APRILE 2014
L’intollerabile intolleranza del Ministro Boschi
che richiama all’ordine il Sen. Chiti
di Salvatore Sfrecola
“Con la Costituzione non si scherza, quando la riforma
arriverà alla Camera bisogna che ci guardiamo negli occhi e
decidiamo se vogliamo far funzionare il sistema oppure no…”.
Le parole di Pierluigi Bersani mentre inizia l’esame dei
disegni di legge costituzionale per la riforma del Senato
sono pesanti come pietre e richiamano l’attenzione
sull’oggetto della riforma, la Costituzione, la legge delle
leggi, quella che delinea la struttura ed il funzionamento
dello Stato.
C’è voluto a mettere giù quei 139 articoli, tra il
1946 e il 1947, in un confronto spesso teso tra le forze
politiche, talune delle quali di nuovo ingresso nella storia
costituzionale dello Stato unitario, come il Partito
Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Eppure tutte
ebbero la consapevolezza del ruolo che erano chiamate a
svolgere, che consideravano caratterizzato da un che di
sacrale. Ed impegnarono nei lavori dell’Assemblea
costituente i loro uomini migliori, politici e giuristi di
rango. Perché le costituzioni non sono leggi che si cambiano
ad ogni legislatura, sono l’impronta dello Stato, durano
decenni, a volta secoli. Basti pensare che il Regno Unito
vanta ancora norme stabilite nella Magna Charta
Libertatum, datata 1215.
Si comprende, dunque, il richiamo di Bersani alla
serietà dell’impegno che i partiti si sono dati nel
proporre, sia pure con riferimento a modelli diversi, la
riforma del Senato, la Camera Alta, come si diceva un tempo,
per superare il cosiddetto bicameralismo “perfetto” o
“paritario”, come si definisce un sistema parlamentare nel
quale le due camere hanno gli stessi poteri.
Proposte dei partiti, gli attori naturali della
legislazione. Ma vi è anche un disegno di legge del Governo
che ipotizza un’assemblea non elettiva espressione delle
autonomie, soprattutto dei sindaci.
Non entro nel merito delle proposte, sulle quali
ci sarà altra occasione di approfondimento, per soffermarmi
sul clima che si è venuto a creare, preoccupante per lo
spirito di intolleranza che sottende e che si è manifestato
soprattutto nei rapporti tra il Ministro per le riforme,
Maria Elena Boschi, che gestisce l’iniziativa governativa, e
il Sen. Vannino Chiti, autorevole esponente del Partito
Democratico, già Ministro e Presidente della Regione
Toscana, autore, insieme ad altri colleghi, di una diversa
e, per certi versi inconciliabile, ipotesi di riforma
costituzionale.
“Anche noi vogliamo il superamento del
bicameralismo paritario: solo la Camera avrà il rapporto
fiduciario con il Governo e l’ultima parola sulla gran parte
delle leggi”, precisa Chiti. “La differenza principale
riguarda le modalità di elezione del Senato e le sue
competenze: la proposta del governo è che i sindaci e i
consiglieri regionali eleggano alcuni di loro anche
senatori; che i Presidenti delle regioni e i sindaci delle
città capoluogo di regione siano senatori di diritto. Noi
proponiamo che i senatori siano eletti dai cittadini con una
legge di tipo proporzionale e le preferenze, in concomitanza
con le elezioni per i Consigli regionali”.
Il
Ministro Boschi chiede di ritirare il disegno di legge.
Ottiene un rifiuto. Il Sen. Chiti insiste. Anche perché il
suo progetto ottiene l’attenzione del Movimento Cinque
Stelle e di alcuni esponenti di Forza Italia.
"Ritengo - argomenta Chiti - che nella situazione italiana,
nel 2014, che non è il 1996, con la crisi di fiducia tra
cittadini e istituzioni e il desiderio, a cui dare una
risposta, di partecipazione diretta, la soluzione
preferibile per la riforma del Parlamento sia una forte
riduzione del numero dei deputati e dei senatori e un Senato
eletto a suffragio universale". "È così - sottolinea - in
altri paesi che hanno superato, come noi dobbiamo
urgentemente fare, il bicameralismo paritario, basti
prendere l'esempio della Spagna. In ogni caso confermo che
se in Italia, come in Germania, si andasse verso un
federalismo solidale, la soluzione rigorosa del Bundesrat, e
cioè presenza dei soli governi regionali con voto unitario,
sarebbe per me assolutamente accettabile".
"È
evidente a tutti - aggiunge Chiti - che la riforma del
Senato proposta dal governo non ha niente a che vedere con
il Bundesrat. Naturalmente dovrebbe essere sul modello
tedesco anche la legge elettorale per la Camera dei
Deputati. La Costituzione va vista nel suo insieme: esige
equilibri tra le istituzioni e tra i poteri. Non si può
avere per la Camera una legge ipermaggioritaria, come è l'Italicum,
ricentralizzare molte competenze, come è nella proposta del
governo del nuovo Titolo V, e indebolire le funzioni di
garanzia oltre che di rappresentanza dei territori del
Senato. Se le modifiche della Costituzione non hanno un
raccordo unitario - conclude - non si realizza un
aggiornamento coerente ma si rischia di impoverire la nostra
democrazia".
La vicenda del contrasto tra il Ministro ed il
Senatore fa emergere un profilo, certo non nuovo, ma
rilevante, dei rapporti tra la direzione dei gruppi
parlamentari ed i singoli deputati e senatori e, in questo
caso, tra senatori ed il governo presieduto dal Segretario
del Partito. E pone problemi di indipendenza del singolo
parlamentare anche nei confronti del partito di appartenenza
secondo quello che può essere definito lo “statuto della
libertà dei parlamentari” ai sensi dell’art. 67 della
Costituzione. “Il parlamentare – ha precisato la Corte
costituzionale nella sentenza n. 14 del 1964 – è libero di
votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche
libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente
disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare
per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del
partito”. Pertanto i regolamenti parlamentari garantiscono
al singolo parlamentare il diritto di esprimere la propria
opinione quando sia in dissenso con il gruppo di
appartenenza.
Insomma è un problema di democrazia politica e
parlamentare. Non rispettare la libertà di iniziativa
legislativa di deputati e senatori incide su principi
fondamentali dell’esercizio della rappresentanza politica,
su quel libero mandato che parte della dottrina ritiene
costituisca un vero e proprio diritto, il “potere di
rappresentare la Nazione” (art. 67, Cost.).
Ma forse il Ministro Boschi, nell’impeto giovanile e nella
fedeltà assoluta al leader del Partito e del Governo, non si
è data carico di approfondire come conciliare l’appartenenza
al partito ed il rispetto di una prerogativa costituzionale,
che marca il confine tra la democrazia parlamentare ed
altro.
24 aprile 2014
La riforma del Senato e la “svolta monarchica” di Eugenio
Scalfari
Proposte per una camera veramente “alta”
di Salvatore Sfrecola
Alla riforma del Senato proposta dal Governo non hanno
manifestato contrarietà solamente i “professoroni”, come
Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme costituzionali,
ha qualificato, con una buona dose di supponenza, Stefano
Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e gli altri studiosi che hanno
firmato un appello contro il complesso delle riforme istituzionali proposte da Matteo
Renzi e sostenute (sembra) da Silvio Berlusconi, ritenute
espressione di democrazia plebiscitaria basata su una
centralizzazione dei poteri statali, unita al rafforzamento
delle competenze del Presidente del Consiglio, la
trasformazione del Senato e una legge elettorale con un
premo di maggioranza molto consistente.
Così Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà,
Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli,
Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci,
Simona Peverelli, Salvatore Settis e Costanzo Firrato hanno
preso carta e penna ed hanno manifestato le loro
preoccupazioni per le conseguenze di un progetto a loro
giudizio destinato a “stravolgere la nostra Costituzione da
parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014”.
Quei professori non sono i soli ad esprimere dubbi ed a
formulare proposte alternative. A cominciare da
Eugenio Scalfari, andato giù pesante con critiche mirate e
un progetto di “Camera Alta” che a taluno è parso evocasse
l’esperienza del Senato del Regno.
Nel fondo di domenica 6 aprile (In povertà sua lieta
sciala da gran Signore) Scalfari ha scritto: ”Matteo
Renzi è per il cambiamento? Anche noi siamo per il
cambiamento. Renzi è per le riforme? Anche noi siamo per le
riforme. Renzi è per la prevalenza della politica
sull'economia? Noi siamo per l'economia politica, forse è la
stessa cosa detta con altre parole, ma forse no, dipende.
Renzi è per gli annunci ai quali seguiranno i fatti? Noi
siamo per i fatti e per i programmi che inquadrano i fatti
già avvenuti nel quadro di un sistema. Infine, Renzi è per
la riforma del Senato ed anche noi lo siamo, ma c'è riforma
e riforma, cambiamento e cambiamento, innovazione e
innovazione”. Aggiungendo “Il problema dunque è questo: dare
alla parola Senato un nuovo ma sostanzioso significato.
Oppure tanto vale abolirlo”.
Ed ecco la critica: “Il Senato delle autonomie non ha senso
alcuno, c'è già la conferenza Stato-Regioni, che comprende
anche i Comuni; è formata da tutti i governatori e da tutti
i sindaci ed ha un comitato ristretto eletto dall'assemblea
di tutti i suddetti. Non costa un centesimo se non il
viaggio a Roma quando l'incontro col governo ha luogo. Il
Senato delle autonomie sarebbe un inutile doppione”. E
ricorda che, per i romani, Senatus populusque era
l’unione del Senato e del Popolo dell’Urbe perché
nell’evoluzione dell’istituzione, tra regno e repubblica,
quell’assemblea aveva comunque mantenuto l’auctoritas
e il consilium, con ruolo, rispettivamente, di
approvazione della volontà manifestata dal populus
nei comitia, in funzione del controllo di
costituzionalità delle deliberazioni comiziali e di ausilio
alle decisioni sovrane, attuando quella costituzione mista
che il greco Polibio individuava proprio nella relazione
finalistica tra auctoritas e consilum. Da
segnalare che il Senato di Roma mantenne anche nell’impero
un ruolo costituzionale fondamentale.
L’iniziativa di Renzi tende esplicitamente al superamento
del bicameralismo “perfetto” o “paritario”, caratterizzato,
come sappiamo, dall’esistenza di due assemblee titolari di
analoghe attribuzioni, differenziate solamente
nell’elettorato attivo (25 anni) e passivo (40 anni) e nella
identificazione dei collegi elettorali, essendo il Senato
eletto “a base regionale” (art. 57 Cost.). Troppo poco, si
dice, per giustificare due Camere, la cui presenza allunga
naturalmente i tempi della produzione legislativa, spesso
con ripetute “navette” tra Montecitorio e Palazzo Madama,
anche se l’esperienza, dall’entrata in vigore della
Costituzione ad oggi, insegna che più volte la doppia
lettura ha rimediato a svarioni giuridici e ad errori
politici, spesso gravi. E ciò nonostante sono state
approvate leggi dichiarate incostituzionali dalla Consulta.
Il dubbio che la scelta di due camere paritarie fosse utile
al buon funzionamento della democrazia e all’esercizio della
funzione legislativa l’avevano avuta anche alcuni dei
costituenti. Ed anche negli anni successivi il bicameralismo
è stato argomento di discussione tra gli studiosi ed i
politici, come dimostrano, tra le altre, le riflessioni di
Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la
Costituzione (cosiddetta “dei 75”) consegnate in vari
scritti negli anni successivi. Ricordando che “quanto ai
poteri delle due Camera, quasi tutte le Costituzioni che le
conservano, danno, nel dissenso, prevalenza ad una di esse”
(La Costituzione italiana: lineamenti e problemi aperti,
in Comitato nazionale per la celebrazione del primo
decennale della promulgazione della Costituzione (a
cura),Raccolta di scritti sulla Costituzione. Studi sulla
Costituzione, Milano, Giuffré, 1958, III, 492).
Se ne è tornato a discutere con insistenza più di recente,
fin dal primo governo Berlusconi (1994), con critiche ai
tempi lunghi della produzione normativa tanto da
giustificare il ripetuto ricorso alla decretazione
d’urgenza, con provvedimenti approvati il più delle volte
sulla base di maxiemendamenti sorretti da mozioni di
fiducia, con l’effetto di limitazione del diritto di
emendamento dei parlamentari, nonostante, come vedremo,
maggioranze molto consistenti.
Oggi si dice che semplificare significava anche risparmiare,
un verbo denso di suggestioni in un momento in cui si
afferma l’esigenza di ridurre i costi della politica.
Infatti oggi la riforma del Senato proposta dal Governo
prevede meno senatori, non eletti da designati da enti
locali, senza diritto ad una indennità. Anche se qualcuno ha
osservato che comunque una diaria andrà senz’altro
riconosciuta per viaggio, vitto e alloggio. Mentre su
Twitter vi è chi ha osservato che i nuovi senatori non
potrebbero fare a meno di una segreteria e, ovviamente, di
una segretaria.
E qui, passando dalla critica alla proposta, Scalfari, in
alternativa al progetto governativo, propone una Camera
Alta, come si diceva un tempo, con un ruolo politico
significativo. Politico nel senso più nobile e ampio, con un
ruolo di garanzia di legalità efficienza e buona
amministrazione, con un raccordo con la cultura, la scienza,
e le istituzioni.
Infatti. “il Senato non dovrà più votare la fiducia al
governo né approvare il bilancio dello Stato e la
legislazione connessa, salvo che non si ravvisi una
violazione costituzionale. Sulla costituzionalità di tutti
gli atti del governo il Senato potrebbe, anzi dovrebbe
esercitare la sua vigilanza allo stesso modo in cui
l'esercita la Camera. Così pure potrebbe, anzi dovrebbe
esercitare un accurato controllo sulla pubblica
amministrazione, tanto più rigoroso in quanto la Camera
esprime il governo e lo sostiene con la sua fiducia. Il
Senato è dunque il ramo del Parlamento più consono al
controllo della regolarità e dell'efficienza della pubblica
amministrazione. Si dirà che una parte di questo controllo è
affidato alla Corte dei Conti, ma quella è una magistratura
che persegue irregolarità o addirittura reati di natura
contabile”. Laddove il ruolo del Senato sarebbe politico.
“Infine il Senato potrebbe, anzi dovrebbe svolgere un ruolo
culturale approfondendo temi scientifici, sanitari,
ecologici, umanistici, che spesso sono affrontati dal
governo e dalle Regioni senza preparazione e quindi
compiendo errori che possono essere di grave nocumento per i
governati. Per adempiere a questo compito il Senato dovrebbe
esser composto da un certo numero di membri che
rappresentino altrettante "eccellenze" e le mettano a tempo
pieno a disposizione del paese. Non possono certo essere
eletti, ma nominati dal capo dello Stato che potrà avvalersi
di rose di nomi fornite da Accademie culturali, Università,
scuole specializzate”.
Per aggiungere che “I temi per fare dell'attuale Senato non
una scatoletta vuota ma una Camera Alta nel pieno senso
della parola, sono questi e su di essi si può e anzi si deve
svolgere un libero dibattito che porti ad una legge
costituzionale idonea a costruire un'equilibrata
architettura costituzionale”. Concludendo che “in una fase
in cui si aumenta il potere decisionale del governo e
soprattutto quello del premier, annullare completamente una
delle due Camere configura una tendenzialità autoritaria
estremamente rischiosa specie in tempi di partiti
personalizzati. La premiership è cosa del tutto diversa
dall'attuale presidenza del Consiglio. Diversa e
probabilmente necessaria purché opportunamente bilanciata. I
poteri e il rapporto tra di essi in Usa tra il Presidente
degli Stati Uniti e il Congresso ne sono la prova,
confortata da quella del Regno Unito britannico nel rapporto
tra il premier e i Comuni. Congresso in America, Camera dei
Lord in Gran Bretagna sono due esempi da non perder di vista
in Italia e nella futura Europa nel giorno auspicabile in
cui diventerà un vero Stato federale”.
È sembrato che Scalfari si sia ispirato, senza citarla,
all’esperienza del Senato del Regno d’Italia. Lo hanno
notato anche alcuni interventi su Twitter, i quali hanno
perfino suggerito, in tono scherzoso, che il quotidiano
fondato da Scalfari cambiasse nome, da La Repubblica
a La Monarchia.
Dove, dunque, le somiglianze con la Camera Alta come
delineata dall’art. 33 dello Statuto Albertino? Composto di
“membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi
l’età di quarant’anni compiuti”, i senatori venivano scelti
tra: 1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato; 2° Il
Presidente della Camera dei Deputati; 3° I Deputati dopo tre
legislature, o sei anni di esercizio; 4° I Ministri di
Stato; 5° I Ministri Segretari di Stato; 6° Gli
Ambasciatori; 7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di
tali funzioni; 8° I Primi Presidenti e Presidenti del
Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti; 9° I
Primi Presidenti dei Magistrati d’appello; 10° L’Avvocato
Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il
Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni; 11° I
Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre
anni di funzioni; 12° I Consiglieri del Magistrato di
Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di
funzioni; 13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali
presso i Magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni;
14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare; Tuttavia i
Maggiori Generali e i Contr’Ammiragli dovranno avere da
cinque anni quel grado in attività; 15° I Consiglieri di
Stato, dopo cinque anni di funzioni; 16° I Membri dei
Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro
presidenza; 17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di
esercizio; 18° I membri della Regia Accademia delle Scienze,
dopo sette anni di nomina; 19° I Membri ordinarii del
Consiglio superiore d’Istruzione pubblica, dopo sette anni
di esercizio; 20° Coloro che con servizii o meriti eminenti
avranno illustrata la Patria; 21° Le persone, che da tre
anni pagano tre mila lire d’imposizione diretta in ragione
de’ loro beni, o della loro industria”.
Sulla base di queste indicazioni statutarie nel tempo furono
nominati senatori personalità eminenti della cultura, delle
arti e delle scienze, da Alessandro Manzoni a Giuseppe Verdi
a Giosuè Carducci, Maffeo Pantaleoni, Benedetto Croce,
Giovanni Gentile, Luigi Einaudi, matematici come Ulisse
Dini, Francesco Brioschi, Luigi Cremona Giuseppe Colombo,
sul cui manuale, ricorda Giovanni Vittorio Pallottino (Cultura
e scienza nel Senato di ieri, in Nuova Storia
Contemporanea, la rivista diretta da Francesco
Perfetti), hanno studiato generazioni di ingegneri. Poi
fisici come Antonio Pacinotti, Augusto Righi, Guglielmo
Marconi, Galileo Ferraris, Eugenio Morelli, Carlo Forlanini,
Antonio Cardarelli, nomi di rilievo internazionale a tutti
noti.
Il tema della utilità di “introdurre nella Camera alta una
componente di esperti e competenti” lo hanno ripreso ieri
Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani su La Domenica
(Per un Senato previdente, a pagina 37) de Il
Sole-24 Ore che suggeriscono l’integrazione di
quell’assemblea con personalità che per la loro esperienza e
preparazione “potrebbero, quando propongono modifiche alle
leggi approvate dalla Camera, far presente i risultati della
riflessione della scienza e della cultura”. Ugualmente
Stefano Merlini sulla stessa pagina (Le garanzie da
reintrodurre) giudica “inaccettabile” la proposta
governativa, in quanto “la condivisibile abolizione del
“bicameralismo perfetto” per ciò che riguarda sia la fiducia
al governo che la approvazione delle leggi di indirizzo
politico derivanti dalla fiducia non può coincidere con la
brutale cancellazione della componente elettiva del Senato
stesso, anche perché la presenza di una significativa quota
di senatori eletti dediti in maniera esclusiva all’esercizio
delle loro funzioni appare indispensabile per il
mantenimento di un alto livello qualitativo dell’organo e
per la stessa configurabilità del principio della
responsabilità politiva degli eletti nei confronti dei loro
elettori”.
Perché i Costituenti vollero il
bicameralismo,
e lo vollero “perfetto” nonostante del ruolo delle due
camere si sia discusso a lungo in Italia anche al tempo del
Regno? I
Costituenti – ha scritto in proposito su BlitzQuotidiano
Michele Marchesiello, già magistrato ordinario, esperienze
internazionali anche come docente, una vasta attività
pubblicistica - vollero trovare un ragionevole equilibrio
tra visioni e “miti” contrastanti: in particolare tra quello
“roussoviano” della sovranità popolare come unica fonte
della legge e quello “romantico” della rappresentanza
corporativa degli interessi. Il primo difeso dalla sinistra,
il secondo propugnato dalla componente “conservatrice”.
In base al primo mito - sottolinea - ,
non poteva esservi che una sola camera, secondo il detto di
Saint Simon, per cui “la maggioranza deve imporre le sue
leggi” e “la verità è quella che esce dalla maggioranza,
quindi dall’unica camera (o dalle due camere, purché
provengano dalla stessa sorgente)”.
In base al secondo mito, definito da Luigi
Einaudi come un ‘ritorno romantico al medioevo’, l’individuo
si realizza compiutamente solo nel ceto o nel gruppo
professionale cui affida la difesa dei propri interessi”.
“Sarebbe stato
quindi ragionevole – secondo questo punto di vista – che
nella Camera la fonte della rappresentanza fosse la
sovranità popolare di cui ognuno è detentore parcellare,
mentre nel Senato la rappresentanza dovesse essere
l’espressione di quell’appartenenza “sociale”, determinata
in pratica dal lavoro e dalla partecipazione alla
produzione”.
È un po’ il
modello tenuto presente dall’Assemblea Costituente
nell’istituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del
Lavoro (C.N.E.L.), che oggi il governo intende sopprimere,
nel quale sono presenti lavoratori e “produttori”, in una
società che richiede l’adozione di norme spesso ad alto
contenuto tecnico specialistico per disciplinare situazioni
complesse che non sono nella conoscenza dei rappresentanti
del popolo per cui questi ricorrono all’ausilio degli uffici
parlamentari o ministeriali, quando non alle lobby
interessate alle stesse norme.
La proposta di
Scalfari, sulla quale si può certamente discutere quanto al
metodo di scelta delle categorie ed alle attribuzioni
legislative e non della seconda camera, ha indubbiamente il
merito di considerare l’esigenza di un contemperamento di
rappresentanza popolare e di esperienza tecnica.
Quanto alla
inefficienza del bicameralismo sotto il profilo del
rallentamento della produzione legislativa, l’esperienza ci
dice che maggioranze poderose, le più consistenti della
storia della Repubblica, non sono riuscite molte volte ad
assicurare un iter legislativo celere. In questo senso le
responsabilità – pur nella condivisione della necessità di
andare oltre il bicameralismo “perfetto” – sono altrove, in
primo luogo nella incapacità dei partiti di assumere un
atteggiamento condiviso e di difenderlo, nelle commissioni e
in aula, e dei gruppi parlamentari di essere coerenti
rispetto alle scelte fatte. Per incapacità, per influenza
delle lobby, per impreparazione del parlamentari rispetto
alle problematiche tecniche oggetto dello specifico
provvedimento normativo? C’è indubbiamente un po’ di tutto
questo.
Peraltro, la
strada per rendere efficiente la produzione legislativa, dal
punto di vista qualitativo e dei tempi, è quella indicata
dal Governo? I dubbi sono molti ed attengono alla
preoccupazione, manifestata dai “professori” e non solo, per
il grave squilibrio che si verrebbe a determinare, con la
sostanziale eliminazione del Senato, nel bilanciamento tra i
poteri dello Stato a tutto vantaggio di un esecutivo
dinamico. Considerato che l’efficienza richiede una scelta
meditata preceduta da adeguata conoscenza della materia
sulla quale intervenire e da una prefigurazione degli
effetti, da quella simulazione che i buoni legislatori sanno
fare da sempre per verificare la bontà delle scelte.
Un metodo che
deve essere la regola di qualunque intervento normativo. Se,
poi, parliamo di Costituzione, cioè della legge fondamentale
dello Stato, quella che ne assicura il buon funzionamento,
serve il massimo della cautela. E sentir dire “se dovessimo
accorgerci di aver sbagliato rimedieremo” fa un certo senso
in chi crede nelle istituzioni.
14 aprile 2014
L’opinione: La legge 40, i ricorrenti e i giudici
di
Salvatore Sfrecola
Il dibattito sulla legge 40, tra opinioni di medici e
giuristi, cattolici e laici, ha dato luogo a convegni,
ricorsi ai giudici e sentenze, da ultimo a quella della
Corte costituzionale che ha ritenuto non conforme alla legge
fondamentale della Repubblica il divieto di inseminazione
eterologa.
Non conosciamo le motivazioni della sentenza, ma già le
polemiche affollano giornali e dibattiti televisivi.
Non possiamo trascurare un tema che certamente attiene a
valori etici e giuridici ed alla concezione della famiglia
“come società naturale fondata sul matrimonio”.
Si legge nell’art. 29 della Costituzione la quale riconosce
altresì il ruolo fondamentale della procreazione e
dell’educazione dei figli, anche se nati “fuori dal
matrimonio” (art. 30).
Pertanto la Repubblica “agevola con misure economiche e
altre provvidenze la formazione della famiglia e
l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo
alle famiglie numerose” (art. 31).
Questa normativa ha trovato applicazione nelle leggi
ordinarie non sempre in modo equilibrato. Ad esempio la
legislazione tributaria, in alcune situazioni , ha favorito
le separazioni fittizie dei coniugi per evitare aggravi
fiscali o per ottenere altri vantaggi. Ad esempio la donna
che appare formalmente “nubile” ha la precedenza quando
chiede l’iscrizione al nido del figlio. Altre situazioni
dimostrano l’incongruenza della legislazione statale. Anche
la legge 40 probabilmente ha subito gli effetti della fretta
e rischia (ma ci riserviamo di tornare sul tema una volta
conosciute le motivazioni della sentenza) di creare nuovi
problemi applicativi.
C’è, poi, il tema dei diritti, inspiegabilmente riferiti
solo alla coppia. Si legge, infatti, che i figli non
avrebbero il diritto di sapere chi è il genitore
naturale.-Insomma c’è confusione, molta confusione.
Sono da sempre convinto che sia stato un errore non
regolamentare certe situazioni di fatto in modo che ai
diritti facessero da contraltare i doveri, sempre, qualunque
sia la condizione giuridica della coppia.
Tanti problemi, come si vede, che è stato un errore lasciare
incancrenire nel tempo.
Cominciamo, dunque, a parlare della famiglia e del
matrimonio, erroneamente ritenuta materia di carattere
religioso, più esattamente cattolico, sicché le opposte
schiere hanno predisposto barricate che rendono difficile
individuare soluzioni ragionevoli che perseguano il fine
costituzionale di agevolare la costituzione delle famiglie e
la procreazione ed educazione dei figli. Che è anche
interesse dello Stato. Ci perviene un primo contributo della
dottoressa Dina Nerozzi, neuropsicologa, che esprime una sua
valutazione anche del ruolo del giudici troppo spesso
chiamati a pronunciare sentenze in una materia nella quale
la legislazione è carente e confusa.
Demolizione Legge 40: dov’è il cuore del problema?
di Dina Nerozzi
La Legge 40 che aveva in animo di regolamentare quello che era
definito, prima della sua introduzione, come un far west nel
campo della procreazione medicalmente assistita, è stata
smantellata a colpi di sentenze della magistratura.
Purtroppo non si tratta di un fatto isolato, ormai abbiamo ben
compreso chi detta le regole in Italia, e non solo, come
avvertiva già nel 2003 Robert Bork, giudice della Corte
d’Appello del distretto di Columbia, con il suo “Coercing
virtue: the Worlwide Rule of Judges”.
In ogni dittatura la magistratura esula dal suo ruolo
istituzionale, di attento esecutore delle leggi, e diviene
attiva politicamente, imponendo quelle regole che la
politica non ha la forza di imporre perché priva del
consenso popolare.
Il quesito cui la Consulta ha dato seguito, era stato posto dal
tribunale di Firenze, cui si erano rivolti un uomo e una
donna che consideravano il divieto di fecondazione eterologa
una discriminazione nei confronti delle coppie sterili. Il
tribunale interpellato, ritenendo che tale divieto fosse in
contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che sancisce
l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge,
poneva il quesito alla Corte Costituzionale.
Sull’onda della vittoria appena conseguita con la demolizione
della legge 40, il tribunale di Grosseto non ha voluto
perdere tempo e ha deciso di fare un ulteriore passo sulla
via del progresso ordinando di trascrivere nei registri di
stato civile il “matrimonio” tra due uomini, facendo così
saltare un altro paletto del Diritto Naturale. A detta del
giudice estensore dell’ordinanza “nel codice civile non è
individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle
condizioni necessarie al matrimonio”.
Mentre la ragione collettiva sembra assopita, per riprendere in
mano le redini di questa follia bisogna capire esattamente
quando è iniziato il glorioso processo che ha deciso di
mettere in soffitta le leggi della natura, ormai superata
dalla tecnologia umana, e da lì bisogna riprendere il
cammino. Tutto il resto è semplicemente inutile.
La deriva è iniziata nel 1948 quando l’OMS, sotto la direzione
del suo primo direttore generale Brock Chisholm, ha cambiato
la definizione di salute: dalla pragmatica definizione di
“Assenza di Malattia e Disabilità” a “Stato di completo
Benessere, fisico, psichico e sociale e non semplice
mancanza di malattia”. Una definizione utopica che aveva il
compito di aprire la strada al nuovo mondo progressista.
Con la nuova definizione di salute lo Stato ha promesso qualcosa
che non è umanamente raggiungibile e dunque diventa, di
fatto, un falsario. Quello che uno Stato può fare è cercare
di garantire le cure basilari ai suoi cittadini, ma non può
garantire la salute come un diritto. Per quello bisogna
rivolgersi a un altro indirizzo, che sta sopra le nostre
teste.
La nuova definizione era però la chiave indispensabile per aprire
le porte ai “diritti sessuali e riproduttivi”, vale a dire
contraccezione, aborto e riproduzione medicalmente assistita
per tutti quelli che lo desiderano, e a spese del SSN.
La riforma della legge 40 attuata dalla Consulta significa una
sola cosa: l’assenza di un figlio è da paragonarsi a una
malattia e lo Stato deve provvedere a sanare questa
situazione discriminatoria utilizzando tutti i mezzi messi a
disposizione dalla tecnologia. Punto.
A questo punto sorge la domanda poco romantica: chi paga? Se è un
diritto deve contribuire la comunità intera. Uno Stato alle
soglie della bancarotta, che fa fatica a garantire le cure
per i malati di cancro, ma che è così sensibile da voler
donare un figlio a chi non può averlo. Una volta un figlio
era considerato un dono della natura, o, a detta di qualcun
altro, un dono di Dio. Adesso è diventato un dono del SSN.
Un dono che però qualcuno deve pagare, dato che lo Stato non
ha risorse proprie, ma le deve chiedere ai cittadini con le
tasse.
Prima di assistere allo spettacolo di un SSN che sarà costretto,
per mancanza di fondi, a ridurre le cure essenziali ai
malati veri, che dovranno vedersela da soli, diamoci da fare
per far ritornare il bene della ragione nella politica
sanitaria. E’ necessario ritornare alla definizione
pragmatica di salute: “Assenza di Malattia e Disabilità”.
Non esiste altra strada.
12 aprile 2014
Stabat Mater
di Pergolesi a Santa Maria dell'Orto
Per gli appassionati di musica classica segnaliamo il
programma della Stagione concertistica 2014 dell'Associazione
Musicale Giacomo Carissimi.
Il primo concerto avrà luogo il 12 aprile, alle ore 19,
nella Chiesa di Santa Maria dell'Orto in Trastevere (via
Anicia 10) con Stabat
Mater di G. B. Pergolesi.
Seguiranno
Napoli prima e dopo il 17 maggio e
Arpa Celtica il 24 maggio.
Le riforme istituzionali e lo sguardo corto dei sindaci
di Salvatore Sfrecola
Si è molto enfatizzato negli ultimi anni il ruolo dei
sindaci, giungendo alla conclusione che fosse, in primo
luogo, da assumere ad esempio di una da tutti auspicata
riforma elettorale il sistema in vigore per le elezioni
comunali nelle quali centrale è la figura del candidato
“primo cittadino”. Si aggiungeva che il sindaco ha
esperienza concreta dell’amministrazione dovendo
programmare iniziative ed adottare atti di immediato
impatto sulla cittadinanza e, pertanto, verificabili negli
effetti. L’ho detto anch’io più volte criticando certa
ritrosia dei politici italiani dal misurarsi con la
gestione, al contrario di quanto avviene in altri paesi,
in particolare in Francia, dove politici di primo piano,
spesso conservando il ruolo di ministri, hanno
amministrato realtà importanti, da Parigi a Lione, da
Marsiglia a Tolone e via enumerando. Perfino un Presidente
del Consiglio di lungo corso, Jacques Chirac, ha governato
per anni la capitale della Repubblica.
Forti di questi esempi abbiamo visto con favore le
iniziative di Renzi, il suo impegno a Firenze e le
prospettive che andava indicando agli italiani. Uguale
attenzione è stata riservata alla scelta della
collaborazione di Graziano Delrio, incaricato di
Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, il
cuore della macchina Governo, per la sua esperienza di
sindaco di Reggio Emilia e di Presidente dell’A.N.C.I,
(l’Associazione dei comuni d’Italia).
Sbagliavamo, e lo stiamo sperimentando giorno dopo giorno:
il Direttore generale del Comune di Reggio Emilia diventa
Segretario generale della Presidenza del Consiglio e il
Comandante della Polizia Municipale di Firenze assume le
vesti di Capo del Dipartimento degli Affari Giuridici e
Legislativi a Palazzo Chigi, erede di Sorrentino, Potenza,
Zucchelli, tanto per fare nomi con i quali si sono
confrontate generazioni di amministrativisti.
Non siamo in Francia, infatti. Siamo nell’Italia dei
campanili, grande risorsa storica, culturale ed economica
di questo nostro Paese, ma che ha difficoltà a guardare
oltre il confine municipale, a pensare in grande, con
riguardo alla provincia, figuriamoci all’intero Paese.
Accade, così, che le idee che si formano nelle realtà
municipali siano rapportate alle esigenze della strada da
asfaltare, del traffico da regolare, della fontanella da
riattivare. Quel che si chiede al Sindaco, naturalmente,
cosa che non ha capito, ad esempio, il Sindaco di Roma
Alemanno che, preso dalla politica nazionale, non si è
occupato di quel che interessa i romani che, infatti, lo
hanno congedato in malo modo.
Chiusi nella dimensione municipale i sindaci hanno in
uggia il patto di stabilità interno, che impedisce loro di
spendere per investimenti anche quando hanno risorse
accantonate, ed hanno ragione, ma sono anche ostili ai
controlli, in primo luogo quelli della Corte dei conti
previsti nel decreto legge n. 174 del 2012, una scelta di
Governo e Parlamento, confortata da una recente sentenza
della Corte costituzionale, resa necessaria dalla cattiva
amministrazione di Regioni e Comuni disinvolti nella
utilizzazione di fondi pubblici, spesso fonte di sprechi e
comunque condizionata da una vasta corruzione, spesso
annidata nei grandi elettori dei politici locali. Perché,
è bene dirlo, la corruzione si annida anche nei piccoli
appalti di lavori e forniture, come dimostra
quotidianamente la cronaca giudiziaria.
Così, invece di auspicarli per dar conto alla
cittadinanza, in piena trasparenza, della loro buona
gestione, sotto il profilo della legalità e
dell’efficienza, i sindaci, dopo aver eliminato i
controlli interni, criticano quelli esterni, nonostante la
garanzia della loro (dei controlli) indipendenza. E così
Piero Fassino, Sindaco di Torino, nella sua veste di
Presidente dell’A.N.C.I. ha avuto da ridire su quel che
fanno le Sezioni regionali di controllo della Corte dei
conti le cui verifiche sarebbero troppo pervasive mettendo
a rischio l’autonomia degli enti, l’esercizio della loro
discrezionalità. Fassino ha esperienza e senso dello Stato
ma, nella veste di capo dei sindaci, ha dovuto cedere alla
demagogia municipale.
Si vede in questo la vista corta dei sindaci. D’altra
parte, quale esperienza nazionale può avere il sindaco di
una piccola pur nobilissima città (Firenze), culla
dell’arte? Avrà fatto certamente buone letture ma
l’esperienza è altra cosa. E Delrio, sindaco di Reggio
Emilia, una splendida e civile città l’amministrazione
della quale non può essere certamente una palestra per
amministrare l’Italia? Est modus in rebus!
Ne consegue che mentre di ipotesi di riforma dello Stato e
della forma di Governo sono piene di biblioteche, si
preannunciano sforbiciamenti che trovano l’unica origine
nel desideri di offrire alla pancia dei cittadini vittime
sacrificali. Ad essi si dice che i Tribunali
Amministrativi Regionali sono di impaccio alle attività
amministrative con le loro misure cautelari (che forse non
sarebbero necessarie se le amministrazioni locali
rispettassero le leggi), che forse anche il Consiglio di
Stato sarebbe da ridimensionare se non abolire. Ed è
iscritto all’o.d.g. del Parlamento un disegno di legge di
revisione costituzionale che propone un Senato, la più
antica e nobile istituzione della politica, assolutamente
inutile e la si gabella con finalità di risparmi
(ipotetici) basati sulla eliminazione della elezione
diretta e dell’indennità. E mi chiedo se, quando i sindaci
verranno a Palazzo Madama per discutere delle frattaglie
dei paesoni che rappresentano avranno o no una diaria per
spese di viaggio, vitto e alloggio. E quanto se ne
avvantaggeranno i comuni amministrati dal fatto che il
loro sindaco passerà qualche giorno la settimana a Roma
per indossare il laticlavio.
Poveri comuni, povera Italia! In mano a creature!
Quel che è peggio in questa situazione è la pusillanimità
e il servilismo di quanti, arruolati dalla squadra di
Governo, non hanno il coraggio di dire che le riforme sono
altra cosa, che non basta cambiare perché il nuovo sia
bene, che il terreno era stato ampiamente arato e
scegliere per fare presto e bene non sarebbe stato
difficile.
6 aprile 2014
Se Berlusconi fa saltare il tavolo
di Senator
Ricordo, ai tempi ai tempi della Bicamerale, la
Commissione per le riforme istituzionali presieduta da
Massimo D'Alema, che aveva prodotto nel corso di alcuni
mesi di lavoro una serie di relazioni nelle quali veniva
profondamente modificato il sistema istituzionale, la
forma di Stato e di governo, l’ordinamento della
magistratura.
Per lungo tempo le proposte che emergevano in commissione
furono avallate dalla maggior parte delle forze politiche
di centrodestra e di centrosinistra. Si parlava di una
entente cordiale tra D’Alema e Berlusconi e sembrava
certa una conclusione condivisa dei lavori, quando
improvvisamente Berlusconi fece fallire l'iniziativa.
Devo dire che mentre alla vigilia di quell'evento la
maggior parte degli osservatori era convinta che ormai
l'accordo fosse solido e avrebbe portato alla
presentazione di un disegno di legge di riforma
costituzionale nel senso delineato nelle relazioni che la
Commissione aveva elaborato, io, che ne facevo parte,
avevo da tempo maturato la convinzione, mai pubblicamente
espressa ma percepibile nell’atteggiamento di molti, che
non sarebbe stato interesse di Berlusconi dare a D'Alema
la corona del riformatore della Costituzione.
Anche oggi, nel momento in cui il governo e il partito del
Presidente del consiglio accelerano sulle riforme, devo
convenire con alcuni illustri costituzionalisti, assai
poco meditate non comprendo quale utilità possa venire a
Berlusconi ed al centrodestra da un successo di Renzi le
cui intuizioni consegnate in alcuni titoli di agenda,
dalla riforma dell'amministrazione a quella del fisco alla
semplificazione istituzionale trovano nelle proposte del
governo soluzioni fortemente criticabili sul piano tecnico
e anche della effettività dei risultati che si possono
attendere.
In queste condizioni, pur essendo evidente che gli annunci
hanno ancora una volta una qualche suggestione, la
riduzione dei costi della politica, l’accelerazione dei
pagamenti delle P.A., una manciata di euro in più in busta
paga, comincia a farsi strada la convinzione che, passando
dalle parole ai fatti, molte idee si sgretolano, molte
aspettative rimangono deluse, e che dietro le parole ci
sia poco, a volte anzi niente con la conseguenza che
comincia ad emergere una qualche delusione rispetto alle
promesse di Renzi. Una importante carta elettorale per
Berlusconi.
In sostanza c’è da chiedersi se Berlusconi ha interesse a
comparire come coautore di riforme di scarso impatto sulla
gente (al di là degli 85 euro il cui effetto lo stesso
premier ha immediatamente minimizzato quando ha fatto
l’esempio della maestra che con quella somma compra un
libro di più o porta una volta i figli a mangiare una
pizza).
Una domanda alla quale si deve dare una risposta negativa.
Perché il leader di Forza Italia non ha interesse a
condividere con Renzi riforme che, ove avessero effetti
positivi, il Presidente del consiglio se le intesterebbe,
anche quelle sollecitate o volute dal Cavaliere, perché
potrebbe dire che comunque è stato lui l'iniziatore della
riforme e lui che ha coinvolto Berlusconi. Nessun
vantaggio per Forza Italia, perché sui mass
media non appare un Berlusconi che incalza il
Presidente del consiglio il quale, semmai, è colui che lo
trascina.
Molto meglio per Berlusconi puntare su alcune situazioni
in cui le promesse non sono state mantenute o spiegare,
come nel caso della riforma del Senato, che riforma in
effetti non è. Che senso ha un’assemblea di sindaci e di
presidenti delle regioni con i loro piccoli e grandi
problemi sempre comunque visti nell’ottica municipale o
poco più lunga, mai comunque in una visione nazionale,
come dimostra il fallimento della riforma del 2001 del
titolo V della Costituzione che non pochi problemi ha
portato alla governabilità dell’Italia tanto che proprio
la sinistra, che quella riforma aveva voluto, è oggi in
prima fila tra quanti intendono modificarla.
In queste condizioni Berlusconi ha interesse a far saltare
il tavolo, non tanto per un gretto egoismo di partito, ma
perché non è condivisibile da parte di un’ampia fascia
dell’elettorato moderato lo spirito col quale si stanno
portando avanti le riforme: se sbagliate le cambiamo. Come
se si trattasse di una leggina qualunque e non di
intervenire sulla Costituzione, la legge delle leggi per
definizione destinata a durare nel tempo.
Un modo di ragionare che dimostra i limiti dello spirito
innovatore, quello del “Sindaco d’Italia”, che era
sembrata una buona idea prima di accorgerci che il
Sindaco, in realtà, guarda ai confini del contado e non
più oltre. Infatti non siamo in Francia dove l’esperienza
municipale da sempre guarda alla grande politica
nazionale. Questa è l’Italia dei campanili, con tutti i
vantaggi e i limiti di questo approccio ai problemi.
5 aprile 2014