SETTEMBRE
2014
In vista della testimonianza di Napolitano
nel processo sui presunti accordi Stato-mafia
Pericolose banalizzazioni in tema di giustizia
di Salvatore Sfrecola
Stavolta dissento da Stefano Folli che ha scritto su Il
Sole 24 Ore di ieri de “il peso di una coincidenza”,
riferendosi alla circostanza che “nel giorno in cui
Napolitano richiama la magistratura, attraverso il nuovo
CSM, all’esigenza di non frenare la riforma che la
riguarda, nelle stesse ore si viene a sapere che il Capo
dello Stato dovrà testimoniare nel processo di Palermo”.
Non più di una coincidenza, evidentemente, perché la
convocazione del Presidente della Repubblica, chiamato a
testimoniare nell’ambito del processo sulla presunta
trattativa Stato-Mafia, è precedente al discorso
pronunciato in occasione della presentazione dei nuovi
componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Una
testimonianza che era nell’aria da tempo perché, secondo i
pubblici ministeri, sussiste la necessità di ascoltare il
Presidente Napolitano in ordine al contenuto di una
lettera del suo consigliere d’Ambrosio che sfiora
l'argomento.
Chiarito che la coincidenza è soltanto casuale, anche se
le parole del Capo dello Stato sulla giustizia possono per
alcuni toni essere ritenute conseguenza di una certa
irritazione per la convocazione in qualità di teste, non
può non apparire preoccupante il riferimento di Folli ad
una ipotesi che la convocazione dei giudici si collochi in
un contesto tendente a “minare il prestigio del presidente
della Repubblica, suggerendo il sospetto che al vertice
dello Stato ci sono segreti e misteri da tutelare”. In
qualche modo convalidando “la sensazione che si voglia
comprimere o inquinare in qualche modo l’autorevolezza del
Capo dello Stato nel momento in cui il secondo settennato
si avvia alla sua conclusione prematura, peraltro sempre
adombrata dal diretto interessato. Per cui si torna alla
curiosa coincidenza richiamata all’inizio”.
Queste considerazioni che provengono da un autorevole
commentatore che giorno dopo giorno manifesta su Il
Sole 24 Ore riflessioni accurate e analisi compiute,
non giova certo a rasserenare l’animo di quanti osservano
le difficoltà nella riforma della giustizia, un tema
fondamentale per il buon funzionamento dello Stato,
banalizzato con riferimento al numero di giorni di ferie
che spettano ai magistrati che si vogliono diminuire
nonostante si sia spiegato che in nessun modo la questione
attiene al funzionamento della giustizia ed ha i suoi
tempi. È invece, come accade spesso in questa stagione
della politica, un falso problema artatamente usato come
strumento di polemica per impedire alla magistratura di
interloquire. Come se si dicesse non puoi parlare di
organizzazione degli uffici e tempi dei processi perché ti
occupi soprattutto di ferie e contesti la loro riduzione.
È evidentemente grave che un tema così importante, come
quello dell’ordinamento giudiziario e della sua
funzionalità, si riduca ad una polemica inutile e speciosa
che nulla ha a che fare con la riforma della giustizia.
Anche il sospetto che si voglia colpire il Capo dello
Stato non fa bene al dibattito. I magistrati fanno il loro
lavoro, se sospettano che ci siano stati accordi tra le
autorità dello Stato e ambienti della criminalità
organizzata fanno bene ad intervenire.
Si tratta di quei temi che dovrebbero essere lasciati
piuttosto ai politologi e agli storici, perché la
sensazione che ci sia stata una qualche intesa, non è
chiaro a quali livelli di responsabilità politica, è
piuttosto evidente e potrebbe anche essere stata una
iniziativa contra legem ma necessitata
dall’esigenza di evitare il protrarsi degli attentati che
molto hanno preoccupato l’opinione pubblica. È un po’ come
nella vicenda degli italiani sequestrati da bande
criminali in medio oriente. Laddove trattative ci sono
state e si sono concluse con pagamento di somme di denaro,
ufficialmente negato ma intuitivamente vero.
Maggiori cautele sono consigliate su questi temi, ad
evitare un ulteriore discredito del quale le istituzioni
certamente non hanno bisogno.
27 settembre 2014
Un'ordinanza del Tribunale di Ragusa
Sospetta incostituzionalità della norma che riduce le
ferie dei magistrati
Pubblichiamo
l'ordinanza del Tribunale di Ragusa, adottata nell'ambito
del procedimenti
N. 1019/2012 R.G.N.R. ex Trib. Modica - N. 1119/2014
R.G.Trib., che ha rimesso gli
atti alla Corte costituzionale perché si pronunci sulla
costituzionalità della norma che ha ridotto il periodo di
sospensione feriale dei termini processuali e le ferie dei
magistrati.
Il Giudice, dott. Elio Manenti,
premesso
che nell'ambito del presente
procedimento penale, con ordinanza emessa in data odierna,
è stata fissata l'udienza dell'08-09-2015 per l'assunzione
della prova testimoniale;
che il giudizio in oggetto, attinente
all’ipotesi di reato di cui all’art. 187 c.d.s. ed in fase
dibattimentale, non rientra nei casi di cui agli artt. 91
e 92 ord. giud., 2 e 2 bis della l. 742/1969;
che, sulla base della disciplina
anteriore alla novella di cui all'art. 16 del d.l.
132/2014, non sarebbe stata possibile la fissazione di
un'udienza istruttoria in data 08-09-2015;
che si ritiene rilevante e non manifestamente infondata -
nei termini di seguito evidenziati - la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 16 del d.l. 132/2014,
per violazione degli art. 3 e 77 Cost.;
OSSERVA
1. L'art.
16 del d.l. 132/2014 (modifiche alla legge 7 ottobre 1969
n. 742 e riduzione delle ferie dei magistrati e degli
avvocati e procuratori dello Stato) dispone quanto segue:
<<1. All'articolo 1 della legge 7
ottobre 1969, n. 742 le parole «dal
1° agosto al 15 settembre di ciascun anno» sono
sostituite dalle
seguenti: «dal 6 al 31 agosto di ciascun anno».
2. Alla legge 2 aprile 1979, n. 97, dopo l'articolo 8,
e' aggiunto
il seguente:
«Art. 8-bis (Ferie dei magistrati e degli avvocati e
procuratori
dello Stato). - Fermo quanto disposto dall'articolo 1
della legge 23
dicembre 1977, n. 937, i magistrati ordinari,
amministrativi,
contabili e militari, nonche' gli avvocati e procuratori
dello Stato
hanno un periodo annuale di ferie di trenta giorni.».
3. Le disposizioni di cui ai commi 1
e 2 acquistano efficacia a
decorrere dall'anno 2015.
4. Gli organi di autogoverno delle magistrature
e l'organo
dell'avvocatura dello Stato competente provvedono ad
adottare misure
organizzative conseguenti all'applicazione delle
disposizioni dei
commi 1 e 2>>.
E' opportuno premettere come la
disposizione in oggetto non abbia, in realtà, modificato
l'art. 90 c.1 dell’Ordinamento Giudiziario di cui al R.D.
12/1941 (ferie dei magistrati durante l'anno giudiziario),
secondo cui i magistrati che esercitano funzioni
giudiziarie hanno un periodo annuale di ferie di
quarantacinque giorni.
Si potrebbe, astrattamente, ipotizzare
che la riduzione delle ferie attenga unicamente ai
magistrati ordinari in tirocinio e non a quelli con
funzioni.
Senonché, la volontà del legislatore di
procedere ad una riduzione delle ferie per tutti i
magistrati (ordinari, amministrativi, contabili e
militari) - con o senza funzioni - nonché per gli avvocati
e procuratori dello Stato e la correlata tacita
abrogazione dell'art. 90 c.1 ord. giud. sono evidenziate,
oltre che dai non equivoci comunicati del Governo, dalla
inscindibile correlazione tra il primo ed il secondo comma
del citato art. 16.
In altri termini, non sarebbe stata in
alcun modo efficace - nell'ottica di una più rapida
definizione dei procedimenti e di uno smaltimento
dell'arretrato - la riduzione del periodo di sospensione
feriale dei termini processuali (precedentemente prevista
dal 1° agosto al 15 settembre e, come noto, determinata
dalla distinta esigenza di assicurare riposo agli avvocati
e procuratori legali: Corte Cost., 29-07-1992 n. 380, ord.
n. 61/1992, sent. n. 255/1987) senza una contestuale
riduzione del periodo di congedo ordinario riconosciuto ai
magistrati.
L'obiettivo perseguito dal legislatore
si concreta, invero, in un (ulteriore) aumento di
produttività in sede giurisdizionale, finalità anzitutto
connessa al numero di udienze tenute e di procedimenti
definiti nel corso dell'anno giudiziario: è, allora,
palese come l'eventuale mancata riduzione delle ferie
riconosciute alla magistratura avrebbe reso infruttuosa la
contestuale riduzione del periodo di sospensione feriale
dal 6 al 31 agosto (l'art. 1 c.1 della l. 742/1969
disponeva che il decorso dei termini processuali relativi
alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è
sospeso di diritto dal 1° agosto al 15 settembre di
ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del
periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio
durante il periodo di sospensione, l'inizio stesso è
differito alla fine di detto periodo).
Siffatto rilievo, che discende in
primis da mere ragioni aritmetiche, risulta
ulteriormente avvalorato dalla tendenziale coincidenza -
più volte ribadita dal C.S.M. - del congedo ordinario
goduto dal magistrato con il periodo feriale fissato al
principio di ogni anno (nell'ambito della stagione estiva)
ai sensi dell'art. 90 ord. giud. (delibera dell'11 gennaio
1995; risposta a quesito del 21 luglio 1999; v. anche la
Circolare del 20 aprile 2011), a sua volta tendenzialmente
coincidente con il periodo di sospensione feriale dei
termini processuali.
Il primo ed il secondo comma del
richiamato art. 16, se pur attinenti a profili distinti,
sono pertanto mossi da una ratio unitaria.
In presenza di una riduzione della
sospensione feriale dei termini è sì possibile garantire,
con opportuna turnazione, la presenza di alcuni magistrati
sul posto di lavoro durante il periodo in oggetto (v.
Corte Cost., ord. 18-02-1992 n. 61); e tuttavia, laddove
non fosse stato contestualmente ridotto il periodo di
congedo ordinario riconosciuto ai magistrati, si sarebbe
pervenuti all'irragionevole risultato di dover
necessariamente distribuire i quarantacinque giorni di cui
all'art. 90 ord. giud. anche nell'ambito di assai più ampi
(rispetto a quelli attuali) periodi dell'anno esclusi
dalla sospensione feriale dei termini processuali, in
contrasto con la finalità perseguita.
Ed è, allora, il combinato disposto di
siffatte previsioni a collidere - ad avviso di questo
Giudice - con i principi di cui agli artt. 3 e 77 Cost.
La fissazione dell'udienza di
assunzione della prova testimoniale in data 8 settembre
2015 discende, peraltro, anzitutto dalla riduzione del
periodo di congedo ordinario di cui all'art. 90 ord. giud.
- in relazione al disposto del successivo art. 91 (secondo
cui, durante il periodo feriale dei magistrati, le corti
di appello ed i tribunali ordinari trattano le cause
penali relative ad imputati detenuti o a reati che possono
prescriversi o che, comunque, presentano carattere di
urgenza) - prima ancora che dalla connessa contrazione del
periodo di sospensione feriale dei termini processuali.
2. La questione è, senz'altro,
rilevante nel procedimento penale in trattazione.
Va, al riguardo, sottolineato come -
proprio nell'ambito di una questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1 della l. 742/1969 - la Consulta
abbia già ritenuto rilevante il profilo concernente la
data di trattazione del procedimento: “1. - Il G.I. del
Tribunale di Roma, in un procedimento in corso di
istruzione contro più imputati, tutti liberi, con
ordinanza emessa l'8 settembre 1975, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2,
primo comma, della legge 7 ottobre 1969, n. 742,
ritenendone il contrasto con gli art. 3 Cost., primo
comma, e art. 24 Cost., secondo comma. Ciò perché le
disposizioni di legge denunziate attribuiscono
all'imputato detenuto ed al suo difensore e non anche
all'imputato libero, alle altre parti ed ai loro difensori
la facoltà di rinunziare alla sospensione dei termini
processuali e non prevedono l'effetto estensivo della
detta rinunzia effettuata da una delle parti alle altre
parti che detta rinunzia non hanno effettuato. 2. - In
punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che «la
definizione del procedimento dipende, allo stato, dalla
risoluzione delle prospettate questioni» e che il giudizio
della Corte Costituzionale «non può ovviamente trovare
ostacolo nella periodica delimitazione temporale
dell'efficacia della legge 1969, n. 742 e nel fatto che
dal 16 settembre riprenderanno a decorrere i termini
processuali, ché altrimenti si arriverebbe all'assurdo di
considerare la legge in esame, che pure incide su diritti
sanciti dalla Costituzione, una legge insuscettibile di
verificazione di legittimità costituzionale». A sua volta,
l'Avvocatura generale dello Stato sul punto medesimo,
osserva che «nell'ordinanza di rinvio è stato omesso il
giudizio di rilevanza, essendo stata ritenuta necessaria
la risoluzione della questione di legittimità
costituzionale per ragioni diverse dalla definizione del
giudizio a quo». L'eccezione di inammissibilità in questo
modo avanzata non può essere accolta, per quanto concerne
la questione proposta con riferimento all'art. 3 Cost. Se,
infatti, è indiscutibile che il giudice a quo, nel momento
in cui sollevava la questione di legittimità
costituzionale (8 settembre 1975), ben sapeva essere
impossibile, non solo materialmente, ma anche
giuridicamente, che essa venisse decisa prima della
scadenza del termine finale di sospensione dei termini
processuali (15 settembre 1975), non è meno vero che in
quel momento egli era chiamato a fare applicazione delle
disposizioni di legge della cui legittimità costituzionale
dubitava. Ora dal sistema normativo risultante dall'art. 1
della legge costituzionale n. 1 del 1948 e dall'art. 23
della legge n. 87 del 1953 si deduce che la
pregiudizialità necessaria della questione di
costituzionalità rispetto alla decisione del giudizio a
quo va intesa considerando tale decisione come conclusiva
di un itinerario logico ciascuno dei cui passaggi
necessari può dar luogo ad un incidente di
costituzionalità, ogni qualvolta il giudice dubita della
legittimità costituzionale delle disposizioni normative
che, in quel momento, è chiamato ad applicare per la
prosecuzione e-o la definizione del giudizio. La
prospettata «irrilevanza di fatto e sopravvenuta» della
questione di legittimità costituzionale, anche se
conoscibile a priori, non implica, pertanto, che la
questione medesima non debba essere presa in esame (come
già si desume dalla sentenza n. 109 del 1981 di questa
Corte)” (Corte Cost., 03-03-1982 n. 53).
Nella vicenda in esame, del resto, la
questione viene sollevata successivamente all'emissione
dell'ordinanza di ammissione della prova testimoniale e di
fissazione dell'udienza ma anteriormente alla data
prevista per la sua assunzione (08-09-2015), ipotesi che
renderà in concreto determinante la decisione della Corte.
Deve, per mera completezza, essere
rimarcata l'opportunità di una tempestiva pronuncia nel
merito anche sotto una differente prospettiva: qualora, ad
esempio, si ritenesse rilevante la questione prospettata
unicamente nell'ambito di un (diverso) giudizio
amministrativo vertente sull'applicazione dell'art. 16 c.2
del d.l.132/2014, i maggiori tempi certamente occorrenti -
in via amministrativa potranno, in concreto, sollevarsi
contestazioni solo a partire dalla seconda metà dell'anno
2015 - determinerebbero (nell'ipotesi di dichiarazione di
illegittimità della norma) la necessità di un tardivo
recupero del consistente periodo di ferie arretrate, con
inevitabili gravi pregiudizi proprio dal punto di vista
dell'organizzazione giudiziaria.
3. Violazione dell'art. 77 c.2 Cost.
Secondo la costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale, "il sindacato
sull'esistenza e sull'adeguatezza dei presupposti della
necessità e dell'urgenza che legittimano il Governo ad
emanare decreti legge, può essere esercitato - a
prescindere dai problemi relativi all'identificazione dei
suoi limiti - solo in caso di 'evidente mancanza' dei
requisiti stessi (sentenze n. 29 e n. 161 del 1995, n. 330
del 1996, n. 398 del 1998, nonché ordinanze n. 432 del
1996 e n. 90 del 1997)” (Corte Costituzionale 2002 n.
16).
Il terzo comma dell'art. 16 del d.l.
132/2014 prevede che "le disposizioni di cui ai commi 1
e 2" - accomunate anche sotto il profilo dell'entrata
in vigore, circostanza che ne corrobora l'inscindibile
connessione - "acquistano efficacia a decorrere
dall'anno 2015".
Ritiene questo Giudice che una
decretazione d'urgenza adottata il 12 settembre 2014 ed
avente ad oggetto - in relazione al citato art. 16 - una
riduzione dei periodi di sospensione feriale dei termini
processuali e di ferie dei magistrati, con effetto a
decorrere dall'anno 2015, si ponga in contrasto manifesto
con il presupposto dell'urgenza di provvedere.
Si tratta, invero, di disposizione
destinata a produrre i propri effetti non prima dei mesi
di luglio e agosto 2015, viepiù laddove si considerino: a)
l'inizio del periodo di sospensione feriale dei termini in
data 6 agosto 2015; b) l'esigenza, relativa a ragioni di
buona organizzazione del servizio Giustizia, che i
magistrati godano di regola delle proprie ferie in via
continuativa e durante il periodo di sospensione feriale
dei termini (se pur, come è ovvio, con apposita turnazione
volta a garantire la trattazione dei procedimenti esclusi
dalla predetta sospensione); c) la tendenziale e già
richiamata coincidenza del congedo ordinario goduto dal
magistrato con il periodo feriale fissato al principio di
ogni anno (nell'ambito della stagione estiva), ai sensi
dell'art. 90 ord. giud. (C.S.M., delibera dell'11 gennaio
1995 e risposta a quesito del 21 luglio 1999; v. anche la
Circolare del 20 aprile 2011); d) la necessità di fruire
in data anteriore delle ferie non godute relative all'anno
2014, non essendo quasi mai possibile - per esigenze di
servizio - fruire per intero dei previsti giorni di
congedo nell'anno di riferimento.
Si tratta, chiaramente, di tempi
assolutamente compatibili - anche qualora si volesse
attribuire rilievo ad una preventiva calendarizzazione
delle udienze - con la deliberazione delle due Camere ed
il processo ordinario di formazione delle leggi.
4. Violazione dei princìpi di
eguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
L'art. 16 del d.l. 132/2014 ha di fatto
parificato il periodo di congedo ordinario riconosciuto ai
magistrati con quello degli altri impiegati civili dello
Stato.
L'art. 36 c.1 del D.P.R. 3/1957
(congedo ordinario) prevede, infatti, che "l'impiegato ha
diritto, in ogni anno di servizio, ad un congedo ordinario
retribuito di un mese da usufruire in un solo periodo
continuativo, compatibilmente con le esigenze di servizio.
Egli può chiedere di distribuire il congedo in periodi di
minore durata che non eccedano nel complesso la durata di
un mese" (la previsione è volta ad attuare il principio di
cui all'art. 36 c.3 Cost., trattandosi di un diritto
soggettivo del lavoratore, la cui disponibilità è esclusa
dalla norma costituzionale; v. anche C. Conti sent.
01-12-1970 n. 1039).
L'art. 15 della l. 312/1980 ha,
successivamente, previsto che "il congedo ordinario è
stabilito in trenta giorni lavorativi da fruirsi
irrinunciabilmente nel corso dello stesso anno solare in
non più di due soluzioni, salvo eventuali motivate
esigenze di servizio, nel qual caso l'impiegato ha diritto
al cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno
successivo" (v. anche l'art. 10 c.1 del d.lgs. 66/2003 e
la direttiva n. 2003/88/CE).
Nella specie ricorre, nondimeno, una
parificazione solo apparente, poiché la riforma non ha
derogato alla necessità che il giudice rispetti i termini
per il deposito dei provvedimenti anche qualora gli stessi
scadano nel periodo di sospensione feriale e nel corso del
periodo di congedo ordinario (in ordine alla necessità che
il magistrato adempia ai propri obblighi - ove occorra -
perfino durante il congedo ordinario, v. C.S.M. S.D. sent.
n. 61/2006, pronuncia relativa ad un caso in cui al
giudice era stato concesso un periodo di ferie proprio per
lo smaltimento dell'arretrato).
Il magistrato sarà, dunque, tenuto -
come in passato - a prestare la propria attività
lavorativa anche durante il periodo di congedo ordinario,
non potendo sottrarsi all'obbligo di predisporre e
depositare gli atti i cui termini scadano nel corso delle
proprie ferie o, com'è intuibile, nei primi giorni dal
rientro in servizio: il principio è applicabile tanto
laddove siano previsti termini meramente ordinatori (la
cui violazione può, tuttavia, comportare sanzioni di tipo
civile, penale e disciplinare) quanto, a fortiori,
per i termini previsti a pena di decadenza (si pensi, a
titolo esemplificativo, ad una riserva assunta all'esito
dell'udienza di convalida dell'arresto; art. 391 c.7
c.p.p.) ovvero relativi ad ipotesi in cui sussiste
l'urgenza di provvedere (quali i provvedimenti cautelari
civili e penali).
Viene, in tal modo, delineato dal
legislatore un assetto normativo - relativo a professione
particolarmente delicata, sol che si pensi agli effetti
prodotti dall'attività giurisdizionale nell'esercizio di
un potere dello Stato, nella quale sarebbe per converso
ragionevole la garanzia di una maggiore ponderazione delle
decisioni (profilo al quale si rivela strettamente
correlato un congruo riposo assicurato al magistrato,
tanto più in presenza di carichi di lavoro notoriamente
sproporzionati per eccesso) - che non potrà per
definizione assicurare la concreta ed integrale fruizione
dei trenta giorni di congedo ordinario riconosciuti agli
impiegati civili dello Stato (si omette, per ragioni di
mera semplificazione, un esame di taluni ordinamenti
speciali improntati al riconoscimento di più ampie
tutele): disparità di trattamento non giustificata e non
ragionevole.
A ciò si aggiunga la persistente
necessità di garantire una turnazione nel periodo di
sospensione feriale dei termini, circostanza che -
unitamente alla frequente impossibilità di fruire del
periodo residuo di congedo al termine della pausa estiva,
per esigenze di servizio relative alla ripresa
dell'attività giurisdizionale e ricorrenti nella
predisposizione delle tabelle feriali nonché dei
provvedimenti organizzativi da parte dei capi degli uffici
- continuerà a favorire, pur nel differente contesto
normativo (caratterizzato da una notevole compressione
dello stesso congedo), la prassi del recupero delle ferie
non fruite soltanto nell'anno successivo a quello di
riferimento.
L'omessa previsione, sia nella
normativa primaria che in quella secondaria, di carichi
massimi di lavoro per la magistratura ordinaria ha
peraltro attribuito alla sospensione feriale dei termini
(volta a garantire, anzitutto, un periodo di riposo per
gli avvocati) e al periodo di congedo riconosciuto ai
magistrati ordinari ex art. 90 c.1 ord. giud. (più ampio
di quello degli altri impiegati civili dello Stato) la
concreta funzione di una congrua pausa nell'esercizio
dell'attività giurisdizionale (per tutte le parti del
processo, salve le prescritte eccezioni): un'attività
nella quale, per ragioni sistemiche cui si è rivelata del
tutto estranea la (elevata) produttività dei magistrati
italiani, i flussi in entrata hanno costantemente superato
da un punto di vista quantitativo la capacità annua di
definizione dei procedimenti e di smaltimento
dell'arretrato.
E', in merito, purtroppo nota
unicamente agli addetti ai lavori la prassi - seguita per
spirito di abnegazione prima ancora che per le citate
motivazioni attinenti al maturare dei termini di deposito
degli atti - di espletare la propria attività lavorativa,
da parte dei magistrati, anche nel corso dei giorni
festivi nonché dei periodi di congedo ordinario e di
sospensione feriale dei termini.
Va, ancora, posto l'accento su
ulteriori peculiarità dell'attività giudiziaria, soggetta
per i magistrati al perseguimento di obiettivi di
rendimento - nell'adempimento di funzioni di rilievo
costituzionale - ma non al rispetto di orari massimi di
lavoro, che per converso garantiscono la generalità dei
lavoratori dipendenti (art. 36 c.2 Cost).
Essendo immutato il contesto di
riferimento (basti citare la cronica e rilevante
scopertura nell'organico della magistratura ordinaria), la
drastica riduzione del periodo di sospensione feriale dei
termini processuali e la considerevole riduzione del
periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati
producono - potenzialmente - l'effetto di aumentare i
provvedimenti in riserva di decisione a parità di risorse
umane e materiali, pur essendo già notevoli tanto i
rendimenti garantiti in termini assoluti (ai vertici tra
le Nazioni europee: v. il rapporto della CEPEJ
dell'ottobre 2010) quanto i carichi di lavoro e gli
standards pretesi (si pensi, ad esempio, alle numerose
riforme intervenute nel corso degli ultimi decenni in
materia di responsabilità civile, valutazioni di
professionalità, programmi ex art. 37 del d.l. 98/2011).
Dei rilievi sopra formulati era,
evidentemente, consapevole il legislatore nell'originale
formulazione dell'art. 90 c.1 ord. giud. (poi modificato
dagli artt. 2 l. 704/1961 e 8 l. 97/1979), ove si
disponeva che "i magistrati delle corti e dei tribunali
hanno un periodo annuale di ferie di giorni sessanta. Nei
primi quindici giorni definiscono gli affari e gli atti in
corso".
5. Qualora - in sede di conversione -
il Parlamento introducesse un'ipotesi di sospensione del
decorso dei termini previsti per il deposito degli atti da
parte del magistrato durante il periodo di congedo
ordinario fruito, al fine di superare parte delle
criticità emerse, sussisterebbero ulteriori profili di
violazione dell'art. 3 Cost. in ordine alle citate
previsioni dell'art. 16 del d.l. 132/2014.
Per un verso, sarebbe giuridicamente
inammissibile ovvero del tutto irragionevole immaginare
simili ipotesi di sospensione per l'adozione di
provvedimenti sottoposti al rispetto di rigorosi termini
di decadenza (è il caso, ad esempio, delle riserve assunte
nelle udienze di convalida dell'arresto in flagranza di
reato o del fermo di indiziato di delitto, laddove viene
in rilievo un principio riconducibile alle tutele di cui
all'art. 13 c.3 Cost.) o comunque urgenti (perché, ad
esempio, aventi natura cautelare).
D'altro canto, l'eventuale esclusione
dall'ambito di una siffatta sospensione di tali e analoghe
fattispecie nonché di tutte le ipotesi già escluse dalla
sospensione feriale dei termini processuali - per il
ragionevole intento di non paralizzare il processo
decisionale proprio nelle materie trattate nel periodo di
sospensione feriale - riproporrebbe le censure sopra
motivate sub 4), per la violazione del principio di
eguaglianza: il magistrato sarebbe, infatti, in ogni caso
tenuto ad impiegare parte del proprio periodo di congedo
ordinario (ora parificato a quello, in via generale,
previsto per gli impiegati civili dello Stato) al fine di
provvedere al tempestivo deposito degli atti, in tal modo
fruendo di fatto di un periodo di ferie inferiore a
quello di un mese garantito agli altri lavoratori.
Sotto altro profilo, l'eventuale
previsione di una - se pur parziale - sospensione dei
termini per il deposito degli atti da parte del magistrato
produrrebbe l'effetto di legittimare, rispetto al contesto
normativo riformato, il ritardato deposito dei
provvedimenti; se, ad esempio, sulla base dell'attuale
ordinamento il giudice è tenuto a depositare un atto entro
il 31 agosto (ancorché tale data ricada all'interno del
periodo di sospensione feriale e, in ipotesi, del proprio
periodo di congedo ordinario), una sospensione di trenta
giorni del termine - in linea con i trenta giorni di
congedo ordinario ora riconosciuti dall'art. 16 c.2 d.l.
132/2014 - legittimerebbe il deposito del provvedimento
entro la successiva data del 30 settembre.
Per tal via, una disciplina volta a garantire una più
rapida definizione dei procedimenti ed una riduzione
dell'arretrato produrrebbe l'effetto contrario, in
violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art.
3 Cost.
P.Q.M.
solleva la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 16 del d.l. 132/2014, per
violazione degli artt. 3 e 77 Cost.;
dispone l'immediata trasmissione degli
atti alla Corte Costituzionale e la sospensione del
processo;
manda alla Cancelleria perché la
presente ordinanza sia notificata al Presidente del
Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle
due Camere del Parlamento.
Ragusa, 23 settembre 2014.
Il Giudice
dott.
Elio Manenti
L’elezione dei giudici costituzionali
Uno spettacolo indecente
di Salvatore Sfrecola
È sicuramente uno spettacolo poco edificante quello al
quale assistono i cittadini italiani in questi giorni nei
quali il Parlamento in seduta comune è ripetutamente
convocato per l’elezione di due giudici costituzionali,
due dei cinque che spetta alle Camere riunite scegliere.
La vicenda, abbiamo consumato ieri sera dalla 12ª
votazione, si presta a vari commenti, tutti peraltro
negativi, sia che la situazione la si veda sotto il
profilo dei rapporti tra le segreterie di partito e i
gruppi parlamentari, sia che si rifletta sui nomi
prescelti. Anche se i due aspetti sono, per molti versi,
intimamente connessi.
È evidente che nella votazione che non riesce a
concludersi con un voto positivo sui candidati scelti
dalle segreterie di partito in accordo tra loro, almeno
Partito Democratico e Forza Italia, c’è un
malessere che deriva dalla gestione in vario modo
autoritaria dei due partiti. Per cui Matteo Renzi impone
le sue scelte concordate con Silvio Berlusconi a gruppi
parlamentari eletti prima della sua segreteria e quindi
fedeli soprattutto alla vecchia gestione del partito, e
Berlusconi continua con la sua gestione monocratica,
sgradita a buona parte di deputati e senatori che vedono
sfilacciarsi il consenso in conseguenza della politica
personale dell’ex Cavaliere, come dimostra il risultato
delle elezioni europee. Questi motivi di malessere si
arricchiscono anche della contestazione dei due nomi
prescelti, per essere stati indicati senza un preventivo
dibattito nei gruppi parlamentari e per essere molto
politicizzati.
È evidente, a questo proposito, che l’Assemblea
Costituente, nel prevedere che cinque dei giudici
costituzionali fossero designati dal Parlamento, accanto
ai cinque indicati dalle magistrature superiori ed ai
cinque di nomina del Presidente della Repubblica, abbia
inteso inserire nel collegio che deve giudicare la
conformità delle leggi approvate dalle Camere alla
Costituzione personalità dotate di sensibilità politica
perché, nel pronunciarsi, la Consulta deve tener conto del
significato politico delle leggi rispetto ai principi
consegnati nella Carta fondamentale che è documento di
elevato significato politico.
In conseguenza di questo profilo che attiene alla
composizione della Corte costituzionale le Camere hanno
scelto costantemente personalità che avessero questa
sensibilità politica in uno ad una adeguata cultura
giuridica che ne facesse interlocutori validi delle altre
due componenti, i magistrati ordinari ed amministrativi e
di giuristi che il Capo dello Stato normalmente sceglie
tra docenti universitari di fama e di esperienza.
Indubbiamente i due designati oggi in pista, Luciano
Violante e Donato Bruno, hanno una notevole esperienza
politica e sotto questo profilo corrisponderebbero
all’idea dell’apporto che i designati dalle Camere
dovrebbero dare al Giudice delle leggi, ma ad essi si può
“rimproverare” di essere “troppo” politici con la
conseguenza di portare nella sede delicatissima della
valutazione della legittimità costituzionale delle leggi
un eccesso di spirito di parte, tale da rendere quel
collegio, che è certamente per due terzi influenzato dalla
politica, eccessivamente condizionato dalla provenienza
partitica dei suoi membri.
Questa situazione offre il destro a chi vuole contestare
le scelte solitarie di Renzi e Berlusconi per una protesta
che il segreto del voto consente di esprimere in modo
pieno, anche se nell’osservatorio esterno le
argomentazioni alla quale ci siamo rifatti rilevano poco
ed il cittadino è portato a giudicare negativamente la
mancata decisione ritenendola effetto di giochi
sotterranei di correnti, per nulla apprezzati ed anzi
capaci di gettare discredito sulla istituzione
parlamentare, una situazione bollata con parole pesanti
dai commentatori che non hanno esitato a parlare di
“spettacolo indecente”, come ha fatto Michele Ainis in un
fondo del Corriere della Sera del 16 settembre dal
titolo eloquente “Scherzare con il fuoco”, per dire che
“la paralisi delle assemblee parlamentari, l’incapacità di
assolvere ai propri adempimenti costituzionali, descrive
un presupposto tipico per il loro scioglimento anticipato.
Non accadrà, ne siamo (quasi) certi. Però delle due l’una:
o la giostra riparte, o alla fine della giostra verranno
disarcionati tutti i cavalieri”.
È il malessere della politica, della lontananza degli
eletti dagli elettori, che tra l’altro non li scelgono,
del paese legale dal paese reale, attestato da un
altissimo livello di evasione fiscale, segno di una
diffusa illegalità, da sprechi giganteschi nella
utilizzazione del denaro pubblico, da una diffusa
corruzione a tutti i livelli della vita pubblica. Una
situazione esplosiva, resa ancor più preoccupante dalla
grave crisi economica ed occupazionale che colpisce tutti
gli strati della popolazione la quale non ha modo di
intravedere iniziative concrete capaci di perseguire
obiettivi di crescita, in un contesto di inefficienza
delle pubbliche amministrazioni e in presenza di un carico
fiscale confiscatorio che pesa sempre sui soliti noti.
18 settembre 2014
Lettera aperta al Presidente del Consiglio
(dall’Adige del 16 settembre 2014)
Un magistrato scrive a Matteo Renzi
“Non si accanisca sui magistrati”
Egregio Signor Presidente del Consiglio,
la ringrazio. Per qualche minuto Lei mi ha fatto sognare.
Ho voluto credere insieme a Lei che a differenza dei
politici, che se sbagliano rispondono alla Corte dei
conti, i magistrati possono starsene tranquilli. Ho quindi
sognato che non fosse vero che per giorni e giorni
un'ispettrice del Ministero dell'economia e finanze avesse
stazionato negli uffici della mia Procura, alla ricerca
della minima irregolarità nelle nostre spese. Poi,
purtroppo, mi sono ricordato che tutti, ma proprio tutti i
magistrati del mio ufficio in servizio nel periodo
ispezionato, hanno dovuto redigere note di giustificazione
ai rilievi di quell'ispettrice. Quei rilievi erano finiti,
giustamente, sul tavolo della Procura della Corte dei
conti, alla quale siamo soggetti per responsabilità
contabile. E non importava nulla a quell'Ispettrice,
ancora una volta giustamente, che a fronte di quei rilievi
di qualche centinaia o poche migliaia di euro, nella mia
attività di pubblico ministero avessi recuperato alle
casse pubbliche, grazie alla polizia giudiziaria, decine
di milioni di euro da evasione fiscale e corruzione. Il
sogno è quindi svanito presto.
Ho voluto credere insieme a Lei che noi magistrati non
rispondiamo dei nostri errori. Ho quindi sognato di non
aver mai incontrato colleghi condannati per calunnia,
diffamazione, omissione di atti di ufficio, corruzione,
peculato. Poi, purtroppo, e giustamente, mi sono ricordato
che per i magistrati non c'è alcuna immunità penale, che
taluni di noi sono stati condannati ed arrestati per
calunnia, corruzione, peculato, finanche associazione per
delinquere e solo per quelli che erano anche parlamentari,
guardo caso, c'era bisogno di un'autorizzazione per il
loro arresto. Mi sono quindi dovuto risvegliare.
Ho poi sognato, seguendo le sue accattivanti parole, che
per noi non ci fosse responsabilità disciplinare, che
qualunque cosa combinassimo, avremmo potuto dormire
tranquilli. Questa volta è durato pochissimo, il sogno,
perché mi è subito venuto in mente che tra poco nella mia
Procura giungeranno gli ispettori del Ministero della
giustizia a verificare se abbiamo ritardi, se vi è stata
qualche scadenza dei termini di carcerazione non
rispettata, qualche fascicolo che non si trova. E,
soprattutto, mi è subito venuto in mente che le condanne
disciplinari dei magistrati sono tante e tante di più di
ogni altra categoria di pubblico dipendente e di tutti i
professionisti sottoposti al giudizio dei propri ordini
professionali.
Ho poi sperato che veramente fosse facile risolvere i mali
della giustizia con la riduzione delle ferie dei
magistrati; tanto facile quanto urgente, visto che per
realizzare questo evento epocale di cambiamento il Suo
governo intende agire con un decreto legge. Mi creda, se
fosse così, se veramente riducendo le nostre ferie si
migliorasse anche di poco il livello di efficienza della
giustizia, non avrei timore a rinunziarvi da subito e con
me tanti altri colleghi, la maggioranza, mortificati e
sopraffatti dalle milioni di cause giacenti. Mi sono
dovuto svegliare, pensando all'ultima domenica del mio
turno in Tribunale, con un giudice ed un cancelliere, a
fare processi per direttissima, senza alcun recupero
compensativo di quel giorno festivo lavorato; mi è poi
stato facile ricordare i turni di notte nei quali
rispondiamo al telefono alle forze dell'ordine, senza
alcuna indennità o riposo post lavoro notturno; e poi ho
letto degli oltre 3.000 provvedimenti che nel periodo di
ferie i colleghi giudici depositano in Cassazione. E
soprattutto mi sono ricordato che per il Consiglio
d'Europa i magistrati italiani sono i più produttivi in
Europa nel settore civile e secondi solo alla Russia in
quello penale. Una delle rare classifiche positive in cui
l'Italia eccelle. L'inefficienza della giustizia non è
quindi un problema di ferie dei magistrati, come il
sovraffollamento carcerario o i suicidi in carcere non
sono un problema della polizia penitenziaria e il dilagare
dell'evasione non è colpa della Guardia di Finanza. Senza
risorse e senza strategia competente da parte dei governi
non si va da nessuno parte, anche abolendo del tutto le
ferie dei magistrati.
Ho poi sognato che veramente il progetto giustizia che il
Suo governo vorrebbe varare avesse ridato vita al vecchio
falso in bilancio che tanto era stato utile per combattere
anche corruzione ed evasione fiscale, avesse introdotto
nuovi strumenti investigativi anticorruzione, eliminato la
prescrizione dei reati almeno dopo la condanna di primo
grado proprio per evitare, come avviene, che i processi
siano tenuti in piedi per maturare la prescrizione; ed ho
poi creduto che finalmente il legislatore avesse preso
chiara e ponderata posizione su molte delle questioni in
materia etica e di bioetica, che invece vengono lasciate,
in assenza di specifica disciplina legislativa, alle
soluzioni dei singoli giudici, sempre accompagnate da
intense polemiche. Lo avevo creduto perché sembrava che
l'associazione nazionale magistrati, che da tempo vorrebbe
questi interventi, si fosse lamentata solo delle ferie. Il
sogno è durato un po' di più perché ho dovuto leggere
quanto diceva la mia associazione, ed ho scoperto che si
lamentava proprio della mancanza, in quelle proposte di
riforma, di ciò che io mi ero illuso il Suo governo avesse
previsto e non tanto delle nostre ferie.
C'è però una cosa che non mi ha fatto sognare e che sento
il dovere civico di dirLe; un qualcosa sulla quale non
riesco a fare ironia o seguire un efficace sarcasmo.
Quando in televisione il giornalista le ha detto che i
magistrati non avevano ben accolto le proposte di riforma
del Suo governo, Lei ha replicato con un efficace ed
irridente «brrr, che paura». Vede, con la paura molti dei
miei colleghi e così pure le forze dell'ordine devono fare
i conti ogni giorno e non è una cosa sulla quale amiamo
scherzare. Noi magistrati quando sentiamo parlare di paura
pensiamo d'istinto, glielo assicuro, ad una frase che
molti giovani portano sulle loro magliette: «chi ha paura
muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta solo».
La pronunziò Paolo Borsellino, lo saprà certamente. Non
era giovane come Lei, quando espresse il suo pensiero, né,
probabilmente, abile e suadente oratore come Lei dimostra.
Su alcune cose, però, noi siamo un po' all'antica;
crediamo sia importante tenere conto delle opinioni di
chi, sul campo, ha dimostrato competenza ed attaccamento
allo Stato. Credo che comprenderà perché sulla paura non
amiamo scherzare e, per quanti sforzi faremo, non
riusciremo a essere affascinati dalla sua ironia.
Con molta cordialità,
Pasquale Profiti
Magistrato a Trento, presidente dell'Anm del Trentino Alto
Adige
A margine di un articolo di Filippo Facci
I giudici, il Governo e il Parlamento
di
Salvatore Sfrecola
Filippo Facci, da Monza, classe 1967, è un giornalista che
ha fatto un lungo e certamente sofferto percorso
intellettuale, da l’Unità a Libero, passando
per l’Avanti, Il Giornale, l’Opinione,
Il Tempo, Il Riformista, Il Domenicale
di Marcello dell’Utri.
Onnipresente nei talk show, il look è quello del
ragazzotto scapigliato, la bocca costantemente atteggiata
ad una sorta di broncio infantile, mentre si tira su con
vezzo il ciuffo. Un po’ alla Sgarbi, per intenderci.
Intelligente, fiuta il vento che tira, come dimostra il
suo percorso giornalistico, ha il gusto della battuta e
non trascura l’argomento che fa tendenza. Non avrebbe,
dunque, potuto ignorare la polemica sulla Giustizia con
argomenti tra i più ricorrenti e popolari tra gli
italiani, soprattutto tra quelli che maggiormente
apprezzano i furbi, i cosiddetti “dritti”, quelli la cui
vita è un perenne slalom tra regole e divieti. Per cui il
magistrato, che a quelle regole ed a quei divieti li
richiama, non è amato.
Facci si esibisce, pertanto, in una serie di luoghi
comuni, impunemente, per nulla preoccupato del fatto che
le argomentazioni che propone ai suoi lettori si
smentiscano da sole. Cominciamo dal titolo “si fa
Giustizia solo senza magistrati” (Libero, 11
settembre 2014, a pagina 1, con seguito alla 4) per andare
ad individuare le ragioni per le quali, a suo giudizio, il
governo non riuscirebbe a portare a termine la riforma pur
con tanta grancassa annunciata. Parte dal lavoro dei
magistrati, il Nostro, per dire che “mediamente lavorano
poco”. Quel “mediamente” è un capolavoro di ipocrisia,
perché Facci sa bene che le statistiche europee dicono il
contrario. Che, cioè, i magistrati italiani hanno una resa
lavorativa elevata, superiore a quella di altri colleghi
degli Stati appartenenti all’Unione europea.
Riferisce Facci che secondo l’Associazione Nazionale
Magistrati (A.N.M.) “i problemi sono altri, sono cioè la
norma sull’auto riciclaggio e la legge Cirielli e il falso
in bilancio”. E prosegue, “il problema non è, cioè, che i
magistrati sono anche dei dipendenti statali come gli
altri e quindi soffrono degli stessi tic, con la
straordinaria differenza che loro non timbrano il
cartellino: guai a dirlo”. Secondo il Nostro “dovremmo
arrenderci al fatto che “i magistrati lavorano anche e
soprattutto a casa” (Il Fatto Quotidiano, ieri,
cioè il 10 N.d.A) anche se i risultati sono questi e
dovremmo berci che il deserto estivo di procure e
tribunali sia tutta colpa della lobby degli avvocati: che
hanno tante colpe, cribbio, ma non diamogli anche questa”.
È sufficiente per dimostrare che Facci non ha studiato il
problema o fa finta di non conoscerlo. Propenderei per la
seconda, secondo il noto adagio di Giulio Andreotti per il
quale a pensar male si fa certamente peccato ma si
indovina spesso. Cominciamo col dire che l’andamento
della giustizia, il funzionamento di questo essenziale
servizio che gli ordinamenti pubblici rendono da quando
esistono, cioè da qualche migliaio di anni, dipende
essenzialmente dalle leggi, sostanziali e processuali, che
essi stabiliscono, un tempo i sovrani, poi, almeno a far
data dalla Rivoluzione Francese, i Parlamenti, cioè le
assemblee legislative. Sono queste infatti che individuano
i reati che devono essere previsti e puniti ed a chi
spetta istruire un procedimento. Ugualmente, nel processo
civile, è la legge che stabilisce quali diritti hanno i
cittadini e le imprese e come devono essere tutelati. Con
la conseguenza che i tempi dei processi discendono
direttamente dalle norme che gravano sui tribunali e sui
giudici, quanto alle cause che possono essere iniziate ed
ai tempi della loro conclusione. Nel tempo infatti si è
assistito al variare dell’area degli illeciti previsti e
puniti e dei diritti riconosciuti e tutelati.
Questa materia sfugge ai magistrati. E sfugge anche
all’Associazione nella quale si riconoscono, che a volte
interviene, si potrebbe dire a titolo di consulenza dei
governi e dei Parlamenti, non tanto sui reati, che vengono
identificati secondo la sensibilità dei popoli in un
determinato momento storico, quanto su profili di
carattere tecnico giuridico per dire che sarebbe
incongruo, ad esempio, non punire il falso in bilancio che
si è rivelato, a partire dall’esperienza di Tangentopoli,
il grimaldello più efficace attraverso il quale perseguire
i reati di corruzione e concussione.
Nel sommario dell’articolo scrive Facci: “è inutile
tentare la riforma dei tribunali col consenso dei pm,
perché pur di mantenere i privilegi (dalle ferie alla
paga) sono capaci di cacciare interi governi”. Intanto non
è chiaro il passaggio dalla categoria dei magistrati,
senza i quali solamente si potrebbe fare la riforma della
Giustizia, all’identificazione dei pubblici ministeri
quali oppositori del cambiamento, considerato che essi
sono una piccola parte del mondo della giustizia, una
parte che avrebbe uno scarso peso della vita italiana se
la classe politica arruolasse persone dalla fedina penale
pulita, senza scheletri negli armadi, persone perbene che
dalla giustizia penale non avrebbero nulla da temere.
Questa influenza dell’attività giudiziaria sulla vita
politica, infatti, deriva dal fatto, esclusivamente dal
fatto, che molti politici italiani in questa fase della
storia del nostro Paese hanno spesso da rimproverarsi
comportamenti contrari alla legge.
Torniamo a quella che evidentemente è una ossessione di
Facci e non solo. La paga, le ferie e il lavoro.
Gli stipendi dei magistrati sono stabiliti per legge e non
sono superiori a quelli dei dirigenti dello Stato. Anzi i
magistrati non hanno la possibilità di godere dei
privilegi degli alti dirigenti dello Stato che, come ho
detto più volte, sono titolari di poteri rilevanti per la
loro partecipazione ad attività di amministrazioni e di
enti dai quali ricevono compensi, i gettoni di presenza,
in quanto componenti di Consigli di amministrazione e
degli organi di revisione contabile, ed attraverso i quali
ottengono vantaggi. È noto che i figli degli alti
dirigenti dello Stato il più delle volte vengono assunti
da enti e società pubbliche senza concorso mentre i figli
degli altri dipendenti pubblici, compresi i magistrati, se
vogliono lavorare nel pubblico, debbono sottoporsi a
rigide selezioni.
Quanto alla paga, lo stipendio è certamente buono solo in
rapporto a quello di un impiegato direttivo, non dei
dirigenti ai quali i magistrati possono essere equiparati.
Esso compensa un lavoro duro, di grande responsabilità,
che comporta un continuo aggiornamento professionale
spesso reso particolarmente complesso dalla continua
evoluzione normativa e giurisprudenziale. Inoltre, non
sfuggirebbe a Facci, se riflettesse sine ira ac studio,
che sembra logico a chiunque abbia presente queste
caratteristiche della funzione giudicante che lo Stato
debba selezionare i propri magistrati attraverso concorsi
che ne accertino la capacità professionale, reclutando i
migliori fra i laureati in giurisprudenza disponibili sul
mercato. O vogliamo giudici raccogliticci che non hanno
saputo impegnarsi in altre professioni?
Da ultimo il tema del cartellino, una dimostrazione di
incapacità di comprendere il tipo di lavoro. Anche la
battuta sui magistrati che lavorano prevalentemente a casa
dà un’altra dimostrazione di colpevole ignoranza se non di
mala fede. I magistrati, a differenza degli altri
impiegati statali che producono nell’orario d’ufficio
provvedimenti di varia natura, scrivono sentenze che sono
atti complessi, spesso lunghi dovendo ricostruire il fatto
e puntualizzare gli aspetti della motivazione, atti i
quali richiedono una concentrazione ed un impegno nella
consultazione del fascicolo processuale, delle leggi e dei
codici che non si può fare in ufficio, in un ambiente dove
il lavoro è spesso interrotto da chi bussa e da chi
telefona. Per cui i magistrati da sempre lavorano
prevalentemente a casa nel silenzio del loro studio, di
fronte agli atti processuali, alle istanze e alle memorie,
alle leggi e alla loro coscienza, dovendo definite
situazioni che incidono sui diritti e sugli interessi
delle persone. Il lavoro dei magistrati è valutato dal
punto di vista quantitativo e qualitativo sulla base delle
sentenze che scrivono. Non è quindi un problema di
cartellini e di tornelli.
Chi giudica le sentenze? L’appello, ovviamente. Che in
Italia, a differenza di quanto avviene in altri
ordinamenti, è consentito al di là di ogni ragionevole
garanzia. Ciò che vale anche per i ricorsi in Cassazione
che solo nel nostro sistema processuale sono consentiti a
dismisura, per cui la nostra Corte Suprema fa ogni anno
decine di migliaia di sentenze contro le poche decine
degli analoghi collegi degli U.S.A., del Regno Unito o
della Francia. Anche questo è colpa dei magistrati? Suvvia
Facci! Senso della misura innanzitutto.
14 settembre 2014
L’uomo, Daniza e il Creato,
qualche riflessione per cristiani e non
di Salvatore Sfrecola
La fuga di Daniza è finita nel peggiore dei modi, uccisa
nel tentativo di catturarla. “Una morte evitabile”, ha
titolato ieri in prima pagina il Corriere della Sera
sotto una foto che ritrae la grande orsa con i cuccioli,
quelli che intendeva difendere, pensando fossero in
pericolo, quando ha aggredito l’incauto cercatore di
funghi nei boschi di Pinzolo, in Trentino.
La vicenda di Daniza, braccata per giorni, ha destato
l’attenzione di molti, difensori della natura e degli
animali che ne caratterizzano l’habitat, preziosa
espressione del Creato che troppo spesso osserviamo con
distacco e noncuranza. L’orsa in fuga, per la quale
moltissimi italiani facevano il tifo contro la burocrazia
senz’anima, che la voleva catturata o preferibilmente
abbattuta.
Si è visto, accanto a chi ama la natura ed era
obiettivamente preso dalla materna attenzione dell’orsa,
l’indifferenza di tanti, tra i quali purtroppo dobbiamo
annoverare molti che si dicono cristiani e che dovrebbero
avere a cuore la natura, come espressione del Creatore.
Abbiamo notato più volte questa aridità. Perché amare la
natura e gli animali non significa confondere questi con
gli umani, ma rispettar gli esseri viventi con le loro
abitudini, con i loro sentimenti, o, se preferite, con i
loro istinti, come quello materno di Daniza. D’altra parte
non diciamo che la maternità è istintiva nelle donne. O
dovrebbe, se i cristiani condannano l’aborto chiedendosi
come una madre possa voler sopprimere la vita che nasce in
lei.
Mi sono sentito dire da una persona, che stimo moltissimo
e che so ricca di sentimenti umanitari e di una profonda
religiosità, che in questi giorni si era manifestata
maggiore attenzione per l’orsa in fuga rispetto ai
cristiani massacrati in Iraq e in altre regioni
dell’Africa dove l’intolleranza religiosa assume da tempo
i tratti cruenti del dramma.
Non credo ci sia un’alternativa tra mamma orsa ed i
cristiani vittime della furia omicida dei fondamentalisti
islamici. Anzi, credo che chi ama l’uomo, in quanto figlio
di Dio, ama ugualmente la natura e le sue componenti
faunistiche perché dono del Creatore agli uomini.
Devo, invece, constatare, da cattolico, che il mondo
cristiano e la cultura cristiana hanno costantemente
sottovalutato e trascurato l’importanza della natura nel
contesto della vita degli uomini, non solo della fauna
selvatica, ma anche dell’ambiente, martoriato senza che si
levi una voce di ribellione da parte di ambienti
religiosi. Va detto, però, che gli ultimi Papi, il Santo
Giovanni Paolo II, il Pontefice emerito Benedetto XVI e
l’attuale, Francesco, più volte hanno richiamato
l’attenzione sui valori della natura come patrimonio
consegnato dal Creatore all’umanità. In tal modo l’attuale
Pontefice ha ritenuto anche di onorare il Santo del quale
ha scelto il nome.
Eppure la voce di questi Pontefici non ha avuto un’eco
adeguata, non è stata ripresa nelle parole e nei fatti
dalla gerarchia cattolica e dai cattolici in politica i
quali si dimostrano nei confronti dei valori ambientali
spesso di una straordinaria aridità.
E io mi chiedo, e spesso mi sono chiesto, chi altro
avrebbe dovuto difendere i valori dell’ambiente nelle sue
componenti della flora e della fauna se non i cristiani
che da Dio hanno ricevuto questo meraviglioso dono, un
patrimonio che in Italia, in particolare, assume tratti di
una bellezza straordinaria tanto da essere definito “il
bel Paese” o “il giardino d’Europa”. Lo abbiamo
sistematicamente deturpato nell’indifferenza generale e
nella colpevole disattenzione delle istituzioni.
Ieri è morta Daniza, i suoi cuccioli hanno perduto la
madre, gli italiani un’occasione per fare bella figura.
Qualcuno ha detto che, essendosi occupato di analoghe
operazioni di cattura, non ha avuto esperienze negative
sotto il profilo della narcosi effettuata per bloccare
l’animale. Avrà voluto difendere il suo lavoro e
rivendicare la propria professionalità, ma quel titolo del
Corriere della Sera “una morte evitabile” è un
marchio che gli incauti tecnici forestali del Trentino si
porteranno appresso ancora per molto.
Intanto a Pettorano sul Gizio, un delizioso paese nel
Parco Nazionale d’Abruzzo, è stato trovato un orso morto,
avvelenato. Evidentemente dava fastidio a qualcuno.
13 settembre 2014
Luci ed ombre della riforma della Giustizia
tra annunci e proposte, secondo Gian Carlo Caselli
intervistato da Francesco Bonazzi per Dagospia
Importanti riflessioni di Giancarlo Caselli, un magistrato
da poco in pensione che ha condotto molte importanti
indagini contro la criminalità organizzata e la corruzione
da Procuratore di Palermo e di Torino, intervistato da
Francesco Bonazzi per Dagospia in tema di
giustizia. Il colloquio si apre con un riferimento di
cronaca attuale, la notizia delle indagini della Procura
della Repubblica di Milano su Descalzi, nominato ai
vertici dell’ENI, accusato di aver pagato una tangente
all’estero, in Nigeria.
L’intervistatore chiede al magistrato se condividesse
l’atteggiamento del Presidente del Consiglio, Renzi, che
ha detto di voler attendere l’esito delle indagini che
comunque avrebbe nuovamente nominato il manager inquisito.
In proposito Caselli mette a confronto la sensibilità che,
in casi del genere, caratterizza il nostro Paese rispetto
ad altre democrazie occidentali. L’esempio che fa è quello
del Ministro della difesa tedesco che si è dimesso perché
accusato di aver copiato parti della tesi di dottorato di
ricerca un po’ di anni prima. Una cosa che in Italia non
avrebbe spinto nessuno alle dimissioni, aggiungiamo noi.
Poi a Caselli viene chiesto della nomina di Giovanni
Legnini, sottosegretario di Stato dell’attuale governo, a
membro del Consiglio Superiore della Magistratura con la
prospettiva, a quanto si dice, di essere candidato al
Vicepresidente. Un incarico che, come si sa, di
grandissimo rilievo nella gestione dell’organo collegiale
di autogoverno della magistratura presieduto dal Capo
dello Stato. Caselli fa un confronto con l’esperienza
attuale che vede nella posizione di Vicepresidente
l’onorevole Michele Vietti, già sottosegretario
all’economia ed alla giustizia. Aggiungendo, peraltro, che
nell’esperienza dell’ex parlamentare piemontese c’era
stata soluzione di continuità tra l’incarico governativo e
la vicepresidenza della CSM. Soluzione che nel caso di
Legnini non ci sarebbe sicché per Caselli “questo
passaggio diretto dal governo al Csm imporrà speciale
cautela nella valutazione del suo operato. I consiglieri
dovranno tenerne conto e, se lo ritengono giusto, possono
sempre non votarlo come vicepresidente”.
Quanto alla riforma della giustizia preannunciata dal
ministro Orlando Caselli sottolinea come siano state
portate a termine di recente alcune innovazioni quali “il
deposito telematico degli atti, la riforma della geografia
giudiziaria, l’istituzione dei tribunali delle imprese,
alcuni filtri per l’appello e i ricorsi in Cassazione”.
Eppure a suo giudizio c’è molto ancora da fare per
smaltire il pauroso arretrato che i tribunali si portano
appresso da anni e sinterizzato in alcune nelle cifre: 9
milioni di cause, delle quali 5,2 sono civili. Una
situazione, aggiunge Caselli, che richiede “soluzioni
radicali”. La sua proposta è “abolire il secondo grado di
giudizio, ovvero l’appello. So che è radicale e forse
impopolare – aggi8unge - , ma è necessaria. Tutte le
risorse dell’appello, magistrati e cancellieri, potrebbero
essere riservate per due-tre anni all’eliminazione
dell’arretrato. Dopo, smaltito il pregresso, verrebbero
applicate al primo grado e ai ricorsi per Cassazione”.
L’intervistatore si chiede e chiede a Caselli se questa
sua indicazione non sia un “pesante arretramento delle
garanzie a tutela dell’imputato”, specialmente per il
penale.
Per Caselli non è così. E ricorda come in altri
ordinamenti questa sia una realtà da tempo. Sarebbe in
sostanza una scelta per “allineare il nostro sistema
accusatorio a quello di molte democrazie occidentali”.
L’intervista, poi, affronta il tema, dibattuto anche dal
nostro giornale in queste ultime settimane, delle ferie
dei magistrati ritenute da alcuni eccessive.
La risposta di Caselli e chiarissima: “Questo mi sembra
davvero un falso problema, perché la legge non disciplina
le ferie dei magistrati, ma il periodo feriale in cui i
magistrati non possono fare nulla perché gli studi legali
sono chiusi. E’ un problema di avvocati. Vogliamo ridurre
il periodo feriale? Va bene, ma non diciamo che il
problema sono i magistrati scansafatiche. E’ la
distorsione di un problema che riguarda altri”.
Passando quindi alla riforma del processo civile
preannunciata dal ministro Orlando Caselli afferma che “è
l’unica riforma un po’ strutturata tra quelle annunciate
finora. E’ una scommessa e se la si vince va bene. La si
vince con una brutta parola: degiurisdizionalizzazione,
che significa non più giustizia dallo Stato perché ci si
rivolge a un privato. Se funziona, ok, ma il prezzo è alto
dal punto di vista dei principi”.
Inevitabile una domanda sulla prescrizione per un
magistrato che ha condotto grandi inchieste penali nelle
quali spesso la prescrizione ha giocato un ruolo negativo
sulla conclusione dei processi. “Ma abbiamo solo delle
bozze, delle ipotesi. Non sappiamo nulla di veramente
preciso. Tutto dovrebbe confluire in un disegno di legge
con tempi lunghi e possibilità di variazioni profonde.
Vorrei dei testi definitivi. Comunque si prescrivono
150mila processi all’anno e quel che si legge della
riforma, anche se non è il massimo, avrebbe bisogno di una
corsia preferenziale”.
L’intervistatore chiede a Caselli se c’è qualcosa di buono
nella riforma. “Di buono secondo me c’è il pacchetto di 34
articoli elaborato sul contrasto alla criminalità. Ci sono
buoni interventi sui beni sequestrati alle mafie e c’è l’autoriciclaggio
che è urgente, visto che Strasburgo ce lo chiede dal 1999.
E andrebbe fatto per decreto, e non con un disegno di
legge da approvare chissà quando”.
Quanto al falso in bilancio, per Caselli, “Anche qui siamo
alle mere ipotesi di intervento”. Mentre per le
intercettazioni, altra domanda inevitabile, “non siamo
neppure alle ipotesi. C’è stato un rinvio. C’è questo
interpello dei direttori di giornale prima del quale non
si fa nulla. Sentire gli interessati è utile, ma sulla
base di una riflessione concreta e con un testo-base,
altrimenti rischia di essere una chiacchierata nel buio
che non so a cosa possa servire”.
Richiesto di dare un proprio parere su questa materia
molto controversa Caselli risponde che a suo giudizio,
“le cose vanno sostanzialmente bene, fermo restando
che lo strumento investigativo non va toccato. Sotto il
profilo della tutela della privacy c’è l’autodisciplina
dei giornalisti e forse serve un maggior scrupolo della
magistratura. Trovare una norma che non sia lesiva dei
diritti non è facile, ma la politica deve farlo avanzando
una proposta concreta sulla quale poi si potrà discutere”.
12 settembre 2014
Realtà e fantasia delle ferie dei magistrati
di Salvatore Sfrecola
In un Paese ad alto tasso di
illegalità, attestato dai 200 miliardi di evasione fiscale
annui, da una sessantina di miliardi di corruzione, sempre
annui, e da altrettanti miliardi di sprechi, mentre il
Prodotto Interno Lordo si arricchisce dell’apporto delle
attività criminali, droga e prostituzione, tanto per
indicare i fattori più rilevanti, il mondo politico, la
stampa ed i frequentatori di Twitter dibattono delle ferie
dei magistrati che il governo intende ridurre,
contemporaneamente accorciando i termini di sospensione
feriale oggi previsti in 45 giorni, dal 1 agosto al 15
settembre, portandoli a 30.
Cominciamo col dire che la sospensione
feriale consente agli operatori giudiziari, in particolare
agli avvocati, un periodo di serenità in quanto i termini
che scadessero in quel lasso di tempo sarebbero prorogati
al 15 settembre. Questo non incide sull’andamento
dell’attività obbligatoria dei tribunali i quali rimangono
aperti anche ad agosto, per le procedure cautelari, per i
procedimenti che riguardano detenuti e per tutte le altre
attività che hanno un carattere di urgenza.
Si ha l’impressione che si sia fatta
confusione tra questo periodo di sospensione dei termini,
che riguarda tutta l’attività giudiziaria, con le
esclusioni di cui si è detto, e le ferie dei magistrati
per il fatto che c’è coincidenza attualmente tra i due
periodi dal punto di vista quantitativo. Infatti
l’articolo 276, comma 3, dell’ordinamento Giudiziario di
cui al regio decreto 30 gennaio 1901, n. 12, secondo il
quale “ai magistrati dell’ordine giudiziario sono
applicabili le disposizioni generali relative agli
impiegati civili dello Stato…” è stato integrato dalla
legge 96 del 2 aprile 1979 con questa disposizione “i
magistrati che esercitano funzioni giudiziarie hanno un
periodo annuale di serie di 45 giorni”.
Una prima osservazione. La norma
riguarda i magistrati “che esercitano funzioni
giudiziarie”, quindi non quelli che sono, ad esempio, al
ministero che hanno il trattamento dei dirigenti.
Va detto che i magistrati nel periodo
di sospensione feriale, quello che come ho detto va dal 1
agosto al 15 settembre, sono tenuti a depositare gli atti,
le sentenze e le ordinanze, decisi in precedenza, che
vanno depositati entro un periodo stabilito
dall’ordinamento secondo il tipo di atto e quindi per loro
non c’è sospensione.
Queste ferie, di 45 giorni, che
sembrano lunghe in realtà non sono molto diverse da quelle
degli altri impiegati dello Stato per i quali il congedo
ordinario è di 30 giorni, dai quali vanno dedotte le
domeniche e aggiunte le sei giornate che corrispondono
alle “festività soppresse”. Pertanto 30 + 4 + 6 fa 40. Se
il periodo include agosto e consideriamo la festività
dell’Assunta siamo a 41.
Per i magistrati invece non è previsto,
proprio in ragione dello speciale regime, il calcolo delle
giornate festive, né sono aggiunte le festività soppresse.
La norma è chiarissima.
Tutto questo per dire che stiamo
parlando di un problema di poco conto, che certamente non
influisce sull’andamento della giustizia.
Aggiungo che, come molti magistrati,
non ho mai fruito di questo periodo nella sua interezza ed
io, come la maggior parte dei colleghi, mi sono molto
spesso ritrovato la domenica o i giorni festivi a
scrivere. Inevitabilmente litigando con moglie e figli.
Con questa ultima osservazione vorrei
dire che il lavoro del magistrato ha caratteristiche
tipiche, che vanno tenute presenti. Non è un problema di
confronto con altre categorie, ma non va trascurata questa
tipicità di un lavoro deciso spesso collegialmente ma poi
messo a punto in modo solitario, prima e dopo l’udienza,
prevalentemente a casa con un approfondimento della
fascicolo processuale alla luce della giurisprudenza e
della dottrina che spesso costituiscono un impegno
gravoso, dal punto di vista tecnico professionale,
coinvolgendo anche questioni di coscienza.
Ricordo che un collega mi diceva che
era sua abitudine, dopo aver scritto una sentenza, farsi
una passeggiata in un luogo appartato per riflettere sulla
decisione che aveva adottato e su quello che aveva
scritto.
Un lavoro delicato, difficile, come
quello di rendere giustizia che comporta spesso una
faticosa elaborazione di norme giuridiche e di
orientamenti giurisprudenziali non sempre consolidati, a
fronte del quale, proprio per la delicatezza del ruolo, è
stato sempre riconosciuto un trattamento economico che non
è il “mega stipendio” di cui parla Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera di oggi, perché nettamente
inferiore a quello percepito da molti dirigenti dello
Stato i quali, tra l’altro, hanno sempre goduto di
accessori importanti come incaricati di rappresentare la
propria amministrazione in enti e società pubbliche.
Laddove ai compensi per i gettoni di presenza et
similia si sono aggiunti altri vantaggi, molto più
concreti, come la sistemazione di figli e nipoti, non
sempre a seguito di procedure concorsuali.
È certo che nelle critiche ad alcuni
aspetti della riforma varata dal governo, peraltro ancora
misteriosa, aver inserito anche una protesta sotto il
profilo del numero dei giorni di ferie è stato per
l’associazione Nazionale Magistrati un errore, scusabile
solamente per il fatto che evidentemente, come ho già
detto, a Palazzo Chigi si è confuso periodo di sospensione
feriale, che interessa soprattutto gli avvocati, con le
ferie dei magistrati.
Per concludere voglio riprendere una
frase dell’articolo di Battista che prima ho citato.
Quando afferma che “la forza di un governo “decisionista”
dovrebbe essere quella di non piegarsi ai veti di una
corporazione, che va certamente ascoltata, ma non temuta”
Battista dice una ovvietà sconcertante per un giornalista
navigato anche se, ad onta di quel che appare, non è
proprio quella dei magistrati la corporazione che conta,
come dimostra il fatto che, partito in quarta per ridurre
le società degli enti locali, il governo non ne ha fatto
nulla, come non ha toccato altri santuari, tra l’altro
implementando i poteri dei consiglieri regionali
attraverso quella assurda riforma del Senato che ha
trasformato la più antica istituzione parlamentare in un
dopolavoro di esponenti della politica regionale, che non
avranno una indennità specifica, se si escludono i costi
di viaggio, alloggio e segreteria quando dalla periferia
si recano a Roma.
10 settembre 2014
Stipendi e professionalità
di Salvatore Sfrecola
In una dichiarazione di ieri, resa in
una festa di partito, il Ministro per la semplificazione
della pubblica amministrazione, Marianna Madia, ha
criticato le proteste che vanno emergendo nel mondo del
pubblico impiego per il blocco dei contratti fermi al 2009
sostenendo che esso era già previsto nel Documento di
economia e finanza (D.E.F.) e si è gloriata della
decisione governativa di ridurre lo stipendio degli alti
manager della pubblica amministrazione, dei più alti
magistrati e degli avvocati dello Stato.
Questa di seminare zizzania tra le
categorie, come ha scritto nei giorni scorsi su
L’Espresso il costituzionalista Michele Ainis, è una
tecnica che il governo Renzi ha attuato fin dall’inizio.
Quando parla di “rivoluzione”, infatti, il Presidente del
consiglio usa un termine appropriato, non perché, come
vorrebbe far intendere, sta trasformando l’Italia, ma
perché la sua prima mossa è stata quella di decapitare i
vertici dell’amministrazione, civile e militare, e della
magistratura ponendo un tetto agli stipendi e prevedendo
la soppressione della proroga dei termini del
pensionamento, due anni per i dirigenti, cinque per i
magistrati. Una misura giustificata non già dalla
difficile situazione economica, perché tagliando quegli
stipendi non si recupera praticamente niente, ma dal
desiderio di mettere fuori gioco tutta una classe
dirigente che il premier evidentemente ritiene ostile ai
suoi programmi. Ed ha giustificato questa misura con
l’intento, certamente encomiabile, di attuare un ricambio
generazionale, per far entrare giovani nelle
amministrazioni pubbliche e nella magistratura.
Questa del ricambio generazionale, che
non potrebbe non essere accolta favorevolmente da tutti,
in primo luogo dagli anziani preoccupati della sorte di
figli e nipoti, è una delle affermazioni indimostrate
nelle quali il leader del Partito Democratico si è
esercitato a fondo in questi ultimi mesi. In realtà il
ricambio, per ovvie ragioni connesse ai tempi delle
procedure di concorso, non è in nessun modo coerente con
l’esodo per la mancata proroga del servizio e del nuovo
termine di collocamento a regime. Quindi il ricambio
generazionale non c’è se non negli slogan di Matteo Renzi.
Infatti, in realtà, potranno essere stabilizzati soltanto
i precari della scuola, dei quali, peraltro, il Presidente
sembra non conoscere neppure il numero. 100.000 qualche
giorno fa, 150.000 due giorni dopo.
Detto questo, perché i lettori sappiano
come vanno le cose, dobbiamo parlare del tetto degli
stipendi, stabilito in € 240.000 lordi, meno della metà
netti, avendo il Presidente del consiglio individuato tale
limite nell’indennità che spetta al Capo dello Stato il
quale, peraltro, la riceve al netto in quanto non è
tassabile. Per non dire che l’inquilino del Quirinale
sostanzialmente è a pensione completa.
Questo del tetto alle retribuzioni, che
comprendo bene viene particolarmente apprezzato da chi è
in basso nella scala sociale ed ha difficoltà spesso di
coniugare il pranzo con la cena o addirittura disoccupato,
è un vecchio indirizzo della sinistra populista che nega
in radice la necessità di retribuire le professionalità.
Lo ha fatto sempre anche se oggi, con riferimento agli
insegnanti, Renzi parla di riconoscimento del merito, ben
sapendo che questa strada è stata sempre impervia, fonte
di appiattimento e di contenzioso.
Tornando ai pochi pubblici dipendenti
che godono del trattamento economico criminalizzato si
tratta di alti dirigenti dell’amministrazione, dei
funzionari della Camera e del Senato, dei magistrati di
maggiore anzianità e degli avvocati dello Stato, da sempre
destinatari di una quota delle somme percepite dallo Stato
come spese del patrocinio legale, in caso di vittoria nei
processi.
Alcune osservazioni in proposito.
Ad un osservatore superficiale questi
compensi possono apparire un privilegio se non si tenesse
conto del fatto che l’accesso a quelle posizioni
funzionali nell’ambito dell’amministrazione e della
magistratura consegue al superamento di difficili prove
concorsuali, caratterizzate da una notevole presenza di
candidati forniti di adeguata preparazione professionale,
attirati proprio dalla buona retribuzione.
Ora la pubblica amministrazione,
diciamo più esattamente lo Stato, non ha bisogno di
dirigenti magistrati e avvocati dello Stato qualsiasi sia
la loro professionalità ma ha il dovere nei confronti
della comunità di procurarsi i migliori sul mercato.
Ovunque è così. In Francia, nel Regno Unito, in Germania
lo Stato si assicura le migliori professionalità
attraverso accurate selezioni alle quali partecipano
candidati preparati, attratti certamente dal prestigio di
servire la pubblica amministrazione ma anche dal
trattamento economico messo a confronto con l’impiego
privato e la libera professione.
Ricordo di aver letto su un volume
pubblicato dall’Istituto di scienza dell’amministrazione
pubblica (ISAP) una considerazione che ho sempre ritenuto
importante. Era riferita alla Francia, ma vale per tutti.
Anche quando il trattamento economico è leggermente
inferiore a quello di un settore privato di uguale
rilevanza l’accesso alla pubblica amministrazione è
preferito per il prestigio che il ruolo conferisce alla
persona. Naturalmente non è possibile ritenere che un
trattamento economico deteriore rispetto al privato possa
attirare le migliori professionalità.
Aggiungo sottolineando come
risparmiando su qualche centinaio di alti dirigenti non si
recupera una somma idonea a concedere un euro agli altri
pubblici dipendenti. Tuttavia la battaglia politica attira
le folle ed il leader populista ne trae un vantaggio.
Concludo con riferimento ad una favola
diffusa frequentemente nei dibattiti, quella secondo la
quale i pubblici dipendenti italiani avrebbero un
trattamento anche del 30% superiore a quello dei colleghi
stranieri. È una balla di proporzioni gigantesche
facilmente verificabile e verificata. E questo senza tener
conto del diverso costo della vita. Per cui nell’ultimo
anno cittadini italiani hanno acquistato in Germania
immobili per diversi miliardi di euro a prezzi che a Roma
o a Milano non avrebbero consentito più dell’acquisto di
un box.
Vorrei dire, infine, al Presidente del
consiglio ed alla leggiadra sua collaboratrice posta alla
guida del fondamentale Ministero della funzione pubblica
che per raggiungere obiettivi di crescita occorre un buon
funzionamento della pubblica amministrazione che è fatto
di leggi e di uomini. Le leggi devono essere adeguate, gli
uomini devono avere elevata professionalità che si
ottiene, come ho già detto, attraverso una selezione
rigorosa assicurando un giusto trattamento economico che
sia idoneo a garantire l’accesso ai migliori. La selezione
va fatta, dunque, avendo una platea di concorrenti di
elevata preparazione professionale. Tutto il resto sono
chiacchiere, polverone per stimolare il consenso dei più
svantaggiati i quali non se la devono prendere con quei
pochi che hanno un trattamento economico elevato, anche se
non straordinariamente elevato, ma con gli amministratori
della cosa pubblica inconcludenti e incapaci.
5 settembre 2014
Considerazioni a margine di un articolo di Michele Ainis
Ceto medio nella bufera
di Salvatore Sfrecola
Attento ai diritti ed alle norme che li tutelano, con una
speciale attenzione alle regole costituzionali della
democrazia, non poteva sfuggire a Michele Ainis che
l’attuale momento politico si caratterizza, in conseguenza
di talune iniziative del governo, come una vera e propria
“guerra civile”. Espressione pesante sintetizzata a fianco
dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 4
settembre (Chi fa la guerra al ceto medio) da una
serie di affermazioni: “giovani contro vecchi. E poi
disoccupati contro occupanti, liberi professionisti contro
dipendenti, pensionati contro tutti. La crisi ha scatenato
un conflitto che non risparmia nessuno. E mette a rischio
la democrazia”.
È veramente una guerra civile che ha come “teatro di
battaglia” il ceto medio, che è espressione con la quale
un tempo si definiva un’area sociale compresa tra i ricchi
e gli operai. Oggi il concetto di ceto medio si è
allargato e comprende una fascia più ampia della
popolazione che vive di stipendi, pubblici e privati, e di
attività libero- professionali e imprenditoriali di più
modeste dimensioni, ma comunque essenziali nell’economia
del Paese che noi siamo stati abituati a intravedere nei
ceti produttivi.
Nella sintesi pubblicata a fianco dell’articolo di Ainis,
di cui abbiamo detto, è scandita la motivazione della
crisi sociale del ceto medio e in fin dei conti identifica
anche la responsabilità di questa situazione, che è grave,
molto grave perché “non c’è democrazia senza ceto medio”,
come l’Autore ricorda, citando Amartya Sen, precisando
che “c’è una democrazia apparente, alla quale in America
Latina”.
Venendo alle responsabilità, Ainis si chiede se “c’è modo
od arrestare la deriva? E che potere ha il potere
esecutivo?” Per concludere che “sarebbe già tanto che la
smettesse di seminar zizzania”, una attività nella quale
il Presidente del Consiglio si è impegnato fin
dall’inizio, in qualche modo indicando al pubblico
ludibrio ora questa ora quella categoria di lavoratori e
di professionisti, a cominciare dalla pubblica
amministrazione intesa in senso lato che comprende oltre
agli impiegati ministeriali, i militari, gli addetti
sicurezza i professori e via discorrendo. Con parole dure,
usando gli slogan nei quali è bravissimo che fin
dall’inizio hanno caratterizzato i suoi discorsi, le sue
conferenze stampa e le sue interviste, salvo poi dire che
non si possono insultare i dipendenti pubblici che aveva
appena insultato. Per il semplice motivo. In primo luogo
perché, anche di fronte all’inefficienza conclamata e
verificata, è sempre ingiusto criminalizzare una categoria
nell’ambito della quale ci sono ovviamente professionisti
seri e fannulloni. I primi vanno premiati, i secondi
puniti, senza pietà. Poi va detto che il Presidente del
Consiglio è il Capo della burocrazia statale, è come se
fosse il comandante generale di un esercito. E non si è
visto mai che un generale vilipenda i propri soldati, che
dica pubblicamente che sono felloni e incapaci di
combattere e contemporaneamente pretenda di portare
l’esercito alla vittoria.
È un grave difetto di comunicazione del premier che pure
sul punto dell’efficacia degli slogan, ai quali affida
l’annuncio delle sue iniziative viene normalmente lodato.
Il fatto è che nella sua ottica di contrasto ad interessi
particolari, a sacche di inefficienza, non avendo
personalmente la capacità e la professionalità per
comprendere a fondo i problemi e individuarne le soluzioni
e non avendo neanche collaboratori ministri dotati di tale
conoscenza, diffidando della struttura alla quale non
vuole affidare la riforma, ha scelto la strada di mettere
l’uno contro l’altro, tagliando i vertici
dell’amministrazione civile e militare senza preoccuparsi
del fatto, come gli è stato autorevolmente precisato, che,
ad esempio, per la magistratura nelle sue varie componenti
la norma che abolisce il trattenimento in servizio senza
un adeguato ricambio, che non è possibile in tempi brevi,
avrebbe creato grossi problemi, in particolare ai processi
penali, molti dei quali dovranno iniziare daccapo
cambiando i collegi, con il rischio della prescrizione,
gravissimo, in particolare, per i processi che riguardano
la criminalità organizzata e la corruzione.
Ugualmente si è dedicato a falcidiare il ruolo dei
professori universitari. Hanno lasciato la cattedra in
decine di migliaia.
Tutto questo per favorire un ricambio generazionale, da
tempo atteso, che ha i suoi tempi e i suoi numeri perché,
tanto per fare un esempio, se la Corte dei conti che ha un
deficit del 30% di magistrati rispetto all’organico, ne
perde un altro centinaio con i pensionamenti anticipati
l’aver bandito un concorso a 18 posti, che richiederà
naturalmente del tempo per il suo espletamento considerato
l’alto numero dei partecipanti, non attua un ricambio
generazionale. Realizza esclusivamente una decapitazione
dell’Istituto in un momento in cui il richiamo alla
legalità ed alla regolarità dei conti si impone come un
imperativo categorico.
Contemporaneamente nella magistratura come nelle altre
amministrazioni pubbliche l’iniziativa del Premier, non
assistita da norme transitorie, ha scatenato una violenta
guerra generazionale perché naturalmente coloro i quali si
avvantaggiano del pensionamento anticipato di alcuni
plaudono e premono perché non si torni indietro,
comprensibilmente. Anche se dimenticano che il mancato
rispetto dei diritti acquisiti, soprattutto delle
condizioni dei più anziani di servizio che non hanno
demeritato, ove accettato, costituisce un precedente
pericoloso, secondo una regola antica per cui chi prende
uno schiaffo se lo tiene, ne riceve subito un altro perché
lo schiaffeggiatore vuole che non passi il ricordo della
guancia dolente.
Come finirà la guerra nel ceto medio? Con perdite certe,
di credibilità innanzitutto, per l’Italia perché in quel
contesto sociale è il collante dell’unità, dei valori che
storia e cultura ci hanno consegnato.
E c’è il rischio di una deriva autoritaria come ogni
rivoluzione (così, del resto, Renzi chiama la sua azione
di governo).
Le rivoluzioni le fa la classe media. Il fascicolo
speciale di “STORICA” la rivista della National
Geografic, in edicola in questi giorni, il direttore,
Giorgio Riveccio, scrive che “non c’è quasi rivoluzione
che sia stata condotta soltanto dalle fasce più umili del
popolo ma, sempre, da componenti di classi più elevate(gli
esempi sono tanti: dalla rivoluzione inglese del Seicento
a quella francese ai moti risorgimentali italiani)”. Tutte
potevano essere evitate, se la classe politica al governo
avesse avuto consapevolezza delle difficoltà nelle quali
versava quella classe sociale di professionisti,
artigiani, industriali che è al centro delle attività
culturali e produttive del Paese, ed avesse assunto le
iniziative necessarie per un futuro di crescita in un
equilibrato contesto sociale.
Cosa porterà la zizzania che semina Renzi?
2 settembre 2014