SETTEMBRE 2013
8 settembre 1943 – 8 settembre 2013
La storia restituirà l’onore a Re Vittorio Emanuelle III
di Salvatore Sfrecola
La storia, quando gli avvenimenti vengono ricostruiti
nell’imminenza dei fatti, ovunque, e in ogni tempo, la
scrivono i vincitori, in pratica gli “intellettuali” al
servizio del potere, che deve affermare la propria
legittimazione e, contemporaneamente, nascondere le pagine
buie del passato che i nuovi potenti vorrebbero fossero
dimenticate. C’è, poi, in molti il desiderio di togliersi
qualche sassolino dalle scarpe in una sorta di resa dei
conti che accompagna ogni cambio di regime. Lo fanno
puntando su qualche avvenimento di facile presa
sull’opinione pubblica, spesso ricorrendo ad elementi di
carattere emozionale. Sempre sbrigativamente.
È di questo genere la polemica che viene di anno in anno
alimentata con riferimento alla decisione del governo
Badoglio di abbandonare Roma la mattina del 9 settembre
1943, all’indomani della comunicazione dell’avvenuto
armistizio con gli Angloamericani, una volta constatata la
impossibilità di difendere la Capitale dalle preponderanti
forze tedesche. Una vulgata che coinvolge la
persona del Re Vittorio Emanuele III.
Fu una fuga, considerate le conseguenze che l’abbandono
della Capitale determinò sull’esercito italiano non in
condizione di rispondere all’aggressione del nemico
tedesco, come pure il radiomessaggio di Badoglio aveva
indicato (“i nostri reparti reagiranno a qualsiasi attacco
da altra provenienza”)? Per Roberto Martucci, nel dare
notizia dell’avvenuto armistizio, sarebbe stato necessario
chiarire che “è prevista una violenta reazione tedesca”(Storia
costituzionale italiana, Dallo Statuto Albertino alla
Repubblica, Carocci, Roma, 2002, 248). Ma cosa avrebbe
aggiunto una tale indicazione? Stupisce anche solo che sia
stata enunciata.
Per la sinistra e per quanti erano alla ricerca di una
nuova verginità dopo gli anni del fascismo fu una “fuga”
vera e propria, “vilmente operata abbandonando le forze
armate, senza ordini, allo sbaraglio” (G. Maranini,
Storia del potere in Italia, 1848 – 1967, Vallecchi,
Firenze, 1967, 302). Il Re fugge anche per Giorgio Bocca (Storia
d’Italia nella guerra fascista, 1940 – 1943, Laterza,
Bari, 1980, 582) che peraltro, nella stessa pagina, poco
prima dava conto della confusione che regnava nel comando
militare della Capitale che diffondeva ottimismo. “Maestà,
buone notizie, - dice il Generale Carboni al Sovrano –
all’ambasciata tedesca c’è il panico, un consigliere mi ha
telefonato implorandomi di proteggerlo”. E più tardi
“Maestà, tutto va per il meglio, i tedeschi si ritirano,
sono pronto ad inseguirli”.
Queste amenità dell’ultimo momento seguono la confusa
situazione succeduta al 25 luglio ed alla caduta di
Mussolini, 45 giorni nei quali il Governo Badoglio
“eminentemente tecnico e poco idoneo, pertanto, a
misurarsi con problemi di indole politica” (A. Ciarrapico,
I quesiti irrisolti dell’otto settembre, in
Nuova Storia contemporanea, 2010, n. 3, 5), dimostra
tutta la sua inadeguatezza, sia nella sottovalutazione
della reazione tedesca, assolutamente prevedibile e resa
evidente dall’ingresso in Italia di nuove truppe in nessun
modo ostacolato, sia nella diffidenza degli angloamericani
alimentata, nel corso delle trattative per giungere
all’armistizio, dal’incertezza più volte manifestata dagli
stessi plenipotenziari rispetto alle decisioni da prendere
a fronte delle richieste di Stati Uniti e Regno Unito.
Diffidenti i tedeschi, diffidenti gli alleati il governo
cerca di barcamenarsi con estrema difficoltà ma anche con
qualche goffaggine, con il risultato che il nostro Paese
viene “occupato” dalle armate di quello che l’8 settembre
sarebbe stato un ex alleato, in tal modo rendendo
impraticabile il progettato sbarco di truppe
aviotrasportate a nord di Roma per evitarne l’occupazione
e la conseguente “cattura del re e del governo italiano
compromettendo la validità formale e quella effettiva
dello stesso armistizio che si intendeva al più presto
concludere” (A. Ciarrapico, I quesiti irrisolti,
cit. 14).
Serve forse altro per dimostrare che Re e governo non
potevano restare a Roma? Che la loro cattura avrebbe
decapitato lo Stato? Soprattutto il sovrano, unica
autorità legittima, non poteva uscire di scena. L’Italia
non avrebbe più avuto nessun punto di riferimento per gli
alleati e per i cittadini. Il “trauma per il popolo
italiano” (P. Milza, Storia d’Italia, Corbaccio,
2007, 847) sarebbe stato certamente maggiore di quello che
in realtà c’è stato e che in parte si è ricomposto a mano
a mano che il “Regno del Sud” è andato assumendo le
dimensioni di uno stato organizzato, cobelligerante e in
qualche modo collegato alla resistenza antifascista a Roma
e nel Nord, dove le unità partigiane che facevano
riferimento al Re hanno svolto un ruolo fondamentale.
Non poteva farsi catturare dai tedeschi Vittorio Emanuele
III. Era l’unica autorità dalla quale derivava anche il
potere del governo in quanto ai sensi dell’art. 65 dello
Statuto del Regno “Il Re nomina e revoca i suoi Ministri”
(art. 65). Ed anche a considerare l’immediata lettura in
senso parlamentare di una carta costituzionale che
indicava “una forma di governo di tipo
monarchico-costituzionale “puro”, in cui cioè la Corona
occupa un ruolo centrale ed attivo” (P. Colombo, Con
lealtà di Re e con affetto di padre, Il Mulino,
Bologna, 2003, 109), il Governo Badoglio non aveva avuto
la fiducia della Camera. Anche perché la Camera dei fasci
e delle corporazioni era stata sciolta.
In sostanza, “la prerogativa regia in quel grave momento
offriva la possibilità di un ritorno almeno apparente alla
tradizione risorgimentale; soprattutto permetteva di
chiudere nella legalità formale la lunga parentesi del
governo fascista” (G. Maranini, Storia del potere in
Italia, cit., 303).
La conclusione è una sola, il Re doveva ad ogni costo
rimanere libero per assicurare la continuità dello Stato,
anche a costo di prestare il fianco alle facili e
interessate critiche di quanti, non avendo assunto nessuna
iniziativa per evitare il fascismo, prima (nel 1922), e
per sbarazzarsene dopo (1943), discettano e giudicano.
Ero ragazzo e ricordo l’Avv. Cesare degli Occhi,
parlamentare già prima del fascismo nel Partito Popolare,
poi dopo la guerra nella Democrazia Cristiane e, infine
nel Partito Nazionale Monarchico, da sempre antifascista.
“La caduta di Mussolini, mi disse, è stata iniziativa del
Re e solo del Re. Io, antifascista, mi stavo facendo la
barba quando il sovrano costituiva il governo Badoglio e
si apprestava a ricevere Mussolini dimissionario”. Per
dire dell’assenza dei partiti nel momento cruciale. Lo
abbiamo visto anche leggendo un prezioso volumetto, in
tutto 80 pagine, “La congiura del Quirinale” di Enzo
Storoni (Il salotto di Clio, Le Lettere, Firenze, €
10), giunto nelle librerie a ridosso del 25 luglio, con la
prefazione di Francesco Perfetti, che offre un
interessante spaccato degli avvenimenti che precedettero
la riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 24
luglio, la successiva uscita di scena, il 25, di Benito
Mussolini e la fine del Regime. Il titolo richiama quello
di un articolo che Storoni aveva pubblicato il 7 maggio
1949 su Il Mondo di Mario Pannunzio, ma il pezzo
forte del volume sta nel Memoriale, inedito,
scritto fra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e
l’ingresso a Roma degli alleati il 4 giugno 1944.
Per Storoni si può affermare “senza tema di smentite che
artefice unica del colpo di stato sia stata la monarchia”.
Anche se non mancano, prova dell’onestà intellettuale
dell’uomo, pur fedelissimo al Re, critiche a Vittorio
Emanuele III per il pregresso suo atteggiamento nei
confronti del fascismo e riserve sulla conduzione di
quello che ormai è assodato sia stato un complotto della
Corona nei confronti del Duce.
Eppure è sembrata cosa di poco conto agli storici ed ai
polemisti saliti sul carro dei vincitori aver chiuso il
ventennale esperimento fascista nel momento più tragico
della sua evoluzione in un’Italia martoriata dalle bombe.
Né a favore del Re è valsa la sua storia personale,
dall’indomani dell’assassinio del padre Umberto I, quando
puntò decisamente sulla pacificazione degli animi. Poi
l’avvio delle riforme Giolitti, che hanno assicurato
all’Italia importanti conquiste in campo economico e
sociale, l’abile gestione della neutralità alla vigilia
della grande guerra del 1915 - 1918 fino a condurre
all’alleanza con Regno Unito e Francia avendo in vista
l’unificazione nazionale. E, all’indomani della vittoria,
si trovò praticamente solo, con un governo (Facta)
incapace di gestire la difficile riconversione degli animi
e dell’economia di guerra in un contesto di violenze
contrapposte di fascisti e comunisti. Un periodo
drammatico nel quale il Re soldato, tornato dal
fronte e da Peschiera, dove aveva rivendicato con
successo, dinanzi agli Stati maggiori alleati, l’onore del
soldato italiano dopo la rotta di Caporetto, si è trovato
senza quegli appoggi politici e parlamentari necessari per
lui che desiderava regnare e non governare. Troppo anziano
Giolitti per prendere in mano la situazione, il Re che
aveva come occhi e orecchie, come lui amava ripetere, la
Camera ed il Senato, si trovò a verificare la incapacità
della classe politica di assumere un atteggiamento idoneo
a governare un Paese dai gravi squilibri economici e
sociali. E dobbiamo chiederci cos’altro avrebbe potuto
fare in quel frangente un Re che regna e governa se non
sollecitare le forze politiche presenti in Parlamento, i
cattolici, i liberali, i socialisti perché assumessero una
iniziativa adeguata, oggi si direbbe una grande
coalizione, per uscire dalla crisi. Ma in quel frangente
da Sturzo a Bonomi, da Orlando a Salandra, a Nitti, come
gli altri esponenti del mondo cattolico liberale non
ebbero il coraggio, non ebbero la capacità di iniziative
lasciando così il sovrano scoperto sul piano parlamentare
e mostrando quella inettitudine che avrebbe fatto
prevalere il fascismo, poi la dittatura che prende le
mosse da un voto di fiducia del Parlamento nei confronti
del governo Mussolini e dal successivo Aventino, un errore
politico grandissimo che doveva essere già da allora
intuito.
Lasciato solo, il sovrano ha dovuto subire, in presenza di
un carta costituzionale così detta “flessibile”, quindi
modificabile da una legge ordinaria, l’insulto delle leggi
liberticide e di quelle financo limitatrici delle
prerogative della Corona per i poteri attribuiti al Gran
Consiglio del fascismo e la farsa della attribuzione a lui
ed al Duce del grado di Primo maresciallo dell’impero su
parere del solito giurista disponibile a tutto pur di
mantenere l’incarico.
È così nel momento in cui, con il voto sull’ordine del
giorno del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943
gli è stato fornito lo “strumento costituzionale” in
precedenza mancato, essendo l'unica autorità legittimata
ad agire, ha accettato le dimissioni del Cavaliere Benito
Mussolini ed avviato le trattative per l’armistizio.
Ora è noto, perché vi sono ampie e documentate
testimonianze, che quella fase delicata dell’accordo con
gli alleati, in concomitanza con la massiccia presenza di
militari tedeschi in Italia, con alcune decine di
divisioni, molte delle quali avevano attraversato le Alpi
fin dall’indomani del 25 luglio, quando Hitler intuì che
la caduta di Mussolini avrebbe portato alla nostra uscita
dall’alleanza, si riverberò sulla trattativa con gli
Alleati, difficile, irta di numerose ed esplicite
diffidenze che hanno complicato la preparazione della
proclamazione dell’armistizio, stante anche
l’inadeguatezza delle forze armate italiane a contrastare
l’inevitabile reazione dei tedeschi. In relazione a questo
scenario vanno valutate con obiettività le situazioni che
si sono verificate e che hanno visto il trasferimento del
Re e del governo a Brindisi sbrigativamente qualificato
“fuga” dagli eredi di coloro i quali nel 1922 avevano
impedito al sovrano di costituire un governo di “unità
nazionale”. Immaginando che con la fine della guerra
sarebbe caduta anche la monarchia, come maramaldi si sono
gettati sul Re denunciando che non avrebbe assicurato una
transizione ordinata dall’alleanza col tedesco a quella
con gli alleati. È nota la polemica, in particolare
sull’esercito rimasto senza ordini.
Qui vanno posti alcuni punti fermi. In primo luogo va
considerata la situazione sul campo, già delineata, con la
presenza massiccia di divisioni tedesche fortemente armate
a fronte di un esercito italiano che abbondava solamente
di uomini ma non in armamenti, un esercito in gran parte
dislocato all’estero, con molte divisioni che non era
stato possibile far rientrare in Patria per l’ostilità dei
tedeschi, diffidenti nei confronti del Governo Badoglio. E
forse la mancanza di ordini specifici e lo sgretolamento
dell’esercito, al di là degli episodi di resistenza,
spesso eroici, ha evitato ulteriori lutti perché se la
resistenza fosse stata organizzata probabilmente la
reazione tedesca sarebbe stata durissima. Troppo grande il
divario tra le forze in campo, troppo incerta la
situazione politico amministrativa a seguito della
difficile trattativa con gli alleati che non aveva
garantito l’intervento militare delle forze angloamericane
che avrebbe dovuto mettere al riparo la Capitale. Un
intervento sconsigliato dalla situazione degli aeroporti
vicini a Roma che non avrebbero potuto garantire
l’atterraggio di quella divisione aviotrasportata alla
quale si annetteva un contributo determinante per tenere
fuori le armate tedesche. Annullata l’operazione che
avrebbe dovuto impegnare le forze armate alleate, era
evidente l’impossibilità di difendere Roma “sulla quale il
governo italiano aveva tanto insistito dei propri contatti
con gli Alleati” (A. Ciarrapico, I quesiti irrisolti
dell’otto settembre, in Nuova Storia contemporanea,
2010, n. 3, 26).
In questa condizione, mentre le forze italiane si
dissolvono, nella notte fra l’8 e il 9 il governo decise
di lasciare la città convincendo anche il sovrano a
seguire i ministri verso una località d’Italia non
occupata dai tedeschi. Si trattava, come evidente, “di
salvaguardare, in certo modo, la continuità istituzionale
del Paese e di garantire, di fronte agli Alleati, la
validità dell’armistizio concluso, di cui erano partecipi,
significativamente, solo gli ambienti militari” (A.
Ciarrapico, I quesiti irrisolti, cit, 27).
E questa la spiegazione vera, la ragione autentica per la
quale “il re e il governo italiano si rifugiano a
Brindisi” (P. Milza, Storia d’Italia, Corbaccio, 2007,
847). Una scelta che ha certamente provocato un grande
trauma ma che si era resa necessaria dalle condizioni
nelle quali tra equivoci e contraddizioni si era
sviluppato il rapporto tra gli alleati e il governo
italiano, per inadeguatezza del nostro approccio
diplomatico e per la diffidenza soprattutto dei comandi
americani nei confronti dei nostri plenipotenziari.
Questi
i fatti. Anche l’idea, che ricorre nelle polemiche,
secondo la quale il Re avrebbe dovuto mettersi a capo
della resistenza a Roma e farsi ammazzare o nella migliore
delle ipotesi farsi catturare dai tedeschi è una ipotesi
assolutamente assurda che avrebbe fatto cadere il Paese
nel caos maggiore di quello che si andava determinando in
alcune zone d’Italia, una ipotesi che non può basarsi,
come qualcuno pure ha ritenuto di poter dire sul timore
del Re di morire, lui che aveva rischiato più volte di
essere colpito al fronte durante la prima guerra mondiale.
È stato invece un doloroso gesto di responsabilità che non
è compreso soltanto da coloro i quali hanno un secondo
fine nella polemica sull’abbandono della Capitale allo
scopo, già delineato, di denigrare il sovrano addebitando
a lui tutti quegli errori che se ha commesso condivide con
le forze politiche e parlamentari nel 1922. In sostanza
Vittorio Emanuele III ha costituito per buona parte della
classe politica italiana del secondo dopoguerra, erede di
quella che nel primo dopoguerra aveva tradito il compito
di dare un governo al Paese per stabilizzare una
situazione dal punto di vista economico sociale difficile,
così aprendo la strada al fascismo.
Sono certo che la storia, quando si sarà liberata dagli
influssi della cronaca di quel periodo ed dalle passioni
politiche che l’hanno caratterizzata giudicherà con
serenità la figura di Vittorio Emanuele III, ne
riconoscerà i meriti lungo un arco difficile della storia
d’Italia, mettendo in evidenza l’equilibrio con il quale,
in alcuni passaggi essenziali della vita del giovane Stato
nazionale, ha garantito nell’età giolittiana uno sviluppo
sociale significativo, ha assicurato l’unità della Nazione
facendo passare l’Italia dalla neutralità all’intervento
nella prima guerra mondiale ed evitato una guerra civile
nel 1922.
Con l’occasione, rasserenati gli animi si ricorderà anche
che Vittorio Emanuele, un sovrano ligio alle regole dello
Statuto del Regno, è stato un apprezzato conoscitore di
storia e geografia e per questo incaricato di dirimere le
controversie internazionali su confini quando già era re,
oltre ad essere più grande collezionista di monete
italiane, autore una straordinaria raccolta che ha donato
al popolo italiano e che viene richiamata in tutte le
occasioni nelle quali i numismatici si incontrano e ne
scrivono.
12 settembre 2013
Senza vergogna
Se danneggi l’erario paghi solo un quarto!
di Salvatore
Sfrecola
Cambiano i governi ma coloro che producono danni allo Stato o
agli enti pubblici trovano sempre un difensore. Nel 2005
fu il governo Berlusconi, nel 2013 il governo Letta.
Accade, infatti, che l’articolo 14 del decreto legge n. 102 del
31 agosto 2013 recante “Disposizioni urgenti in materia di
Imu, di altra fiscalità immobiliare, di sostegno alle
politiche abitative e di finanza locale, nonché di cassa
integrazione guadagni di trattamenti pensionistici”,
preveda la “definizione agevolata in appello dei giudizi
di responsabilità amministrativo-contabile”. Letta così la
rubrica dell’articolo, un ingenuo cittadino italiano
potrebbe pensare che il governo abbia ritenuto opportuno
accelerare la riscossione dei crediti erariali derivanti
da sentenze di condanna della Corte dei conti. Cioè che lo
Stato incassi subito la somma alla quale i giudici
contabili hanno ritenuto di dover condannare un
amministratore o un funzionario il quale, con dolo o colpa
grave, abbia determinato un pregiudizio finanziario o
patrimoniale allo Stato o ad un ente pubblico.
Non è così. L’agevolazione ha lo scopo di alleggerire l’importo
della condanna prevedendo che i condannati in primo grado
possano, in appello, chiudere la partita giudiziaria
pagando una somma entro il 25% di quanto loro addebitato
in primo grado. È evidente la sproporzione tra il danno
accertato e quel che viene pagato, un quarto del dovuto.
Ho iniziato richiamando il governo Berlusconi che nel 2005 aveva
inserito una norma analoga, cosiddetto “condono erariale”,
nella legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria
2006), che già all’epoca destò scandalo perché, fra
l’altro, fu ritenuta norma ad hoc in favore di un
ministro che la Corte aveva condannato.
Da notare l’ipocrisia della disposizione che al primo comma così
si esprime: “in considerazione della particolare
opportunità di addivenire in tempi rapidi all’effettiva
riparazione dei danni erariali accertati con sentenza di
primo grado…”, Là dove la “effettiva” riparazione è
evidentemente esclusa in principio dal fatto che il
condannato ottiene in appello lo sconto del 75% del danno
accertato dal giudice di primo grado.
Quindi l'agevolazione è soltanto per il condannato, un
amministratore o un dipendente pubblico nei confronti del
quale il giudice contabile, su iniziativa del Pubblico
Ministero, ha accertato che con dolo o colpa grave ha
posto in essere un comportamento, commissivo od omissivo,
fonte di danno. Non si tratta di errori o di piccole
irregolarità. Il dolo è la massima espressione della
volontà colpevole di causare gli effetti che sono stati in
realtà prodotti, e la colpa grave si configura come una
grandissima trascuratezza negligenza e imperizia che
sfiora il dolo e ad esso viene tradizionalmente
equiparata. I romani dicevano culpa lata dolo
aequiparatur.
Non fa certamente bene all’immagine di un governo che richiama
continuamente i principi della legalità l’aver inserito in
un decreto-legge una norma che favorisce coloro che hanno
determinato sprechi o illeciti gravissimi, come corruzione
o concusione, in danno dei bilanci e dei patrimoni
pubblici. È un pessimo esempio, diseducativo perché
afferma che si può impunemente danneggiare lo Stato o un
ente pubblico tanto si paga poi una somma limitata, ed è
mortificante per i magistrati contabili, sia per i
pubblici ministeri che indagano, che per i giudici che
decidono, i quali vedono frustrata la loro funzione di
tutori dell’erario che alla Corte dei conti è affidata
nell’ordinamento italiano fin dalla costituzione dello
Stato nazionale e come prescrive la Costituzione della
Repubblica.
5 settembre 2013