LUGLIO
2014
A proposito delle riforme istituzionali
Quali limiti alle esternazioni del Presidente?
di
Salvatore Sfrecola
In occasione della cerimonia cosiddetta “del ventaglio”, dal
dono che tradizionalmente l’Associazione della Stampa
Parlamentare riserva al Capo dello Stato alla vigilia delle
ferie estive, il Presidente Napolitano ha esortato a non
agitare "spettri di insidie e macchinazioni autoritarie" per
"determinare in questo modo un nuovo nulla di fatto in
materia di revisioni costituzionali". Inoltre, nel ricordare
"l'impegno al centro del dibattito parlamentare su un
progetto di revisione di alcuni Titoli della seconda parte
della nostra Costituzione", ha invitato alla ricerca "di
un'ampia convergenza politica" in materia.
Il discorso merita più attento approfondimento, alla ricerca
di una linea di confine tra gli auspici che il Capo dello
Stato è legittimato a manifestare in ordine a riforme
ipotizzate o in discussione in Parlamento ed il merito delle
stesse, in particolare, come nel caso di specie, se
riguardano la revisione della Costituzione in uno dei suoi
tratti essenziali, il bicameralismo, una scelta che già
impegnò molto i Costituenti in ragione della definizione
ottimale del procedimento legislativo e delle funzioni di
controllo politico proprie delle Camere.
Le “esternazioni” del Presidente della Repubblica, infatti,
sono da sempre oggetto di dibattito tra studiosi e politici,
tra chi riconosce al Capo dello Stato un generale potere di
manifestazione del pensiero in ragione della sua posizione
costituzionale, in quanto rappresentante dell’unità
nazionale (art. 87 Cost.), e quanti, invece, pretenderebbero
una controfirma, sia pure implicita o tacita, interpretata
come assenso del Governo al contenuto della dichiarazione.
In ogni caso le esternazioni che implichino scelte politiche
dovrebbero essere escluse in quanto costituzionalmente
illegittime.
Tornando al tema delle riforme ho scritto altra volta dei
dubbi, seguiti all’entrata in vigore della Costituzione in
prosecuzione del dibattito che si era sviluppato nel corso
dei lavori dell’Assemblea Costituente, in ordine al
bicameralismo “paritario”, “perfetto” o “piucheperfetto”,
per dirla con Bin e Pitruzzella. Dubbi li aveva avuti anche
Meuccio Ruini, Presidente della Commissione “dei 75”, e ne
aveva scritto nei primi anni ’50. Tuttavia l’esperienza ha
dimostrato che la doppia lettura di provvedimenti normativi
importanti ed incidenti su situazioni e diritti, come pure
su aspetti importanti delle politiche pubbliche, ha
assicurato provvidenziali correzioni di rotta e, spesso, di
errori tecnici messi in evidenza nel tempo che passa tra la
prima e la seconda lettura.
Ma se è bene superare il bicameralismo perfetto rimane la
scelta del come, tra le varie opzioni suggerite
dall’esperienza, individuando le attribuzioni della seconda
camera e la sua composizione. È qui, infatti, l’oggetto del
contendere, il motivo del dissenso, la delimitazione dei
compiti che dovrebbe avere il nuovo Senato e,
conseguentemente, la sua composizione. Questioni, come si
comprende, funzionali ad una buona riforma sulla quale il
Parlamento dovrebbe discutere sine ira ac studio,
cioè con serenità, approfondendo ogni aspetto, anche in una
simulazione degli effetti nel tempo. Cosa che dovrebbe fare
ogni buon legislatore. Approfondimento che ha bisogno dei
suoi tempi, anche se è logico immaginare un arco temporale
ragionevolmente definito che non può essere, tuttavia,
quello dei pochi giorni come vorrebbe il Governo, anche
perché le riforme costituzionali sono materia propria delle
Assemblee legislative.
L’interesse del Governo, che è il promotore dell’iniziativa,
è evidente. Il Presidente del Consiglio assume che quella
del bicameralismo sia la madre di tutte le riforme per
snellire il procedimento legislativo. Non vorrei fosse un
alibi, un falso problema. Infatti l’esperienza ricorda
alcune verità. Quando si è voluto sono state approvate leggi
in pochi giorni, il che vuol dire che i tempi sono legati
alla gestione dei gruppi parlamentari. Ed inoltre da anni le
Camere sono prevalentemente impegnate nella conversione di
decreti legge, sempre con voto di fiducia. E qui non c’entra
il bicameralismo, tanto che sui decreti legge si è
pronunciata anche la Corte costituzionale per mettere fine
alla scandalosa loro reiterazione, anche più volte, al punto
che una disciplina normativa motivata da esigenze
straordinarie ed urgenti restava in vita per un tempo
nettamente superiore ai sessanta giorni previsti dalla
Costituzione.
Poche osservazioni per dire, dunque, che il bicameralismo,
anche nella forma attuale, c’entra poco con i tempi della
legislazione, perché la loro durata è essenzialmente dovuta
alla volontà politica dei partiti e alla capacità di
gestione dei gruppi parlamentari ed in parte al numero
eccessivo di senatori e deputati, quasi 1000, il numero
fatidico dei prodi di Giuseppe Garibaldi.
A mente fredda e sulla base dell’esperienza a sbandierare le
riforme costituzionali è da sempre una classe politica e di
governo incapace di portare a casa risultati concreti,
quelli che interessano la gente, il lavoro, il fisco, la
giustizia. Tutti ricordano il problema dell’art. 41 della
Costituzione sulla libertà di iniziativa economica privata
che, secondo Berlusconi e i suoi suggeritori, doveva essere
modificato urgentemente per favorire lo sviluppo
dell’economia. Se ne è parlato insistentemente per qualche
tempo, poi l’argomento è sparito dalle cronache politiche.
Era una bufala.
Nel dibattito sul bicameralismo, dunque, come si è detto
iniziando questa riflessione, si è inserito il Capo dello
Stato con una iniziativa e con argomentazioni che destano
non poche perplessità perché è dubbio che il Presidente
della Repubblica possa farsi sponsor di una delle iniziative
in discussione, sia pure del Governo. Che solleciti riforme
dirette a far funzionare meglio le istituzioni ed a favorire
l’economia sta bene, ma senza abbracciare la tesi di una
parte.
L’intervento presidenziale richiama
l’“impegno di cui il governo Renzi si è fatto iniziatore, su
mandato dello stesso Parlamento, espressosi con le mozioni
approvate a schiacciante maggioranza dalla Camera e dal
Senato il 29 maggio 2013”. Questo riferimento al voto
parlamentare potrebbe giustificare l’intervento del
Presidente Napolitano se non si considerasse che quei voti
sono stati del tutto generici rispetto all’esigenza mentre
si discute oggi di dettagli non irrilevanti in ordine alle
attribuzioni ed alla composizione del Senato (ad esempio se
elettivo o meno) ed agli effetti della riforma.
Bene quando il Presidente auspica “un'ampia convergenza
politica in Parlamento”. Sicché è senz’altro da condividere
quando scrive di essere convinto di muoversi “nello spirito
della Costituzione repubblicana” ed in ragione dei suoi
“fondamentali doveri di Presidente”.
Detto questo, osservare che “oggi in realtà emergono
ostilità al progetto di riforma in discussione al Senato
dettate proprio dalla pregiudiziale diffidenza e
contestazione rispetto alla ricerca di accordi con forze
politiche del campo opposto”, significa, pur con il
linguaggio prudente quirinalesco, entrare nel merito delle
ragioni delle difficoltà dell’accordo nel merito. Dacché
“diffidenze e contestazioni” sono espressione di valutazioni
politiche per certi versi incensurabili, qualunque sia
l’origine delle riserve che le motivano.
Anche la puntigliosa ricostruzione dei tempi della
discussione, dei lavori di una Commissione “libera ed
estremamente aperta e articolata”, il richiamo al
recepimento di “un gran numero di sollecitazioni critiche e
di emendamenti”, sicché non ci sarebbe stata
“improvvisazione né improvvida frettolosità” sono
valutazioni di merito. Come il riferimento alla “ricca e
puntuale relazione finale”. Valutazioni tutte condivisibili
ma distanti dalla neutralità che si richiede ad un
Presidente in una Repubblica parlamentare dove il “sovrano”
siede nelle Camere.
Napolitano ci ha abituato ad interventi sollecitatori ed a
scelte poco notarili, a volte apprezzabili ed apprezzate, ma
il problema è sempre quello della misura anche rispetto alla
maggioranza parlamentare e di governo.
Infatti il Presidente che, richiamando le mozioni
parlamentari, le quali hanno “nell'agenda dell'impegno di
revisione costituzionale… il superamento del bicameralismo
paritario” definita “una "anomalia tutta italiana" o
"incongruenza costituzionale"… indifendibile e fonte di
gravi distorsioni del processo legislativo e della
dialettica Parlamento-governo”, avrebbe dovuto fare punto
sulla sua esternazione. Infatti, mentre dice di non voler
andare “oltre sul tema, per rispetto verso i lavori, ormai
in fase avanzata, dell'Assemblea del Senato”, ritiene di
dover rivolgere “un pacato e fermo appello a superare
un'estremizzazione dei contrasti, un'esasperazione ingiusta
e rischiosa - anche sul piano del linguaggio - nella
legittima espressione del dissenso. E per serietà e senso
della misura nei messaggi che dal Parlamento si proiettano
versi i cittadini, non si agitino spettri di insidie e
macchinazioni autoritarie”.
Questi sono argomenti di critica politica formulati da chi
ritiene, a torto o a ragione, che si prepari una riforma del
Senato che attui di fatto un monocameralismo con numeri che
assicurerebbero alla maggioranza una forza ulteriore ed un
potere difficilmente controllabile, in assenza di garanzie
costituzionali che, infatti, in conclusione del discorso il
Presidente auspica. Lo ha sottolineato Michele Ainis nel
fondo sul Corriere della Sera di ieri (“Il labirinto delle
garanzie”) dove, facendo qualche conto, ha dimostrato che è
possibile ad una maggioranza occupare tutti i posti, dal
Quirinale alla Consulta. Che è quello che temono e con cui
argomentano alcuni degli oppositori.
Del resto il Presidente del Consiglio legittimamente
minaccia lo scioglimento anticipato delle Camere come
ritorsione nei confronti dei Gruppi parlamentari del PD che
non gli sono globalmente fedeli, composti da bersaniani,
civatiani, cuperliani che pensano di rischiare “il posto”,
nel senso che difficilmente sarebbero messi nuovamente in
lista. Questa sensazione, che per molti è una
consapevolezza, eleva inesorabilmente il tono della
polemica. Nel senso che alcuni difendono certamente le loro
idee ma anche il loro seggi. Perché c’è da giurare che Renzi
non perdonerà loro l’essersi schierati contro la sua riforme
“per cambiare l’Italia”.
Nella panoramica delle diverse personalità che hanno
ricoperto il ruolo di Capo dello Stato, dal notaio Einaudi
al picconatore Cossiga, passando per Pertini, che spesso si
è fatto opportunamente interprete di esigenze di giustizia
largamente diffuse, Napolitano è stato certamente un
Presidente equilibrato ma spesso interventista
(l’espressione “Re Giorgio” la dice lunga) che, tuttavia,
oggi appare, a tratti, schierato da una parte, sia pure
della maggioranza. Che non è proprio quell’esempio di
neutralità ispirata al massimo di sensibilità costituzionale
che si vorrebbe in chi “rappresenta l’unità nazionale”.
24 luglio
2014
Inefficienza e sadismo del Comune di Roma
La burocrazia che esaspera il cittadino
di
Marco Aurelio
Un caso di ordinaria follia burocratica. Il Comune di Roma,
Dipartimento Risorse economiche U.O Notifiche, segue questa
prassi in caso di violazioni al Codice della Strada. Il
“notificatore” si reca al domicilio di colui che ha commesso
l’infrazione e se non lo trova (il più delle volte non lo
trova perché passa la mattina quando la gente lavora) non
lascia un avviso. Successivamente il predetto Dipartimento
invia al cittadino una lettera raccomandata con la quale “si
comunica alla persona in indirizzo, non reperita in casa dal
notificatore, che in data odierna gli è stato notificato il
verbale di violazione n….. del… mediante deposito nella Casa
Comunale sita in Roma U.O Gruppo…” (un Comando locale della
Polizia Municipale.
Alcune osservazioni. Il cittadino non ha avuto notizia che
il notificatore è passato da casa sua. La raccomandata
spedita all’indirizzo della persona può non andare a buon
fine. Anche in un momento di crisi economica molti la
mattina sono fuori per lavoro e in casa può non esserci
nessuno.
Conseguenze: il cittadino si deve recare all’ufficio postale
non per ritirare il verbale di contravvenzione ma la
comunicazione prima richiamata che lo informa che “nella
Casa Comunale” è stato depositato il verbale. Deve quindi
recarsi alla “Casa Comunale” per ritirare il verbale. Poi
deve fare una sosta all’Ufficio postale o in una tabaccheria
autorizzata alla riscossione della contravvenzione.
Nella migliore delle ipotesi è l’impegno di una mattinata
che probabilmente costerà un permesso non retribuito o
graverà sulle ferie del dipendente.
Il tempo ha un costo per tutti.
Nel 2014 è una follia che costa all’Amministrazione comunale
tempo e lavoro ed al cittadino le passeggiate all’ufficio
postale ed alla Casa Comunale oltre alle “spese di
procedimento e notificazione”. Infatti la raccomandata lo
informa che il pagamento della sanzione pecuniaria “dovrà
essere effettuato entro il termine indicato nel verbale di
accertamento della violazione… che decorre dalla data di
ricezione della presente raccomandata o, comunque, decorsi
dieci giorni dalla spedizione della stessa”. E se il
cittadino è in ferie?
Ogni ulteriore commento è superfluo. Se non che certamente
si potrebbe accelerare il tutto. Ad esempio mediante posta
elettronica per chi è iscritto nel portale del Comune,
magari previa preventiva accettazione di questo tipo di
notificazione.
Magari facendo un salto oltralpe si scopre che altrove già
ci hanno pensato!
23 luglio 2014
A proposito di un editoriale di Galli della Loggia
Autorevole invito all’autocritica, degli altri
di Salvatore Sfrecola
Ernesto Galli della Loggia è uno storico noto ed un
editorialista forbito del Corriere della Sera, dalle
cui colonne ci invita sovente a riflettere su temi politici,
di diritto ed etica delle istituzioni, richiamando i lettori
ai principi della democrazia liberale. Ha studiato
John Locke e
Alexis de Tocqueville, è critico della
degenerazione del partitismo italiano, la “partitocrazia”,
come Giuseppe Maranini aveva definito l’asfissiante presenza
dei partiti nella vita pubblica italiana.
Oggi Galli della Loggia ha scritto de “L’autocritica che non
c’è” spiegata nell’occhiello “L’assenza di verità nelle
corporazioni”. Un “invito alla verità, a dire finalmente a
se stessi e al Paese come stanno realmente le cose” evitando
che essa si trasformi “fatalmente a causa dei troppi
consensi nella retorica della verità. E dunque in niente”.
“Quando tutti si dicono subito d’accordo.. allora è certo
che la menzogna ha ancora un lungo avvenire davanti a sé”.
Come dargli torto. Nel Paese dove il conformismo politico è
una condizione di carriera per alcuni e di sopravvivenza per
altri, anche gli intellettuali hanno perduto il gusto della
libertà, di dire quel che realmente pensano, anche se non
gradito ai potenti ed alle caste, prima tra tutte quella
degli universitari, come dimostra il più recente concorso di
abilitazione che ha prodotto centinaia di ricorsi che
rischiano di intasare il TAR del Lazio. A leggerne solo uno
c’è da inorridire per come sarebbero state manomesse le più
elementari regole di imparzialità e di trasparenza delle
procedure di selezione.
Sarebbe stata un’autocritica opportuna, da parte di Galli
della Loggia, magari per dimostrare di essere sereno,
obiettivo, disposto a praticare una sana confessione dei
peccati della propria casta che certo conosce bene per
esserne parte da decenni.
Invece la sua riflessione inizia “dalle grandi corporazioni
come quella dei magistrati, i quali, poco curandosi delle
necessità del Paese, non ammetteranno mai di esercitare da
sempre un paralizzante potere d’interdizione e di ricatto
nei confronti di qualunque tentativo di modifica
dell’ordinamento della giustizia. Che essi vogliono solo
conforme al mantenimento delle loro prerogative e dei loro
privilegi, abusivamente spacciati come sinonimo
dell’interesse generale”.
Un linguaggio da comizio infarcito di veri e propri insulti.
Parole pesanti come pietre, quel “potere d’interdizione e di
ricatto” esteso ad una intera categoria di pubblici
funzionari cui la legge assicura il massimo di indipendenza
(“soggetti soltanto alla legge”, come si legge nell’art.
101, comma 2, Cost.) in relazione alla più elevata delle
funzioni pubbliche, quella di ius dicere di dire “in
nome del Popolo Italiano” chi ha ragione e chi ha torto,
perché questo significa assicurare la pace sociale, ne
cives ad arma ruant. Potere ma anche grande
responsabilità.
Il professore getta il sasso e ritira la mano, non spiega,
non giustifica, magari con un esempio come una intera
categoria di funzionari che hanno giurato fedeltà alla
Costituzione e alle leggi, tutti insieme non solo bloccano
altrui iniziative ma ricattano.
Galli della Loggia certamente conosce il senso delle parole
ma impunemente le scaglia contro magistrati, giudici e
pubblici ministeri, venendo meno anche al ruolo proprio di
un docente cui spetta insegnare, il che vuol dire essere di
esempio, anche sulla base dell’esperienza negativa che può
aver maturato ed osservato. Lui che solo nel 2010 faceva un
bilancio terrificante dell’Italia, del sistema scolastico,
che rende poco, della burocrazia, sovrabbondante e incapace,
della giustizia, approssimativa e tarda, della criminalità
organizzata, che non eguali all’estero, delle nostre città
le cui periferie sono tra le più brutte al mondo. Per non
dire degli acquedotti che oltre a portare acqua “fanno
acqua”, del territorio a rischio frane, dei musei e dei siti
archeologici abbandonati o sottoutilizzati. E poi della
corruzione, delle tasse inique, dell’evasione fiscale.
In questo panorama terrificante le caste non compaiono. Solo
quella dei magistrati.
Diseducativo, questo modo di affrontare i grandi temi della
giustizia le inefficienze della quale i magistrati sono
testimoni e vittime, per non poter rendere quel servizio
secondo standard di efficienza che altrove caratterizzano
l’azione dei giudici, ovunque dotati di leggi migliori e di
più adeguate strutture tecniche.
Diseducativo, per aver dato la stura all’ennesima pantomima
dei soliti Marco Ventura di Panorama e Luigi Amicone,
direttore di Tempi, che stamattina ad Omnibus,
la trasmissione di approfondimento de La 7, senza avere un
contraddittore si sono scagliati sui magistrati con una
violenza verbale pari solo all’inconsistenza delle tesi
espresse. Come quando Amicone è tornato sul tema
dell’“avviso di garanzia” a Berlusconi nel 1994, quando si
trattava solo di un invito a fornire testimonianza.
E poi la questione del “ricatto” all’industria, perché,
spiegano i due, i magistrati fanno politica industriale
perché chiudono fabbriche che inquinano, ad onta delle leggi
che le amministrazioni non fanno rispettare e dei politici
che non provvedono a finanziare piani di risanamento.
Nonostante volino mazzette qua e là per l’Italia.
Ma tant’è, i due sono inquadrati nella casta più potente,
perché controlla l’informazione, sottocasta giornalisti
militanti.
Per fortuna dopo i magistrati “si può poi proseguire con le
migliaia di rappresentanti della classe politica locale, per
esempio di quella delle Regioni. Mai nessuno di questi che
in mezzo secolo abbia detto una parola sola di
rincrescimento e di autocritica per il malfunzionamento, gli
sprechi e i costi smisurati di quei carrozzoni che appena
istituite sono diventate le suddette Regioni”. “Avrebbe
fatto piacere agli Italiani – scrive Galli della Loggia -
ascoltare almeno una volta un consigliere regionale, dico
per dire, della Calabria o della Sicilia, ammettere che le
loro amministrazioni hanno rappresentato e rappresentano
un’autentica vergogna nazionale, o che per esempio
l’autonomia siciliana è diventata ormai un’autentica truffa,
utile solo ad arricchire a spese di tutti poche migliaia di
fortunati”.
Per concludere che “se vuol essere una cosa seria, insomma,
l’omaggio generale alla verità non può che accompagnarsi
all’autocritica di alcuni. Magari, visti gli errori commessi
e le responsabilità accumulate, accompagnata alla decisione
di farsi da parte”.
Intanto il danno è fatto, ed è enorme. Quanti italiani
saranno convinti che effettivamente, come scrive l’illustre
cattedratico che ha studiato
John Locke
e
Alexis de Tocqueville
(il curriculum non lo dice ma avrà studiato anche
Montesquieu), i magistrati esercitano un “potere
d’interdizione e di ricatto”, in barba alla legge alla quale
sono soggetti?
Grande è la responsabilità di chi è chiamato da una cattedra
universitaria a dare testimonianza di obiettività. Quella
che è necessaria per affrontare i nodi delle riforme delle
quali ha bisogno questo nostro martoriato Paese.
20 luglio 2014
Le competenze non si improvvisano
Realtà e leggende sui “mandarini” di Stato
di Salvatore Sfrecola
Qualche sera fa a In Onda, la trasmissione di
approfondimento de La7, si è parlato di “mandarini di
Stato”, gli alti burocrati, ma soprattutto i magistrati
amministrativi e gli avvocati dello Stato che, legati ai
potenti dei governi, entrano ed escono dai ministeri, ora
come Capi di gabinetto, ora come Capi degli Uffici
legislativi, ora come consiglieri giuridici, per cui
l’espressione ripetutamente usata della “porta girevole”,
quella attraverso la quale, negli alberghi, si entra e si
esce. Ne hanno parlato, stimolati dai conduttori Alessandra
Sardoni e Salvo Sottile, il Presidente del Sezione del
Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, il giornalista de
L’Espresso Stefano Liviadotti e il Sottosegretario
per la semplificazione la pubblica amministrazione, Angelo
Rughetti, collegato in video.
Devo dire, con il massimo rispetto per gli illustri partecipanti
alla trasmissione, che raramente ho sentito una somma di
luoghi comuni che non avranno certamente consentito agli
ascoltatori di comprendere di cosa si stesse parlando, se
non della innegabile professionalità del Presidente Patroni
Griffi, che tutti continuavano a chiamare consigliere, il
quale ha dato conto con estrema chiarezza del ruolo dei
magistrati che collaborano con i ministri ed in particolare
dei Consiglieri di Stato, categoria della quale fa parte,
appunto, avendo ricoperto, proprio per le sue conoscenze
delle problematiche della pubblica amministrazione, tra gli
altri, il ruolo di Capo di Gabinetto, di Ministro della
funzione pubblica e di Sottosegretario di Stato alla
Presidenza del consiglio.
Detto questo è stato evidente, per chiunque conosca anche solo un
po’ l’amministrazione, come da un lato i giornalisti,
dall’altra il Sottosegretario, dessero soprattutto voce
all’uomo della strada, cui si deve il massimo rispetto, ma
che conosce le cose dall’esterno, in modo superficiale e
influenzato dall’eterno vezzo italiano dell’invidia per i
potenti, specialmente se, si immagina, guadagnano bene e
hanno non pochi vantaggi, primo di tutti l’auto di servizio,
forse i biglietti per cinema, teatri e manifestazioni
sportive. Inoltre, probabilmente, piazzano figli e nipoti
qua e là nelle amministrazioni e negli enti.
Dico questo perché il tema è serio e va affrontato seriamente,
sotto vari profili: dell'interesse pubblico generale, in
primo luogo, e dell’interesse dei Ministri ad avvalersi di
collaboratori di fiducia, professionalmente dotati, per
esercitare le rilevanti funzioni di vertice politico delle
amministrazioni.
Cominciamo col dire che tradizionalmente i ministri della
Repubblica, come quelli che ricoprivano analoga funzione nel
Regno d’Italia, si sono costantemente avvalsi della
collaborazione di magistrati amministrativi, del Consiglio
di Stato e della Corte dei conti, e di Avvocati dello Stato,
quali responsabili dei Gabinetti o degli Uffici legislativi.
I magistrati ordinari, infatti, sono presenti soprattutto
nel Ministero della giustizia e in alcuni Uffici legislativi
(ad esempio al Ministero delle finanze, ora dell’Economia e
delle Finanze, l’Ufficio legislativo è stato spesso retto da
un Consigliere di Cassazione).
Questa prassi, tranne casi rari, non è stata mai gradita dagli
alti vertici dell’amministrazione che ritengono non
necessari questi “estranei. Ed è proprio qui il centro di
una riflessione che va fatta con riferimento al ruolo che
questi magistrati hanno svolto nell’Amministrazione dello
Stato, che è molto diverso da quello che avrebbe, secondo
quel che si dice, indotto il nuovo Premier ad avvalersi di
altre categorie di pubblici dipendenti, in particolare di
Consiglieri parlamentari, funzionari sulla cui
professionalità non c’è nulla da dire, avendo esperienza
dell’attività delle Camere e degli Uffici Studi che presso
di esse hanno formato nel tempo studiosi di grande valore,
molti dei quali successivamente hanno retto con riconosciuto
prestigio cattedre universitarie.
Diremo anche di un altro profilo, spesso utilizzato per
contestare la preposizione di magistrati agli uffici di cui
si è detto, quello della separazione dei poteri che
risulterebbe contraddetta dall’esercizio di queste funzioni
da parte di giudici amministrativi e contabili, sia pure
fuori ruolo.
Cerchiamo di chiarire, in primo luogo, qual’è il motivo per il
quale i ministri si sono tradizionalmente circondati di
magistrati amministrativi e di avvocati dello Stato.
La vulgata parla di casta che si alimenta, che mantiene le
posizioni, che trasmette da uno all’altro come in una
staffetta il testimone dello specifico ruolo, così
individuando una situazione di fatto, senz’altro
concretizzatasi in alcuni casi, ma che non modifica
l’impianto fondamentale della vicenda, il motivo per il
quale i ministri si avvalgono di queste professionalità.
È evidente che il ministro, posto alla guida di un ministero,
struttura complessa e distribuita sul territorio, anche se
fosse un tecnico di grande professionalità, non conosce nel
dettaglio la normativa organizzativa e procedimentale
dell’amministrazione, ma neppure i dirigenti preposti agli
uffici. Sicché, insediandosi al vertice
dell’Amministrazione, diventa in qualche modo, nel bene e
nel male, prigioniero dell’apparato. Nel senso che capi
dipartimento e direttori generali, cioè i detentori delle
posizioni nelle quali si esprime il potere di
quell’amministrazione, lo orientano nelle scelte relative
alle politiche pubbliche di quel settore. Sono loro che
portano i provvedimenti alla firma e ne giustificano
l’adozione (come può il ministro esercitare un controllo
sulla decisione al suo esame se non utilizzando persona di
fiducia, estranea agli interessi in gioco?). Non solo.
L’influenza di questa classe dirigente dell’amministrazione
si esprime anche attraverso le nomine e i conferimenti di
funzioni proprie dell’alta dirigenza, come gli incarichi nei
consigli di amministrazione di enti e organismi controllati
(basti pensare ai dirigenti della Ragioneria Generale dello
Stato e, in genere, del Ministero dell’economia e delle
finanze che siedono in Consigli di amministrazione, da
Finmeccanica a Ferrovie, tanto per fare due esempi la cui
importanza tutti possono percepire), nomi suggeriti al
ministro il più delle volte, proprio dalla dirigenza, magari
direttamente dagli interessati alla nomina. La motivazione è
sempre la stessa: quella posizione è tradizionalmente retta
dal dirigente della direzione x o y.
Inoltre nei ministeri si formano delle “cordate”, di colleghi di
concorso, di chi ha maturato una determinata esperienza in
un particolare settore, con la conseguenza, che
evidentemente non ha nulla di illecito, che se uno della
cordata raggiunge una determinata posizione è naturale che
porti con sé e imponga, in posizioni di controllo
dell’apparato, amici e amici degli amici.
Questa situazione, che nella trasmissione non è assolutamente
emersa. è la ragione della scelta, da parte dei ministri, di
collaboratori i quali abbiano un prestigio pubblicamente
riconosciuto e possano quindi fare da tramite tra il
ministro e la struttura e viceversa senza che l’apparato si
senta in qualche modo condizionato in ragione del fatto che
il Capo di gabinetto viene col ministro e, il più delle
volte, se ne va con il ministro. Così, tra l’altro,
impedendo le famose cordate deleterie per il buon andamento
dell’Amministrazione, quando non hanno interessato i giudici
di varie giurisdizioni.
Questa situazione ha determinato effetti positivi per il ministro
e per l’amministrazione perché ha posto accanto al vertice
politico ed a quello amministrativo personalità di rilevante
preparazione giuridico-amministrativa e di vasta e variegata
esperienza, con importanti relazioni negli apparati
pubblici, ciò che ha consentito spesso di superare
difficoltà interpretative ed operative rispetto a normative
coinvolgenti più amministrazioni.
Vediamo, infine, l’eccepita incompatibilità dei ruoli con
riferimento alla separazione dei poteri tra amministrazione
e organismi con funzioni giurisdizionali, che vale solo per
i magistrati e non per gli Avvocati dello Stato che sono
ottimi funzionari tecnici, il cui compito è quello di
difendere lo Stato in giudizio e di fornire, quando
previsto, pareri in ordine a pratiche che possono avere
profili contenziosi.
È chiaro che, a prima vista, possa sembrare strano o anche in
contrasto con il richiamato principio della separazione dei
poteri, fonte del buon governo nell’insegnamento di
Montesquieu, che il Ministro si avvalga come diretto
collaboratore di un magistrato che potrebbe svolgere
funzioni giudicanti in una controversia amministrativa (se
del T.A.R. o del Consiglio di Stato) o in una vicenda di
responsabilità per danno erariale (se della Corte dei
conti).
Al riguardo soccorrono regole giuridiche e comportamenti
deontologici, le une e gli altri sempre verificabili e
verificate nell’esperienza.
Un dato formale è il collocamento “fuori ruolo” del magistrato
che, per il periodo nel quale ricopre l’incarico, non
esercita le funzioni proprie del suo ruolo. E ove, tornando
ad indossare la toga, si trovasse a giudicare di un caso che
coinvolge l’amministrazione presso la quale ha operato a
fianco di un ministro avrebbe il dovere di astenersi dal
giudicare.
Sotto il profilo deontologico il magistrato, nel momento in cui
ha una collaborazione ministeriale, “dimentica” di essere
componente di un organo giurisdizionale e quando torna ad
indossare la toga “dimentica” di essere stato Capo di
Gabinetto o Capo di Ufficio legislativo.
Immagino la replica. Sono chiacchiere. No sono fatti e
comportamenti che ho potuto verificare in tante occasioni.
D’altra parte anche il funzionario di carriera può venir
meno al suo codice deontologico e al dovere di agire,
secondo Costituzione, con “disciplina e onore” (art. 54), di
esercitare le sue funzioni in modo che siano assicurati “il
buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione” (art.
97), essendo “al servizio esclusivo della Nazione” (art.
98). Ma questo non impedisce che, di tanto in tanto, si
scoprano autentici delinquenti che provocano sprechi e che
si fanno corrompere perché “al servizio” delle lobby
politiche o affaristiche. È cronaca di queste ultime
settimane.
Aggiungo che nella forma mentis del magistrato, cui è
stato insegnato fin dall’ingresso in carriera che è
necessario non solo “essere” indipendente ma “apparire”
anche tale, è chiara la distinzione dei ruoli sicché
cambiando ruolo cambia mentalità. Ma comprendo che non tutti
possano esserne convinti. L’esperienza dimostra che
l’eventuale caso contrario attesta proprio che la regola è
rispettata.
C’è gente che ha alto il senso dello Stato. È così, dobbiamo
ammetterlo, pur in un Paese in cui è diffuso il disprezzo
per la legalità.
D’altra parte la Corte costituzionale, chiamata a decidere della
conformità alla legge fondamentale dello Stato delle norme
che consentono la nomina, da parte del Governo, di una
aliquota di magistrati del Consiglio di Stato e della Corte
dei conti, ha detto che la provenienza della nomina
dall’Esecutivo non incide sulla indipendenza del magistrato,
che una volta indossata la toga recide ogni legame con chi
lo ha nominato.
Chiarite dunque, le ragioni per le quali i ministri hanno
ritenuto di doversi avvalere della competenza professionale
di magistrati e avvocati dello Stato, il nuovo Presidente
del Consiglio ha ritenuto, secondo una propria personale
convinzione, di doversi avvalere di altre professionalità
per svolgere funzioni di Capo di gabinetto in vari
ministeri, così come di Segretario generale della Presidenza
del Consiglio e di Capo del Dipartimento per gli affari
giuridici e legislativi (DAGL), preponendo ai due uffici,
rispettivamente, l’ex Direttore generale del Comune di
Reggio Emilia e l’ex Comandante del Corpo della Polizia
Municipale di Firenze. Funzionari certamente preparati ma
che indubbiamente non possono vantare l’esperienza e le
relazioni di coloro che li hanno preceduti, considerata la
complessità delle funzioni attribuite ai detti uffici, in
ragione delle quali non possono essere sufficienti le
esperienze che i due hanno maturato in realtà del tutto
diverse, quanto al tipo delle attribuzioni svolte ed alle
dimensioni delle città nelle quali hanno operato. Ricordando
che Firenze, città che è nel cuore non solo degli italiani
ma di tutte le persone di cultura per la sua storia e la sua
arte, ha un numero di abitanti inferiore al più piccolo
municipio di Roma. E tali, ovviamente, sono i problemi che
hanno dovuto affrontare e sui quali si sono formati.
Detto questo, da osservatore esterno, può darsi che tutte le
persone che il Presidente del Consiglio e i suoi ministri
hanno messo in campo si rivelino straordinari collaboratori.
Ma è certo che non parlare il linguaggio
dell’Amministrazione non consente facilmente di trasmettere
la volontà politica del Presidente del Consiglio e dei
ministri agli apparati che dovranno dare esecuzione alle
scelte che l’esecutivo mette in campo.
Per chi considera gli apparati ministeriali la prima cura dei
governi lo shock di Renzi rischia di rivelarsi fonte di
risultati negativi, come dimostrano i provvedimenti fin qui
adottati che, a fronte della necessità di significative,
urgenti trasformazioni degli apparati e delle procedure, si
limitano ad alcuni interventi che è dubbio abbiano la
capacità di restituire alle strutture di governo quella
efficienza che il cittadino attende.
Un dato formale, ma non irrilevante, ne è la prova. Il decreto
legge sulla Pubblica Amministrazione, deliberato dal
Consiglio dei Ministri il 13 giugno, a leggere i giornali, è
stato profondamente modificato nei giorni successivi fino al
24, quando lo ha firmato il Capo dello Stato. Infatti ne
sono state diffuse versioni diverse. Doveva tornare al
Consiglio dei Ministri, 30 secondi per una nuova
approvazione. Il più modesto dei “mandarini” non avrebbe
esitato per garantire la legittimità del provvedimento.
Da ultimo, è evidente che dietro l’ex sindaco di Firenze, che ha
amministrato un microcosmo rispetto alla competenze delle
quali è investito a Palazzo Chigi, c’è un suggeritore.
Accade a tutti i politici. L’importante è sceglierlo giusto.
Sul punto il giudizio, ovviamente, è rinviato.
8 luglio 2014
P.S. Il tema è di quelli centrali per il buongoverno delle
amministrazioni. Con questo articolo apro un dibattito nel
quale ospiterò volentieri tutti coloro che hanno qualcosa di
intelligente da dire.
Riflessioni sulla "Grande Guerra"
Luglio 1914: il suicidio dell’ Europa
di Domenico Giglio
E’ abbastanza ovvio che in questi giorni si ricordi
l’assassinio dell’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando,
unitamente alla consorte morganatica Sofia, avvenuto a
Sarajevo ad opera di Gavrilo Princip,”due colpi di pistola:
dieci milioni di morti”, come è stato sintetizzato, ma non
vedo per l’Europa questi grandi motivi di rammentare un
evento che ha significato la fine, o l’inizio della fine,
concretatasi nel 1945, della sua supremazia mondiale, se non
per un atto di pentimento per gli errori commessi e per la
riaffermazione, che è poi il maggiore e migliore motivo
della attuale Unione, del mai più guerre tra gli stati
europei.
In questi ricordi e rievocazioni del “Luglio ’14”, vi è una
tendenza quasi a sottovalutare l’assassinio dell’erede al
trono dell’ Austria-Ungheria, quale causa scatenante il
conflitto, in quanto , dicono illustri storici, la guerra
sarebbe scoppiata egualmente perché la politica mondiale
dell’Impero Germanico, lo sviluppo della sua flotta da
battaglia, non sarebbe stata tollerata a lungo dalla Gran
Bretagna, potenza mondiale, particolarmente egemone sui
mari.
Le guerre però non sorgono per “autocombustione”, ma
necessitano di un “casus belli”, per cui non è facile
individuare il “quando” sarebbe scoppiata la guerra europea,
se non ci fosse stato Serajevo e l’arroganza della
diplomazia austroungarica, arroganza già mostrata nel 1859
nei confronti del Piemonte, ed in epoche successive, per cui
la Serbia, che sapeva di godere della protezione “ortodossa”
dell’Impero Russo, non potè accettare, come Stato Sovrano,
l’incredibile ultimatum inviatogli da Vienna. “ Verum ipsum
factum” , dice Giambattista Vico, ed il fatto e la verità
coincidono. Senza Serajevo il 1914 sarebbe trascorso
tranquillamente, e l’estate avrebbe ancora una volta visto
il gran mondo incontrarsi nei saloni del grandi alberghi e
nelle stazioni termali. Ed il 1915? Se vogliamo continuare
le ipotesi quale fatto poteva accadere per accendere la
“miccia” della guerra? Se la storia non si fa “con i se e
con i ma” vorrei capire se in un anno la Germania avrebbe
compiuto un ulteriore balzo in avanti, tale da costringere
la Gran Bretagna , ad agire. Andiamo al 1916 e qui è un
fatto certo e cioè la scomparsa dopo 68 anni di Regno di
Francesco Giuseppe, e l’ascesa al trono di Francesco
Ferdinando, se non fosse stato assassinato due anni prima,
come fu in realtà.
Presi in questo giuoco si poteva pensare che il nuovo
Imperatore, che aveva idee interessanti di una
ristrutturazione dell’ impero che riteneva urgente, date le
spinte centrifughe esistenti, si sarebbe imbarcato in
imprese belliche, almeno per qualche anno e si poteva
pensare che la Germania , senza avere la certezza di una
collaborazione austroungarica, si sarebbe, a sua volta,
spinta oltre nella sua politica espansiva? Questo per
rimanere su dati e date certe perché altrimenti si
potrebbero ipotizzare gli eventi più svariati, da morti
improvvise di capi di stato, con problemi successori od a
rivolgimenti interni dagli esiti imprevedibili.
Per questo il gesto criminale di Gavrilo Princip rimane
l’unica e sola causa certa ed indiscussa della cosiddetta
prima Guerra Mondiale, che portò in Europa una potenza fino
ad allora estranea, gli Stati Uniti d’America, e portò anche
negli eserciti franco-inglesi soldati dei loro imperi
coloniali che videro, e lo rividero nella seconda guerra
mondiale, i “padroni” bianchi combattere tra loro, con tutti
i mezzi, anche i meno leciti, come i gas asfissianti, e
capirono che erano maturi per una propria indipendenza
nazionale, magari, e questa è storia recente, rivelatasi di
molto inferiore alle loro aspettative.
6 luglio 2014
Saltano le regole più elementari del diritto
Se il decreto legge non è il testo
approvato dal Consiglio di Ministri
Il decreto dei misteri
di Senator
C'è una categoria di professionisti che fa il tifo per Renzi.
E' quella degli avvocati che patrocineranno i ricorsi che
già si preannunciano numerosi contro il decreto legge 24
giugno 2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l’efficienza degli uffici giudiziari” .
Cominciamo con un dato elementare, di immediata evidenza e
pregiudiziale rispetto a qualunque altra valutazione di
legittimità, prima del profilo riguardante la sussistenza
dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza
richiesto dalla Costituzione perché il governo possa
adottare, “sotto la propria responsabilità provvedimenti
provvisori con forza di legge”, come si legge nell’art. 77,
comma 2, della Costituzione, così assumendo una funzione
legislativa in via ordinaria rimessa alle Camere del
Parlamento dall’art. 70 (“La funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due Camere”).
Mi riferisco ad un elemento testuale. Il decreto pubblicato
il 24 giugno è stato deliberato dal Consiglio dei ministri
del 13 giugno,
come si legge nel preambolo. Perché tutto questo tempo, ben
undici giorni, prima della firma del Capo dello Stato e
della pubblicazione?
Niente di strano, anche se il lasso di tempo, più di un
sesto di quello che la Costituzione assegna alla validità
del decreto (sessanta giorni), ad una prima valutazione
contraddice l’urgenza, presupposto dell’assunzione del
potere legislativo da parte del Governo.
Il problema preliminare, tuttavia, è un altro.
Secondo notizie di stampa e il tam tam delle mail
che ha accompagnato l’annuncio della adozione del
provvedimento e le prime indiscrezioni, il testo approvato
sarebbe stato oggetto di plurime correzioni, a seguito di
proteste dei sindacati, ad esempio del pubblico impiego, e
di suggerimenti che sarebbero pervenuti, a tacer d’altro,
dal Consiglio Superiore della Magistratura e dal Capo dello
Stato o, più probabilmente, dai suoi uffici, per profili
giuridici, di costituzionalità, ma anche per gli effetti che
alcune norme avrebbero determinato su alcune categorie. Ad
esempio per quanto riguarda l’abrogazione dell’istituto
della proroga della permanenza in servizio dei magistrati,
da 70 a 75 anni, che, è stato segnalato da più parti,
avrebbe avuto l’effetto di determinare un vuoto di organico
preoccupante. Infatti, mentre in una prima versione si
indicava come termine per la permanenza in servizio di
coloro i quali avevano avuto la proroga il 31 ottobre 2014,
il testo uscito sulla Gazzetta Ufficiale indica il 31
dicembre 2015. Sui “dubbi del Colle” titolava La
Repubblica del 24 giugno in prima pagina (“Manca ancora
il via libera alla riforma della Pubblica amministrazione
firmata dal ministro Madia. In particolare il Colle,
ricevuta parte della riforma, avrebbe sollevato alcuni dubbi
sulle regole di pensionamento dei magistrati chiedendo al
governo di rivedere il testo”).
Lo stesso giorno il Corriere della Sera titola in
prima “I rilievi del Quirinale sui decreti”. Una frase
eloquente accompagnata da una vignetta di Giannelli
intitolata “Il minestrone” che un Renzi in veste di
cameriere offre a Napolitano dicendo “c’è di tutto”. La
risposa del Capo dello Stato è “si sente” e rimette. “Un
decreto-omnibus, un provvedimento monstre” è l’incipit
di Marzio Breda. La dice tutta.
Anche sulla “definizione delle funzioni dell’Autorità
nazionale anticorruzione” (art. 19 del decreto legge) sembra
ci siano stati più aggiustamenti suggeriti dal Presidente
dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone sulla base
della sua lunga esperienza nella lotta alle mafie
notoriamente dedite a pratiche corruttive.
Comunque sia andata, secondo queste notizie giornalistiche
univoche il decreto pubblicato non sarebbe identico a quello
adottato dal Consiglio dei ministri, come dovrebbe essere e
come deve risultare dal verbale dell'adunanza collegiale del
governo.
E' stato spesso così. Quante volte i provvedimenti
governativi, non solo i decreti legge, sono stati approvati
"salvo intese", secondo il linguaggio dei comunicati stampa
di Palazzo Chigi. Per dire che al momento dell’approvazione
di quel determinato provvedimento rimanevano, comunque,
alcune esigenze di messa a punto da concordare. Profili
generalmente tecnici, sia pure importanti, ma che non
coinvolgevano la scelta “politica” propria del provvedimento
deliberato.
Ovviamente nessuno nega il diritto del Governo, re melius
perpensa, di modificare il testo approvato prima della
firma del Presidente della Repubblica . Ma per farlo occorre
una nuova deliberazione del Consiglio dei ministri. Nuovo
testo, nuova deliberazione. Difatti, alla vigilia della
firma del Capo dello Stato si era diffusa la notizia che il
decreto sarebbe tornato in Consiglio. Anzi era stata
indicata anche una data, il 20 o il 27 giugno, un venerdì,
giorno nel quale è consueto che si riunisca il Consiglio dei
Ministri.
Queste considerazioni, alla luce dell’ampio dibattito che si
è sviluppato sulla stampa, sono certamente imbarazzanti.
Sarebbe stato sufficiente riunite i ministri qualche minuto
prima che il Capo dello Stato firmasse il decreto che
avrebbe contenuto nel preambolo una frase del genere: Viste
le deliberazioni del Consiglio dei Ministri, adottate nelle
riunioni del 13 e del…”.
Forse a Palazzo Chigi ci vorrebbe qualche giurista che
“sussurrasse al potente di turno”!
30 giugno 2014
A proposito della rimozione del Prefetto di Perugia
Al termine del Consiglio dei Ministri, nell’ormai consueta
conferenza stampa, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi,
ha lodato il Ministro dell’interno per la prontezza con la
quale ha rimosso il Prefetto di Perugia, Antonio Reppucci,
per alcune incaute affermazioni contenute in una intervista
a proposito della diffusione della droga nel capoluogo
umbro.
La vicenda è stata commentata da una mamma alla
quale abbiamo dato ospitalità.
S. S.