazione i
giudici della Corte costituzionale non si preoccuperanno.
Non i cinque eletti dalle magistrature, abituati per
mestiere a fare giustizia in piena indipendenza, ma
neanche gli altri, eletti dal Parlamento o nominati dal
Capo dello Stato. Sono tutti giuristi di elevata
professionalità, giunti a rivestire quella toga dopo anni
di studi o di esercizio della professione forense per cui,
forti della loro indipendenza, rimarranno insensibili alle
baldanzose iniziative di qualche politico interessato ad
evitare di dover ricorrere ad aggiustamenti di bilancio
per pagare gli effetti di norme incostituzionali che hanno
privato cittadini di importanti diritti. Com’è il diritto
alla pensione, definito dalla giurisprudenza “retribuzione
differita”, riconosciuta dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 116 del 2013, che spetta, al momento della
quiescenza, a chi ha lavorato per decenni versando i
relativi contributi nella prospettiva di ricevere una
somma già definita nel suo ammontare. Sicché la norma
dichiarata incostituzionale aveva violato gli articoli 3
(“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davantoi alla legge…”), 36, primo comma, (“Il
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”) e 38, secondo comma, (“I
Iavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati
mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria”).
La Corte, che costituisce presidio essenziale in un
momento di grave imbarbarimento della legislazione
italiana (in Francia il Consiglio costituzionale ha
un controllo preventivo sulle leggi), va messa al riparo
da iniziative estemporanee e da critiche ingiustificate se
vogliamo continuare ad essere una democrazia nella quale i
diritti sono alla base delle scelte dei governi e del
Parlamento in rapporto a principi fondamentali di civiltà
giuridica scritti nella Costituzione.
Il Parlamento sarà chiamato a scegliere presto tre
giudici, uno per il quale da tempo non si raggiunge il
necessario quorum della Camera in seduta comune, un
altro vacante dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla
massima carica dello Stato, l’ultimo disponibile a breve,
sempre di elezione parlamentare. L’augurio è che il
Parlamento non si indirizzi verso scelte di personalità,
pur di elevata cultura giuridica, sensibili alla distorta
interpretazione, alla quale abbiamo fatto riferimento
iniziando, più politica che giuridica perché su questo
piano assolutamente infondata ma che potrebbe essere
gradita alla maggioranza governativa che ha pendenti
dinanzi alla Consulta una serie di questioni di
costituzionalità nate dalla contestazione di svariate
norme che sono state adottate dal governo Renzi. Il
diritto dei cittadini è una preziosa conquista dello stato
di diritto che basa la sua effettività sulla Costituzione
e sui principi che in essa sono stati definiti perché
l’Italia fosse, tra i paesi occidentali, un esempio di
democrazia e libertà. Tendenze direttoriali che procedono
dalla volontà di fare senza tener conto dei diritti
metterebbero il Paese sul piano inclinato di una china
pericolosissima dalla quale non è facile si possa uscire e
che ovunque hanno rappresentato un inizio di deriva
antidemocratica e populista dalla quale è facile rotolare
verso il baratro. Non deve avvenire.
17 maggio 2015
Con la scusa del costo delle pensioni
c’è chi pesca nel torbido
Si profila uno scontro fra generazioni
di
Salvatore Sfrecola
In questi giorni si va profilando in alcuni ambienti
politici e negli interventi di alcuni commentator quello
che appare, anche all’osservatore più distratto, il
tentativo di fomentare uno scontro tra generazioni.
L’occasione è la sentenza della Corte costituzionale, che
ha giudicato contraria ai principi della Carta
fondamentale della Repubblica la cosiddetta legge Fornero
che ha attuato, a fini di risparmio della spesa pubblica,
il blocco delle rivalutazioni delle pensioni superiori a
tre volte quelle minime. Intorno a 1500 euro lordi.
Mentre il Ministro dell’economia Padoan si mostra
preoccupato dell’effetto della sentenza sui conti
pubblici, senza peraltro indicare l’esatto ammontare di
quanto va corrisposto ai pensionati in esecuzione della
pronuncia della Consulta, dati che possiede perché
contenuti nella relazione tecnica che ha accompagnato la
proposta Fornero in Parlamento, cominciano a sentirsi
preoccupanti affermazioni che tendono a mettere l’un
contro l’altro i giovani e i pensionati. Dice, per
esempio, Elisabetta Gualmini, già Presidente dell’Istituto
Cattaneo ed oggi vicepresidente della Giunta della Regione
Emilia-Romagna, intervenuta ieri mattina ad OmnibusLa7
che mentre si parla di restituire ai pensionati il
maltolto nessuno pensa ai giovani. Affermazione gravissima
che distorce la realtà nel tentativo spregiudicato di
allontanare la responsabilità della situazione dal Governo
e dalla sua maggioranza.
È evidente, infatti, che le due situazioni non sono
comparabili. Da una parte c’è un diritto leso da una norma
che non ha tenuto conto di diritti acquisiti, costruiti a
misura di contributi definiti sulla base di leggi, diritti
che vanno ripristinati, dall’altro c’è un’esigenza sociale
sentitissima che quella di mettere a disposizione dei
giovani posti di lavoro in un quadro di sviluppo
dell’economia. Esigenza che sentono soprattutto “nonni” e
“padri”, cioè i pensionati, che suppliscono, con le loro
modeste risorse, che non possono essere definite “d’oro”,
alle esigenze di quanti non hanno o hanno perso il lavoro
con una solidarietà tra le generazioni che sarà
sicuramente ridotta se non dovesse arrivare la
rivalutazione delle pensioni in conseguenza della sentenza
della Corte costituzionale. Tutto ciò in assenza di
adeguati interventi di Governo e Parlamento i quali,
ciascuno per la propria parte di responsabilità, hanno il
dovere di costruire le condizioni per le quali l’economia
italiana si riprenda, favorendo l’aumento
dell’occupazione, un’occupazione che non può prescindere
da un incremento dei consumi e, quindi, dall’aumento della
produzione. Oggi noi assistiamo agli effetti,
probabilmente purtroppo temporanei, di una rinnovazione di
contratti resa possibile da incentivi alle imprese che
assicurano gravi fiscali e contributivi a tempo dei quali
gli imprenditori si giovano. È una scommessa sul futuro,
perché è evidente che se non ci sarà ripresa della
produzione quei contratti saranno naturalmente risolti
allo scadere dei benefici.
Questo scontro tra generazioni che si va delineando,
gravissimo nelle parole di una studiosa come la Gualmini,
è espressione di un modo di fare politica introdotto da
Matteo Renzi che fin dall’inizio si è esercitato nella
demonizzazione di categorie nei confronti delle quali ha
esercitato forme di aggressione, a volte violenta, come
nei confronti dei dipendenti pubblici, dei cosiddetti
“mandarini”, dei magistrati per i quali è giunto ad usare
argomenti non solo infondati ma addirittura ridicoli, come
quello di confondere le ferie con il periodo di
sospensione dei termini giudiziari, una norma che
interessava soprattutto gli avvocati.
La politica di mettere contro tra loro le categorie, anche
sulla base di contrapposizioni artificiose, è uno
strumento politico di corto respiro che nasconde il
tentativo di eludere riflessioni serie sulle cose da fare
per questo Paese che ha bisogno di interventi profondi in
vari settori, dalla sanità alla giustizia, dal turismo
alla scuola che, nella realtà, restano al palo e
costituiscono una vera e propria occasione mancata. Gli
ultimi due esempi, il turismo e la scuola, sono
emblematici di questa incapacità di andare al di là degli
slogan, delle affermazioni pure condivisibili dietro le
quali appare il nulla se non una sorta di controriforma
pericolosa. Il turismo che, originato essenzialmente
dall’immensa ricchezza del nostro patrimonio storico
artistico, è la cenerentola della politica governativa
quando potrebbe assicurare migliaia di posti di lavoro. La
scuola, alla quale ogni governo serio dovrebbe guardare
con la massima attenzione perché è lì che si formano i
cittadini e i futuri professionisti è oggetto in questi
giorni di demagogiche affermazioni che non hanno convinto
famiglie, studenti e professori i quali ultimi stanno
attuando una protesta che potrebbe dare brutte sorprese al
Presidente del consiglio e Segretario del Partito
Democratico la cui popolarità in calo potrebbe
ulteriormente diminuire a breve.
12 maggio 2015
Quel che insegnano le elezioni nel Regno Unito
La democrazia inglese radicata sul territorio
di Salvatore Sfrecola
Va di moda, in questi giorni, parlare del Regno Unito dopo
il risultato elettorale di David Cameron che ha vinto le
elezioni legislative ottenendo la maggioranza assoluta dei
seggi nel Parlamento inglese. Gioisce la destra per il
risultato del primo ministro conservatore che, fino alla
vigilia delle elezioni era considerato dai sondaggi in
bilico, gioiscono tutti fautori della governabilità, a
destra e a sinistra, perché com’è tradizione a Londra il
nuovo governo si insedia a distanza di poche ore dal
risultato delle elezioni o di pochi giorni quando, come
nella precedente legislatura, era stato dato l’avvio ad un
governo di coalizione fra i Tory e i liberaldemocratici.
I giornali hanno messo in risalto inoltre un effetto del
risultato elettorale, poco praticato in Italia. Quello che
i leader politici i quali hanno perduto voti e seggi non
hanno atteso riunioni di segreterie o di direzioni di
partito per dimettersi.
Altro aspetto da considerare è quello, sfuggito a molti,
dello speciale rapporto che si instaura tra eletto ed
elettori in un paese che da sempre ha un sistema
elettorale che si basa su collegi uninominali. Uno
speciale rapporto che ha un duplice aspetto, quello della
vicinanza del parlamentare all’elettorato ed al territorio
e quello della sua indipendenza nei confronti del partito
politico nel quale milita, proprio in ragione della forza
elettorale dovuta allo stretto legame con il territorio.
Si era tentato anche in Italia di instaurare con il
cosiddetto Mattarellum, dal nome del suo autore,
oggi Presidente della Repubblica, un rapporto diretto tra
eletto ed elettore e subito i segretari di partito ne
hanno compreso la pericolosità per il loro potere di
scelta e di governo degli apparati politici e dei gruppi
parlamentari ed hanno immediatamente rimediato spostando
nelle elezioni successive senatori e deputati in altro
collegio. Ricordo sempre il caso di un parlamentare eletto
la prima volta a Roma la seconda a Bolzano, la terza a
Venezia.
Parlavo qualche anno fa con parlamentare inglese il quale
sottolineava proprio questo suo speciale rapporto con
l’elettorato, come la campagna elettorale “porta a porta”
fosse autentica e non virtuale in quanto, mi faceva
osservare, i suoi elettori non gradirebbero se lui non
bussasse alla porta di un avversario politico per cercare
di convincerlo sulle sue buone ragioni. In questo modo
l’elettore inglese vuol sapere se il parlamentare che
eleggerà ha una capacità di convincere o tentare di
convincere anche gli avversari sulle buone ragioni della
buona politica che lui condivide.
Questo legame con il territorio, spiegava il mio
interlocutore, ha anche un altro aspetto. “il mio partito,
diceva, non penserebbe mai di spostarmi in un altro
collegio perché sa che se lo facesse io mi presenterei
ugualmente e, forte del mio consenso, sarei comunque
eletto”.
Poi ci sono altre questioni oggetto in questi giorni del
dibattito sull’esperienza elettorale inglese. Quella, ad
esempio, che il sistema basato su collegi uninominali in
realtà porta in Parlamento un numero di deputati non
corrispondente al numero dei voti espressi dal popolo. Per
cui si sottolinea la differenza con il sistema elettorale
proporzionale. In sostanza percentuali che in Italia
reggerebbero un partito di medie proporzioni nel Regno
Unito possono determinare anche l’elezione di uno o due
parlamentari in ragione del fatto che è necessario
prevalere in un collegio per varcare le porte della
Parliament House. Si comprende il senso di questa
osservazione ma siccome i sistemi elettorali perfetti non
esistono è bene tener conto degli effetti positivi di
quelli che tradizionalmente dimostrano una capacità di
governo ed una elevata professionalità politica degli
eletti. E non c’è dubbio che il collegio uninominale, che
radica sul territorio un parlamentare non solo lo collega
strettamente all’elettorato e all’ambiente ma determina
anche a una selezione naturale dei migliori, cioè di
coloro che hanno consenso elettorale, che fanno
tradizionalmente della democrazia inglese un esempio di
buona politica.
10 maggio 1015
Appello
al Presidente della Repubblica
perchè
non promulghi l'italicum
Signor Presidente,
spetta a Lei per Costituzione la promulgazione della legge
elettorale appena approvata da una maggioranza
parlamentare.
Noi non condividiamo questa Legge, così come è stata
proposta all’attenzione del Potere Legislativo dal
Governo. Non la condividiamo né nel testo né nei modi con
cui il Governo ha inteso proporla, in particolare con il
ricorso al cosiddetto “voto di fiducia”.
Noi quindi ci rivolgiamo al Primo Magistrato della
Repubblica, quale Garante ultimo al di sopra delle parti,
rammentando a noi stessi le parole del Suo predecessore
Giorgio Napolitano, pronunciate a Torino il 15 ottobre
2009 nel corso della cerimonia in occasione del centenario
della nascita di Norberto Bobbio: “quella del Capo
dello Stato, potere neutro al di sopra delle parti e fuori
della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia
di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente
nella nostra Costituzione”.
Signor Presidente, noi chiediamo a Lei di intervenire nei
modi e con le forme che la prassi costituzionale Le
riserva al fine di evitare che la promulgazione di questo
articolato si trasformi in un vulnus alle ragioni
democratiche che costituiscono l’essenza della nostra
Nazione.
Noi crediamo, Signor Presidente, che l’azione politica
debba fare un passo avanti, svolgendosi al di fuori delle
logiche di pregiudizio ideologico e nel senso di una sua
ampia trasversalità, laddove vengano toccati interessi che
attengono al fondamento stesso della nostra unità
nazionale, quando cioè sono in gioco elementi fondamentali
della vita democratica.
Dunque non è nostro intento postulare in queste righe una
visione ideologica che sovraintenda alle ragioni del
nostro dissenso e le esprima.
Noi ci limitiamo a raccogliere ciò che abbiamo letto e che
condividiamo
Quanto al “metodo” dell’approvazione, condividiamo quindi
perfettamente, e qui Le rappresentiamo, le ragioni di
dissenso che furono esposte da una personalità della
nostra storia politica democratica, Nilde Jotti,
allorquando, nel 1953, fu in discussione una riforma della
legge elettorale sulla quale il governo dell’epoca pose il
voto di fiducia: “Si è detto giustamente che su una
legge elettorale il Governo bene avrebbe fatto se non
avesse posto la questione di fiducia, poiché la legge
elettorale, dopo la Costituzione della Repubblica, è la
più importante e la più delicata ed in essa si esprime più
che in ogni altra il regime democratico di una nazione. Ma
oltre a questo noi abbiamo sentito, nel modo e nel momento
in cui è stata posta la fiducia, elevarsi dai banchi del
Governo il disprezzo per le norme che regolano la vita del
Parlamento italiano, il disprezzo per la tradizione di
questa Assemblea, il disprezzo per tutte le cose che
formano la sostanza della democrazia in un paese civile.
Noi ci siamo trovati di fronte, in questo modo, alla
distruzione della facoltà legislativa del Parlamento, di
quella facoltà legislativa che consente ad ogni deputato
di intervenire nella modificazione e nella discussione di
una legge, che consente ad ogni deputato di partecipare
alla formazione delle leggi. Questo è senza dubbio il
diritto fondamentale di un'assemblea legislativa come la
nostra e, quando questo diritto viene violato, come qui è
stato violato, noi abbiamo il diritto e il dovere di
dubitare della sorte della democrazia nel nostro paese;
noi abbiamo il diritto e il dovere di lottare perché al
nostro paese non si apra un periodo troppo triste e duro.
… Il Governo di fatto distrugge l'uguaglianza che il
popolo si è conquistato attraverso la sua lotta…. Questa
legge mina perciò la democrazia alle sue basi, e, poiché
per la democrazia hanno combattuto gli uomini e le donne
della mia terra e per la libertà della patria tanto hanno
dato, penso sia mio preciso dovere di esprimere
l'indignazione e la profonda sfiducia che essi provano
verso questo Governo”.
Quanto al “merito, la legge appena approvata in Parlamento
presenta i medesimi vizi di costituzionalità già censurati
dalla Corte costituzionale con la n. 1 del 2014, con
riguardo al premio di maggioranza e all’espressione del
voto di preferenza.
Per quanto riguarda il premio di maggioranza mentre è
prevista una soglia al primo turno (che essendo fissata al
40% rende sostanzialmente difficile il suo raggiungimento
da parte di singole liste), al secondo turno non vi è
alcuna previsione di soglia e la lista (singola, perché
non sono possibili apparentamenti) che vince,
indipendentemente dalla percentuale che raggiunge, si
attribuisce l’intero premio di 340 seggi.
Tale meccanismo, dunque, riproduce il vizio di
costituzionalità già evidenziato dalla Corte con riguardo
alla legge 275 del 2004 che la Corte (nella sent. 1/2014)
ha motivato in tal modo:
“le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la
formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo
scopo di garantire la stabilità del Governo del Paese e di
rendere più rapido il processo decisionale, ciò che
costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente
legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un
meccanismo premiale destinato ad essere attivato
ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale
non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste
un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza
anche superiore a quella assoluta (340 su 630). Se dunque
si verifica tale eventualità il meccanismo premiale
garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla
soglia dei 340) a quella lista o coalizione di liste che
abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e
ciò pur nel caso che il numero dei voti sia in assoluto
molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia
minima di voti/o di seggi” (sottolineatura nostra)
La circostanza che la soglia è prevista al primo turno non
può superare il rilievo di incostituzionalità, essendo del
tutto ragionevole prevedere che data la misura di tale
soglia (40%) sia altamente probabile che si richieda il
secondo turno.
Dunque: contrasto con gli artt. 1, secondo comma e 67
Cost perchè tale previsione consente una “
illimitata compressione della rappresentatività
dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi
costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari
sono sedi esclusive della rappresentanza politica
nazionale, si fondano sull’espressione del voto e quindi
della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono
affidate funzioni fondamentali, dotate di una
caratterizzazione tipica ed infungibile, fra le quali vi
sono, accanto a quelle di indirizzo e di controllo del
governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa
garanzia della Costituzione” (sent. n. 1/2014).
Sempre lo stesso meccanismo si pone in contrasto con
l’art. 3 Cost perché la sovra-rappresentazione della
lista che vince rende del tutto non-rappresentato e
non-rappresentabile in alcun modo il voto dei cittadini
che hanno dato il loro voto a liste che non hanno vinto,
magari anche di poco.
Con riguardo al secondo aspetto, e cioè all’espressione
delle preferenze, è indubbio che la legge appena approvata
costituisca un passo in avanti rispetto alla precedente in
quanto blocca unicamente i capi-lista e non l’intera
lista. Tuttavia tale previsione farebbe si che i cittadini
potrebbero scegliere quale deputato eleggere “solo se
voteranno la lista che vince il premio di maggioranza.
Inoltre, come ben evidenziato dall’on. Andrea Giorgis: “la
distanza tra eletti ed elettori è peraltro aggravata –
oltre che dall’istituto (particolarmente discutibile)
delle pluricandidature – dal meccanismo di riparto sulla
base del collegio unico nazionale che rende difficile
prevedere in quale collegio territoriale scatta
l’attribuzione del seggio; e dunque rende difficile per i
cittadini prevedere gli effetti del proprio voto e perfino
delle proprie preferenze”
In tal modo non si supera il rilievo di costituzionalità
che la Corte ha evidenziato quando ha ritenuto
incostituzionale il meccanismo delle liste interamente
bloccate dai partiti quando ha evidenziato che: “le
funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge
ordinaria al fine di eleggere le assemblee non consentono
di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma
costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha
ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente
riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità
di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per
concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e
trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 (ordinanza
n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere
preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita
politica dei cittadini e alla realizzazione di linee
programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al
corpo elettorale” (sent. n. 1 del 2014).
Già nella sentenza n. 203 del 1975 inoltre la Corte ebbe a
sottolineare che la libertà di voto del cittadino debba
essere “sempre libero e garantito nella sua
manifestazione di volontà, sia nerlla scelta del
raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare
questo o quel candidato incluso nella lista prescelta,
attraverso il voto di preferenza”
Dunque, sotto questo profilo, la normativa approvata si
pone in contrasto con l’art. 48 Cost.
Vi sono poi considerazioni più di carattere
politico-istituzionale che sono state espresse alla Camera
dei Deputati da un parlamentare che fa parte della attuale
maggioranza di Governo, l’onorevole professor Andrea
Giorgis, che non possiamo che fare nostre:
…..
La seconda considerazione critica che vorrei avanzare
potrebbe essere così sintetizzata: il disegno di legge che
stiamo discutendo, come per alcuni aspetti già cercava di
fare la precedente legge Calderoli, tende a introdurre una
surrettizia elezione diretta dell’Esecutivo, che rischia
di trasformare la natura del Parlamento, da luogo di
rappresentazione del pluralismo politico e sociale nel
quale si realizza l’integrazione e l’unità, in un luogo di
rispecchiamento della forza del leader e della sua
maggioranza (minoranza) che vince il premio: formalmente
si vota per la scelta dei parlamentari ma sostanzialmente
si sceglie l’Esecutivo (rectius: il suo Capo) cui
assegnare una maggioranza di parlamentari (che di fatto
dovranno la propria elezione a lui più che agli elettori).
Il che accentua il profilo personale della competizione
politica e molto difficilmente sostiene un processo di
rilegittimazione dei corpi intermedi, e in ultima analisi
un processo di rafforzamento della capacità decisionale
delle istituzioni democratiche.
Affinché queste ultime possano svolgere una efficace
azione di governo, credo infatti sia necessario che
sussistano o si realizzino condizioni sostanziali di
unità; è in altri termini necessario che i partiti
politici non siano marginalizzati e le liste o le
coalizioni siano espressione di un processo reale di
integrazione. Ciò ovviamente non significa negare che la
semplificazione del sistema politico sia un’esigenza
reale. Ma solo evidenziare che una eccessiva e astratta
semplificazione, priva di sostanza programmatica, rischia
di tradursi nel suo contrario, ovvero nella
polverizzazione dell’intero sistema rappresentativo, e nel
conseguente incentivo a pratiche populiste e demagogiche
che, nell’immediato, possono dare l’impressione di
sopperire alle difficoltà dei processi partecipativi e
alla frammentazione politica, ma alla fine si dimostrano
incapaci di conferire alle istituzioni quella forza e
quella legittimazione di cui necessitano per mantenere le
promesse dello sviluppo e dell’uguaglianza.
Infine una considerazione di metodo non meno importante di
quelle di merito. Le leggi che strutturano l’ordinamento
democratico non sono leggi come le altre: il principio di
maggioranza deve essere declinato in maniera diversa
quando si riscrive parte della Costituzione o si
predispone una nuova legge elettorale. Le disposizioni che
disciplinano la democrazia, in quanto “regole del gioco” –
come si è più volte ripetuto – non devono essere poste da
un solo giocatore, ma devono essere condivise, devono
essere il prodotto di un ampio accordo tra le diverse
forze politiche e, soprattutto – anche per questa ragione
- non devono essere poste (direttamente o indirettamente)
dal Governo, ma devono essere espressione dell’autonomia
parlamentare”.
Signor Presidente, noi Le chiediamo di non promulgare
questa legge certamente incostituzionale.
Prof. Raffaele Caterina, Università di Torino
Prof. Mario Dogliani, Università di Torino
Prof. Luigi Garofalo, Università di Padova
Avv. Diego Giordano, Roma
Prof. Lelio Lantella, Università di Torino
Prof. Anna Maria Poggi, Università di Torino
Prof. Raffaele Guido Rodio, Università di Bari
Dr. Salvatore Sfrecola, Presidente di sezione Corte dei
Conti
Prof. Sebastiano Tafaro, Università di Bari
Prof. Elda Turco Bulgherini, Università Tor Vergata, Roma
Prof. Giuseppe Valditara, Università di Torino
Governo e Corte costituzionale
Ipocrisie politiche e certezza del diritto
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito che impegna in questi giorni la stampa e la
politica sulla sentenza della Corte costituzionale, che ha
giudicato non conforme alla Carta fondamentale il blocco
della indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte
quelle minime, rivela vaste ipocrisie e molta ignoranza
sulle regole, politiche e giuridiche del nostro Stato.
Non è la prima volta che la Consulta boccia iniziative
governative e parlamentari sbandierate come necessarie e
salvifiche rispetto a situazioni finanziarie critiche
richiedenti il contenimento della spesa pubblica. Accade
in tutto il mondo, in particolare in Europa. Proprio
questa mattina, intervenendo ad Omnibus, la
trasmissione di approfondimento de La7, il senatore
Mario Monti, il Presidente del Consiglio che approvò
quella riforma delle pensioni, cosiddetta Fornero, ha
citato casi analoghi di interventi delle Corti
costituzionali di paesi dell’Unione Europea su iniziative
di riduzione della spesa ritenute illegittime, dal
Portogallo alla Grecia, alla Germania. E questo induce a
qualche considerazione che non sento e non leggo nel
dibattito di questi giorni.
Il ripetersi della bocciatura di misure di contenimento
della spesa – la Consulta si dovrà occupare nei prossimi
mesi del tetto delle retribuzioni pubbliche fissato in 240
mila, ritenuto di dubbia costituzionalità dal T.A.R. del
Lazio – dimostra, da un lato, l’incapacità dei governi di
coniugare diritti e scelte economiche e, dall’altro, una
sorta di gioco delle parti, per cui si fanno scelte
all’evidenza popolari (riduzioni di stipendi e pensioni
sopra una certa soglia) per soddisfare esigenze immeditate
di cassa così allontanando difficoltà nella gestione dei
conti ma di fatto si rinvia “la grana” ai governi
successivi, quelli che dovranno, letteralmente, “fare i
conti” con gli effetti delle sentenze che restituiscono
soldi e interessi a quanti ne erano stati illegittimamente
privati.
Il ripetersi di questi episodi, in pratica ad ogni
riforma, conferma che la gestione della finanza pubblica
continua ad essere caratterizzata da misure inadeguate, di
corto respiro, che limano qua e là secondo le esigenze del
momento con occhio all’elettorato di riferimento. Nessuna
autentica misura strutturale diretta a conseguire
obiettivi significativi di efficienza amministrativa e di
sviluppo economico e sociale. Solo pezze a colore qua e là
per rattoppare la coperta lisa della politica.
Scarsa capacità di visione politica, inadeguata conoscenza
degli strumenti operativi delle pubbliche amministrazioni,
i governi da tempo si limitano al piccolo cabotaggio anche
quando vengono annunciate riforme sbrigativamente definite
“epocali”. Basti pensare che lo “sblocca Italia”, un
provvedimento che dovrebbe riaprire i cantieri e chiuderli
rapidamente e sviluppare attività economiche private,
occupa sulla Gazzetta Ufficiale, che adotta un corpo di
stampa ridotto, quasi trecento pagine, un corpus
normativo che ben poco semplifica.
È il limite della politica che considera il potere un
obiettivo personale o, al massimo, di partito, non un
servizio alla comunità. Così continuando non si va da
nessuna parte.
3 maggio 2015
STATO IMBELLE
CHI ROMPE PAGHI, DAI GRAFFITARI AI BLACK BLOC
di Salvatore Sfrecola
Nel giorno della inaugurazione di EXPO 2015 sono andate in
onda sulle televisioni di tutto il mondo non solamente le
immagini della cerimonia e degli stand, gli squilli di
tromba e lo sventolio delle bandiere. A fare notizia è
stata anche la devastazione di aree centrali di Milano in
mano ai black bloc che, presenti nel corteo dei
NO EXPO, hanno incendiato automobili e cassonetti e
infranto vetrine, mentre le avanguardie provvedevano a
neutralizzare le telecamere di sorveglianza ricoprendole
di vernice. Danni che la Regione Lombardia si è impegnata
a risarcire ai cittadini, mediante costituzione di un
fondo per il quale è prevista una dotazione iniziale di un
milione di euro. Una somma sottratta a destinazioni di
interesse istituzionale e sociale.
Danni rilevanti, dunque, a cose e persone, agli agenti
delle forze dell’ordine, in particolare, che, fedeli alle
direttive, non hanno ingaggiato un confronto con i
manifestanti ma si sono limitati a contenerli proteggendo
alcuni obiettivi. Una scelta, evidentemente dettata dal
Ministero, che si può condividere o meno, anche se la
possibilità di prevenire le violenze era concretamente
perseguibile, considerato che nei giorni precedenti erano
stati indentificati i facinorosi, italiani e stranieri,
dediti alla devastazione delle città in occasione di
avvenimenti di rilievo internazionale.
Come reagire in questi casi? Se lo chiedono i media ad
ogni occasione e sempre con un certo senso di impotenza.
Nel caso di avvenimenti sportivi una strada è stata
trovata nel coinvolgimento delle società sportive e nelle
misure interdittive nei confronti di violenti abituali che
vengono tenuti lontano dagli stadi. Manca tuttavia, a mio
giudizio, l’attenzione per una regola antica e saggia,
quella secondo la quale “chi rompe paga”. Nel privato
avviene normalmente. Nel pubblico le amministrazioni non
riescono a farsi risarcire dagli autori degli illeciti.
È mia opinione che nella ricerca di misure di contrasto
alla violenza che provoca danni a persone e cose non si
possa percorrere esclusivamente la strada della sanzione
penale che da sola non realizza quella deterrenza che le
si vorrebbe riconoscere e che non ha, come l’esperienza
insegna, neppure rispetto ai reati più gravi. Basti
pensare alla corruzione.
Occorre, dunque, un mix di misure penali, amministrative e
risarcitorie capaci effettivamente di dissuadere e di
ottenere un risarcimento dei danni dalle persone e dalle
organizzazioni che chiedono l’autorizzazione ad una
manifestazione pubblica. In sostanza si dovrebbe prevedere
che, al momento della autorizzazione ad un corteo o ad una
manifestazione, gli organizzatori fossero contestualmente
responsabilizzati per le vicende che possono derivarne.
Magari attraverso il deposito cauzionale di una somma da
liberare solo al termine della manifestazione, ove non ci
fossero stati danni o i danni non fossero imputabili ai
partecipanti alla manifestazione inquadrati
nell’organizzazione promotrice. Un tempo i sindacati
organizzavano un “servizio d’ordine” che teneva lontano i
malintenzionati, in qualche modo concorrendo con le Forze
di Polizia ad evitare incidenti.
E poiché parliamo di danni causati a beni pubblici e della
comunità, mi soffermo sull’annosa vicenda dei cosiddetti
“graffitari" i quali provocano alle amministrazioni danni
valutati in molti milioni di euro come messo in evidenza
da alcune statistiche relative al costo del ripristino di
immobili o di vagoni ferroviari e tranviari deturpati.
Significativa una trasmissione su Rai2 dal titolo “Senza
peccato”, che già di per sé dimostra un atteggiamento
“comprensivo”, la quale, tra le varie testimonianze che
hanno accompagnato lunghi filmati nei quali si
illustravano le prodezze di giovani e meno giovani, ha
mandato in onda la testimonianza di un funzionario della
Polizia Municipale di Milano palesemente orgoglioso del
fatto che alcuni deturpatori, identificati tramite
videocamere o altri filmati, erano stati condannati ad una
pena di sei mesi. Nessun riferimento ad una ipotesi di
risarcimento. È evidente la inadeguatezza dello strumento
penale che si basa su due articoli del codice, il 635 e il
639. Il primo punisce il danneggiamento, il secondo il
deturpamento e l’imbrattamento di cose altrui. Le pene
vanno da sei mesi a tre anni di reclusione, per il 635, e
da uno a sei mesi per il 639 “se il fatto è commesso su
beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati”,
pena alternativa ad una multa da 300 a 1000 euro.
Ritengo evidente che se, ferma restando la sanzione
penale, le amministrazioni si aprissero al risarcimento
del danno, manifestanti violenti e graffitari sarebbero
ricondotti a più miti consigli perché l’azione
risarcitoria è assistita dalla possibilità di misure di
garanzia patrimoniali, quale il sequestro di beni, che
certamente dissuadono colui che intende delinquere molto
più della ipotetica sanzione penale. E comunque fa male
mettere la mano al portafoglio.
Ricordo, poiché ci avviciniamo all’estate, di avere
affrontato alcuni anni fa, da Procuratore della Corte dei
conti, questo problema con riferimento ai danni provocati
da incendi dolosi che avevano interessato boschi andati
distrutti e di aver invano insistito perché la P.A. si
costituisse parte civile in sede penale con richiesta di
risarcimento dei danni. Questi sono costituiti in primo
luogo dal danneggiamento dell’assetto naturale di un
territorio, spesso molto vasto, che ha bisogno di essere
ripristinato con interventi straordinari per la
restituzione dell’habitat naturale. C’è, poi, il
costo dello spegnimento dell’incendio assai rilevante, in
particolare l’impiego di aerei e di elicotteri costa
decine di migliaia di euro.
Ho affrontato in più occasioni questo tema e mi è stato
fatto osservare che, a volte, l’incendiario è lo scemo del
villaggio, anche se sappiamo che, più spesso, l’incendio è
doloso e originato da interessi illeciti. Bene, io ritengo
che se l’autore dell’incendio è realmente lo scemo del
villaggio e rischia di essere chiamato a risarcire il
danno, chi ne ha la responsabilità, in primo luogo la
famiglia, sarà indotto a tenerlo a casa per il periodo
estivo, ad evitare che vada in giro col fiammifero in
mano. Inoltre, in caso di incapienza patrimoniale del
responsabile e dei suoi familiari, una norma intelligente
dovrebbe prevedere l’assegnazione dell’incendiario – ma
anche del graffitaro - ai servizi sociali per risarcire
la comunità, del tipo pulizia dei parchi, degli arenili o
delle sponde dei fiumi ad evitare accumulo di materiali
che potrebbero farli esondare. Ipotesi come tante.
L’importante è che l’autorità pubblica, utilizzando i
poteri che ha o dotandosi di nuovi strumenti normativi,
sia capace di dissuadere dal danneggiamento di beni
pubblici e privati non solo minacciando la sanzione penale
ma anche un congruo risarcimento dei danni che
l’amministrazione e la comunità hanno effettivamente
subito.
2 maggio 2015
A Roma al Cinema Adriano, il 6 maggio alle 21
Cristiada
(For Greater Glory), un film sulle
persecuzioni anticristiane in Messico
di Salvatore Sfrecola
Le persecuzioni anticristiane, come sa chiunque abbia un
minimo di cultura storica ed oggi di attenzione per la
cronaca, non sono di oggi. E senza risalire a duemila anni
fa certamente significative sono state le persecuzioni
anticristiane, più esattamente anticattoliche, in Messico
e in Spagna, rispettivamente tra il 1926 e il 1929 e tra
il 1935 e il 1936. In entrambi i casi con negazione dei
diritti civili dei credenti e grande spargimento di sangue
in guerre civili che hanno lasciato un segno nella vita di
qualle nazioni.
Cristianda è un film storico diretto da Dean Wright,
scritto da Michael James Love e basato sulla
Guerra
Cristera
(o
Cristiada,
da cui il titolo) (1926
-
1929)
che devastò il Messico. Prende le mosse dal volume The
Cristero Rebellion, dello storico francese
Jean
Meyer,
che risiede in Messico. Il film si apre con i titoli che
descrivono gli articoli della Carta costituzionale del
Messico del 1917, di un chiaro sapore anticlericale, che
danno lo spunto al Presidente messicano Plutarco
Elías
Calles (interpretato dall’attore Rubén Blades) per una
violenta repressione anticattolica che dà avvio ad una
guerra civile cruenta e devastante per il tessuto sociale
(guerra Cristera).
Plutarco Elías Calles
era un fanatico emulatore della Rivoluzione francese. Il
suo scopo era quello di
“modernizzare” il Paese liberandolo dalla
“superstizione”. Vennero espulsi preti e vescovi che si
opponevano al progetto di una “chiesa nazionale” scissa da
Roma e agli ordini del solo governo. Seguirono
l’abolizione degli ordini religiosi, confische, divieto di
ogni attività per i cattolici. Chiese, conventi, seminari,
scuole, istituti di carità, furono chiusi o confiscati,
fino ad impedire l’accesso dei fedeli ai sacramenti. Come
accadrà in Spagna una decina di anni più tardi, all’inizio
e durante la guerra civile nelle zone occupate dai
repubblicani, nelle città e nelle campagne vengono date
alle fiamme numerose chiese, uccisi preti e contadini, dei
cui corpi spesso si fa scempio, appesi ai pali del
telegrafo per diffondere il terrore.
In questo clima prende avvio una rivolta di popolo. Nel
film il riferimento è ad uno dei sacerdoti vittime della
furia anticattolica, Padre Christopher (Peter
O'Toole),
spietatamente ucciso dai
Federales.
Testimone del delitto è il tredicenne
José
Luis Sanchez
(Mauricio Kuri), il quale si unisce ai ribelli, i
Cristeros, guidati da un generale in pensione
e non credente,
un eroe nazionale,
Enrique Gorostieta Velarde
(Andy
Garcia),
il quale prende con sé il ragazzo che, catturato dai
Federales, non ripudierà la sua fede nonostante le
torture. Sarà messo a morte. L'anno seguente anche il
generale Gorostieta morirà in battaglia, nello stato di
Jalisco.
Nel 1929, accordi tra le due fazioni pongono fine ai
combattimenti e viene ristabilita la libertà religiosa.
Papa
Benedetto XVI
ha beatificato José nel 2005, con altri dodici martiri tra
i Cristeros.
Le cronache ci dicono che il film ha avuto seri problemi
di distribuzione al punto che si parla di una vera e
propria censura.
L’Esercito Federale riteneva di poter sconfiggere in breve
tempo gli insorti, inesperti e male organizzati. Alla
rivolta parteciparono milioni di persone che ebbero la
meglio sulla repressione rabbiosa e crudele dello stato:
massacri indiscriminati, campi di concentramento,
impiccagioni di massa.
Si mosse la
diplomazia internazionale. Troppi i lutti
in una guerra che rischiava di durare a lungo. Ma il
governo tradì gli accordi stipulati con il Vescovo
Pascual Díaz. Ed ancora per anni, quando
deposero le armi, i
Cristeros furono uccisi a migliaia.
È la storia raccontata da
Jean
Meyer che partito da posizioni ostili, ha
cambiato il suo giudizio sui Cristeros
sino ad arrivare alla conversione.
Le riprese sono iniziate nel maggio del
2010 e proseguite per dodici settimane (tra il 31 maggio e
il 16 agosto 2010). Il film è stato girato a
Città del Messico,
Durango,
Zacatecas,
San Luis Potosí,
Tlaxcala
e
Puebla.
1° maggio 2015