MARZO 2014
Pro memoria per il Ministro Madia. La riforma della
Pubblica Amministrazione: come e perché
di Salvatore Sfrecola
Il Presidente del Consiglio
ha posto tra i primi obiettivi del suo governo la riforma
della Pubblica Amministrazione. Il Ministro Madia, con
delega alla semplificazione e all’amministrazione, ha
fatto sapere di avere messo in cantiere misure concrete, a
cominciare dal ringiovanimento dei ranghi, attraverso un
esodo o un prepensionamento, come hanno scritto i giornali
un po’ frettolosamente.
L’obiettivo è certamente
funzionale a rendere efficiente la macchina del governo.
Anche con tagli funzionali, come suggerito dal Commissario
Cottarelli nella versione riveduta e corretta dal
Presidente Napolitano che ha richiamato l’esigenza di
tagli selettivi e funzionali a mantenere in efficienza gli
apparati pubblici.
Che Renzi punti a mettere
mano in tempi brevi alla riforma degli apparati pubblici è
segno di speciale attenzione per l’esigenza di buon
funzionamento della macchina pubblica attesa dai cittadini
e dalle imprese.
Lo abbiamo scritto più
volte su questo giornale, la P.A. è lo strumento
necessario per governare, per perseguire con efficacia,
efficienza ed economicità, nel rispetto della legge, le
politiche pubbliche individuate nel programma del governo,
approvato dal Parlamento. Ne consegue che la prima
preoccupazione dei governi è da sempre quella di disporre
di un apparato idoneo alla sua politica, quanto a
ordinamento degli uffici, professionalità degli addetti e
adeguatezza della normativa, intesa come somma di
disposizioni che individuano attribuzioni, competenze e
procedimenti.
Sembra tutto molto
elementare. Un ministro responsabile di una pubblica
amministrazione, come un imprenditore, si deve preoccupare
in primo luogo di come realizzare gli obiettivi di
interesse pubblico individuati dalle attribuzioni della
struttura a lui affidata, tenendo conto delle leggi che ne
disciplinano l’attività e degli uomini che operano alle
sue dipendenze. Per questo le amministrazioni pubbliche
hanno una struttura delineata dalle leggi che ne
disciplinano l’organizzazione e il funzionamento,
individuando anche le professionalità occorrenti in
relazione alle procedure che gli addetti sono chiamati ad
applicare. Conseguentemente l’Amministrazione pubblica
dispone di tanti giuristi, economisti, ingegneri, medici,
fisici, geologi, ragionieri, geometri e via via enumerando
secondo una valutazione che tiene conto dei servizi da
rendere e dei modi con i quali questi vengono resi. Nel
tempo, tuttavia, cambiano le professionalità richieste.
Una osservazione banale, ad esempio, ci dice che negli
ultimi anni è stata profondamente ridimensionata la
categoria dei dattilografi in quanto tutti i pubblici
funzionari, a cominciare dai vertici, usano il computer
per scrivere appunti, lettere, provvedimenti.
Queste prime considerazioni
ci conducono ad una riflessione essenziale. Le
professionalità degli addetti e la consistenza organica
degli uffici sono stabilite in origine sulla base di
parametri certi, le attribuzioni e le procedure. È sulla
base di questi parametri che le amministrazioni
stabiliscono di quanti ingegneri, giuristi, economisti e
via dicendo hanno bisogno. Esigenze che variano nel tempo
in relazione alla modulazione dei procedimenti e degli
adempimenti necessari per rendere i servizi previsti dalle
leggi. Sicché la consistenza dei ruoli varia nel tempo.
Ugualmente variano le professionalità richieste.
Se ne deduce che una
riforma della pubblica amministrazione che intenda offrire
ai cittadini ed alle imprese servizi efficienti in tempi
brevi ed a costi contenuti deve necessariamente procedere
da una revisione delle attribuzioni e delle procedure in
modo da individuare il numero degli addetti necessari per
una specifica branca amministrativa o tecnica e la loro
collocazione sul territorio. In questo senso in un paese
efficiente la riforma della P.A prevede un adeguamento
continuo.
Aggiungiamo che la riforma
possibile deve necessariamente tenere conto della
necessità di acquisire le migliori professionalità
disponibili nel mercato del lavoro, attraverso una
selezione severa che metta a disposizione dello Stato
funzionari ed impiegati di valore.
È un impegno essenziale che
ha caratterizzato le amministrazioni pubbliche degli stati
europei a più alto tasso di efficienza. Francia, Germania,
Spagna, Regno Unito dispongono da sempre di corpi di
funzionari di elevata professionalità. Il servizio allo
Stato è ritenuto in questi paesi attività di grandissimo
prestigio “al servizio esclusivo della Nazione”, come si
legge nell’art. 98 della nostra Costituzione. È nella
tradizione di molte famiglie, anche in Italia, servire
nelle amministrazioni in quel ruolo che Piercamillo Davigo
ha chiamato “La giubba del Re”, facendone il titolo di un
fortunato volume sulla lotta alla corruzione.
Tuttavia non va taciuto che
il modesto livello di efficienza dell’Amministrazione
italiana svilisce il ruolo del pubblico dipendente, lo
dipinge sovente come un “fannullone”, in tal modo
allontanando i migliori delle nuove generazioni. Complice
anche il trattamento economico non sempre adeguato a
remunerare elevate professionalità. Basti pensare agli
insegnanti.
Riusciranno Renzi ed il
Ministro Madia a restituire prestigio ed efficienza alla
funzione pubblica? Non giovano certo le prime
indiscrezioni sulle scelte allo studio, come l’esodo
indiscriminato e forzato, che priverebbe i nostri uffici
di importanti esperienze formatesi nel tempo, attraverso
gli insegnamenti trasferiti dai più anziani ai più giovani
in un continuum virtuoso che caratterizza tutti i
luoghi di lavoro.
Contemporaneamente la
riforma richiede la revisione dell’organizzazione con
individuazione delle funzioni dirigenziali e di quelle dei
quadri, categorie professionali che negli ultimi anni sono
state in vario modo mortificate. I dirigenti in molte
amministrazioni sono troppi, preposti a strutture modeste
con attribuzioni di scarso rilievo. I quadri, i funzionari
non sono più il corpo dal quale si reclutano i dirigenti
dopo una esperienza sul campo in ruoli rilevanti.
La politica del divide
et impera ha moltiplicato gli uffici dirigenziali
conseguentemente di ridotte competenze. Gli addetti hanno
accettato di perdere competenze a fronte di una qualifica
dirigenziale che soddisfa la loro vanità a nulla rilevando
che quel ruolo sia poco più di un biglietto da visita.
Questa politica ha
interessato anche i vertici militari. Abbondano i generali
di corpo d’armata o di divisione laddove un tempo quelle
funzioni erano attribuite ad ufficiali di rango inferiore.
In conclusione la P.A. va
ripensata, quanto ad attribuzioni ed a procedure
arruolando i migliori professionisti dei vari settori.
Solo così è possibile restituire efficacia all’attività
delle pubbliche amministrazioni e farne uno strumento
efficace di governo per realizzare le politiche pubbliche
alle quali i governi affidano la realizzazione
dell’indirizzo politico approvato in sede elettorale.
Riuscirà Renzi in questa
opera fondamentale per assicurare sviluppo economico e
sociale? Le prime dichiarazioni dicono di una scarsa
conoscenza del fenomeno P.A. con conseguente difficoltà di
imboccare la strada della riforma che i cittadini
attendono da tempo. Che richiede certamente tempo. Ma chi
se ne intende sa che si può procedere per tappe
ravvicinate modificando rapidamente alcune regole che
costituiscono un impaccio inutile per cittadini ed
imprese, così dando immediatamente il senso
dell’innovazione.
Riuscirà Renzi? Ce lo
auguriamo fortemente.
27 marzo 2014
Domenica 30 marzo una
conferenza di Michele d’Elia al Circolo Rex
Vittorio Emanuele III di fronte alla storia
di Salvatore Sfrecola
È il titolo della conferenza che il Prof. Michele d’Elia,
storico, direttore della rivista Nuove Sintesi,
trimestrale di cultura e politica, terrà domenica 30 marzo
a conclusione del 66° ciclo annuale di conversazioni del
Circolo di Cultura e di Educazione Politica Rex,
presieduto dall'Ing. Domenico Giglio, a Roma, alle 10,45,
nella Sala dell’Istituto Salesiano, in via Marsala 45.
Figura controversa per la complessità degli eventi storici
che hanno caratterizzato il suo lungo Regno, quella di
Vittorio Emanuele III è stata certamente una personalità
complessa essendo stato chiamato ad esercitare le sue
funzioni di Capo dello Stato in condizioni spesso
difficili, a partire dai giorni immediatamente successivi
all’assassinio del padre, Umberto I, quando si oppose
decisamente alla repressione che gli veniva da più parti
consigliata, quasi a giustificare una svolta autoritaria
in un momento difficile della vita politica e sociale del
nostro Paese.
Seppe mantenere la fermezza e l’equilibrio che in altri
momenti difficili gli sarebbero stati riconosciuti
affidandosi ad uomini sicuramente liberali, aperti alle
istanze sociali emergenti (si parlò addirittura di
"Monarchia socialista") e capaci di cogliere il momento
politico difficile di una grande nazione nella quale masse
consistenti di lavoratori, inquadrati del nascente
movimento socialista, vivevano un radicale cambiamento del
contesto economico e sociale nel quadro della rivoluzione
industriale che segnava cambiamenti radicali nella società
italiana. Restituì fiducia agli italiani dopo gli scandali
bancari e finanziari che avevano riempito le cronache
degli ultimi decenni dell’800.
Si avvalse di Giovanni Giolitti e di una classe politica
liberale pronta a sanare la profonda ferita che aveva
segnato l’annessione dello Stato della Chiesa al Regno
d’Italia con Roma capitale. È il periodo delle grandi
riforme economiche e sociali che avrebbero modernizzato
l’Italia e favorito una significativa presenza del nuovo
stato nel contesto internazionale, anche con l’impresa
coloniale di Libia (“la grande proletaria si è mossa”,
disse Giovanni Pascoli
nel discorso tenuto al Teatro comunale di Barga il 21
novembre 1911) propedeutico al completamento
dell’unificazione del Paese, quello che Domenico
Fisichella ha chiamato “Il miracolo del Risorgimento”,
espressione che è anche il titolo di un suo fortunato
volume ricco di riflessioni sostenute da una ricca
documentazione.
Poi la conclusione del Risorgimento con l’annessione di
Trento e Trieste al termine di una guerra difficile,
sanguinosa eppure momento unificante delle popolazioni da
poco più di cinquant’anni riunite sotto una stessa
bandiera.
La gestione del primo dopoguerra non è stata facile, per
incapacità dei partiti di proporre ricette adeguate alla
grave crisi economica e sociale conseguente alla
riconversione dell’industria bellica ed alla ripresa
dell’agricoltura, del commercio e dell’artigianato che
avevano sofferto per l’assenza dei protagonisti di quei
settori chiamati alle armi. E il malessere della classe
media, dei professionisti, dei borghesi, degli artigiani,
quella che si suole definire la spina dorsale del Paese,
al centro di una contrapposizione di ideali e di
interessi, spesso segnata dalla violenza fisica, come si
legge puntualmente nei diari del Re che li andava
annotando di giorno in giorno, che il governo non riusciva
a dominare. E non c’è da attribuire tutte le
responsabilità alla irresolutezza del Presidente del
Consiglio, quel Luigi Facta passato alla storia per la
battuta in lui consueta “nutro fiducia”, di fronte alla
assenza dei partiti e dei massimi loro esponenti, da
Giolitti a Sturzo, da Nitti a Bonomi, a Turati, per non
richiamare che i massimi esponenti dell’epoca. Tutti
interpellati dal Re perché dessero la loro disponibilità
ad un governo di salvezza nazionale, oggi si direbbe di
“larghe intese”, per ripristinare l’ordine ed avviare un
percorso di risanamento dell’economia. Una situazione che
per un Capo di Stato costituzionale, il quale amava
ripetere di avere come occhi ed orecchie la Camera ed il
Senato, è stata nel tempo una grossa limitazione quando
sarebbe stato necessario intervenire. Come dimostra
l’accettazione delle dimissioni di Benito Mussolini dopo
il voto del 25 luglio 1943 con il quale il Gran Consiglio
del Fascismo, organo costituzionale, aveva sfiduciato il
Duce.
E qui va aggiunto che, fin dall’esordio, proprio all’atto
della costituzione del primo governo Mussolini, il Re fu
lasciato solo e progressivamente isolato di fronte alla
crescente espansione del regime che aveva anche risolto la
“questione romana” con il concordato del 1929.
Solo in Re anche di fronte alle leggi razziali, solo al
momento della decisione di entrare in guerra, certo da lui
non amata anche per la tradizionale vicinanza alla Corona
di San Giacomo.
Solo in molti momenti della sua vita istituzionale,
Vittorio Emanuele III agli occhi dei partiti ha
costituito, e costituisce tuttora un comodo parafulmine
per tutti coloro che, al momento opportuno, hanno fatto il
“gran rifiuto, evitando di impegnarsi per un governo di
salvezza nazionale per affrontare la crisi del primo
dopoguerra e successivamente mancando di assicurare al
Sovrano quell’apporto che gli avrebbe consentito di
opporsi alle leggi razziali e all’entrata in guerra. Ma
che avrebbe potuto fare Vittorio Emanuele contro il
fascismo nel momento del suo massimo consenso popolare,
unanimemente riconosciuto, quando le orecchie e gli occhi
del Re erano sordi e ciechi?
Eppure quell’uomo solo al momento opportuno non ha mancato
al suo dovere di unico rappresentante dello Stato per
raccogliere le macerie e su di esse ricostruire, quanto
meno, la dignità del Paese. Lo accuseranno di essere
fuggito da Roma e non terranno conto che la capitale era
indifendibile di fronte alla armate tedesche e sarebbe
stata distrutta e con essa la sede della cristianità ed i
monumenti che il mondo ammira perché parlano di civiltà,
gli acquedotti, le terme, i fori.
Il Prof. d’Elia che parlerà della figura del Sovrano
domenica prossima ha trattato altre volte l’argomento,
come in occasione del Convegno da lui organizzato a Milano
il 30 novembre 2013 nella Sala degli affreschi di Palazzo
Isimbardi, in Corso Monforte, per parlare di “Vittorio
Emanuele III, Cittadino e Re”, con
Donatella Bolech, dell’Università di Pavia (Vittorio
Emanuele III e la politica estera), Roberta Cipriani,
dell’Università di Roma Tre (Sviluppi della sociologia
italiana nella prima metà del XX secolo), Salvatore
Genovese, Docente di Disegno e Storie dell’Arte Liceo
“Vittorio Veneto” di Milano (Le arti durante il Regno
di Vittorio Emanuele III), Giorgio Guartì, Giornalista
e scrittore (L'informazione al tempo di Vittorio
Emanuele III), Giampiero Goffi, Giornalista (La
politica ecclesiastica di Vittorio Emanuele III),
Marco Cuzzzi, dell’Università degli studi Milano (La
Massoneria italiana nell'ultima fase dello Stato Liberale
(1993 - 1925), Lamberto Laureti, dell’Università
degli studi Pavia (Scienza e tecnica nel tempo di
Vittorio Emanuele III), Giovanna Bardone (Testimonianze).
Figura controversa, dunque, quella del Re, ma anche di
notevole spessore culturale. Si ricorderà il suo Corpus
Nummorum Italicorum, considerata un’opera fondamentale
per la conoscenza delle monete coniate nel tempo sul
territorio italiano, e la sua esperienza di geografo,
tanto da essere chiamato a definire confini di stati
stranieri in una sorta di arbitrato internazionale. Per
non dire che, avviandosi le celebrazioni della prima
guerra mondiale, alla quale l’Italia partecipò solo dal
2015, si dovrà ricordare il “Re soldato” ed il Capo delle
Forze Armate che rivendicò a Peschiera, dinanzi ai massimi
responsabili degli eserciti alleati, la dignità dei nostri
militari garantendo personalmente sulla tenuta del fronte
dopo Caporetto, quando massima era la sfiducia degli
anglo-francesi nelle nostre Forze Armate e si voleva che
gli uomini in grigioverde ripiegassero ulteriormente, così
consegnando al nemico l’intera Italia settentrionale.
Controversa figura, forse, in un periodo difficile della
storia italiana, ma certo un uomo intellettualmente onesto
e fedele al giuramento prestato all’atto di cingere la
corona insanguinata del padre.
26 marzo 2014
In un convegno allo Yacht Club
De Monaco *
Il Borghese e il
permanente valore delle idee
di Salvatore Sfrecola
Quando, alcuni
mesi fa, Filippo de Iorio, avvocato, politico e scrittore,
Presidente della “Fondazione de Jorio” per la storia del
Sud, mi parlò dell'idea di promuovere a Montecarlo, il 19
marzo, nella splendida cornice dello Yacht Club De
Monaco, un’incontro dal titolo “Viaggio in
Italia – Sessantaquattro anni di storia, cultura, costume
e società dalle pagine de Il Borghese”,
coinvolgendomi tra i relatori, compresi subito che
l'iniziativa non poteva essere soltanto celebrativa di una
storia illustre, culturale e politica, ma anche letteraria
e artistica. Perché l’occasione del compleanno della
testata più anticonformista della Destra avrebbe
naturalmente indotto i partecipanti al convegno ad una
riflessione più ampia, per riprendere le fila di quel
confronto ideologico che dall’immediato dopoguerra si è
andato sviluppando in Italia, nonostante il tentativo di
mettere la sordina alle distinzioni ideologiche, per
celebrare il “crepuscolo delle ideologie” (come nel titolo
del libro di Gonzalo Fernandez de la Mora, edito da
Nuove Idee).
Sulla base di
una sbrigativa equiparazione tra ideologia e pensiero
politico autoritario e totalizzante, come incarnato dai
regimi statali responsabili delle tragedie che hanno
insanguinato il ‘900, il Comunismo e il Nazismo, si è di
fatto decretata anche la fine delle idee, del confronto e
delle distinzioni tra le forse politiche, nella
convinzione che ciò fosse un bene. In qualche modo aprendo
la strada alle èlite dei tecnici, dei tecnocrati
che avrebbero dovuto tenere in ordine i conti secondo le
indicazioni concordate in sede di Unione Europea e
favorire il progresso sociale ed economico. Per poi
verificare, proprio nel biennio che abbiamo alle spalle,
che quei governi erano senz’anima e, pertanto, incapaci di
immaginare strategie politiche idonee a programmare quel
progresso che è nelle aspettative e nelle speranze dei
popoli.
Il tentativo di
convincere che la distinzione e il confronto avrebbero
portato soprattutto all’esasperazione la dialettica tra i
partiti ha mortificato il pensiero politico e frenato
l’elaborazione delle idee e dei programmi, il loro
collegamento col pensiero filosofico, con quella filosofia
politica che guida i popoli ed i governi verso quello che
in una determinata fase storica è ritenuto dalla
maggioranza il fine cui tendere, il bene comune da
perseguire.
“Le idee non
servono più, in politica e nella società, nella cultura e
nella comunicazione”- ha scritto Marcello Veneziani (La
sconfitta delle idee, Laterza, Bari, 2003).
Aggiungendo che esse “sono un ingombro più che una
risorsa, limitano la prassi e irretiscono i desideri,
castigano il sogno di mutazione che caratterizza ormai la
vita pubblica e privata, perché inchiodano ad una
continuità, a una decisione pensata, a un legame, a un
orientamento di vita, insomma a una coerenza”. Con le
idee, infatti, bisogna fare i conti, sono un fardello
pesante, vincolano la politica e l’azione, esigono scelte
conseguenti. Alle idee professate dai politici, infatti,
guardano gli elettori, pronti a rinfacciare a chi le
abbandona il tradimento rispetto alle promesse che hanno
informato l’indirizzo politico elettorale e di governo.
Le idee portano
a distinzioni che molti vorrebbero eliminare perché
preferiscono l’omologazione, l’indistinzione che consente
accordi sotto banco tra chi governa e chi si oppone, il
classico “inciucio”, con il rischio, come ha scritto
Domenico Fisichella (AA- VV., Cos’è la destra, Il
Minotauro, Roma, 2001), “che al nome non corrisponda più
la sostanza, che la parola “destra”– e quella “sinistra”,
d’altronde – finiscano per individuare solo posizioni di
potere e che la competizione tra di loro sia solo una
competizione per il potere, senza che nella gestione di
tale potere vi siano elementi di distinzione
riconoscibili”. Di qui la formazione di governi di “larghe
intese”, naturalmente frenati dai veti incrociati, in
conseguenza di quel tanto di destra o di sinistra che in
qualche modo si deve all’elettorato.
“Il potere per
il potere”, dunque, da quando la “partitrocazia”, secondo
il fortunato neologismo di Giuseppe Maranini, fa prevalere
i partiti sulle istituzioni, attraverso l’accaparramento
del potere, cui accedono gli effetti deleteri dello spreco
delle risorse pubbliche e della corruzione, considerati un
modo per far fronte ai costi della politica.
Sono certo che
Filippo de Jorio, nell’organizzare il Convegno monegasco,
ha pensato anche alla coincidenza delle date, tra il 15
marzo 1950, data di uscita del primo fascicolo de Il
Borghese di Leo Longanesi, con le firme di Giovanni
Ansaldo, Indro Montanelli, Giovanni Spadolini, Ernst
Junger, Alberto Savinio, Gaetano Baldacci, Henry Furst e
Giuseppe Prezzolini, e un giorno lontano del 1876, sempre
a marzo, il 25, quando s’insediò il primo governo della
Sinistra presieduto da Agostino Depretis, all’indomani di
un voto parlamentare che aveva affossato il governo della
Destra Storica la quale aveva appena potuto
rivendicare, per bocca di Marco Minghetti, il raggiunto
pareggio del bilancio dell’esercizio 1875 chiuso con un
avanzo di 14 milioni, dopo anni di impegno risanatore
affrontato dalla classe politica al governo senza timore
l’impopolarità con una politica finanziaria e tributaria
che fu definita “della lesina”.
Il richiamo al Governo Depretis non è per il cambio di
maggioranza ma per il modo come essa si è formata, come ha
gestito il potere negli anni successivi, con qualche
intervallo, fino ad oggi. Un modo di procedere dominato da
quello che è stato definito “trasformismo”, caratterizzato
dal passaggio disinvolto di parlamentari dall’uno
all’altro schieramento con una costante attenzione ai
posti di potere negli enti locali e nelle imprese
pubbliche. Non a caso l’accelerazione di Renzi nella corsa
a Palazzo Chigi è stata da molti collegata alla
straordinaria stagione dei rinnovi dei consigli di
amministrazione delle società partecipate che interessa
oltre 300 posizioni.
Nel 1876 e negli
anni successivi, con grande abilità politica, Depretis e
poi Crispi e Giolitti governarono con maggioranze nelle
quali elementi di Destra e di Sinistra ed esponenti di
clientele di potere e localistiche furono impegnati a
gestire grossi interessi economici in forma incontrollata,
dando vita ad una serie di manifestazioni di immoralità
culminati in scandali e processi famosi che alimentarono
il discredito nei confronti delle istituzioni.
Questo potere
ampio e magmatico, che coinvolgeva i mezzi di informazione
in mano ai potentati economici, ha impedito il formarsi,
prima che di una opposizione numericamente consistente ed
ideologicamente avvertita, anche di una coscienza del
ruolo fondamentale della opposizione nella vita politica
di una democrazia moderna.
Alimentato da
interessi materiali, le nomina nei consigli di
amministrazione degli enti e delle società pubbliche,
l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture,
il trasformismo sgretola le certezze della politica,
affossa il bipolarismo, nega il bipartitismo mentre lo
scenario politico si frantuma in piccole ma remunerative
posizioni di potere tra Stato, regioni enti pubblici,
società a capitale pubblico, un sistema nel quale si
gestiscono somme ingenti spesso con disattenzione per gli
interessi pubblici condizionati dai potentati economici
legati ai partiti ed alle correnti di partito attraverso
una distribuzione delle poltrone secondo il Manuale
Cencelli, una puntuale attribuzione delle cariche in
relazione alla consistenza delle forze politiche della
maggioranza. Senza dimenticare l’opposizione, in tal modo
zittita.
Nell’Italia del trasformismo imperante “tipico del
carattere italiano”, sentenzia Prezzolini (Intervista
sulla destra, Biblioteca di Libero, 2003), Il
Borghese ha costituito una voce fuori dal coro, un
richiamo costante ai valori, alle idee forti, sollecitando
un confronto del quale è stato costantemente parte attiva,
in un impegno per la libertà
che ha caratterizzato l’intera vita
di Longanesi,
sempre controcorrente, anche ai
tempi
del fascismo, quando aveva costantemente mantenuto la sua
libertà di giudizio. E pur schieratosi con il regime ne
era stato la coscienza critica, tollerata al punto da
irridere impunemente il conformismo fascista. Sua è la
frase “il Duce ha sempre ragione”.
Giornalista, pittore, disegnatore, editore, attento alla
tradizione,
ma sempre con un atteggiamento intellettuale
assolutamente libero
anticonformista,
Longanesi,
che giovanissimo si era presentato nel mondo
dell’informazione con L’Italiano (1926) divenuto
presto la sede del dibattito politico più originale, in un
momento di intenso dibattito sul rapporto tra
arte
e
fascismo,
e si caratterizza per una presa di posizione nettamente
contraria all'esistenza di un'arte fascista: “Lo stile
fascista – scrive - non deve esistere. Il nostro stile è
quello italiano che è sempre esistito. Oggi occorre
metterlo in luce”.
È la fronda
antifascista: “I regimi totalitari – scrive - non
consentono la battuta di spirito ma essi hanno il merito,
involontario, di suscitarla”.
Continua con Omnibus, settimanale di attualità
politica e letteraria, considerato il capostipite dei
rotocalchi d'informazione. Longanesi così descrive la sua
linea editoriale: “È l’ora dell’attualità. È l’ora delle
immagini”. Edito da
Angelo Rizzoli
e
Arnoldo Mondadori,
Omnibus reca le firme di
Indro Montanelli,
Alberto Moravia,
Vitaliano Brancati,
Ennio Flaiano,
Mario Soldati,
Mario Pannunzio,
Arrigo Benedetti
e
Alberto Savinio.
Il successo è immediato.
Convinto che non manchi la
libertà ma vi sia carenza di uomini liberi, Longanesi
irrompe nel dibattito politico del dopoguerra
caratterizzato dalla forte contrapposizione tra
Democrazia Cristiana e Partito Comunista
invitando dalle pagine de Il Borghese gli italiani
a ragionare con la propria testa irridendo alle debolezze
della classe politica anche attraverso le vignette da lui
stesso disegnate e le foto che sono diventate un classico
nella storia della polemica politica.
La borghesia è al centro
dell’evoluzione della politica, nel bene e nel male, fin
dal 1789. Continua lungo l’800, domina le rivoluzioni
russa, prima dell’avvento dei bolscevichi, e quelle
fascista e nazista. Nell’Italia del primo dopoguerra sono
i professionisti, gli intellettuali, i commercianti a
presidiare le piazze. Nel dopoguerra è la borghesia a
bloccare l’avanzata delle sinistre nel 1948.
Ma i borghesi hanno bisogno
di idee e Longanesi li stimola a riflettere, a riandare
alle storie politiche e culturali perché esprimano un
rinnovamento che stenta ad emergere dalla palude
indifferenziata che vivrà ancora momenti di forsennato
trasformismo, che saranno risparmiati a Longanesi. Verrà
meno nel 1957, stroncato da un infarto, nel bel mezzo
della sua battaglia combattuta con il giornale e il
movimento politico che gli affianca, la Lega dei
Fratelli d'Italia, organizzato in una serie di circoli
cittadini richiamando la politica a cercare un equilibrio
tra tradizione e modernità: “Chi rompe, non paga e siede
al governo”.
Nell’avventura de Il Borghese lo aveva aiutato
Mario Tedeschi, che ne diventerà il direttore, figura
fondamentale per la vita della testata, animatore delle
inchieste che per prime denunciano la corruzione nel mondo
politico e le sovvenzioni illegali al
Partito Comunista Italiano.
Tedeschi assume nuovi giornalisti come Edgardo Beltrametti,
Alberto Giovannini,
Mino Caudana,
Piero Buscaroli
e
Alberto De Stefani.
Vi scrivono Piero Buscaroli, Luciano Cirri, Luigi
Compagnone, Giuseppe Prezzolini, Guglielmo Peirce, Armando
Plebe, Giovanni Ansaldo, Julius Evola, Alberto Giovannini
e persino Indro Montanelli, sia pure sotto pseudonimo.
Il
Borghese
non è solo ricco di inchieste giornalistiche documentate e
polemiche soprattutto a firma di Bonanni e Gianna Preda
sul malcostume e sulla corruzione della classe politica,
in anticipo di diversi decenni su "Mani
Pulite".
Dura, caustica, prontissima a criticare anche a sua stessa
parte politica quando non ne condivideva certe battaglie,
Gianna Preda era anche capace di teneri sentimenti, come
quando intervistò Umberto II. Lei repubblicana, quando lo
vede venirgli incontro si sorprende a pensare: "Questo è
il Re d'Italia", con “la coscienza di quello che i nostri
figli hanno perduto: il senso della patria, il cui nome,
in Italia, viene usato troppo spesso come piattaforma per
inesistenti o fragilissimi sentimenti nazionali”.
Lungo colloquio, intessuto
di ricordi, su fatti e luoghi, e della nostalgia
dell’Esule. Poi il commiato, commosso. E la dura romagnola
che tanto amava la polemica si allontana senza voltarsi.
Non voleva che il Re si accorgesse che stava piangendo.
Le sue rubriche, le rassegne di arte e cultura, le
recensioni bibliografiche e discografiche impegnano firme
di valore nel panorama intellettuale di quegli anni,
mentre l’attività editoriale porta nella case degli
italiani libri di noti autori stranieri anticonformisti,
come
Vintila Horia
e
Salvador De Madariagada
Luciano Cirri,
Giuseppe Bonanni,
Claudio Quarantotto
ed altri. Le "Edizioni de Il Borghese" furono le prime a
pubblicare il libro "Ritratti di coraggio" del futuro
Presidente degli Stati Uniti
John F. Kennedy
La “Posta dei lettori”,
curata da Gianna Preda, redattore capo, è altra parte
essenziale del giornale.
Muore nel 1981. Nel darne notizia, il 7 agosto 1981, un
giornale allora di sinistra titolò: “Una penna di destra
ma non conformista”. Infatti. Maria
Giovanna Pedrassi,
Gianna Preda come l’aveva ribattezzata Leo Longanesi,
poteva essere polemica, sprezzante, anche visceralmente
“contro”, ma conformista non fu mai, e tra i tanti
giornalisti italiani che, nei decenni, si sono
autodefiniti, a torto o a ragione, “scomodi” lei scomoda
fu sul serio e fino all'ultimo.
Morto Tedeschi il giornale
ha alterne vicende fin quando la testata torna nelle case
degli italiani per iniziativa di Claudio Tedeschi, figlio
di Mario, e dell'editore Luciano Lucarini con Pagine,
che sviluppa anche la collana I libri del Borghese
che pubblica volumi del pensiero conservatore italiano ed
europeo, da Aznar a Cameron a Sarkozy.
Domani 25 maggio, alle 17,
nel romano Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna 355, viene
presentato il volume “Conservatori europei del novecento”,
antologia a cura di Gennaro Malgieri.
Riprendono anche i
Circoli del Borghese. Uno nasce in questi giorni nel
Principato di Monaco.
24
marzo 2014
*
Sotto la Presidenza di Carlo Ravano, Commodoro del
prestigioso Club, insieme a Claudio Tedeschi, direttore de
Il Borghese e Luciano Lucarini editore.
Per eliminare sprechi e recuperare risorse
La burocrazia alla sfida della semplificazione
e dell’efficienza
di Salvatore Sfrecola
C’è una grande imputata in questa stagione di aspettative
di ripresa dell’economia, della produzione e
dell’occupazione: la burocrazia a tutti i livelli di
governo, dai ministeri agli enti locali.
È la burocrazia, si sente dire, che frena sulle riforme,
sulla lotta agli sprechi, sulla semplificazione necessaria
per restituire efficienza agli apparati, alleggerire
cittadini ed imprese da adempimenti inutili eppure
costosi, se non altro in termini di tempo.
È veramente così? È la burocrazia, del Ministero
dell’economia e delle finanze, in particolare i vertici
della Ragioneria Generale dello Stato, che ostacola
l’innovazione opponendo costantemente eccezioni sotto il
profilo della copertura delle leggi di spesa o delle
riforme che comportano oneri a carico del bilancio dello
Stato?
Diciamo subito che la burocrazia ha le sue colpe. Non ha
puntato sulla semplificazione delle procedure facendosi
essa stessa promotrice delle riforme capaci di limitare
gli adempimenti richiesti a quelli effettivamente
necessari per decidere, autorizzare cittadini ed imprese,
in una parola per rendere servizi efficienti all’altezza
di uno stato moderno.
La burocrazia ha percorso la strada della moltiplicazione
delle posizioni organizzative, dirigenziali e non, per
acquisire migliori trattamenti economici e gratificazioni,
spesso attraverso inutili denominazioni di funzioni.
Abbondano i dirigenti di prima e seconda fascia, come
abbondano nelle amministrazioni militari generali
pluristellati. Situazioni di ipertrofia organizzativa che
appesantiscono le strutture e le procedure, dal momento di
ogni nuova struttura determina una ulteriore
parcellizzazione degli adempimenti.
È tutta colpa dei burocrati, degli alti burocrati? In
parte. Perché in buona parte l’inefficienza è
responsabilità della politica che per accrescere il
proprio potere ha seguito l’antica regola del divide et
impera senza tener conto che, se si comanda meglio a
piccoli reparti diretti da un dirigente con scarso potere,
si ottiene anche l’effetto negativo della inefficienza.
I burocrati, dunque, condividono le responsabilità
dell’attuale stato di cose con la politica perché sono i
politici, in veste di governanti o di legislatori, che
fanno le leggi, anche quelle che prevedono plurimi
regolamenti spesso difficili da definire, occorrendo il
concorso delle regioni che si ottiene solo attraverso una
defatigante istruttoria preliminare ed una pesante
trattativa in sede dei Conferenza Stato Regioni.
È vero, come si legge spesso, che anche i politici, in
sede governativa e/o parlamentare subiscono l’influenza
dei burocrati dei ministeri, quelli che conoscono leggi e
regolamenti che è necessario cambiare. Ma è certo anche
che è mancata negli anni una direzione politica
autorevole, capace di stringere sulle riforme da fare e
sui tempi della loro definizione.
Diamo, dunque, a ciascuno il suo. Dispiace, peraltro, per
chi ha dedicato tempo, molto tempo, a studiare
l’organizzazione ed il funzionamento della pubblica
amministrazione, constatare che è mancato da parte della
burocrazia, che annovera professionisti di valore in tutti
i campi, l’iniziativa per una autoriforma che avrebbe
confermato l’elevata preparazione tecnica della burocrazia
statale e pubblica e la capacità che un tempo le era
riconosciuta.
Occorre, dunque, uno scatto di orgoglio della dirigenti,
che si scrollino di dosso il peso della sindacalizzazione
e dell’ossequio interessato alla politica per fare
carriera, ricordando che, come si esprime la Costituzione,
“i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione” (art. 98), avendo premesso che “i cittadini cui
sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore” (art. 54, comma 2). Un
quadro normativo che esprime il ruolo di una classe
amministrativa formata da professionisti che altrove,
penso alla Francia ma anche alla Spagna, al Regno Unito e
alla Germania, assicura l’efficienza del potere pubblico
nell’interesse dello stato, dei cittadini e delle imprese.
12 marzo 2014
La parità di genere per legge
offende le donne e la politica
di Senator
Nessuno mi ha convinto, e ritengo che nessuno mi
convincerà, a ritenere “normale” che in un Paese
democratico, nel quale le assemblee elettive sono
espressione massima della partecipazione popolare alla
gestione del potere, la composizione di questi organi
debba essere predeterminata nel numero degli uomini e
delle donne secondo quella che viene chiamata la “parità
di genere”.
Che i partiti decidano di definire gli spazi dei due sessi
nelle liste è questione che ben può essere decisa dalle
istanze interne secondo principi ed in relazione a
situazioni che i partiti stessi sono in condizione di
valutare, anche in relazione al loro elettorato. Infatti
il Presidente del Consiglio, che contemporaneamente
riveste il ruolo di Segretario del Partito Democratico,
di fronte alla bocciatura degli emendamenti per la parità
di genere nell’Italicum, si è affrettato a
dichiarare che comunque “Nelle liste democratiche
l’alternanza sarà assicurata”.
Lì, infatti, è la sede di questa decisione che non
potrebbe essere imposta per legge per l’ovvia ma, a quanto
pare, trascurata ragione che si tratta di scelta che
appartiene all’autonomia della politica. Anche per evitare
che, vincolati dall’obbligo, i partiti vadano alla ricerca
di donne anche quando in una determinata area territoriale
non ve ne siano disposte a candidarsi, con l’effetto,
negativo, di reclutare in altri ambienti o di mettere in
lista donne tanto per rispettare l’obbligo.
Mi sembra che non si possa dire altro che un obbligo per
legge nella composizione delle liste offende le donne e la
politica. Soprattutto in un momento storico nel quale
molte donne sono impegnate con riconosciuto successo nelle
istituzioni rappresentative e di governo, al centro, nelle
regioni e negli enti locali.
Le donne rappresentano parte essenziale della società,
sono portatrici di esperienze preziose che contribuiscono
alle decisioni che vengono prese, sia in fase di
definizione delle politiche pubbliche che di gestione. Non
hanno bisogno di una norma di tutela imposta ab extra
ai partiti.
Molte donne impegnate in politica lo hanno capito. Anche
Twitter ha recepito queste valutazioni “politiche” oltre
quelle giuridiche delle quali ha dato conto Francesco
Paolo Sisto, Presidente della Commissione affari
costituzionali e relatore sulla riforma del sistema di
voto: “sarebbe una norma con problemi di
incostituzionalità evidenti”.
Diranno alcuni che norme del genere di quelle bocciate
sono presenti in alcuni ordinamenti esteri. Non sono da
imitare.
11 marzo 2014
Ce lo ha detto anche l’Unione Europea
Una grave limitazione la lotta alla corruzione
con un approccio penalistico
di Salvatore Sfrecola
A Che tempo che fa, ieri sera,
Matteo Renzi ha annunciato che proporrà al prossimo
Consiglio dei ministri la nomina di Raffaele Cantone a
capo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Che
dire? Nulla della persona, certamente di valore, una vita
a combattere la criminalità organizzata in Campania. Ce la
metterà tutta certamente. E gli auguriamo, e ci auguriamo
come italiani amanti della legalità, pieno successo. Ma se
la scelta del governo rivela un approccio penalistico è
sbagliata, dopo che il Parlamento aveva corretto con la
legge n. 190 del 2012, come ha osservato la Commissione
Europea nella sua relazione dei primi di febbraio, la
tradizionale scelta prevalentemente repressiva.
In magistratura nel
1991,
Sostituto procuratore presso il Tribunale di Napoli, poi
nella
Direzione distrettuale antimafia
napoletana, Cantone nel
2007
passa all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione. Il
18 giugno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri
Enrico Letta,
lo nomina componente della task force per
l'elaborazione di proposte in tema di lotta alla
criminalità organizzata.
Un’esperienza importante con indagini sul clan
camorristico
dei
Casalesi,
sulle infiltrazioni dei clan casertani all'estero, dalla
Scozia alla
Germania,
alla
Romania
ed all’Ungheria
sulle tracce di esponenti di spicco del clan Schiavone.
Ha curato altri importanti filoni investigativi Catone
che oggi sbarca all’Anticorruzione.
Il suo taglio professionale e la sua cultura giuridica
sono penalistici. Le sue pubblicazioni scientifiche e gli
articoli pubblicati sul quotidiano
Il Mattino
riguardano espressamente il penale, dai reati
fallimentari al giusto processo.
I Gattopardi,
una sorta di intervista con il giornalista dell'Espresso
Gianluca Di Feo, segnalano una mafia in giacca e cravatta,
che si muove tra collusioni e connivenze. Nell'aprile del
2012, per la Collana "Frecce" di Mondadori, Cantone, con
Operazione Penelope,
si chiede
"perché la lotta alla criminalità organizzata e al
malaffare rischia di non finire mai". Una tela, quella che
nel poema omerico, Penelope tesse di giorno e disfa di
notte in attesa di Ulisse.
Il tema sfiora la corruzione sempre sotto il profilo
penale, dell’approccio repressivo. Quello che la
Commissione Europea ha visto superato
con la
nuova legge anticorruzione, la 190 del 2012, che – scrive-
“ha riequilibrato la strategia rafforzandone l’aspetto
preventivo e potenziando la responsabilità (accountability)
dei pubblici ufficiali”. Quello che ha guidato nel
settembre 2013 l’autorità nazionale anticorruzione CIVIT
(Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e
l’Integrità delle amministrazioni pubbliche) ad approvare
il piano nazionale anticorruzione predisposto per tre anni
dal dipartimento della funzione pubblica, un piano
d’azione, basato sulla valutazione del rischio di
corruzione, che “si concentra principalmente sulle misure
preventive e di trasparenza all’interno della pubblica
amministrazione, includendo anche misure volte a
facilitare l’individuazione di pratiche corruttive”.
Vincerà la scommessa Raffaele Cantone? Riuscirà dove hanno
fallito coloro che si sono occupati di anticorruzione dopo
la legge n. 3 del 2003 che aveva istituito l’“Alto
commissario per la prevenzione e il contrasto della
corruzione e delle altre forme di illecito all'interno
della pubblica amministrazione”? Un funzionario “alle
dirette dipendenze del Presidente del Consiglio”, una
evidente anomalia. La notò immediatamente Marco Travaglio.
Il primo Alto Commissario fu Gianfranco Tatozzi,
Consigliere di Corte d’Appello, scelto da Berlusconi (si
diceva fosse amico dell’Avv. Previti). Dopo di lui, che
lascia l’incarico allo scadere di un biennio denunciando
una non meglio specificata “scarsa sensibilità” verso la
lotta alla corruzione, è la volta dei prefetti, Bruno
Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, nomi di
prestigio che non lasceranno tracce evidenti.
Nel 2008 il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti
sopprime l'Alto commissario. “Costa troppo”, sembra sia
stata la motivazione. La funzione passa con una struttura
minore al Ministro per la semplificazione che si affretta
a ridimensionare il “costo” della corruzione. Quei 60
miliardi segnalati dalla Corte dei conti per lui sono
troppi. È un feroce critico della corruzione “percepita”.
I processi sono pochi, falcidiati dalla prescrizione cui
nessuno rinuncia, e poche le condanne. Per Brunetta è
questa la corruzione, niente di più.
Incombe un obbligo internazionale l’ottemperanza
all'articolo 6 della Convenzione delle Nazioni Unite
contro la corruzione, che impone un'autorità nazionale
anticorruzione. Nasce l’Anac, “Autorità nazionale
anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle
amministrazioni pubbliche".
Adesso arriva Cantone. Speriamo vada a spulciare al di là
del codice penale per arrivare a quegli sprechi, decine di
miliardi, che siamo convinti da sempre, sono frutto di
corruzione. Dagli appalti di lavori e forniture agli
accordi bonari, ai collaudi, una giungla di procedure dove
si insinuano compiacenze illecite.
10 marzo 2014
Lo dicono l’Unione Europea e l’OCSE, lo percepisce il
cittadino
Non si contrasta la corruzione
senza cambiare le regole della prescrizione
di Salvatore Sfrecola
Sul finire degli anni ’80 erano poche migliaia, oggi sono
oltre 130 mila i reati prescritti ogni anno. I più vari,
ovviamente. Tra i quali spiccano corruzione e concussione,
che più indignano il cittadino, per l’effetto perverso che
determinano sui costi delle pubbliche amministrazioni e
sulle regole della concorrenza tra le imprese.
Giusto un mese fa una relazione dell’Unione Europea sulla
corruzione ha riservato pagine severe all’Italia,
pur riconoscendo che
la strategia di contrasto, che negli ultimi venti anni ha
fatto leva in buona parte sull’aspetto repressivo, è stata
riequilibrata dalla legge il 6 novembre 2012, n. 190,
“rafforzandone l’aspetto preventivo e potenziando la
responsabilità (accountability) dei pubblici
ufficiali”. La nuova legge lascia tuttavia irrisolta una
serie di problemi: innanzitutto perché “non modifica la
disciplina della prescrizione”.
Centrale, infatti, è il tema della prescrizione che
l’Europa raccomanda sia rivista profondamente. Lo si
leggeva già nei rapporti del GRECO (Gruppo di Stati del
Consiglio d’Europa contro la corruzione) e dell’OCSE, come
una delle maggiori carenze del sistema che “contribuiscono
alla percezione di un clima di quasi impunità e ostacolano
l’efficacia dell’azione penale e l’accertamento nel merito
dei casi di corruzione”.
I tentativi di definire un quadro giuridico in grado di
garantire l’efficacia dei processi e la loro conclusione
nei casi complessi sono stati più volte ostacolati. In
diverse occasioni il Parlamento ha approvato o ha tentato
di far passare leggi ad personam a favore di
politici imputati in procedimenti penali, anche per reati
di corruzione. L’U.E fa l’esempio del progetto di legge
sulla “prescrizione breve”, con elevato rischio di vedere
estinguere i procedimenti a carico di indagati
incensurati, o del “lodo Alfano” che imponeva, per le
quattro più alte cariche dello Stato, la sospensione dei
processi relativi a fatti antecedenti l’assunzione della
carica o della funzione e dei processi penali in corso.
Legge poi dichiarata incostituzionale.
Insomma, il regime della prescrizione va cambiato “se si
vuole tentare un approccio organico al tema della
giustizia e dell’efficacia della macchina giudiziaria,
come ha scritto Michele Vietti, Vice Presidente del
Consiglio Superiore della Magistratura, in un suo
fortunato libro Facciamo giustizia – Istruzioni per
l’uso del sistema giudiziario, che dedica pagine
importanti al tema, con riferimenti tratti dall’esperienza
di altri ordinamenti, solitamente presi a confronto.
Per cui se la funzione essenziale della prescrizione -
ricorda Vietti – “è da sempre quella di “misurare”
l’effettivo interesse pubblico alla persecuzione dei reati
sulla base del fattore tempo” non ha senso che continui a
correre dopo l’avvio del procedimento penale, quando è
evidente la volontà dello Stato di perseguire l’illecito
penale. Come, del resto accade in altri ordinamenti, negli
Stati Uniti, dove il periodo necessario perché il reato si
estingua deve essere decorso interamente prima dell’inizio
del processo, al momento del deposito dell’atto di accusa.
Iniziato il processo, l’imputato non può più contare sulla
prescrizione, “quindi non gli conviene tirare per le
lunghe”, osserva Vietti, che constata come “non a caso il
processo penale in quel paese è assai rapido”. In Francia,
Spagna e Belgio l’esercizio dell’azione penale ha un
effetto sospensivo, mentre in Germania la prescrizione
continua a correre anche a processo iniziato, ma i tempi
raddoppiano automaticamente.
Il regime italiano, dunque, ha l’effetto di consentire
l’allungamento dei processi con ogni mezzo previsto dalle
procedure, al fine di pervenire alla prescrizione del
reato. Ciò che dimostra inequivocabilmente il timore della
decisione nel merito.
Se ne deve dedurre che se l’effettività del contrasto alla
corruzione misura la reale volontà della classe politica
di perseguire un reato che da sempre indigna il cittadino
onesto il quale percepisce che gli accordi illeciti tra
amministratori, funzionari e imprenditori accrescono gli
sprechi e, con essi, l’inefficienza dei servizi pubblici
appaltati e la corretta realizzazione delle opere
pubbliche, nel nostro Paese la lotta alla corruzione
attende tempi migliori.
Il contrasto alla corruzione, tuttavia, non è solo un
problema di repressione penale. La relazione dell’U.E.
mette in risalto che l’Italia ha fatto un passo avanti
attuando misure amministrative, di vigilanza e controllo,
sull’attività delle amministrazioni pubbliche. Con qualche
passo falso, tuttavia, come la mancata attribuzione di
adeguati poteri alla Corte dei conti, controllore e
giudice delle fattispecie di danno erariale, cioè dei
maggiori costi di un sistema corrotto.
Così, tanto per fare un esempio, il decreto legge n.
174/2012, che ha previsto il controllo dei rendiconti dei
gruppi consiliari regionali, finiti sui giornali di tutta
Italia per le spese “non istituzionali” addebitate, è
stato impugnato dai diretti interessati ed è sub iudice
dinanzi alla Corte costituzionale. Intanto il governo
continua a non consentire il reclutamento di magistrati
contabili che dovrebbero essere poco più di 600, mentre in
servizio superano appena i 400, per controllare 16
ministeri, 20 regioni, più di 100 province, ed oltre 8000
comuni e giudicare su eventuali illeciti di amministratori
e dipendenti.
E
la gente che si chiede perché il Comune di Roma ha potuto
indebitarsi come abbiamo letto in questi giorni. Forse non
sarebbe accaduto se qualche segnale fosse giunto in
Campidoglio. In modo tempestivo ed autorevole.
Il fatto è che la classe politica è da sempre ostile al
controllo di legalità e se, di tanto in tanto, sull’onda
della indignazione popolare, si vede costretta a dettare
norme più rigide di gestione e ad attribuire nuovi
controlli alla Corte dei conti, al giro di boa di qualche
mese sindaci e presidenti di regioni ricorrono alla Corte
costituzionale o suggeriscono modifiche alle Camere in
modo da annacquare i controlli, mentre si leggono sui
giornali dichiarazioni intimidatorie di politici
spregiudicati che censurano le iniziative dei magistrati
contabili. Per non dire delle limitazioni che dal 2009
hanno frenato l'azione delle Procure regionali.
I politici contano da sempre sulla memoria dei cittadini,
che ritengono labile. Sbagliando, perché le persone
perbene, che sono sempre la maggioranza in questo Paese,
memorizzano gli scempi ai quali assistono, sicché spesso
si verificano sorprese nei risultati elettorali, com’è
accaduto e come potrà ancora accadere se non si volterà
pagina rapidamente, passando dalle parole ai fatti. Per
dare a chi paga le tasse la soddisfazione di ritrovare
nell’azione delle amministrazioni pubbliche
quell’efficienza che sola può giustificarle.
2 marzo 2014