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GENNAIO 2013

 

Un libro di Fabio Torriero “Alfredo Covelli la mia destra”presentato oggi a Roma, a Palazzo Ferrajoli

Sinistra e destra a confronto, sempre e ovunque

di Salvatore Sfrecola

 

Viene molto opportuna, oggi, la presentazione del libro di Fabio Torriero, “Alfredo Covelli, la mia destra”, edito da Pagine per “I libri del Borghese”. Molto opportuna a pochi giorni da quando Mario Monti, in avvio della campagna elettorale, con l’evidente intento di raccogliere voti nell’ampia platea dei moderati, che lui preferisce chiamare riformisti o riformatori, ha esordito con l’affermazione che oggi destra e sinistra sarebbero concetti politicamente superati.

Affermazione che ha stupito non pochi, all’indomani della conclusione di una vivace campagna elettorale, quella del confronto Obama - Romney, nel corso della quale i contendenti hanno messo in campo tutti gli argomenti di una contrapposizione destra - sinistra che non hanno mai cercato di dissimulare, marcando col massimo impegno quanto li distingue sul piano politico. Lì i democratici, i liberal, l’ala sinistra dello schieramento, si contrappongono al repubblicans, l’elettorato conservatore che si identifica nei valori spirituali e civili e nelle scelte di politica economica e sociale proprie della tradizione di quella parte politica. Si era già visto nel corso del primo mandato del Presidente Obama con le difficoltà che ha dovuto affrontare in una Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana.

Ugualmente nel Regno Unito laburisti  e conservatori (un tempo whigs e tories) si confrontano con differenze non di poco conto. Oggi il Labour Party, di ispirazione socialista, vicino alle Trade Unions con l’intento di superare socialismo e liberalismo contende il potere ai conservatori di David Cameron. Tradizionalisti, convinti della necessità di preservare un determinato stato politico, sociale e religioso ponendo l'accento sui concetti di patria, fede, famiglia, ordine sociale, i conservatori hanno tuttavia manifestato sempre grande capacità di favorire e gestire l’innovazione anche in campo economico e sociale. Spesso più aperti al “nuovo” dei laburisti, sovente frenati da un elettorato più attento agli umori, alla “pancia”, come si usa dire.

Certo, è tutto relativo e trasportare concetti politici da un paese all’altro è sempre in gran parte arbitrario, considerate le diverse storie che caratterizzano le varie esperienze politiche.

Tuttavia destra e sinistra sono, con le caratteristiche proprie di ogni movimento politico, concetti vivi e attuali, anche se cambiano continuamente, come ha scritto Norberto Bobbio, né potrebbe essere diversamente considerata la continua evoluzione dei costumi e della realtà sociale. Lo ha ricordato il 15 gennaio, in prima pagina, su Repubblica Anthony Giddens uno dei più eminenti sociologi inglesi con profonda conoscenza dell’economia che dei due orientamenti ideologici ha segnalato le caratteristiche attuali. La fiducia nel libero mercato in uno stato poco invasivo, per la destra, la regolamentazione del mercato, la sinistra. Differenze ben visibili, anche se sfumate su alcuni aspetti dei programmi di governo. Tipico il tema dell’ambiente o quello dell’immigrazione che vengono affrontati con una varietà di posizioni di dettaglio che fanno ritenere a taluno che si possano considerare superati i concetti di destra e sinistra, per dire, in sostanza, che ci vuole “meno politica di quella di una volta, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità”, come scrive Giddens.

La conseguenza di questa idea di politica è sotto gli occhi di tutti. La fine delle ideologie, tanto declamata come innovativa per il superamento delle distinzioni ha privato il confronto politico dei riferimenti ai valori ideali che soli motivano l’impegno delle persone, le quali assumono di quelle idee la rappresentanza nelle istituzioni con il conforto del voto popolare sollecitato proprio con riferimento all’impegno che partiti e candidati assicurano nel corso delle campagne elettorali.

L’appello ai moderati, ai riformatori cui ricorrono Monti e gli altri leader politici è, dunque, equivoco e sconta il desiderio di sfumare le diversità per raccogliere consensi ma rischia, in un momento di grave crisi economica, di allontanare ancor di più l’elettore che fa i conti con la propria situazione economica e con le prospettive che ragionevolmente si trova davanti e non intravede nella genericità del messaggio la risposta alle aspettative che per la sua condizione è andato definendo.

L’evidente inadeguatezza delle forze politiche schierate sulla destra e sulla sinistra porta gli uni e gli altri a cercare di acquisire consensi al centro, considerato che quell’area politica, pur modesta quanto a consensi, è tradizionalmente variegata e sfrangiata sulla destra e la sinistra, fin dai tempi in cui era occupata dalla Democrazia Cristiana, “un partito di centro che guarda verso sinistra”, secondo una nota definizione di Alcide De Gasperi. Che Monti ha ripreso subito dopo la conferenza di fine anno, come ha scritto Peppino Caldarola su Linkiesta, un modo come un altro per non schierarsi, per cercare di conquistare consensi che, invece, molto spesso, si perdono, come dimostra l’ampio astensionismo accertato nelle ultime elezioni, un non voto che deriva dalla mancanza di stimoli provenienti dalla politica.

Dunque Covelli e la “sua” destra. Perché quello che fu il leader storico del Partito Nazionale Monarchico e che mai venne meno all’opzione istituzionale ritenuta superiore per l’indipendenza e terzietà che assicura al Capo dello Stato ai fini del buon funzionamento della democrazia (Torriero ricorda che dichiaratamente monarchici furono i primi due Presidenti della Repubblica, De Nicola ed Einaudi), impegnato fin dall’indomani del referendum istituzionale ad operare in Parlamento per costruire un’Italia realmente democratica, propugnò per primo la creazione di ampio partito di destra moderno, di ispirazione cattolica e liberale. Lo chiamava il “partito degli italiani”, un’idea più che mai attuale oggi, da quando il bipolarismo si vorrebbe, da molti, assumesse la forma di un bipartitismo moderno e costruttivo. “L’Italia innanzitutto”, l’impegno ripreso da una famosa indicazione del Re Umberto II fu la sua ispirazione, propugnatore di una destra che unisse cattolicesimo sociale e liberalismo nazionale nella continuità “di ciò che è di migliore e di vitale della tradizione liberale italiana, da Cavour a Giolitti” ebbe a dire in occasione dell’anniversario dello Statuto Albertino.

Nel dibattito che si sta sviluppando nel corso di questa campagna elettorale, dunque, l’ispirazione di Alfredo Covelli è quanto mai attuale e ben potrebbe avviare quel “risorgimento nazionale” che non c’è stato. La pacificazione nazionale, infatti, è stata gestita dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale con l’intento di erodersi a vicenda e di far propri i voti che nel referendum istituzionale erano andati alla Monarchia, e che, fu subito chiaro, appartenevano a fasce sociali le più diverse.

Non ha giovato la realtà della democrazia bloccata con un partito di governo, la Democrazia Cristiana, al quale non ci sono state alternative finché la sinistra è stata egemonizzata da un partito che aveva una guida al di là dell’Occidente democratico. Con la conseguenza che i due partiti erano legati da uno stesso destino, come si dice in diritto, simul stabunt simul cadent. Ma, mentre la DC è caduta rovinosamente manifestando la precarietà della sua classe dirigente, la sinistra ha saputo serrare le fila e, cambiando ripetutamente pelle, sopravvivere a se stessa.

I moderati, i cattolici, i liberali e quanti credono nei valori spirituali e politici dell’occidente cristiano si sono ritrovati sparpagliati, taluni aggregati alla sinistra, mentre altri non hanno saputo creare una casa comune, forse perché la fine della DC ha scatenato le ambizioni personali. O forse, più probabilmente, perché non si è trovato il leader giusto. Considerato che Silvio Berlusconi, che quel ruolo avrebbe potuto svolgere, ha mostrato ben presto gravi limiti culturali, in senso politico, aggregando dai più diversi lidi. L’origine socialista,  la sua visione imprenditoriale dello Stato che è cosa diversa dall’impostazione propria della destra italiana, ispirata al liberalismo e al rispetto delle istituzioni, hanno fatto sì che la potente aggregazione, la  maggioranza parlamentare più numerosa della storia d’Italia, dimostrasse presto tutta la fragilità di un movimento politico dalle troppe anime formatosi sulla base di un reclutamento ispirato alla cooptazione e non riuscisse ad esprimere, nonostante la forza dei numeri, una adeguata iniziativa politica ispirata ad una visione istituzionale omogenea.

Occorrerà meditare sul pensiero di Alfredo Covelli, lucidissimo nelle prospettive delineate e riprendere quel progetto, riandando al volume curato dalla Camera dei deputati che raccoglie scritti e discorsi, a cura  di Francesco Perfetti e Beniamino Caravita di Toritto, ed al bel volume di Fabio Torriero che dai quei testi trae il filo conduttore di una proposta politica la cui attualità è resa palese dalla difficoltà politica di un centrodestra diviso e privo di idee.

29 gennaio 2013

 

La Corte dei conti, 150 anni contro gli sprechi e la corruzione

 

        Domenica 3 febbraio, alle ore 10,45, nella sala della Casa Salesiana San Giovanni Bosco, in via Marsala 42, nel quadro delle conferenze organizzate dal Circolo REX, il nostro direttore, Salvatore Sfrecola, Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Piemonte, parlerà dei 150 anni della storia dell’Istituto (legge 14 agosto 1862, n. 800) e del suo impegno contro gli sprechi e la corruzione.

28 gennaio 2013

 

Nella Giornata della Memoria

 

     Un Sogno Italiano intende ricordare la Principessa Mafalda di Savoia, morta nel campo di concentramento di Buchenwald dopo inenarrabili sofferenze.

     Nell'agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager; la baracca in cui era prigioniera la Principessa fu distrutta e lei riportò gravi ustioni e contusioni varie su tutto il corpo. Fu ricoverata nell'infermeria del lager, ma senza cure le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni di tormenti, a causa delle piaghe insorse la cancrena e le fu amputato un braccio. L'operazione ebbe una lunghissima, sconcertante durata. Ancora addormentata, Mafalda venne abbandonata in una stanza, privata di ulteriori cure e lasciata a sé stessa.

     Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella notte del 28 agosto.

27 gennaio 2013

 

Cosa insegna il caso Cosentino

Berlusconi e i cattivi consiglieri

di Senator

 

Le annotazioni sull’abbraccio di Osvaldo Napoli, il simpatico parlamentare calabro-piemontese autore di quell’irruenta manifestazione di affetto nei confronti di Cosentino, platealmente esibito alla Camera, mi induce a qualche riflessione, più a largo raggio, sui rapporti instaurati in Forza Italia, prima, e nel Partito della Libertà, poi, con la magistratura.

È stato, fin dall’inizio, un errore di valutazione e di prospettiva politica.

Convinto dai suoi avvocati, che hanno avuto buon gioco su una personalità decisionista e intollerante di ogni ostacolo che ritenga ingiusto, a contestare sempre i giudici, che, tra l’altro, sa non essere troppo popolari in un Paese che ha il culto del “dritto”, cioè di colui che, potendo, viola la legge, Berlusconi ha fatto l’errore di aggredire, ad ogni occasione, la magistratura nel suo complesso. Tanto da giungere a definire “deviati mentali” coloro che esercitano la funzione giurisdizionale, requirente o giudicante.

Se avesse avuto maggiore esperienza politica e non si fosse fatto prendere dall’ira per essere indagato, avrebbe fatto, come altri prima di lui, un passo verso il mondo della magistratura con un semplice discorso: “egregi signori fino a ieri ero il Signor Silvio Berlusconi, imprenditore. Oggi sono il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri. Discutiamo sul piano istituzionale di riforma della Giustizia”.

Certamente l’Associazione Nazionale Magistrati e l’Avvocatura avrebbero accolto l’invito e intorno ad un tavolo, sine ira ac studio, avrebbero iniziato ad approfondire i problemi veri di una giustizia civile e penale che ha molte ombre, da affrontare con riferimento all’organizzazione giudiziaria, alle risorse occorrenti per rendere nel migliore dei modi il Servizio Giustizia, alla revisione dei codici di rito. Il tutto nell’ottica moderna desumibile dall’esperienza italiana e da quanto si è fatto all’estero, con le cautele del caso. Ad evitare una seconda riforma “all’americana”, come quella voluta dal Guardasigilli Vassalli americanofilo che ha complicato la vita a Giudici, Pubblici Ministeri e cittadini, soprattutto se parti lese.

Un Berlusconi in veste di Presidente del Consiglio e non di imprenditore avrebbe dovuto minimizzare le vicende personali sulle quali la magistratura indagava, condotte particolarmente diffuse tra i suoi colleghi, in modo da limitare i danni, senza avviare quel confronto corrusco del quale la sua immagine ha molto sofferto. Tra l’altro ha convinto molti al suo seguito di essere o di poter essere impuniti, sicché il partito si è “arricchito”, si fa per dire, non solo di incapaci arroganti ma anche di disinvolti gestori del denaro pubblico, con la conseguenza che una maggioranza poderosa, nel 2001-2006 e nel 2008 è stata assolutamente incapace di governare.

Oggi, alle strette, tra un Partito Democratico galvanizzato da Renzi, Grillo che raccoglie il consenso dei tartassati, e Monti che riunisce la sparute schiere di Casini e gli scampoli di Fini, il vecchio leone scende in campo per recuperare i consensi dei moderati che vedono a sinistra agitare ancora la falce e il martello.

Ce la farà il Cavaliere? È difficile dirlo. Ma è certo che la pulizia nelle liste, sia pure parziale con riferimento solo ai casi più eclatanti, rassicura il popolo dei moderati e può indurre molti, orientati ad astenersi, a tornare a votare le liste del partito.

Si poteva fare certamente di più. Eliminando, oltre agli impresentabili per motivi giudiziari, anche gli incapaci, i più numerosi e certamente i più pericolosi per il Paese. Ma forse era troppo pretenderlo in tempi brevi.

Ha fatto bene Berlusconi a fare pulizia ma ha certamente sbagliato a dare la colpa ai Pubblici Ministeri che indagano. Sempre vittima dei cattivi consiglieri?

23 gennaio 2013

 

Quando l’amicizia va al di là dell’opportunità politica

L’abbraccio di Osvaldo Napoli a Nicola Cosentino

di Senator

 

È stata Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, a dare conto e testimonianza di un’amicizia di quelle che in politica non sono poi così frequenti. Tanto che l’emittente ha riproposto la scena più volte, mentre si svolgeva il dibattito tra politici e giornalisti intenti a commentare la scelta del Partito della Libertà di non candidare Nicola Cosentino.

Ed è proprio il parlamentare campano il destinatario di un abbraccio forte, diremmo impetuoso, accompagnato da ripetute pacche sulla schiena ad opera del collega di partito Osvaldo Napoli, l’esuberante parlamentare calabrese, eletto in Piemonte. L’occasione, probabilmente la votazione sulla richiesta di arresto nei confronti di Cosentino, respinta dalla Camera.

Grande gesto di amicizia, devono aver pensato i responsabili della trasmissione, dove prevale il sentimento sull’opportunità politica di mettere da parte un personaggio del quale si è interessata la magistratura e che nell’occasione di quell’abbraccio era stato “protetto” dai colleghi con il voto negativo sulla richiesta dei giudici.

Sarà stata vera amicizia? O non piuttosto, per la platealità del gesto, una testimonianza politica, di condivisione della difesa corporativa del collega, esibita per lui e per gli altri, perché si sapesse e si apprezzasse una vicinanza personale e la condivisione della posizione contraria alla misura coercitiva. Allora, naturalmente. Ma è indubbio che l’On. Napoli, che in varie occasioni ha dimostrato grande coerenza rispetto ad un certo indirizzo, probabilmente consigliato dai numerosi avvocati del PdL, di contestare ad ogni occasione le le iniziative della magistratura sbrigativamente etichettate come intrusione nella politica.

Col senno del poi, dopo la decisione di non ricandidare Cosentino, indotta da sondaggi elettorali che dimostrano come l’elettorato di centrodestra non gradisca la presenza nelle liste di personaggi indagati, forse l’On. Napoli non riproporrebbe oggi dell’abbraccio tanto irruento da essere ripetutamente presentato ai telespettatori, non solo oggi.

Quando gli yes men passeranno di moda? Mai! I detentori del potere, più esattamente i modesti detentori del potere che ci consegna l’attuale classe politica privilegia chi applaude o abbraccia a tempo, convinto di farsi apprezzare. Con questi uomini l’Italia non si rialza.

22 gennaio 2013

 

Come Roma accoglie i turisti

Bagni sì, bagni no

di Salvatore Sfrecola

 

Sembra banale, ma non lo è. Il problema della costruzione di bagni pubblici a Roma, una città che accoglie milioni di turisti in ogni stagione dell’anno è stato ripetutamente posto da questo giornale.

Il Comune ha fatto un bando che prevede la costruzione di chioschi con bagno acquisto biglietti per i musei, souvenir. E subito scoppia la polemica.

L’avvia Matteo Costantini candidato alla presidenza del I municipio con la lista “Uniti per il centro storico” secondo il quale “così si privatizzano i bagni pubblici e le politiche del turismo”.

Il bando scade il prossimo 28 gennaio: chioschi di 38 metri quadri che dovrebbero sorgere in 10 fra le più belle e più turistiche piazze della città, dove oltre al bagno i visitatori italiani e stranieri dovrebbero trovare informazioni, avere la possibilità di acquistare biglietti per i musei e ogni tipo di souvenir e bevande.

Costantini chiede al Sindaco di annullare il bando che si riserva di impugnare. La tesi è quella che si vuole privatizzare i bagni pubblici. Ma si contestano anche le caratteristiche dei chioschi per il commercio di gadget e souvenir, di notevolissima ampiezza, in alcune aree di grande pregio: oltre piazza di Spagna, piazza San Giovanni, via Zanardelli e piazza di Porta Maggiore.

Il motivo principale dell’opposizione al progetto sembra quello di evitare nuovi punti vendita in aree che vedono già la presenza di venditori abusivi di fiori e di oggetti vari. E, infatti, appoggiano Costantini anche gli edicolanti di Daniela Pace, della Uil-Tucs, che critica i gazebo di 38 metri quadri, mentre chi vende giornali nel centro storico è spesso costretto in spazi angusti, punti di riferimento che potrebbero diventare, questa è la tesi, dei veri e propri punti turistici e informativi della città, vendendo biglietti dei musei comunali e dando supporto ai visitatori.

Come spesso accade c’è una soluzione alternativa che potrebbe portare ad una sinergia tra diversi operatori interessati anche al settore turistico. Per cui ben potrebbero fondersi iniziative, magari in forma cooperativa o comunque societaria, tra chi vende giornali e souvenir e chi gestisce servizi igienici,bagni, docce, punti di ristoro. Forse il progetto andrebbe rimodulato, prevedendo che queste attività possano essere collocate all’interno di unità immobiliari interrate o in locali terranei.

Molte sono le soluzioni prospettabili, recepite anche da esperienze straniere. Forse non c’è neppure bisogno di un bando ad hoc. Basterebbe incentivare, adeguando eventuali norme comunali, la gestione di locali multifunzione, un affare per molti imprenditori, un servizio prestato alla comunità locale ed ai turisti che noi, a Roma, vogliamo avere in numero sempre maggiore.

In ogni caso vanno respinte le iniziative lobbistiche di quanti vorrebbero che tutto rimanesse così. Mentre occorre passare dal caos alla civiltà. Nella città che i bagni pubblici li ha inventati, più o meno duemila anni fa.

Vediamo se il Sindaco, sul finire del suo mandato risolverà questo annoso problema. Rapidamente.

17 gennaio 2013

 

Gli inquisiti, nessuno li vuole, tutti (o quasi) li tengono

di Salvatore Sfrecola

 

Tutti dicono di non volerli nelle strutture di partito e soprattutto nelle liste elettorali, ma alcuni non riescono a scrollarseli di dosso, spesso neppure a tenerli a debita distanza.

È facile giungere alla conclusione che evidentemente non possono allontanarli. Quei “signori”, che si sono serviti dello Stato e delle istituzioni, anziché servirli sono stati evidentemente tollerati, probabilmente si sospettava o si sapeva dei loro “vizietti”, le mani lunghe sul denaro pubblico, forse hanno operato con la copertura o la compiacenza dei “superiori”.

Non si spiega altrimenti la difficoltà di molti partiti di fare pulizia. Evidentemente possono ricattare i vertici dei partiti ai quali un giudice potrebbe dire “voi sapevate, da tempo, e non li avete allontanati”. Non c’è altra spiegazione in un momento nel quale il tema della legalità si affaccia prepotentemente nelle cronache dei giornali, nelle conversazioni tra amici e sui posti di lavoro.

Mentre il Paese soffre di una crisi economica che ha impoverito ampi strati della popolazione che, ad onta delle promesse dei candidati alle elezioni di fine febbraio, non vede uno spiraglio di luce, una prospettiva credibile di ripresa nei vari comparti dell’economia e della finanza, assistiamo con sgomento all’incredibile improntitudine della “casta”. Questa sfida impunemente la gente, pur consapevole del discredito di cui è circondata, dimostrando disprezzo per i cittadini di questo Stato retto da una Costituzione che richiama ripetutamente alti valori civili e spirituali, la fedeltà alle leggi ed alle istituzioni che, per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, hanno ancora maggiore valenza in quanto essi hanno “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54 della Costituzione.

Non è, nonostante lo si senta ripetere spesso, un problema di leggi. Certo anche queste servono per punire meglio e più rapidamente gli autori degli illeciti, peculatori e corrotti, per togliere dal cesto le mele marce, come ha scritto il Prof. Filippo de Jorio nel suo bel libro, intitolato appunto, “L’Albero delle mele marce”, edito da Pagine. A ripulire il cesto devono provvedere i partiti, espellendo coloro i quali dimostrano di non avere senso delle istituzioni, di essere entrati (saliti o scesi poco importa) in politica per arricchirsi, per lucrare a fini personali da una posizione istituzionale conquistata con l’avallo della dirigenza politica o con il voto di ingenui elettori.

Per un partito serio non servono sentenze dei giudici, come non era servito a Giulio Cesare il verdetto di un magistrato per allontanare una moglie chiacchierata, forse ingiustamente, ma per ciò solo non idonea a sedere accanto al romano che voleva dar vita all’impero.

Il fatto è che, nonostante forme pubbliche e lecite di finanziamento, i partiti e le correnti di partito, ufficiali o meno, sono macchine mangiasoldi, necessarie per conquistare e mantenere il consenso, per prevalere sui rivali, attraverso gli strumenti classici per avvicinare l’elettorato, i convegni, le iniziative culturali, i giornali e le riviste, le manifestazioni collegate alle tradizioni locali, le cene e tutto quanto l’esperienza e la fantasia suggeriscono.

La moralizzazione del pubblico non può attendere. Eppure è difficile intravedere segnali positivi tali da far sperare. Anche nel linguaggio di questi giorni, nei quali si vanno definendo le liste elettorali, ricorre l’espressione “società civile”, dalla quale si vorrebbero trarre elementi di spicco e presentabili. Già questa distinzione dimostra che la casta si considera qualcosa di diverso rispetto alla gente comune. È un po’ come nella Russia al tempo dell’Unione Sovietica, quando se qualificavamo “comunista” un cittadino ci si sentiva dire che comunisti sono quelli dell’apparato del partito. La casta, appunto.

L’unico fatto positivo sembra essere una certa ribellione della gente a tollerare ancora questa situazione. È forse questo lo spiraglio che molti attendevano.

16 gennaio 2013

 

Nessuno si vergogna, nessuno paga

La sanità nel Lazio colpita da ictus

di Salvatore Sfrecola

 

            89 anni, sospetta vittima di un ictus, è rimasta 15 ore su barella nel pronto soccorso dell’ospedale di Tor Vergata. È accaduto il 9 gennaio, nel giorno del ‘blocco’ delle ambulanze. Protagonista “una sfortunata anziana di Roma, vittima del caos generato dalla mancanza di posti letto negli ospedali della Capitale”.

Così i giornali, come fosse normale nell’anno di grazia 2012 in strutture sanitarie dai costi paurosi, che non si trovi un letto per una emergenza, che non ci sia una Stoke Unit per assicurare la sopravvivenza, in condizioni accettabili, di una persona colpita da una grave emorragia cerebrale.

L’anziana donna era stata soccorsa da 118 la sera intorno alle 22, trasportandola al policlinico di Tor Vergata. Ma da allora per oltre 15 ore, fino alle 13 del 10 gennaio, non si è mai mossa.

”Bisogna aspettare. Al momento purtroppo non abbiamo letti disponibili”, avrebbero detto i sanitari dell’ospedale ai suoi familiari, immersi nel caos dei continui arrivi di pazienti al Dea del Tor Vergata. E quella lettiga è stata il ‘limbo’ nel quale l’anziana ha penato, alimentata da continue flebo e comunque assistita: un posto che ha dovuto tenersi stretta, visto che altrimenti non ci sarebbe stato posto per lei.

A pazientare con lei sono stati anche gli operatori del 118, rimasti fermi con la loro ambulanza pur di permettere alla donna di avere una sorta di letto sul quale essere monitorata dai medici dell’ospedale, a causa dei problemi cerebro-vascolari. Poi intorno alle 13 la fine dell’attesa: arriva il posto letto e l’equipe di operatori in ambulanza può ripartire per il lavoro e riprendere la lettiga nuovamente vuota.

Ore di attesa che rallentano e rendono più difficile la macchina dei soccorsi a Roma e nel Lazio in generale. Ne sanno qualcosa anche i familiari e gli operatori del 118 che hanno prestato i soccorsi a una donna con un’emorragia cerebrale, trasportata in ambulanza prima da Acquapendente a Viterbo e poi al Gemelli di Roma.

Una vicenda denunciata anche da Esterino Montino, capogruppo del Pd alla Regione Lazio. Montino ha riferito che la paziente si era sentita male alle 18 di ieri ed è arrivata a Roma intorno alla mezzanotte: ha ”viaggiato in gravi condizioni di salute sulle strade regionali per cinque ore prima essere sottoposta ad un intervento che doveva essere urgentissimo. Ora è in coma – ha spiegato Montino – A pochi metri dall’ospedale locale c’e’ una pista per l’eliambulanza nuova di zecca ma mai collaudata. È pronta da un anno e mezzo ma in 18 mesi non si è riusciti a interrare alcune linee elettriche che impediscono la sua attivazione. Se fosse stata utilizzabile, la donna sarebbe arrivata al Gemelli in un’ora”.

Gravissimo ma nessuno si vergogna e, soprattutto, nessuno paga per queste inefficienze che sarebbe possibile evitare con un po’ di buona volontà e qualche iniziativa. Come quella di un sistema informatico che dia conto della disponibilità di letti nei vari reparti, in particolare in quelli destinati all’emergenza, avendo presenti le possibili dimensioni dell’utenza sulla base di proiezioni statistiche che debbono assicurare la disponibilità dei servizi.

È una vergogna. Se si pensa allo spreco di risorse che caratterizzano la sanità italiana, sempre denunciato e mai risolto, per cui una siringa, tanto per fare un esempio, viene pagata a costi incredibilmente diversi da una ASL all’altra, l’incapacità della classe politica di rimediare a queste disfunzioni dimostra inefficienza e disonestà, perché è disonesto chi paga beni e prestazioni a costi esorbitanti.

È una delle questioni che il nuovo governo, qualunque sia la maggioranza, dovrà affrontare perché la cura dei più deboli, come sono, per definizione, è espressione di civiltà.

Non si potrà attendere. È un’emergenza della quale tutti si dicono consapevoli tranne poi a rinviare le soluzioni.

Questo giornale incalzerà i responsabili per spingerli ad operare nell’interesse dei più deboli.

11 gennaio 2013

 

Moderati in campo

La maggioranza “silenziata”

di Senator

 

            Usiamo il brutto neologismo del Presidente Monti, che avrebbe voluto fossero “silenziati”, cioè zittiti, Fassina, responsabile economico del Partito Democratico, e la CGIL, per commentare i dati resi noti dall’Istituto Piepoli, che li ha rilevati per il sito di informazione AffariItaliani.it, sul consenso ai partiti in lizza a febbraio.

Ad oggi, secondo il sondaggio, la coalizione di centrosinistra è stabile e al di sopra il 40%, quella di centrodestra che viene staccata di 10 punti, mentre Mario Monti non sfonda e Beppe Grillo declina.

Secondo questa rilevazione il Partito Democratico si attesta da solo al 33% dei voti, in calo dello 0.5%, rispetto al sondaggio precedente (17 dicembre). A quell’indice vanno aggiunti il 6% di Sel, di Nichi Vendola, e un 3% di altri partiti di centrosinistra. La coalizione raccoglierebbe, dunque, circa il 42% dei voti, una netta maggioranza alla Camera e una possibile vittoria anche in Senato.

Quanto al Centrodestra, nel complesso recupera. Il Pdl sarebbe al 17% (-0.5% rispetto a dicembre), un dato al quale vanno sommati il 2% di Fratelli d’Italia di Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Guido Crosetto, il 2% di Intesa Popolare e il 3% della Destra di Storace: in totale 24% cui, al quale si potrebbe aggiungere, in caso di accordo, il 6% della Lega Nord. In totale, quindi, intorno al 30%.

La rilevazione di Piepoli è sconsolante, invece, per i partiti dell’“Agenda Monti”. Secondo il sondaggio, infatti, Udc, Fli, e Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo totalizzerebbero il 12% dei voti. Più del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo accreditato dell’11% (- 3 rispetto al 17 dicembre). Al 5% si attesterebbero i “rivoluzionari” di Antonio Ingroia ed altri.

Il dato, ovviamente provvisorio, considerata la volatilità dell’elettorato, offre lo spunto per alcune considerazioni. In primo luogo che l’area moderata è comunque nettamente maggioritaria, anche se è molto difficile, per le divisioni interne che la caratterizzano, che possa prevalere nelle elezioni di febbraio. Infatti il 30% di Berlusconi e Lega sommato al 12% del centro conferma questa tradizionale valutazione che potrebbe essere ulteriormente corretta verso l’alto se il centrodestra trovasse un leader carismatico che è ormai impossibile individuare, in tal modo favorendo un recupero sull’astensionismo che notoriamente penalizza essenzialmente quella parte politica.

Una conclusione è, comunque, da trarre. Se il centrodestra avesse ben governato ed arruolato nel tempo autentiche personalità di spicco tratte dalla società, anziché giovani supponenti e giovinette di bella presenza e basta, il fonte moderato avrebbe avuto una consistenza politica rilevante e, considerati i numeri della legislatura del 2001-2006 e del 2008, non avrebbe ceduto le redini del potere al “governo tecnico” di Mario Monti ed oggi andrebbe alle urne con la certezza di essere ancora maggioranza in Parlamento.

Invece il leader carismatico è nettamente appannato e comunque non riconosciuto tale dal centro, le forze sono disperse e sarà difficile schierare candidati in grado di invertire la tendenza. Si dovrà attendere la sonora bastonata del prossimo febbraio per ricostituire successivamente, con uomini nuovi, la guida di uno schieramento che, come rivelano i sondaggi di Piepoli, è certamente maggioritario nel Paese ma non individua oggi il leader giusto e la squadra.

Il Cavaliere si è consumato e non ha potuto, o non ha voluto, rinnovare la classe dirigente del partito, pur avendone avuto il tempo negli anni del potere e in quelli dell’opposizione.

4 gennaio 2013

 

La difficile scelta dei candidati

Le prime indiscrezioni dicono di spartizione,

non di competenza

di Salvatore Sfrecola

 

Cominciano sulla stampa a leggersi le prime “indiscrezioni” su alcune candidature esponenziali e continua ad aversi netta la sensazione che i partiti e le correnti non intendano cambiare metodo, suggerendo nomi, a volte anche autorevoli, ma assolutamente inadatti al ruolo. È ciò che ha danneggiato la politica in questi anni, soprattutto a destra, che ha messo in campo personaggi privi di esperienza e di specifica professionalità.

Questo comportamento è espressione di una mentalità che in sostanza procede da una sorta di disprezzo per gli elettori ai quali si ritiene di poter propinare qualunque pietanza, costringendoli a votare in ragione dell’appartenenza politica, nel presupposto che un elettore “di destra” non voterà mai a sinistra, per cui gli si può presentare un candidato che fa comodo all’apparato di partito, indipendentemente dalla sua specifica capacità di ricoprire il ruolo per il quale viene indicato.

Chiariamoci le idee. Una cosa è l’elezione per il rinnovo di Camera e Senato, assemblee nelle quali possono ben operare politici di varia professionalità, considerato che in quei contesti si fanno leggi, si appoggia o si controlla un governo, altra cosa è il ruolo di amministratore di un ente locale nel quale la politica è molto più diretta a gestire servizi di interesse della comunità.

Va detto, per questa ragione, che l’esperienza di amministratore di un ente locale, ma anche di una regione, deve essere considerata preziosa per un politico che siede in Parlamento. Com’è all’estero, in specie in Francia, nazione nella quale i presidenti del consiglio ed i ministri sono stati spesso sindaci di grandi città. Chirac, ad esempio, è stato per oltre quindici anni sindaco di Parigi, mentre era impegnato nel governo.

Da noi non è così. Fini, risultato perdente per poco nelle elezioni che l’avevano visto candidato Sindaco a Roma, fece sapere che riteneva uno scampato pericolo quella sconfitta di misura. Mentre è evidente che essere il primo cittadino della Capitale per un politico accorto può essere la prova di una rilevante capacità di amministrare. Infatti fare il Ministro è più facile che fare il sindaco. Tanto che, alcuni ministeri, funzionano benissimo senza ministro. Non un comune.

Impegnativa è anche una regione, molto impegnativa, come ha dimostrato nel Lazio Renata Polverini, con esperienza di sindacalista che non le ha consentito di gestire la macchina complessa di una grande regione con rilevanti attribuzioni ed un apparato amministrativo la cui efficienza condiziona il perseguimento delle politiche regionali in tutti i settori.

È evidente che al presidente di una regione, come ad un sindaco o ad un ministro non si chiede di essere un “tecnico” in senso stretto, ma di essere un politico con un’esperienza che gli consenta, al di là dell’aiuto che può provenire dai suoi collaboratori “tecnici”, di comprendere, con ampia visione politica delle attribuzioni istituzionali, come l’apparato funziona e quali sono gli snodi essenziali della struttura amministrativa e finanziaria dell’ente.

Stupisce, pertanto, che per la Regione Lazio, che non è certo piccola cosa, si faccia il nome di Giulia Bongiorno, avvocato penalista, Presidente della Commissione giustizia della Camera, che ha continuato a svolgere funzioni di difensore di imputati in vari procedimenti, professionista certamente di valore, nella quale non è dato rinvenire, peraltro, esperienza di amministratore pubblico né specifica conoscenza di amministrazione e finanza.

Poi sarà possibile che l’On. Bongiorno, ove fosse eletta, si riveli il migliore possibile dei presidenti di regione, ma quel che oggi appare è una scelta non facilmente comprensibile se chi l’ha proposta intende mantenere una regione squassata da gravi episodi di malamministrazione e contenderla ad un collaudato amministratore politico, di buona fama, come il Presidente uscente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. E ci si chiede se chi ha proposto la Bongiorno si prefigga di vincere o intenda solamente dare dimostrazione del proprio potere politico, imponendo una candidatura.

È accaduto più volte, ovviamente, questo tipo di scelte. Specie a destra, ed è il motivo per il quale oggi quella parte politica vede disperse le proprie schiere, non è stata in condizione di governare, nonostante l’ampio consenso elettorale, e rischia nel confronto di febbraio con una sinistra agguerrita ed un centro animato da un Professor Monti tonificato dai recenti successi finanziari e dalla indiscutibile credibilità internazionale.

Il fatto è che la prima regola della politica è quella di mettere la persona giusta al posto giusto. Non scegliere l’amico perché tale, ma quello che assicura il massimo di appeal elettorale e di competenza nella realizzazione dell’indirizzo politico. Perché vincere può essere facile. Ma è necessario convincere per continuare a governare.

3 gennaio 2013

 

Magistrati in politica (un necessario approfondimento)

Ingroia, Grasso, Dambruoso: tecnici o politici?

di Salvatore Sfrecola

 

Ho scritto più volte di magistrati e politica con riferimento alle più recenti candidature nelle liste dei vari partiti. Sono in tutti i partiti, va detto, tranne nella Lega, probabilmente in ragione della connotazione esasperatamente localistica di quel movimento politico, tanto che il suo segretario, cosa mai vista, concorre per Presidente della Regione Lombardia, anziché per il Parlamento nazionale, dove si fa la politica generale, di grande interesse per le autonomie locali, basta pensare al federalismo cosiddetto fiscale.

Ma torniamo ai magistrati che si candidano nelle liste elettorali. Il problema essenziale, la domanda che si fa la gente è nota. Ci sono stati interventi recenti anche su Twitter: il magistrato, già giudice o pubblico ministero, che sceglie di candidarsi sotto le insegne di un partito, sia pure con la frequente formula ipocrita dell’“indipendente”, ha scoperto il giorno prima la sua vocazione politica o l’ha coltivata nel tempo, magari silenziosamente, perdendo in qualche modo quella serenità di giudizio che deve essere propria del giudice o del pubblico ministero, il primo quando definisce un processo, il secondo quando chiama in giudizio un cittadino in nome della legge?

Naturalmente non è problema di indagare nell’intimo della persona. Ogni cittadino ha diritto ad avere idee “politiche” che esprime anche nel silenzio della cabina elettorale. Ma la gente vuol sapere se quel magistrato che la Costituzione fa “soggetto solamente alla legge” (art. 101) lo è stato veramente, in ogni caso. Se, cioè, ha imputato di responsabilità penale un soggetto o lo ha giudicato facendo astrazione delle idee politiche della persona, naturalmente in caso l’imputato, diciamo così, fosse un esponente di qualche partito.

Si potrebbe dire che coloro i quali compiono atti penalmente rilevanti sono giudicati per queste condotte e non per le idee che professano. Ma naturalmente questo non soddisfa l’analisi che conduciamo, perché ci sarà sempre qualcuno che potrebbe dire, e “qualcuno” lo ha ripetutamente detto, che alcuni pubblici ministeri indagano “a senso unico” nei confronti di esponenti di questo o di quel partito. E i giudici, investiti del caso, potrebbero ugualmente calcare la mano perché l’imputato è di un determinato partito. Anche questo è stato detto, sempre da “qualcuno”.

Si può rispondere che in Italia la Giustizia, pur farraginosa per molti versi, consente tuttavia, attraverso i ricorsi in appello e in Cassazione, questi ultimi anche più volte in uno stesso processo, di assicurare all’imputato il vaglio dei fatti e delle sue ragioni da parte di un numero consistente di giudici i quali, comunque, appartengono, per età e per funzione, a orientamenti culturali non meccanicamente sovrapponibili, con la conseguenza che è logico attendersi un giudizio sereno. A parte i casi di prescrizione favoriti dalle lungaggini dei processi, dovute al numero elevatissimo degli stessi, ed all’intento defatigatorio delle difese. In sostanza il nostro è un processo estremamente garantista che spesso favorisce i veri responsabili, anche a danno della parte lesa o comunque della Giustizia che esige, in un ordinamento ben funzionante, che ogni processo si concluda con una sentenza di merito (colpevole o innocente). Infatti chi si sente innocente il più delle volte rinuncia a far valere la prescrizione.

Non vorrei che il lettore ritenesse da queste mie “divagazioni”, che poi tali non sono ma servono ad inquadrare meglio il tema, che mi voglia sottrarre al quesito principale: i magistrati in politica sono tecnici o politici?

Il tema è all’ordine del giorno, come ho già detto. Tanto che se ne parlava ieri sera, nel corso del cenone di fine anno, tra una portata e l’altra. Ed anche in questa occasione ho constatato che l’opinione pubblica, anche quella qualificata dei miei commensali, rimane comunque sconcertata perché non può fare a meno di dubitare che quel giudice o quel pubblico ministero che “sale”, montianamente, in politica abbia operato avendo una sorta di preconcetto implicito nella diversità di opinioni politiche della persona della quale in un certo momento della sua vita professionale “si occupa”. Con la conseguenza che sarebbe fortemente sconsigliato che un magistrato entrasse in politica, come ha detto di recente il Vice presidente del Consiglio Superiore, Michele Vietti, e che comunque sarebbe auspicabile che lasciasse la magistratura per sempre e non solo per il periodo del mandato politico. Cosa che, a ben vedere, non risolve il problema che ci siamo posti, quello del dubbio che quel magistrato abbia in passato deciso sulla base di valutazioni politiche.

Posto che, come ha scritto Giovanna Corrias Lucente per Blitz Quotidiano non è possibile negare ad un magistrato di lasciare la toga per dedicarsi alla vita politica, la massima espressione della partecipazione dei cittadini alla vita della polis, perché un simile divieto sarebbe incostituzionale, credo, come ho detto altra volta, che occorre lavorare a monte, sull’attività del magistrato nel tempo e reprimere immediatamente ogni manifestazione di parte che sia idonea a ledere l’immagine di indipendenza della magistratura, nell’interesse della Giustizia e di ogni singolo magistrato. Perché non dobbiamo mai dimenticare che quando parliamo di magistrati “sospetti” di condizionamenti politici (che poi è tutto da dimostrare al di là delle polemiche politiche) parliamo di pochi soggetti rispetto ad un corpus di professionisti del diritto intorno a diecimila unità, compresi i magistrati amministrativi, contabili e militari.

Ancora, dicevo ieri sera ai miei commensali, per la mia esperienza, che è lunga e attiene un po’ a tutte le magistrature, avendo presieduto l’Associazione che rappresenta i miei colleghi della Corte dei conti, in contatto quotidiano con il colleghi delle altre giurisdizioni, che la forma mentis del magistrato è naturalmente portata a tenere fuori le proprie idee politiche, come gli orientamenti culturali e dottrinali, dalle decisioni che prende. Dacché non si può negare ad una persona di cultura, com’è un professionista del diritto e della Giustizia, di avere proprie idee su temi filosofici, storici e, pertanto, anche politici. L’importante è che non condizionino il magistrato nell’esercizio della sua attività. È come per il medico, che non farebbe morire il paziente di idee politiche diverse. Come il medico militare che, in guerra, non trascura di salvare la vita al nemico ferito.

Per cui torno a dire che, come ha scritto anche Giovanna Corrias Lucente. “l’orientamento politico non deve in alcun modo influenzare il lavoro giudiziaria, pena la perdita della irrinunciabile imparzialità che costituisce il perno del mestiere di giudice”. E per garantire questa neutralità gli organi di autogoverno delle magistrature devono intervenire rapidamente, alla prima dissonanza da questa regola, nell’interesse di tutti magistrati e del prestigio che deve avere in un paese civile la funzione giudiziaria agli occhi del cittadino. Che deve credere nella Giustizia.

Dopo di che, se un magistrato, che vive i problemi della società civile e del funzionamento della amministrazioni, ritiene ad un certo momento della sua vita professionale di porre al servizio della comunità la sua esperienza di uomo di legge, di conoscitore delle regole della gestione amministrativa e finanziaria dello Stato, credo che da “tecnico” potrà dare un buon contributo alla politica che spesso decide senza conoscere dall’interno il funzionamento degli apparati amministrativi e delle leggi che li governano, come dimostra il pauroso degrado della legislazione negli ultimi decenni.

In ogni caso, siatene certi, nella maggior parte dei casi quei tecnici “prestati” alla politica saranno sempre più tecnici che politici perché non è facile cambiare mentalità dopo aver esercitato una determinata funzione per tanti anni. Naturalmente è tutto relativo, ed è un fatto di deontologia professionale, tanto per i tecnici come per i politici.

1 gennaio 2013

 

P.S. Mi rendo conto di aver scritto una sorta di “trattato breve” sul tema della “salita” in politica dei magistrati, ma l’argomento è di tale importanza che non sarebbe stato possibile  contenerlo nello spazio consueto di un editoriale. Mi appello, comunque, alla comprensione dei lettori.

 

L’auspicabile e il possibile

Agenda Italia per il 2013 ed oltre

di Salvatore Sfrecola

 

Un tempo, neppure troppo lontano, si chiamavano programmi, piattaforme programmatiche. Berlusconi nel 2000 vi aveva dedicato un volume, “L’Italia che ho in mente”, con prefazione di Paolo Guzzanti. Oggi si chiamano agende. A cominciare dall’“Agenda Monti”, ovviamente, una indicazione di esigenze e di mezzi per fronteggiarle, che accompagna la “salita” in politica del Presidente del Consiglio dimissionario, dal novembre del 2011 alla guida di un governo “tecnico”.

I giornali ne parlano da quando Pietro Ichino, noto lavorista, uscito dal Partito Democratico, dove le sue idee hanno avuto minore attenzione di quella che gli hanno riservato nel tempo i lettori del Corriere della Sera, ha rivelato di avere contribuito a quel programma (pardon, Agenda) e di averne anticipato parte nel suo blog www.pietroichino.it, per poi motivare la scelta di aderire all’iniziativa politica del Premier con due interviste a Il Foglio ed a Repubblica.

È mia abitudine, da giurista e storico, osservare e commentare, evitando giudizi sommari o di farmi condizionare da quella simpatia o antipatia che, a pelle, nutro verso alcune persone, quelle impressioni immediate che hanno sempre caratterizzato il primo approccio con una persona, allo stringergli la mano, a sentire le sue parole, a leggere le prime righe di uno scritto. Laddove si ha subito la sensazione di capire la persona, presunzione che accompagna inevitabilmente chi è abituato a frequentare ambienti diversi, senza alcun pregiudizio.

Ed ecco la prima impressione sull’Agenda Monti. È lunga, troppo lunga, ben 25 pagine, e, nonostante questo, generica, una somma di ovvietà. Oscar Giannino, intervistato ieri sul Corriere della Sera, a pagina 6, ha detto che “se ti vai a legge bene la cosiddetta “Agenda Monti” trovi solo tante belle chiacchiere”. Può darsi che lo dica perché è stato snobbato, come ammette, da Montezemolo, o perché “il premier sarà seccato perché noi parliamo di numeri, loro fanno chiacchiere”. Meglio sarebbe stato se un breve quadro dell’analisi e delle cose da fare incalzante, una sorta di decalogo di proposizioni incisive, fosse stato seguito da un approfondimento che avrebbe consentito, a chi avesse voluto scendere nel dettaglio di alcuni passaggi, di studiare più a fondo e meglio apprezzare quel che il Professore analizza ed intende affrontare.

Un esempio della genericità? Eccolo: “nella prossima legislatura occorre un impegno, non appena le condizioni generali lo consentiranno, a ridurre il prelievo fiscale complessivo …”. Inoltre “servono meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitali”. Lo avrebbe potuto scrivere chiunque, a destra ed a sinistra. È la classica scoperta dell’acqua calda, come si dice dalle mie parti. Inoltre che vuol, dire “meccanismi … oggettivi” rispetto alla prospettiva di evitare “fughe di capitali”. Forse più sono obiettivi i “meccanismi”, più è facile che i capitali fuggano.

Ad ogni buon conto quel che rilevo dall’“Agenda”, a parte l’evidente buona volontà del Presidente Monti e di quanti hanno lavorato al documento, è la scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali per i quali genericamente si richiamano esigenze di modernità e semplificazione. Anche in un settore che da sempre ritengo centrale nella definizione di un modello di sviluppo economico del Paese, quello del patrimonio culturale, a mio giudizio la ragione vera del nostro turismo.

Tutto quel che si dice nel capitolo “L’Italia della bellezza, dell’arte e del turismo” è vero ed è condivisibile. Come l’affermazione che “ci sono troppi centri decisionali”. Ma che ha fatto in proposito il Governo Monti? Quale impulso di cambiamento ha dato a quello che è il centro nevralgico dell’economia italiana per il forte indotto che è potenzialmente in continua espansione?

Il fatto è che i “tecnici” o sono veri conoscitori dell’apparato e delle leggi che lo governano o se, adusi a fare dottrina, non vanno molto lontano, specie se si circondano di tecnici dell’amministrazione, Capi di Gabinetto, Capi di Uffici legislativi e Consiglieri giuridici buoni per tutti i tempi e tutti i governi e per questo propensi a quieta non movere et mota quietare.

Comprendo bene che le considerazioni sull’Agenda Monti potrebbero attagliarsi a qualsiasi altro documento programmatico. Ma i dubbi in questo caso si fondano, come detto, sull’esperienza del governo che non è stata improntata a concreta capacità di decisione in molti settori. Ad esempio le semplificazioni sono state timide ed assolutamente insufficienti. La stessa impostazione della revisione dell’amministrazione, a fini di contenimento della spesa è generica e non procede da una ricognizione delle attribuzioni e dei metodi di esercizio delle stesse, gli unici elementi che consentono di capire quali risorse umane occorrono, se non altro quanto a professionalità. E poi, per favore, non parliamo più di spending review, offende gli italiani ed il senso della nostra bellissima lingua oltre a far ritenere che si voglia con una espressione che molti connazionali non capiscono circondare di mistero l’esercizio del potere.

Un esempio ancora. La questione del patrimonio immobiliare, che tutti gli italiani di buon senso giudicano un’autentica svendita dei gioielli di famiglia per far arricchire le lobby degli immobiliaristi, come è accaduto con le cartolarizzazioni, una pagina nera che grida vendetta. Anche per aver impoverito le famiglie che hanno acquistato le case degli enti.

Ho scritto al Premier per segnalargli che lo Stato e gli enti pubblici, che pure dispongono del più grande patrimonio immobiliare degli stati moderni, hanno centinaia di uffici in affitto da privati. Non sarà forse il caso di provvedere a risolvere prioritariamente questo problema e di mettere a dimora i nostri uffici in locali di proprietà pubblica, come è stato fatto nei secoli dai governi degli stati e delle città che certo non prendevano in affitto locali per tribunali e uffici vari?

So che il Presidente Monti si è dimostrato sensibile al tema. Ma cosa è stato fatto? Nulla.

Conoscere per amministrare, diceva Luigi Einaudi. E non c’è dubbio che i programmi, pardon, le agende esigono la conoscenza delle situazioni di fatto, degli apparati e delle leggi attraverso i quali si intende attuare le politiche pubbliche Così, tanto per fare un esempio che interessa gli italiani, soprattutto i più deboli, come sono quelli che devono ricorrere al Servizio Sanitario Nazionale, invece o prima di ipotizzare aggravi per far fronte alle spese, non sarebbe il caso di andare a cercare gli sprechi immani, asl per asl ed abolire primariati inutili, far funzionare le apparecchiature diagnostiche invece di tenerle inefficienti per inviare i pazienti a fare le analisi nei laboratori privati, programmare gli acquisti al minore prezzo possibile sempre garantendo la qualità dei beni e dei sevrizi? Sono certo che si potrebbero risparmiare miliardi da destinare a cure migliori in tempi ragionevoli, evitando che si verifichi ancora che il malato, in lista di attesa per una TAC, venga chiamato quando è già morto.

Sono riforme che si possono fare rapidamente. Mettendo tecnici veri intorno ad un tavolo per tenerli lì seduti fino a quando non si definisce la riforma seria.

Riusciremo quest’anno a fare qualcosa di buono? Vinca Bersani, Monti o Berlusconi. Per la verità tutti e tre hanno già governato, spesso a lungo, con scarso successo. Ma la speranza è l’ultima a morire.

1 gennaio 2013

 

 

 

 

 

 


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