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SETTEMBRE 2012

 

Dopo i risultati delle elezioni

all’Associazione Magistrati della Corte dei conti

Verso una Giunta di maggioranza?

di Salvatore Sfrecola

 

Il vero sconfitto nelle elezioni per il rinnovo delle cariche dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti non è Ermanno Granelli, Consigliere, già collaboratore del Ministro Bassanini, che, con 163 contro i 232 ottenuti da Tommaso Miele, ha perduto la corsa a Presidente dell’Associazione. Granelli, scarsa esperienza associativa, era stato scelto all’ultimo momento dalla componente “progressista” della magistratura contabile, un mix di ex radicali, ex PCI, ex PDS, forse PD, reduci di vari fronti, pochi ma guidati da un abile affabulatore, quell’Eugenio Schlitzer che continua a farsi spazio tra i magistrati più giovani, finché non crescono.

Progressisti, ma sempre a fianco del Presidente della Corte in carica, fin dai tempi di Giuseppe Carbone, con effetto di svolgere un’azione costante di freno all’attività associativa. Una vocazione al “sindacato giallo”, si potrebbe dire.

La sua sembra, tuttavia, una parabola destinata a concludersi.

E si concluderà certamente di fronte alla personalità forte del nuovo Presidente dell’Associazione, Tommaso Miele, che ha incassato un largo consenso dei colleghi, per il suo impegno associativo nella precedente Giunta, nella quale ha ricoperto il ruolo di Vice Presidente, attivo negli studi, adeguate conoscenze politiche, facilità di dialogo con la stampa.

È presto per dire come sarà formata la nuova maggioranza in Consiglio direttivo, considerato che con il Presidente Miele si sono schierati nella campagna elettorale i Gruppi di “Proposta costituzionale”, “Progetto per la Corte” e “Rinnovamento per la Corte dei 2000” che, insieme, contano 13 consiglieri, contro gli 11 che avevano presentato la candidatura Granelli. Per cui forte è la tentazione di una Giunta di maggioranza, non solo perché la regola della democrazia è la maggioranza e non l’unanimità (la Giunta unitaria), ma perché, nell’attuale contesto politico-istituzionale, mentre urgono riforme intese a dare snellezza all’azione delle amministrazioni e degli enti pubblici il ruolo della Corte è certamente essenziale, in relazione alla sua tradizionale funzione di garanzia.

In particolare la normativa primaria anticorruzione e quella regolamentare, che certamente completerà il sistema che Mario Monti vuole quanto prima realizzare, impone un ruolo centrale della Corte dei conti, sia in sede di controllo che di giurisdizione contabile per prevenire ed intercettare quegli illeciti che pongono l’Italia al vertice del malaffare in Europa.

L’Associazione Magistrati della Corte dei conti, che non è un sindacato qualsiasi, ma è l’organismo che raggruppa coloro che esercitano le funzioni proprie della Magistratura contabile, ha esigenza di operare rapidamente, di interloquire con Parlamento e Governo sulle riforme, con tempestività, essendo determinata nelle scelte. Non può, pertanto, essere governata da una Giunta litigiosa e problematica come sarebbe se arruolasse le armate di Schlitzer. Che, poi, vedendo i nomi degli eletti, non sono così compatte come si potrebbe desumere dalla convergenza in campagna elettorale.

Si tenga conto, in particolare, che molti degli eletti guardano già al dopo Giampaolino, un Presidente della Corte che molto ha fatto per l’Istituto, ma che si avvia a percorrere il tratto finale della sua presidenza e non è detto che non lasci la Corte già dai prossimi mesi per qualche prestigioso incarico, in ragione della generalizzata stima della quale gode in ambienti politici e governativi per la sua lunga esperienza di magistrato in tutti i settori istituzionali, per la presidenza dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e per i precedenti, numerosi ed importanti incarichi governativi.

Con le audizioni parlamentari sulla corruzione e sul federalismo fiscale, oltre che sui documenti di bilancio, con le interviste rilasciate ai maggiori quotidiani nazionali, Giampaolino si è conquistata anche una notevole simpatia da parte dell’opinione pubblica, per cui sarebbe certamente ed ampiamente condivisa la scelta di impegnarlo ancora al servizio dello Stato. Anche prima del suo collocamento a riposo.

Alcuni degli eletti nel Consiglio Direttivo dell’Associazione guardano, dunque, già al possibile successore, in ragione di rapporti personali e di pregresse ed attuali collaborazioni istituzionali, al fine di stringere rapporti che consentano l’avvio delle riforme che l’Associazione ritiene indispensabili, come il riordinamento del Consiglio di Presidenza depotenziato dalla “legge Brunetta”, la definizione di talune attribuzioni in materia di controllo su regioni ed enti locali, la rimodulazione dei tempi di permanenza dei magistrati con qualifica di referendario e primo referendario nelle rispettive qualifiche, secondo un modulo già applicato in passato.

Un’Associazione dinamica, impegnata a monitorare le decisioni dei partiti e del Governo esige una omogeneità di intenti ed una determinazione forte nell’azione. Una condizione incompatibile con un assetto unitario, che non sarebbe sostenuto da un idem sentire e soprattutto da un intento istituzionale cui siano estranei interessi personali.

Infine, va considerato che, in prospettiva, i Gruppi si pongono anche il problema della prossima rappresentanza dei togati in Consiglio di Presidenza nelle elezioni della prossima primavera. Le ipotesi che circolavano alla vigilia delle elezioni non sono più attuali, considerati i risultati che hanno rideterminato i rapporti di forza fra i Gruppi.

Già si fanno alcuni nomi per sostituite Maurizio Graffeo, Patrizia Ferrari, Anna Maria Rita Lentini e Salvatore Pilato (in rigoroso ordine alfabetico). È probabile, ad esempio, una candidatura Granelli. Si parla anche di alcuni “ritorni” non sempre graditi, perché non hanno fatto poi tanto bene e perché in alcuni Gruppi si sente la necessità di un più profondo rinnovamento con la candidatura di alcuni giovani degli ultimi concorsi. E c’è chi punta a soggetti con maggiore esperienza, considerato che la componente togata è paritaria rispetto a quella di nomina parlamentare (quattro a quattro) per cui il confronto non sempre è stato facile, soprattutto quando sono venute all’ordine del giorno questioni delicate, come la copertura dei posti di funzione in relazione all’insufficienza della dotazione organica complessiva.

Inizia, dunque, una stagione importante per i magistrati della Corte dei conti nella quale la maggioranza dovrà essere compatta e non farsi condizionare da appelli all’unità che costituirebbero una zavorra pericolosa per l’azione associativa e per le future scelte interne ed esterne all’Istituto.

Nell’occasione delle celebrazioni del 150° anniversario della sua istituzione la Corte dei conti ha esigenza di volare ancora alto nell'interesse dell'ordinamento e dei cittadini.

Ed è bene chiudere con le parole con le quali Quintino Sella, uno storico Ministro delle finanze, pronunciate il 1° ottobre 1862, in occasione dell’insediamento della Corte dei conti del Regno d’Italia, si rivolgeva ai magistrati contabili: “Altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori".

"Nè ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità. Questo timore non ebbi, no, o Signori, e non esitai a propugnare per voi così delicate attribuzioni, ed il feci perche ho fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come sopratutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità”.

29 settembre 2012

 

 

 

La “scoperta” della corruzione

di Salvatore Sfrecola

 

Nei giorni scorsi, in chiusura dell’indirizzo di saluto pronunciato in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2012-2013, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricordato che “tra i valori che la scuola ha cercato di promuovere con costanza e impegno in questi anni spicca il valore della legalità”. Aggiungendo che “purtroppo, anche di recente la cronaca ci ha rivelato come nel disprezzo per la legalità si moltiplichino malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili, vergognosi. Non è questo accettabile per persone sensibili al bene comune, per cittadini onesti, né per chi voglia avviare un'impresa. Chi si preoccupa oggi giustamente per l'antipolitica deve sapere risanare in profondità la politica. E risanare la politica, far vincere la legge si può, così come si può far vincere la legge contro la mafia: ce lo hanno dimostrato venti anni fa, e li abbiamo ricordati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.

“Ma la legalità si deve praticare a tutti i livelli, e dunque anche nel nostro piccolo mondo quotidiano. E nella vita scolastica legalità vuole dire rispetto delle sue regole, rispetto dei compagni, specie di quelli più deboli, e soprattutto, vorrei sottolinearlo, rispetto degli insegnanti che sono il cuore pulsante della scuola, e guai a indebolirlo”.

Opportuno e necessario il richiamo di Napolitano alla legalità, in un momento in cui le cronache parlano di vergognosi episodi di spreco di denaro pubblico che offendono il cittadino, in particolare mentre la situazione finanziaria del Paese ha richiesto drastiche misure di contenimento della spesa pubblica e significativi incrementi delle imposte, con effetti recessivi sull’economia e, quindi, sulla situazione delle persone e delle famiglie.

Opportuno e necessario, l’intervento di Napolitano, come hanno sottolineato i giornali titolando a nove colonne, ma anche tardivo questo monito in un Paese che non riesce a dotarsi di una legge anticorruzione, nonostante le sollecitazioni provenienti dall’Europa (ho ricordato più volte il rapporto del GRECO, il Gruppo europeo contro la corruzione, e le sue ventidue raccomandazioni all’Italia).

Ad ogni scandalo, oggi nella Regione Lazio, ieri in Lombardia e su e giù per l’Italia, si riparla di legge anticorruzione che, peraltro, non fa un passo avanti. Al PdL, in particolare, paiono eccessive le pene previste. “Garantisti”, come amano dipingersi, i dirigenti del partito di Berlusconi ostacolano di fatto l’approvazione della legge, ricordando che comunque fu il Guardasigilli Alfano a proporla nel maggio del 2010. Ma dimenticando di dire che, approvato dal Consiglio dei ministri, quel disegno di legge è rimasto a lungo nei cassetti e quando è finalmente approdato in Senato si sono messi in opera tutti i possibili strumenti parlamentari per ritardarne l’iter, sempre con motivazioni che facevano riferimento alla esigenza di approfondimenti quanto alla definizione dei reali, alla distinzione o confluenza delle fattispecie di corruzione e di concussione, alla corruzione tra privati, all’ammontare delle pene.

E così, “dum Senatu consulitur”, si sarebbe detto duemila e dispari anni fa, le cronache ci dicono di fatti di corruzione e concussione a tutti i livelli, dal taglieggiamento che connota tradizionalmente pratiche amministrative e verifiche contabili, la pratichetta dell'artigiano, alle tangenti che accompagnano forniture di beni e servizi e appalti di opere pubbliche. Con il risultato di accrescere i costi sostenuti dallo Stato e dalle Pubbliche amministrazioni, che si doteranno di opere incomplete o mal funzionanti, di forniture scadenti. Il prezzo della corruzione, infatti, grava sulle opere e sulle forniture, perché l’imprenditore deve rientrare nella somma corrispondente alla tangente pagata.

Lo fa in vari modi. Quanto alle opere pubbliche, con la sospensione dei lavori accampando sorprese geologiche o archeologiche, da aggirare mediante perizie di variante e suppletive, rallentando i lavori, iscrivendo riserve nella contabilità dei lavori che vengono definite “bonariamente” o a seguito di arbitrato nel quale, inevitabilmente, l’amministrazione pubblica risulta soccombente.

Nello stesso tempo le opere che ritardano rispetto al crono programma costano di più, come gli interventi ritenuti necessari per superare difficoltà varie.

I tempi si allungano, le opere realizzate in ritardo hanno immediatamente bisogno di essere aggiornate, così la manutenzione inizia prima della consegna dell’opera. Possono passare anni, a volte decenni. Uno spreco di risorse pubbliche gigantesco.

Va avanti così da decenni. Diceva Antonio Giolitti, che di amministrazione se ne intendeva, che l’Italia non era in testa alla classifica dei paesi più corrotti d'Europa, solo perché c’era la Grecia. C’è ancora. Ma non sappiamo se l’abbiamo superata nella classifica, come nel calcio.

Ecco perché la giusta reprimenda di Napolitano, scandalizzato dalle ultime performance dei nostri politici, è un po’ tardiva, considerato che Giolitti diceva quel che ho ricordato più di un secolo fa.

28 settembre 2012

 

 

 

La vergogna e il riscatto

di Salvatore Sfrecola

 

Il Centrodestra frana e soccombe sotto le macerie della Casa della libertà, ex Forza Italia, ex Alleanza Nazionale. Macerie provocate non già da eventi esterni ma da una implosione senza precedenti nella storia politica italiana.

A far crollare l’edificio nel quale tanti italiani avevano trovato riparo, nella fiducia di una amministrazione della cosa pubblica migliore che nel passato, è stata la diffusa malversazione ai danni della finanza pubblica, come ogni giorno apprendiamo dai giornali con dovizia di particolari che ai più sembrano incredibili per l’ampiezza e la diffusione degli illeciti.

In aggiunta al latrocinio, il Centrodestra ha dimostrato una crescente incapacità di governare ovunque ha gestito il potere, al Centro come nelle regioni, da Roma a Milano a Napoli, almeno per quel che se ne sa finora.

È il risultato del reclutamento della classe dirigente, politica e di governo, voluto da Silvio Berlusconi guidato da nessun senso delle istituzioni (Fini soleva dire “senso dello Stato zero”), per cui i candidati alle varie cariche dovevano avere requisiti che non attengono alla loro capacità politica. Si richiedeva la fedeltà assoluta al capo, spesso la giovane età, e, se donne, l’avvenenza. In conseguenza le amministrazioni e gli enti si sono riempiti di persone senza esperienza politica e amministrativa, il più delle volte privi di professionalità, affamati di potere e di soldi, con la conseguenza che l’Italia, ai vari livelli di responsabilità non è stata governata e l’erario è stato depredato a fini personali o di corrente.

“È questa la Destra di governo”?, soleva ripetere ironicamente uno stretto collaboratore di Gianfranco Fini Vicepresidente del Consiglio, per ciò stesso visto di malocchio e conseguentemente accusato di essere un infiltrato, con amicizie "di sinistra" e perfino di aver militato in Rifondazione comunista.

Non è dubbio che di fronte alle notizie di stampa, al balbettio arrogante dei protagonisti impudicamente presenti in TV e nelle trasmissione di approfondimento, il popolo del Centrodestra, quello che crede in Dio, Patria e Famiglia, per semplificare, e che si riconosce nelle dure parole del Cardinale Bagnasco, si sentiva da tempo traditi e prova un disgusto profondo largamente condiviso.

Proprio ieri il Cardinale, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, aveva definito “intollerabili” gli abusi sulla gestione dei fondi ai partiti. Unitamente al Cardinale Agostino Vallini, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, che aveva sostenuto col settimanale diocesano Roma Sette che “se non c'è una ripresa di senso morale individuale e collettivo in termini di giustizia e di solidarietà sociale le leggi non bastano o non sono equilibrate”, Bagnasco, da parte sua, ha stigmatizzato lo spreco di soldi pubblici.  “E' una cosa vergognosa”, ha detto. E le televisioni gli hanno dato ampio spazio.

Dunque una condanna ai massimi livelli della Chiesa nei confronti di uomini e donne presentatisi all’elettorato come responsabili e impegnati per il bene del Paese.

Eppure qualche dubbio sulla onestà di che era stato presentato alle elezioni per un  voto privo di preferenze, il porcellum, c’era stato se Angelino Alfano, appena “nominato” segretario del PdL aveva promesso di farne “il partito degli onesti”, espressione che dovrebbe essere superflua per chi si presenta come democratico e liberale, dotato di senso dello Stato.

Il fatto è che la selezione della classe dirigente del partito sorto alla vigilia delle elezioni del 1994 e rimasto al potere in questi anni, è stata condotta con metodi a dir poco inadeguati. Mi diceva, ad esempio, un mio amico, che poi fu eletto deputato europeo, al vertice di un importante ordine professionale, di essere stato “esaminato” da “cacciatori di teste” ed  interrogato a lungo su idee e programmi politici. Prima di essere considerato "degno".

Era un metodo assurdo. La scelta dei candidati alla politica non è come quella di un manager di una società privata, servono altri parametri, quelli che evidentemente sono mancati se sono stati arruolati personaggi privi di qualsiasi professionalità e quindi naturalmente desiderosi di trarre dalla politica il loro sostentamento.

Ricordo, al riguardo, una intervista di qualche tempo fa, mi sembra su Libero, all’On. Antonio Martino il quale ricordava che, avendo manifestato al padre il desiderio di entrare in politica si sentì dire che avrebbe dovuto prima concludere il suo iter professionale, per avere un lavoro, guadagnare ed essere libero. Antonio Martino è ordinario di economia politica ed il padre, per i pochi che non lo sanno, era un illustre cattedratico di medicina, a Messina dove è stato Preside e rettore dell’Università, oltre ad aver ricoperto il ruolo di Ministro degli esteri in un momento particolarmente importante, quando fu definita la Comunità economica europea, prima a Messina in un convegno internazionale del 1956, poi a Roma nel 1957, quando furono firmati gli atti costitutivi.

Politici senza arte né parte non avrebbero potuto fare altro che approfittare della situazione per lucrare ai danni dei bilanci pubblici. Leggete i curricula, i più sono giornalisti o funzionari di partito. Laddove giornalista significa che hanno scritto sui giornali di partito, quei giornali, finanziati dallo Stato, che non leggono neppure coloro che vi scrivono. Sono persone che vivono di politica e della politica.

A questo punto gli elettori di destra, schifati da quel che leggono o avevano percepito, considerata la disinvolta gestione della cosa pubblica ai più alti livelli del governo Berlusconi, non sanno a che santo votarsi per rimanere presenti nel dibattito politico, per contare e contribuire a far valere le proprie idee.

È dura, non c’è dubbio. Anche perché tutto si sarebbero aspettati tranne che fosse proprio il Cavaliere, con la sua gestione del partito, a consegnare l’Italia alle sinistre, nonostante gli italiani siano, in assoluta prevalenza, moderati.

25 settembre 2012

 

 

 

Tommaso Miele, Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti

 

Questo pomeriggio il Consigliere Tommaso Miele è stato eletto Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti con 232 voti contro i 163 ottenuti dal suo antagonista, il Consigliere Ermanno Granelli.

È un risultato che premia lo schieramento moderato che si era riconosciuto nell’esperienza professionale e nell’iniziativa di politica associativa di un magistrato fermamente ancorato alla cultura giuridica che non trascura, come ha testimoniato con la sua attività di controllore di enti sovvenzionati dallo Stato, l’approccio a discipline economicistiche e aziendalistiche.

È stata battuta, dunque, l’area fortemente composita che si riconosceva nella candidatura di Ermanno Granelli, già collaboratore del Ministro Bassanini, un magistrato che ci tiene a vedersi riconosciuta l’etichetta di “progressista”. Tuttavia sarebbe sbagliato ritenere che nei 163 che lo hanno votato ci sia stato un idem sentire rispetto ai grandi temi istituzionali, l’ancoraggio alla laurea in giurisprudenza, la contestazione della “legge Brunetta” che ha burocratizzato la Corte ed il suo vertice istituzionale e diminuito la rappresentanza togata nel Consiglio di Presidenza.

In attesa di conoscere i risultati dello spoglio delle schede del Consiglio direttivo (il parlamentino dell’Associazione), reso più lungo dalla circostanza che gli elettori hanno a  disposizione 15 voti che possono distribuire anche tra più liste, la scelta di Tommaso Miele è senza dubbio foriera di una posizione associativa maggiormente autonoma rispetto anche al vertice istituzionale, nei confronti del quale alcune correnti avevano manifestato nel tempo costante acquiescenza, fin dal tempo del Presidente Lazzaro. Anzi, sostiene qualcuno, la vocazione ad appiattirsi sulle posizioni del Presidente in carica è stata fin qui una costante di alcuni esponenti associativi.

Il Presidente uscente, Angelo Buscema, si è immediatamente complimentato con il neoeletto. Buscema, importante esponente del Gruppo "Rinnovamento per la Corte del 2000" è stato tra i sostenitori di Miele.

25 settembre 2012

 

 

 

Alle urne i giudici contabili

Si rinnovano i vertici dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti

di Salvatore Sfrecola

 

Sei liste per il Consiglio direttivo, due candidati per la presidenza. Vanno alle urne i magistrati della Corte dei conti per rinnovare le cariche della loro Associazione tra polemiche antiche e nuove che in qualche misura disegnano due diversi modi di concepire il ruolo e l’organizzazione dell’Istituto che quest’anno compie 150, essendo stato istituito con la legge 14 agosto 1862, n. 800, che ha rinnovato la Corte dei conti del Regno di Sardegna riorganizzata solo nel 1859, ad iniziativa di Camillo di Cavour.

Due diversi modi di concepire l’Istituto eppure sei liste. Il fatto è che tradizionalmente le liste che si presentano alle elezioni sono composte essenzialmente da amici, colleghi di concorso e di ufficio per i quali i legami che provengono dall’aver partecipato ad una stessa selezione o dall'esercitare le medesime funzioni fanno premio sulle distinzioni, diciamo così “ideologiche” che, invece, caratterizzano i leader dei diversi schieramenti.

Accade, dunque, che le liste siano composite, per cui alcuni potrebbero, anzi dovrebbero, meglio collocarsi in altre, ma sono stati convinti a candidarsi in forza di quei valori che ho ricordato, l’amicizia personale, la circostanza di aver partecipato allo stesso concorso, l’appartenenza alla stessa sezione o procura. In sostanza è l’amicizia il collante. E non c’è da richiamare Cicerone per ricordare che quello dell’amicizia è valore altissimo, perché nasce da un incontro spontaneo di persone accomunate da esperienze e sentimenti, abitudini, età anagrafica. In alcuni casi interviene anche un fattore più latamente “politico”, come essere “di sinistra”, “di centro” o “di centrodestra”.

Tuttavia queste condizioni che concorrono tradizionalmente a formare le liste che partecipano alle elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti in qualche misura non rispecchiano le ragioni del confronto che sono presenti solo in alcuni, quelli che si sono dedicati ad un impegno “sindacale” più attivo fra Associazione e Consiglio di Presidenza, organizzando il consenso e, all’occasione, distribuendo incarichi extraistituzionali o promettendoli.

Accade così che, a sentire molti dei candidati su un tema che ha fortemente diviso i magistrati della Corte dei conti fino a questi giorni, quello di arruolare o meno soggetti provvisti della sola laurea in economia, ci si sentirà dire che no il magistrato deve essere un giurista e che la cultura economicistica al più è un complemento importante della preparazione di un giudice contabile, ma si innesta su quella giuridica e si acquisisce nel corso del lavoro quando si è assegnati all’esercizio di controlli di gestione. Lo dice l’esperienza di anni di controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100, comma 2, Cost.) nell’ambito del quale fior di giuristi hanno definito le regole ed i parametri della “economicità” della gestione sui quali, poi, si è molto costruito in dottrina e nell’esercizio concreto del controllo sui cui esiti la Corte riferisce “direttamente” al Parlamento.

“Controllo e giurisdizione”, era la testata del giornalino dell’Associazione ed oggi della Rivista internet che pubblica scritti importanti di magistrati e studiosi esterni, oltre che documenti di convegni ed incontri di studio. Controllo e giurisdizione per significare che la Corte dei conti, che nasce come organo di controllo in forma giurisdizionale e si denominava Court des comptes nel Ducato di Savoia, che l’aveva recepita dalla omonima istituzione creata da Re Luigi IX a Parigi, ha sviluppato nel corso dei secoli e nella più recente riforma cavourriana del 1859, consolidata nella legge della quale in questi giorni celebriamo i 150 anni, un ordinamento composito e modernissimo che corrisponde perfettamente alle indicazioni provenienti dall’Organizzazione Internazionale delle Istituzioni Superiori di Controllo sulle Finanze Pubbliche (INTOSAI, International Organization of Supreme Audit Institutions). Dette indicazioni, vere e proprie regole, premesso che “il controllo è principio immanente dell’amministrazione delle finanze pubbliche”, dicono che “una Istituzione superiore di controllo può svolgere i propri compiti efficacemente e con obiettività solo se si trova in una condizione di indipendenza nei confronti dell’organo sottoposto a controllo”, che l’indipendenza deve trovare fondamento nella costituzione, che “l’indipendenza delle Istituzioni superiori di controllo è intimamente connessa con l’indipendenza dei loro membri”.

E poiché “il controllo non è fine a se stesso, bensì rappresenta una componente indispensabile di un sistema che dovrebbe evidenziare tempestivamente le deviazioni dalla norma e le violazioni dei principi di conformità al diritto, di efficienza, di utilità ed economicità dell’amministrazione finanziaria, in modo da rendere possibile l’applicazione di provvedimenti correttivi nei casi specifici”, l’INTOSAI  afferma altre regole: “il riconoscimento della responsabilità dell’organo contravventore, il risarcimento dei danni o l’applicazione di provvedimenti che rendano in futuro impossibile, o per lo meno estremamente difficile, la ripetizione di tali violazioni”.

Sembra di leggere gli articoli 100, commi secondo e terzo, e 103, comma 2, della Costituzione e il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti.

Infatti il riconoscimento della responsabilità dell’organo contravventore e il risarcimento dei danni sono rimessi nel nostro ordinamento all’iniziativa del Pubblico Ministero istituito presso la stessa Corte, soluzione la cui funzionalità è stata apprezzata in sede europea e suggerita come riforma della Corte dell’Unione, che svolge solo funzioni di controllo, allo scopo di perseguire il risarcimento degli illeciti a danno della finanza comunitaria. Per cui è esatto che “una sostanziale unità domina la molteplice funzione: quella giurisdizionale, quella propria di controllo, di vigilanza di ispezione, come quella, sia pur limitatissima, consultiva, tutte ineriscono alla finalità del controllo cui l’istituto è preordinato, o, quanto meno, vi si riconnettono per la specialità della materia e soprattutto per la diretta o indiretta incidenza sulla finanza statale, che più intensamente determina, anche da un punto di vista storico, la esigenza del controllo” (Ferdinando Carbone, Discorso in occasione dell’insediamento a presidente della Corte dei conti, in Rivista della Corte dei conti, 1954, I, 54).

Singolare che, mentre si ricordano i 150 anni della Corte con richiamo ai discorsi pronunciati nell’occasione dal Ministro delle finanze Quintino Sella, dal Procuratore generale e dal Presidente della Corte dei conti, Michelangelo Troglia e Federico Colla, nei quali è scandito, in tono quasi profetico, non solo il ruolo della Corte del nuovo Stato ma anche le prospettive che attuano un raccordo funzionale con Governo e Parlamento in uno stato di diritto, gli epigoni di quei magistrati si dividano sul fatto che debbano o meno rivestire la toga economisti, per aprire la strada agli statistici ed agli ingegneri in ragione del fatto che in sede di controllo occorre valutare i tempi della realizzazione delle opere pubbliche e la necessità di una perizia suppletiva e di variante. Trascurando che di economisti, statistici e ingegneri le altre magistrature che pure, in sede contenziosa si occupano di gestioni societarie e di controversie relative ad opere pubbliche, mai hanno sentito il bisogno di rivestire della toga utilizzandoli come consulenti.

Si scontrano due candidati presidenti. i Consiglieri Tommaso Miele ed Ermanno Granelli, due diverse personalità, esperienze professionali non sovrapponibili, due diverse “scuole di pensiero”. L’uno, Miele, ha maturato un’esperienza interna, prevalentemente nella giurisdizione, tra Sezione regionale del Molise e Sezioni Riunite, convegni di studio e pubblicazioni. L’altro, Granelli, magistrato del controllo (anche nelle Sezioni Riunite), esperienza di incarichi governativi, già collaboratore del Ministro Bassanini, per semplificare lo potremmo definire un “progressista”, anche se è difficile immaginare cosa significhi questa espressione nell’ambito della magistratura della Corte, una qualifica che un tempo si attribuiva il Gruppo di “Alternativa”, vivace contestatore dell’establishment, ma che oggi difficilmente si identificherebbe nel composito coacervo di liste che hanno presentato la candidatura di Ermanno Granelli.

Il 24 ed il 25 i magistrati della Corte sceglieranno il Presidente della loro Associazione ed i componenti del Consiglio direttivo. C’è da augurarsi che si realizzi una maggioranza capace di garantire la governabilità dell’Associazione per modificare la “legge Brunetta” che ha burocratizzato il vertice istituzionale e ridotto la rappresentanza dei togati, secondo una concezione lontana da quella propria di una magistratura.

Una magistratura la cui attualità si desume dalle cronache giornalistiche che quotidianamente danno conto di ruberie e di sprechi. Oggi tocca al Lazio con il suo Consiglio regionale, ieri era toccato alla Lombardia ed alla gestione della sanità, domani toccherà alla Campania. Poi di nuovo quelle ed altre regioni in un periodo di gravissimo degrado dell’etica pubblica.

Una magistratura costantemente sotto tiro per la duplicità delle funzioni che consentono, pur nella limitatezza dei mezzi a disposizione, di desumere dal controllo e dall’esame dei conti le ragioni di un intervento sanzionatorio, quando corruzione e sprechi emergono dalla palude delle complicità. E pertanto il patrio legislatore più volte ha adottato norme limitative dell’azione del Pubblico Ministero, giungendo perfino a definire per legge il “danno all’immagine”, sicché esso può essere perseguito solo a seguito del passaggio in giudicato di una sentenza di condanna per un reato contro la pubblica amministrazione, nella consapevolezza che gran parte di quei reati va in prescrizione e trascurando che ledono l’immagine dello Stato anche reati che non sono propriamente "contro la pubblica amministrazione", come la violenza del docente sull’alunno, la truffa aggravata nei confronti dello Stato. Rimanendo escluso anche il peculato militare, perché previsto da altro codice.

Dietro l’angolo, consapevoli o meno alcuni che di fatto propugnano una Corte “diversa”, sta lo spettro della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, presieduta dal Massimo D’Alema, che aveva concluso i suoi lavori proponendo che la Corte rimanesse solo controllore della gestione, peraltro privata della verifica della legalità, con devoluzione della funzione giurisdizionale al giudice amministrativo (peraltro senza pubblico ministero!).

L'applaudirono alcuni degli odierni candidati i quali intravedevano nella scelta – fortunatamente abortita – l’istituzione di una Autorità dei conti pubblici, dalla quale immaginavano di essere reclutati con lauti stipendi. Poco preoccupati di gettare la toga alle ortiche perché in quella funzione magistratuale evidentemente non credevano e non credono.

Vedremo a chi andrà il consenso elettorale, nella fiducia che, al di là dell’amicizia e della colleganza, i magistrati della Corte dei conti votino secondo gli interessi autentici della comunità nazionale che nel giudice dei conti ripongono la speranza di una gestione più corretta delle risorse pubbliche, quelle che essi concorrono a mettere a disposizione dell’autorità politica con proprio, personale sacrificio.

22 settembre 2012

 

 

 

L’8 settembre 1943

Vittorio Emanuele III: fu vera fuga o doveroso servizio allo Stato?

di Salvatore Sfrecola

 

Leggo con ritardo, complice un breve periodo di ferie, l’articolo di Enrico Mannucci su Sette del Corriere della Sera, dal titolo “Prima del 9 settembre il re preparava la fuga”. La tesi, avvalorata dai ricordi di un giovane sergente, oggi novantenne, torna su un leit motiv un po’ stantio, secondo il quale, il trasferimento di Re Vittorio Emanuele III da Roma a Pescara, per raggiungere poi Brindisi, territorio libero dai tedeschi e senza presenza delle truppe alleate, sarebbe stata una fuga.

La tesi non mi ha mai convinto. Anzi ritengo che la figura del Re, che certamente ha compiuto alcuni errori nel suo lungo Regno, ad esempio la firma delle leggi razziali alle quali notoriamente era contrario, costituisca una specie di alibi per fascisti ed antifascisti a giustificazione dei loro errori nel corso del ventennio, fin dalla sua vigilia.

È proprio nella tensione sociale e nelle violenze che hanno preceduto per lunghi mesi la cosiddetta “marcia su Roma” che il Sovrano, il quale più volte aveva sostenuto che i suoi occhi e le sue orecchie di Capo di Stato costituzionale erano la Camera ed il Senato, aveva interpellato le forze politiche presenti in Parlamento alla ricerca di una soluzione che desse vita ad un governo, che oggi definiremmo di unità nazionale, per superare la crisi economica gravissima del dopoguerra e le conseguenti tensioni sociali sfociate in violenze in giro per l’Italia, soprattutto nel nord del Paese.

Le cronache ed i libri di storia riferiscono che Vittorio Emanuele interpellò ripetutamente i massimi esponenti dei partiti, dai popolari di Luigi Sturzo, ai socialisti di Filippo Turati, passando per i liberali di Giovanni Giolitti, autorevole ancorché anziano.

Tutti si fecero indietro. Nessuno ebbe il coraggio di affrontare la bufera. D’altra parte non si intravide un “Monti” ante litteram che, forte di una autorità scientifica, fosse legittimato ad adottare misure severe, necessarie per ristabilire l’ordine pubblico in una condizione di ripresa dell’economia dissestata dalla guerra.

In queste condizioni di assenza totale della politica, il Grillo della situazione, forte di un consenso strisciante della borghesia che più di altre classi sociali aveva subito le conseguenze del conflitto, nel quale pure si era impegnata, non ci furono altre soluzioni che l’incarico a Benito Mussolini, una modesta presenza alla Camera, al quale sarebbe stata concessa la più ampia fiducia, come attestano le dichiarazioni di autorevoli esponenti dei partiti democratici, come Giovanni Gronchi.

Di fatto i partiti, che poi si qualificheranno “antifascisti”, diedero via libera al Governo Mussolini e al regime autoritario, al punto da consentirgli di manomettere lo Statuto Albertino, fino a prevedere che la stessa successione al trono dovesse ricevere l’assenso del Gran Consiglio. Una lesione delle prerogative della Corona che Mussolini poté compiere quando fu evidente che il consenso nei confronti del regime, che di meriti in campo sociale comunque ne aveva conquistati, anche per aver aperto a masse di diseredati le pianure laziali e libiche, gli consentiva di sfidare l’autorità del Re. Il quale congedò il Cavaliere (una qualifica ricorrente nella storia d’Italia!) messo in minoranza proprio dal quel Gran Consiglio con il quale riteneva di governare il sistema costituzionale, sfiduciato nella direzione delle operazioni militari, con conseguente restituzione al Sovrano del Comando supremo delle Forze Armate.

Eppure Vittorio Emanuele è stato, a mio giudizio un po’ incautamente, accusato di aver addirittura compiuto un colpo di stato nell’accettare le dimissioni del Duce, in assenza di un voto parlamentare. È la tesi, ad esempio, di un giurista di sinistra come Paolo Barile. Eppure quella decisione del Re, che fece gioire tutti gli antifascisti, fu assunta da Vittorio Emanuele nella assoluta autonomia del suo ruolo statutario.

E qui si innesca la polemica sull’8 settembre, sull’esercito lasciato senza ordini in balia dei tedeschi. Ed io mi sono sempre chiesto quali ordini dovessero avere le supreme autorità militari dopo il comunicato del Maresciallo Badoglio che non faceva in nessun modo intendere che dovessero andare “tutti a casa”, come titola un noto film. Forse che un comandate di armata, responsabile di decine di migliaia di uomini ha bisogno di ordini per garantire il controllo del territorio in nome del Governo del Re?

Il fatto è che l’8 settembre ha dimostrato l’assoluta inadeguatezza di buona parte della dirigenza militare, quella che sul Carso mandava allo sbaraglio migliaia di soldati, ammassati contro i reticolati e falciati inevitabilmente dalla mitraglia. Quella classe militare che credeva di combattere ancora una guerra stile ‘800, con assalto alla baionetta, quella classe militare che non aveva fatto presente in modo ultimativo al Re ed al Duce l’assoluta inadeguatezza delle nostre Forze Armate, quanto ad armamento (i fucili 91, cioè modello 1891) ed addestramento in una guerra nella quale andavamo a confrontarci con paesi, come la Francia ed il Regno Unito, dotati di soldati addestrati nelle guerre coloniali permanenti. Così un’Italia che, dopo l'eccidio di Dogali e la disfatta di Adua, raro esempio di insipienza dei comandi, si scontrava con gli inglesi che a Khartum avevano subito una durissima sconfitta che non li aveva assolutamente piegati ma anzi determinati a riscattare l’onore delle armi.

In queste condizioni, assenti altre autorità dello Stato, senza Governo e senza Parlamento l’unica autorità istituzionale, con specifico compito di guida delle Forze Armate, era il Re. Si sarebbe dovuto far catturare dai tedeschi? Con quali effetti positivi sull’andamento della guerra e sulla gestione dell’armistizio? Nessuno, assolutamente nessuno. Anzi, con la conseguenza di lasciare il Paese, già prostrato dai lutti e dalle distruzioni, assolutamente allo sbando, senza nessuno che potesse, anche nei confronti dei nuovi alleati parlare in nome dell’Italia, in una situazione politica particolarmente difficile, per la diffidenza nutrita nei nostri confronti soprattutto degli americani.

La partenza da Roma per Pescara e poi per Brindisi non è, dunque, per un Re che aveva vissuto in prima linea la guerra 1915 – 1918, un gesto di paura. È facile, dunque, immaginare l’angoscia di questo Sovrano, che era salito sul trono all’indomani dell’assassinio del padre, impegnandosi a favorire la pace sociale e lo sviluppo economico che avrebbe caratterizzato il primo decennio del ‘900 sotto la guida sapiente di Antonio Giolitti, vedere la conclusione del suo Regno nelle tristi giornate della sconfitta, militare e politica, dl Paese che tanto ha dimostrato di aver amato, mentre una delle sue figliole, Mafalda, soffriva umiliazioni e angherie in un campo di concentramento tedesco dove si prestava generosamente ad alleviare quelle degli altri.

No, Vittorio Emanuele III, che la storia riterrà certamente colpevole di aver firmato le infami leggi razziali, non deve vergognarsi per essersi trasferito a Brindisi, perché quello era il suo dovere di Capo di uno Stato allo sbando, soprattutto nella componente militare, quella di cui dopo il 25 luglio aveva riassunto la guida. Infatti, è stato più volte ricordato, che quell’8 settembre, mentre i comandanti militari dismettevano l’uniforme per darsi alla fuga (i più coraggiosi e fedeli al giuramento al Re per continuare a combattere i tedeschi alla macchia), gli impiegati civili puntualmente si presentavano all’ingresso degli uffici, alle 8 di mattina.

Il fatto è che il soldato italiano, che ha sempre dimostrato spirito di sacrificio, capace di atti di eroismo e di gesti di grande umanità, ha spesso avuto comandanti non all’altezza del compito, come hanno dimostrato anche le guerre del Risorgimenti, ove vinte per l’intervento dell’esercito francese ove dai volontari di Giuseppe Garibaldi, come a Bezzecca, a riscattare l’onore delle armi, perduto a Novara o a Lissa.

La storia certamente riconoscerà l’obiettiva difficoltà di un Regno nel quale, accanto al Sovrano, è mancata una classe politica adeguata ai tempi e capace di osare nel nome delle libertà statutarie per affiancare il Capo dello Stato nella gestione di un Paese dagli antichi squilibri economici e sociali, fonte di grave malcontento, allora come oggi.

Quanto alla testimonianza del "giovane sergente", enfatizzata da Mannucci, si tratta di fatti noti che hanno coinvolto alcuni vertici militari, quelli dei quali poc'anzi riconoscevo l'inadeguatezza e la scarsa dignità.

19 settembre 2012

 

 

 

Molto meglio valorizzare le province

Abolire le regioni?

di Salvatore Sfrecola

 

Ieri sera, nel corso di Ballarò, la trasmissione di approfondimento politico della terza rete, che ha affrontato, con il concorso di Pier Luigi Bersani, Elsa Fornero ed altri giornalisti e sindacalisti, i temi della crisi economica e dello sviluppo, un intervento di Cesare Romiti, già amministratore delegato della FIAT, oggi Presidente della Fondazione Italia - Cina, ha destato la mia attenzione. Non solo per la puntuale difesa dell’esperienza di alcuni interventi industriali al Sud (un servizio aveva dato conto della crisi dell’avellinese IRIBUS che priverà l’Italia di una fabbrica di auto di Avellino), da lui promossi ai tempi della sua esperienza torinese, ma soprattutto per la critica vivace e ragionata mossa alle regioni a causa della loro elefantiasi amministrativa, le grandi e costose sedi, le rappresentanza a Roma ed all'estero. Ed ha sostenuto che sarebbe stato meglio dar vita a consorzi di province.

È la tesi che questo giornale ha sposato da tempo. Tesi non nuova, anzi coeva con l’istituzione dello Stato unitario, promossa dal Ministro dell’interno Marco Minghetti che aveva presentato un disegno di legge in cui si delineava l’introduzione sperimentale di “consorzi permanenti di province”. La proposta tendeva a non disperdere nel nuovo Stato esperienze amministrative pregresse, legate alla storia delle singole aree geografiche con tradizioni spesso illustri risalenti nei secoli per effetto degli ordinamenti comunali e statali. Intervenendo alla Camera Minghetti disse “non vogliamo la centralità francese… non vogliamo neppure una indipendenza amministrativa come quella degli Stati Uniti d’America”.

L’iniziativa non ebbe seguito e fu centralismo! Si è detto che il nuovo Regno, trovandosi di fronte la “questione meridionale”, politica ed economica, non poteva permettersi un decentramento che desse autonomia alle province, mancando al Sud un tessuto sociale idoneo all’autogoverno, come era stato sperimentato anche dal regime borbonico, ad ogni tentativo di riforma delle amministrazioni locali.

Si fosse seguita l’idea di Minghetti forse l’Italia non avrebbe visto fiorire quei movimenti egoisticamente attaccati a piccole realtà locali, divenute la ridotta della storia municipale e provinciale contro il centralismo statale ed oggi contro l’ancor più odioso centralismo regionale.

Oggi obiettivamente è difficile che l’idea di Romiti, che è anche la mia, possa essere politicamente apprezzata per dare avvio ad una riforma costituzionale. Ma è certo che le province storicamente corrispondono alla realtà culturale ed economica dei territori, laddove le regioni sono una costruzione artificiosa che spesso non ha alcun aggancio con realtà comunitarie formatesi nei secoli. Come dimostra la ricorrente richiesta di aree di confine tra regioni di passare dall’una all’altra.

Oltretutto le regioni si atteggiano come statarelli arroganti, oggi titolari anche della funzione legislativa generale che un tempo era propria dello Stato nazionale, con tutte le conseguenze anche sulla funzione di indirizzo e coordinamento dell'Amministrazione statale, praticamente annullata dalla forza politica dei “Governatori”, come pomposamente si fanno chiamare i Presidenti delle regioni.

Sostituire alle regioni consorzi di province, omogenee o affini per cultura, economia e connotazione del territorio, non significa far venir meno lo spirito federalista presente in molte realtà territoriali, ma consente una gestione dei problemi del territorio molto più conforme alle esigenze proprie delle comunità interessate.

Intanto si smantellano le province con un meccanismo che non punisce le scelte illogiche degli ultimi anni prodotte dalla micro politica dei nostri parlamentari, ma ridisegna la mappa del territorio sulla base di numeri che prevedono accorpamenti e divisioni che alterano geografie antiche e consolidate nella cultura e nella tradizione.

C’è poca speranza di resipiscenza, ma non trascuriamo di tornare ad esprimere le norme opinioni.

19 settembre 2012

 

 

 

Non vogliono controlli sui finanziamenti pubblici, mai!

Incredibile improntitudine dei partiti

di Salvatore Sfrecola

 

In un tempo nel quale la credibilità dei partiti ha raggiunto il punto più basso nella storia della democrazia, ed alla vigilia di elezioni per tutti difficili, mentre monta la rivolta impersonata da Grillo, continua imperterrita l’opposizione dei partiti a qualunque controllo sulla gestione dei fondi pubblici loro assegnati.

Per nulla intimiditi dal fatto che un referendum aveva bocciato il finanziamento pubblico dei partiti, gli stessi si sono inventati meccanismi di “rimborso” che premiano anche le formazioni ormai inesistenti, non vogliono controlli sui bilanci da parte della Corte dei conti, che questo mestiere fa da sempre e che già controlla le spese elettorali, ed oggi rifiutano perfino il controllo “esterno” di una società di revisione sulle spese dei gruppi parlamentari.

Dunque, se non cambierà, la proposta dei relatori è nel senso che il controllo su quei fondi sarà interno a Montecitorio e non da parte di una società di certificazione esterna, come aveva proposto il Presidente Gianfranco Fini.

Se ne parlerà oggi. Perché la Giunta esaminerà lo schema di Regolamento delle spese dei Gruppi.

Comunque vada, anche se dovesse prevalere la tesi di Fini, che aveva chiesto di inserire la previsione che i bilanci dei gruppi fossero controllati da una società di certificazione esterna alla Camera, se, cioè l'orientamento dei Gruppi di eliminare il controllo esterno fosse superato, rimarrebbe l’immagine negativa di un ceto politico che non vuole controlli e s’inventa di tutto per giustificare questa soluzione, già oggetto di una discutibilissima sentenza della Corte costituzionale che anni addietro negò alla Corte dei conti il giudizio sui conti degli organi costituzionali.

Siamo al medioevo del diritto, nel senso deteriore di una concezione di ius singulare, di privilegi inconcepibili in una democrazia costituzionale nella quale tutti rispondono al giudice naturale deputato alla verifica della corretta gestione del denaro pubblico. Perché di questo si tratta.

Oggi, sulla base della relazione degli on.li Antonio Leone (Pdl) e Gianclaudio Bressa (Pd), la Giunta deciderà se il testo dagli stessi predisposto può essere approvato. Quel testo prevede che “entro trenta giorni dalla propria costituzione, ciascun Gruppo approva uno statuto”, il quale “indica l'organo competente ad approvare il rendiconto e l'organo responsabile per la gestione amministrativa e contabile del Gruppo”.

Nessun controllo esterno, dunque, anche se si precisa che i “contributi” della Camera “sono destinati dai Gruppi esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti all'attività parlamentare e alle funzioni di studio, editoria e comunicazione ad essa ricollegabili, nonché al fine di garantire il funzionamento degli organi e delle strutture dei Gruppi”.

Il controllo, dunque, sarà effettuato dal collegio dei Questori (i tre deputati di maggioranza e opposizione che sono a capo dell'Amministrazione della Camera), mentre Fini aveva previsto che “allo scopo di garantire la trasparenza e la correttezza nella gestione contabile e finanziaria, ciascun Gruppo si avvale di una società di revisione legale, che verifica nel corso dell'esercizio la regolare tenuta della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili”.

Incredibile improntitudine di una classe politica che continua a ignorare quel che pensa la gente, che si è asserragliata nel “Palazzo” e ritiene di poterci restare a lungo, mentre il Paese è allo stremo, come dimostrano quotidianamente i dati statistici su lavoro e produzione industriale, una miscela pericolosissima, che sembra essere sottovalutata da parte di questi “rappresentanti del popolo” i quali non hanno compreso che la gente è alla disperazione, come dimostra l’aumento dei furti, degli scippi e delle rapine.

19 settembre 2012

 

 

 

Di ritorno da una vacanza a Creta

Turismo in Italia e all’estero:

per noi ancora un'occasione mancata

di Salvatore Sfrecola

 

Torno oggi da Creta, dove ho trascorso una settimana di riposo tra mere e storia, a condizioni di accoglienza eccezionali per qualità e prezzi.

Ciò che mi induce a qualche considerazione generale, con specifico riferimento all’offerta alberghiera che sostiene il turismo.

Posto che la scelta della vacanza è originata da motivazioni diverse, il mare pulito, le montagne boscose, queste espressioni della natura e la cultura di un paese, tutte assolutamente personali, vorrei ragionare un po’ su Grecia e Italia e sulle ragioni del turismo.

La Grecia è parte essenziale della nostra civiltà, le sue istituzioni e l’arte che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola fin dalla elementari sono indimenticabili ed anzi col tempo se ne accresce la consapevolezza.

Di fatto, però, delle istituzioni che hanno lasciato in tutti noi i fondamenti della democrazia (si pensi alla Costituzione di Atene di Aristotele) non residuano luoghi la cui conservazione possa costituire un’attrattiva turistica, sia pure di un turismo colto. Del Partenone è rimasto ben poco dopo il passaggio dei turchi e degli inglesi che lo bombardarono a fine '800, del Palazzo di Cnosso, sede del Regno miceneo, che pure ha dato vita ad una grande civiltà ben 2000 anni prima di Cristo, è visibile qualcosa dei muri perimetrali, con qualche colonna fantasiosamente ricomposta dall’archeologo inglese Sir Evans, oggi molto criticato dagli storici. Vale comunque la pena di visitarlo. È sempre un’emozione come quella che ci prende a Rodi di fronte al Castello dei Cavalieri (di Rodi, appunto, e poi di Malta), a Kalitea, le terme romane restaurate e valorizzate negli ultimi anni.

Per chi non è preso dalla storia il fascino della Grecia è fatto di spiagge bellissime e di un mare trasparente, dei paesaggi antichi, come a Corfù dove dominano gli ulivi che piantarono i veneziani secoli addietro, milioni di ulivi dai tronchi contorti ed arsi che pure alimentano una ricca produzione di olive e di olio. Le olive greche che arricchiscono le insalate tipiche con pomodori, cetrioli, capperi, peperoni e cipolle e formaggio feta (la famosa greek salad).

A Corfù gli uliveti sono distinti da muretti di pietre a secco e quasi ti sembra di essere al tempo di Ulisse, il viandante alla ricerca della sua isola e della fedelissima Penelope.

Le storia intrecciata al paesaggio. Come in Italia, del resto, assai meno dell’Italia, dalla storia ricchissima di Palazzi, giardini, fortezze, opere pubbliche, le più varie, dalle terme e dagli acquedotti romani, via via nei secoli fino al Rinascimento e dopo ancora, attraverso il Medioevo dei castelli irti di torri, centro di una vita culturale, politica ed economica più circoscritta ma non meno ricca di valori civili e spirituali. Basta citare Federico II di Svevia, Re d’Italia, un colosso della storia politica, che ha lasciato mirabili opere civili e militari, ed i castelli di caccia nella quale si esercitava con il falcone.

La nostra Italia della quale non è come dovrebbe essere diffusa la consapevolezza di valori che hanno permeato la storia della cultura europea e non solo, come dimostra il culto del latino al di là degli oceani.

La cultura, la storia, le ragioni del nostro turismo, una attività economica fiorente certo ma assai meno di quanto potrebbe essere, solo che si lavorasse sulle infrastrutture turistiche, sui servizi di accoglienza, gli alberghi, i ristoranti, una realtà che potrebbe creare migliaia di posti di lavoro favorendo, tra l’altro, un indotto straordinario, che non ha di eguali, nell’artigianato di tutte le qualità.

L’ho detto e scritto più volte e oggi, di ritorno da Creta, ne parlo con un’esperienza di poche ore fa che, del resto avevo sperimentato già in precedenza a Corfù, a Rodi, a Samos.

Ho appena lasciato una struttura di elevatissima qualità, a cinque stelle, una architettura straordinaria, fra l’altro progettata da un italiano, per la distribuzione degli spazi che fanno intravedere scorci di una rara bellezza tra la vista del mare e della vegetazione rigogliosa ed attentamente curata. Al centro una grandissima vasca (definita la laguna) realizza un effetto ottico straordinario, quasi finisse nel mare, al punto che, chi passeggia sulla spiaggia sembra che, in realtà, cammini sul mare.

Cinque stelle e ci stanno tutte, anche negli alloggi, ampi e funzionali nell’arredo,  come nei bagni, dove non manca la migliore produzione di saponi e balsami.

Ma quel che colpisce è l’abbondanza di personale e la sua cortesia. Nel buffet e nei ristoranti non c‘è il cameriere del settore, perché chiunque passa riempie il bicchiere, porta via i piatti vuoti, si rivolge al cliente con straordinaria cortesia chiudendo la frase con il consueto paracalò.

Nulla da ridire del buffet e del menù dei ristoranti. Perfino la difficile, per chi non è italiano, cottura degli spaghetti ha superato la prova. Ed  un vecchio cliente mi ha detto che avendo in passato fatto osservare nel sondaggio rimesso a tutti gli ospiti che la pasta era troppo cotta si è sentito chiamare al telefono dalla direzione che chiedeva chiarimenti sul gusto degli italiani in proposito.

Aggiungo la gestione della spiaggia, accuratamente e giornalmente pulita con rimozione delle alghe, con ombrelloni e lettini pulitissimi. E un atto di cortesia che costa poco e rende molto. A metà mattinata una bottiglietta d’acqua per ogni ospite e, più tardi, uno spicchio di anguria o di melone. Sempre offerto con un sorriso.

Voglio dire di uno stile che in Italia non ho constatato altro che in pochissimi casi, in strutture costosissime, dove una notte si paga come una settimana a settembre nella struttura che ho lasciato ieri.

Potrei dire ancora di più dell’efficienza dei servizi (la pulizia giornaliera della piscina grande e delle piscine delle stanze a piano terreno, la cura dei giardini).

Non dirò il nome del resort perché non faccio pubblicità (mi riservo di farlo conoscere privatamente a chi me lo chiedesse) che mi è costato, aereo compreso, meno di una pensioncina sulla riviera. E mi chiedo perché in Italia non sia possibile assicurare un servizio di questa qualità, perché troppo spesso il cliente viene spolpato con un servizio scadente. Perché noi, che siamo i destinatari naturali del turismo per la bellezza delle nostre città d’arte in un contesto naturalistico straordinario, non possiamo recuperare quote di mercato e dare un lavoro a migliaia di giovani nel complesso e articolato mondo dell’accoglienza turistico alberghiera e dei servizi connessi.

Conosco la risposta. Il costo del lavoro. Ma certo influiscono anche varie diseconomie e la parcellizzazione delle strutture spesso troppo piccole per consentire economie di scala. Ma il tentativo di riprendere i primi posti della graduatoria del turismo va fatta, anche con riordinamento delle attribuzioni di Stato e regioni. Occorre indirizzo e coordinamento centralizzato, infrastrutture turistiche specie in aree meravigliose del meridione difficilmente accessibili e uno spirito imprenditoriale che va potenziato e guidato.

Ancora un esempio, per concludere, in visita a Iraklion, la capitale di Creta, la guida ha segnalato alla comitiva che al centro della Città vi erano i gabinetti pubblici. L’ho già scritto più volte. Non ci sono a Roma, che pure li ha inventati.

Credo che ci sia molto da meditare e da fare. Presto, prestissimo. Ci sono giovani che cercano lavoro. Il turismo può darglielo, per tutto l’anno, perché la nostra arte non risente delle stagioni!

16 settembre 2012

 

 

 

 

Papa Benedetto XVI interviene sui temi della Chiesa nella società di oggi

 

Riprendiamo dal Blog di Antonio Socci, Lo Straniero, alcuni passaggi di un recente intervento di Papa Benedetto sulla “crisi della Chiesa”, implicita risposta all’intervista del Cardinale Martini al Corriere della Sera.

“Anche nella Chiesa elementi umani si aggiungono e conducono o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che bisogna togliere, spezzare e schiacciare.

Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire?

Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene guastata la gioia della fede; che non crediamo più e non osiamo più dire: egli, Dio, ci ha indicato chi è la verità, che cos’è la verità, ci ha mostrato che cos’è l`uomo, ci ha donato la giustizia della vita retta.

Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella libertà e nella novità della vita”.

E ancora:

“L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare ricorso”.

E “circa l’intellettualizzazione della fede e della teologia” ha detto:

“È un mio timore in questo tempo, quando leggo tante cose intelligenti: che diventi un gioco dell’intelletto nel quale ‘ci passiamo la palla’, nel quale tutto è solo un mondo intellettuale che non compenetra e forma la nostra vita, e che quindi non ci introduce nella verità”.

Il Papa ha dato risposta a ciascuno di questi temi e alla fine ha concluso con un’immagine impressionante:

“Lasciamoci riempire di nuovo di questa gioia: dov’è un popolo al quale Dio è così vicino come il nostro Dio lo è a noi? Così vicino da essere uno di noi, da toccarmi dal di dentro.

Sì, da entrare dentro di me nella santa eucaristia.

Un pensiero perfino sconcertante. Su questo processo, san Bonaventura ha utilizzato, una volta, nelle sue preghiere di comunione, una formulazione che scuote, quasi spaventa.

Egli dice: mio Signore, come ha potuto venirti in mente di entrare nella sporca latrina del mio corpo?

Sì, lui entra dentro la nostra miseria, lo fa con consapevolezza e lo fa per compenetrarci, per pulirci e per rinnovarci, affinché, attraverso di noi, in noi, la verità sia nel mondo e si realizzi la salvezza.

Chiediamo al Signore perdono per la nostra indifferenza, per la nostra miseria che ci fa pensare solo a noi stessi, per il nostro egoismo che non cerca la verità, ma che segue la propria abitudine, e che forse spesso fa sembrare il cristianesimo solo come un sistema di abitudini.

Chiediamogli che egli entri, con potenza, nelle nostre anime, che si faccia presente in noi e attraverso di noi – e che così la gioia nasca anche in noi: Dio è qui, e mi ama, è la nostra salvezza!

Amen”.

6 settembre 2012

 

 

 

Da Gad Lerner a l’Infedele

Il Cardinale tirato.. per la tonaca

di Salvatore Sfrecola

 

Non ho apprezzato, ieri sera, la performance di Gad Lerner che ha condotto su L’infedele il dibattito sulla figura e il pensiero del Cardinale Carlo Maria Martini, da poche ora sepolto nel Duomo di Milano, impegnandosi a dimostrare che il presule fosse espressione di “un’altra Chiesa”, diversa e distante da quella “di Roma”, burocratizzata attraverso il Papa e la Curia, lontana dalle esigenze della gente.

Con il concorso di Federica Radice Fossati, coautrice dell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera, nella quale il Cardinale avrebbe detto di una Chiesa indietro di 200 anni (anzi due o trecento avrebbe, in realtà, detto) in un dialogo con il padre gesuita Georg Sporschill dalla Radice Fossati tradotto dal tedesco Lerner, ha sezionato il testo alle ricerca di tutte quelle espressioni che avrebbero supportato la sua tesi, quella di una Chiesa lontana dagli uomini del nostro tempo. Un testo, si legge nella presentazione dell’intervista, dal Cardinale “letto ed approvato”, anche se, alla specifica domanda, l’autrice ha ricostruito il contesto dell’incontro in modo che è parso piuttosto che l’assenso del presule lo abbia dedotto dal suo comportamento nel corso dell’incontro più che da una esplicita affermazione ad hoc.

In ogni caso non è da discutere la autenticità del pensiero di Martini, come traspare dall’intervista, considerato che più volte negli scritti e nelle esternazioni varie che hanno accompagnato il suo lungo ministero, il Cardinale ha mostrato di ritenere necessario che la Chiesa tenesse conto delle esigenze di quelle che, sul piano evangelico, potrebbero essere qualificate come le “pecorelle smarrite”, i divorziati, le coppie di fatto, i “diversi” e via discorrendo. Ugualmente il Cardinale aveva in varie occasioni richiamato la Chiesa all’esigenza di condannare i mali interni, la pedofilia innanzitutto, in coerenza, del resto, con le iniziative severe assunte da Papa Ratzinger senza tentennamenti, come dimostra l’atteggiamento serbato da Benedetto XVI nei confronti del Fondatore dei Legionari di Cristo.

Tutti temi presenti nel dibattito all’interno della Chiesa che Lerner ha utilizzato per rimarcare le differenze e le diversità. È un atteggiamento che è stato contrastato esclusivamente da Antonio Socci il quale, giustamente, ha ribadito che la Chiesa non ha bisogno di cercare nel presente e nel futuro una qualche legittimazione dovendo, giorno dopo giorno, ribadire l’insegnamento di duemila anni fa, nato dalla predicazione di Gesù. Un insegnamento che non muta nel tempo perché assume a suo contenuto valori spirituali altissimi che hanno segnato lo spartiacque tra il mondo pagano, che disconosceva l’uguaglianza degli uomini che nel Vangelo sono uguali non perché una norma giuridica lo riconosca, ma perché figli dello stesso Dio, e il tempo nella Buona Novella. È il messaggio dirompente che ha fatto crollare il muro che separava gli uomini e che di alcuni faceva i titolari di tutti i diritti agli altri rigorosamente preclusi. Un messaggio che ha mandato in frantumi le certezze di una società, nell’intero mondo conosciuto, che si basava su liberi e schiavi, in realtà “cose” al servizio di coloro che godevano della libertà.

Non si comprende, in particolare, come un giornalista ebreo, che prega nella lingua dell’Antico Testamento e che trova in quel Libro le ragioni di una fede che non muta nel tempo, possa esprimere nei confronti della Chiesa cattolica una critica per una presunta inadeguatezza alla modernità che non ritrova la sua ragione nell’insegnamento del Vangelo ma in un presunto contrasto tra religione e costumi del tempo presente, come se non ci fossero stati altri periodi della storia nei quali i contrasti tra l’insegnamento evangelico e la società hanno assunto una evidenza ancora maggiore. Si pensi ai costumi del ‘600 che facevano rimarcare, ne dà buona testimonianza Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, la corruzione delle classi dirigenti, compresa quella ecclesiastica, sicché splende nel romanzo la figura di Fra’ Cristoforo e di Carlo Borromeo, tanto per rimanere a Milano.

Gad Lerner, meritevole per l’approfondimento che suggerisce sulle vicende della politica con il suo Infedele, che per l’abilità nel condurre il dibattito si fa perdonare anche i non infrequenti cedimenti ad una certa faziosità politica, ieri sera ha dato prova di poca serenità quando proprio la sua fede religiosa avrebbe dovuto consigliargli maggiore prudenza.

4 settembre 2012

 

 

 

Roma: finisce l'era Alemanno

di Senator

 

Vera o no che sia la telefonata con la quale Berlusconi avrebbe chiesto al Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, di non ricandidarsi, è certo che la figura del primo cittadino della Capitale si è progressivamente sfilacciata, al punto da preoccupare gravemente il Cavaliere. Berlusconi, che in passato aveva trascurato le elezioni romane, al punto da candidare un personaggio scialbo come Antonio Tajani, sonoramente battuto dal modestissimo Veltroni, sembra aver finalmente compreso che, dove c’è confronto vero con l’opinione pubblica, questa va rispettata cogliendone le aspettative rispetto ad esigenze concrete, della vita quotidiana della comunità, il traffico, la condizione delle strade e la loro pulizia, l’inquinamento, i servizi che dipendono dal Comune.

Non è stato così nella gestione Alemanno, ossessionato dalla esigenza di essere riconosciuto come leader nazionale della sua parte politica ha fatto poco il sindaco, come dimostra visibilmente lo stato della Città, la manutenzione delle strade, l'incapacità di gestire la complessa e difficile macchina amministrativa comunale che, perduto un funzionario di valore come il Segretario generale Galliani Caputo, non ha trovato un successore che avesse uguale autorevolezza ed esperienza. Il fatto, poi, di aver cambiato ben tre capi di gabinetto in tre anni dimostra che qualcosa non va nell’entourage del sindaco e nella corte che ha collocato al vertice degli enti controllati.

Preoccupato, dunque,il Cavaliere va alla ricerca del cavallo di ricambio per la corsa alla guida del Campidoglio, ma continua a non capire l’anima vera dei cittadini della Capitale, al punto che avrebbe fatto, tra altri, il nome di Giorgia Meloni, l’evanescente ministro della gioventù, nota soprattutto per aver finanziato, sia pure con scarse risorse, associazioni ed enti “di area”, forse ritenendo che l’accento pesantemente romanesco, lo stile un po’ borgataro  che contraddistingue l'ex leader dei giovani di Alleanza Nazionale, possa conquistare consensi tra il ceto impiegatizio dell’Urbe. Ancora un errore, se fosse quella la scelta, rispetto alle aspettative della Città che soffre di una inadeguata gestione proprio dei servizi cittadini, anche in considerazione della sua straordinaria vocazione turistica, che non di uguali al mondo.

Roma ha diritto ad un vero sindaco. Ad un uomo che sappia rendere questa Città adeguata alla sua storia grandiosa, erede di un impero che aveva fatto dell’organizzazione amministrativa e quindi della gestione dei servizi la ragione del suo perdurante potere e della tradizione che ha lasciato in eredità a noi che, a quanto si deve constatare, non ne abbiamo saputo trarre il giusto insegnamento.

Cavaliere attenzione! Valuti attentamente i sondaggi e comprenda bene le esigenze di questa complessa e multiforme popolazione capitolina che, se trascurata, per non dire disprezzata, come dimostrerebbe la scelta di una candidatura di modestissimo spessore (non solo, quindi, Meloni), sarebbe indotta a votare l’altra parte, nonostante le esperienze di Rutelli e Veltroni non abbiano dato risultati apprezzabili, mai, tuttavia, così scadenti come quelli che, a rendiconto, espone Gianni Alemanno.

4 settembre 2012

 

 

 

L'ennesima occupazione abusiva di suolo pubblico?

Improntitudine e inefficienza?

di Marco Aurelio

 

Sfacciata occupazione di suolo pubblico a Roma, nella centralissima via Crescenzio, ad opera di un giornalaio che sulla sede stradale, dinanzi al marciapiede sul quale insiste l’edicola, poggia oggetti vari con esposizione dei suoi prodotti. Accertato questa mattina alle 8,30 circa.

Siamo all’inizio della via Crescenzio provenendo da piazza Cavour, sulla destra, l’edicolante colloca dinanzi al suo chiosco alcuni oggetti, supporti di pubblicazioni, con l’evidente scopo di impedire il parcheggio di autoveicoli e motocicli.

Mi chiedo se è possibile occupare in questo modo la sede stradale. Se è esplicitamente consentito occupare un tratto di strada dinanzi ad un’edicola o se è una prassi tollerata dall’autorità municipale.

Un particolare. L’edicola è dinanzi ad un ufficio del Comune di Roma, con tanto di Polizia Municipale.

Attendo chiarimenti. Ad evitare che il cittadino ritenga che l’occupazione sia illegittima e tollerata. Il che fa scattare il dubbio di compiacenze.

Ne dubito fortemente, nella speranza che si tratti solo di "disattenzione". Ma la questione va chiarita perché se è corretto che la sede stradale prospiciente una edicola debba essere lasciata libera deve farne esplicita menzione la concessione comunale con contestuale segnalazione sulla sede stradale dell’indisponibilità dell’area al parcheggio.

È una piccola cosa? Forse, ma di quelle “piccole cose” che da un lato dimostrano il rispetto o meno delle regole in un regime di trasparenza, dall’altra offuscano l’immagine dell’Amministrazione perché è sempre più difficile ritenere che un abuso, se di questo si tratta, sia tollerato da chi è istituzionalmente chiamato a reprimerlo.

3 settembre 2012

 

 

 

Le sinistre inviperite dalla performance di Clint Eastwood al Congresso di Tampa

di Diplomaticus

 

Se ne è data carico La Stampa, con un articolo di Francesco Semprini, di riassumere le biliose reazioni dei sinistri di oltre oceano per la travolgente performance di Clint Eastwood intervenuto a Tampa, al congresso del Partito Repubblicano. Ne parla tutta l’America di quel monologo con la sedia vuota, quella del Presidente Obama che secondo l’attore regge l’Unione in modo insufficiente.

Iniziativa originale e senza dubbio efficace, quella di Eastwood, come dimostra il successo dei Network, di cui riferisce la Repubblica, ma non piaciuta a Michael Moore, un regista “anticonformista” – lo qualifica Semprini su La Stampa – che appella Eastwood “un vecchio pazzo che con il suo discorso ha “dirottato”» la Convention repubblicana” e preconizza che “le prossime generazioni si dimenticheranno di Dirty Harry, Josey Wales o Million dollar Baby - spiega Moore - Si ricorderanno piuttosto di un vecchio pazzo che ha preso il controllo dell'evento più importante di un partito nazionale. In pochi minuti ha stravolto completamente il modo in cui sarà ricordato dai posteri”.

Secondo il regista “anticonformista” l’intervento di Eastwood avrebbe dimostrato che i Repubblicani sono completamente distaccati dalla realtà.

È troppo evidente il livore partigiano che non mette conto indugiare oltre. Non c’è analisi politica.

Anche la risposta di Obama, “la sedia è occupata”, non è pertinente. Eastwood non negava che fosse occupata parlando ad una riunione elettorale, ma la riteneva inutilmente occupata nella sua visione critica dell’operato dell’attuale presidente.

La querelle tuttavia è interessante per un altro profilo. I giornalisti italiani continuano a ritenere gli attori americani, anche i grandi attori, come dei figuranti, ignorando che molti hanno un’esperienza politica. Eastwood, ad esempio, è sindaco del suo paese, attivo nello schieramento repubblicano, tanto che in passato è stato fatto il suo nome come possibile candidato alla presidenza degli Stati Uniti.

È un po’ come nel caso di Ronald Reagan che, al momento delle elezioni che poi vinse, continuava ad essere presentato dai nostri giornali come un attore secondario della serie Western, dimenticando che aveva governato per due mandati successivi uno stato come la California, più grande dell’Italia e prospero nell’economia d’oltreoceano.

L’eterno provincialismo italiano, che spesso contamina anche la grande stampa, procede per schemi un po’ furbescamente utilizzati a scopi di parte. Adesso la sinistra italiana, alle prese con una difficile campagna elettorale, è preoccupata della possibile vittoria di Mitt Romney, dopo la buona prova del suo vice Paul Ryan, il monologo di Estwood e la “benedizione” del Cardinale Timothy Dolan, il “papa d’America” ed arruola un registra “anticonformista” che viaggia sopra le righe per insultare il collega di un’altra parte politica.

1 settembre 2012

 

 

 

 

 

 

 

 


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