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UnSognoItaliano.it

 

 

OTTOBRE 2012

 

Ma Il Tempo se la prende con i magistrati

non con i corrotti ed i disonesti

La legalità necessaria

di Salvatore Sfrecola

 

Diseducativo, altamente diseducativo, all’indomani del ricordo del sacrificio di Falcone e Borsellino, il fondo di Mario Sechi, oggi su Il Tempo.

Uomo intelligente ed arguto, puntuale nelle polemiche quando, nel corso delle tavole rotonde, ad Omnibus e a In Onda, trasmissioni delle quali è assiduo frequentatore, prende appunti sulla sua moleskine, annota numeri, traccia righe e butta giù disegni, Sechi mai deflette dalla linea politica che il giornale ha sposato. Ma, per carità, non chiamatela di Centrodestra né liberale, perché non c’è nulla che assomigli alla cultura della destra italiana né all’ispirazione liberale della quale quell’area politica si è tradizionalmente nutrita, da Cavour a Malagodi, prima di sparire con la crisi della Prima Repubblica e l’avvento del Partito personale.

Ebbene, Silvio Berlusconi viene condannato, non per un reato “inventato”, come sostiene il Popolo della Libertà, ma per un comportamento che non è raro riscontrare tra gli imprenditori, evasione fiscale e costituzione di capitali occulti derivanti da soprafatturazioni, e Sechi, neppure sfiorato dal dubbio che il Cavaliere possa effettivamente aver fatto quello che fanno in tanti, si scaglia contro i magistrati. E siccome qualche giorno prima altri magistrati avevano condannato degli scienziati componenti della Commissione Grandi Rischi, per aver sottovalutato la possibilità che, nel crescendo delle scosse sismiche che avevano caratterizzato l’area aquilana nei giorni precedenti, potesse verificarsi quel disastroso terremoto dell’aprile del 2010 che ha distrutto l’Aquila, Sechi ha un’altra occasione per scagliarsi contro la magistratura che “ha svolto un ruolo di supplenza in alcuni momenti, non necessario, poi ha scambiato la supplenza per un posto fisso”.

Ora non è dubbio che le sentenze possano essere criticate, quella che ha condannato Berlusconi e quella che ha inflitto una severa pena a scienziati ai quali sembra fosse stato suggerito di non destare allarme. Con la conseguenza che sono morte oltre 300 persone, alcune delle quali nella casa dello studente, costruzione nuova, che pertanto avrebbe dovuto essere realizzata con le precauzioni antisimiche.

Sechi non critica le sentenze. Non potrebbe farlo. Non ha potuto leggerle, non conosce le prove che hanno indotto i giudici ad assumere quelle decisioni.

Per lui, che giornalmente denuncia sui giornali le malefatte della casta dei politici, di coloro che hanno tolto risorse di bilancio destinate a funzioni assistenziali per ingigantire il fondo destinato alle spese “politiche”, poi da qualcuno usate per pranzi e cene, l’acquisto di ville, vacanze, ecc., il male sono i magistrati.

C’è una certa incoerenza in tutto ciò. Forse Sechi non considera che l’intervento della magistratura è occasionato da illeciti. Se questi non ci sono i pubblici ministeri ed i giudici si riposano, leggono Papiniano e Ulpiano, Montesquieu e Beccaria, Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano. O si dedicano ad altre letture.

“I magistrati, inquirenti, giudicanti, civili, penali, tutti, sono diventati nell’ordine: potere legislativo, esecutivo, costituzionale, incostituzionale, manageriale, sindacale, spettacolare, deprimente, utile, inutile, salutare, nocivo”. Bell’esercizio di fantasia, non c’è dubbio. Come l’affermazione che “non esiste Paese nel quale la magistratura abbia questa dimensione abnorme”. Forse perché altrove si rispetta la legge e, soprattutto, chi sbaglia paga. Ricordate Patrice Hilton, la miliardaria americana, condannata a qualche giorno di prigione. Se li è fatti tutti. In Italia non sarebbe successo. Devi uccidere la moglie con premeditazione e particolare crudeltà, come Salvatore Parolisi, per meritare l’ergastolo (stavolta per Il Tempo i magistrati non sono da criticare!). Ma c’è da scommettere che farà solo un po’ di anni ed uscirà “per buona condotta”. E qualcuno ricorderà che un giovane, avendo ucciso allo stadio, un altro tifoso si è preso undici anni ma è uscito solo dopo pochi mesi.

Del resto il Cavaliere, condannato a quattro anni, se ne è visti condonare tre per l’indulto.

Questo, caro Direttore, è un Paese poco serio dove il principio di legalità è enunciato solo sui libri di scuola. Ubi societas ibi ius, ne avrà sentito parlare, per dire che il diritto è fondamento del vivere civile ed a presidio di questa condizione stanno i giudici. Sechi se ne deve fare una ragione. Poi critichi pure le sentenze, dopo averle lette.

Tutte le altre elucubrazioni delle quali il fondo si alimenta sono argomentazioni da anticamera del potente politico di turno, quello che “non ci sta” a rispettare le leggi. Parlo di quei politici che all’indomani di un referendum che aveva abolito il finanziamento pubblico dei partiti si sono fatti una leggina ad hoc per fruire di “rimborsi” elettorali, che continuano ad essere erogati anche a partiti defunti.

Leggevo Il Tempo da ragazzo, era il giornale della borghesia romana colta, dei dipendenti pubblici e di tutti coloro che avevano, come si dice, senso dello Stato. Si comprende perché questo giornale ha oggi perso molti lettori.

Una chicca finale che dimostra come Sechi sia guidato da pregiudizi. “Mentre tutti gli altri dipendenti pubblici hanno subito decurtazioni di ogni sorta dello stipendio e i pensionati il cambio in corsa delle regole per il meritato riposo, magistrati che giudicano sui magistrati hanno stabilito che gli stipendi delle toghe non si toccano. Siccome devono essere “sereni nel giudicare” la Consulta altrettanto serenamente ha deciso che il loro portafogli deve essere intoccabile”.

Peccato per Sechi che le cose non stiano così. La Corte costituzionale ha stabilito che quel prelievo sugli stipendi dei dipendenti pubblici, non solo dei magistrati, è incostituzionale perché, a parità di reddito, non tocca i privati. Tutto qui. L’ha spiegato bene Giuliano Amato, interrogato sul punto da Lilli Gruber a In Onda. Evidentemente Sechi era sintonizzato su un altro canale.

È un peccato, perché l’uomo è intelligente e Il Tempo potrebbe tornare ad essere il primo giornale della Capitale. Se solo riscoprisse quei valori che lo fecero grande, quello della legalità soprattutto.

27 ottobre 2012

 

 

Per controllare la spesa pubblica

Ripartire dal giudizio sui conti

di Salvatore Sfrecola

 

In principio si chiamava Camera dei conti, da quando Amedeo III di Savoia l’aveva istituita a Chambery nel 1351, ad imitazione della Chambres des comptes del Re Luigi IX di Francia. Cavour che nel 1852 aveva affermato “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile” ne fece nel 1859 la Corte “dei conti”, a sottolineare ulteriormente la natura giurisdizionale che aveva avuto fin dalla sua istituzione, dacché Corte significa magistratura giudicante (in origine dipendenti direttamente dal sovrano donde il nome, Vocabolario della lingua italiana, Treccani, vol. I, 972). Sempre “dei conti”, perché la più antica delle attribuzioni degli organi di controllo è stato l’esame delle contabilità, in quanto “l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse, è regola d’ordine razionale”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone, il Presidente della Corte nella ricorrenza del centenario (1862 – 1962), che non può essere collocata in una o in un’altra epoca storica. E ricordava la parabola del Vangelo di Luca, là dove si intima al fattore infedele di rendere conto della sua amministrazione.

Regola antichissima, dunque, che nell’Atene della democrazia faceva rispettare il Tribunale dei Logisti (λογιστοι, da λογοσ, conto), come a Roma i Quaestores, inflessibili custodi dell’aerarium populi romani, i quali pretendevano la resa del conto da chiunque gestisse denaro pubblico. Sicché Marco Tullio Cicerone, nella veemenza della sua seconda orazione contro Verre, sottolineava come l’infedele funzionario, accusato de pecuniis repetundis (concussione), rationes ad aerarium non audet referre, non osava rendere il conto. E si comprende bene il perché. Non avrebbe potuto nascondere le proprie malefatte.

Carta canta, dice un detto popolare. Così il conto, che rappresenta una gestione, numeri dietro i quali stanno spese ed entrate e beni, perché anche dei beni dello Stato e degli enti pubblici il funzionario che ne ha la responsabilità deve rendere il conto.

Prima e più antica espressione del controllo, in forma giurisdizionale, questa attribuzione della Corte dei conti oggi è in parte negletta o poco considerata. Mancano risorse umane e strumentali, mancano soprattutto i ragionieri, coloro che devono verificare che le somme siano correttamente iscritte nei prospetti dei quali si compone un conto e verificare le somme e le percentuali, ad esempio degli interessi. Una verifica non formale perché dietro quelle tabelle c’è una gestione, spese ed entrate che denunciano il rispetto di regole giuridiche e di buona amministrazione e spesso possono rivelare anche illeciti penalmente rilevanti. Come quando documenti a “rigoroso rendiconto”, come si dice, siano le carte d’identità, i moduli per i permessi di soggiorno o i contrassegni per l’ingresso nelle zone a traffico limitato, espongono quantità inferiori a quelle assunte in carico ed a quelle utilizzate, così rivelando l’uso illecito di quei documenti. Ugualmente per i beni, soprattutto quelli dismessi, portati a discarico con formula anodina ma che a volte nasconde un furto o un danneggiamento che li renda inservibili. E, poi, le contabilità degli economi e dei tesorieri, cifre di tutto rispetto, milioni di euro che è interesse pubblico controllare.

Si tratta di un impegno gravoso per la Corte, ma che le consente di monitorare la spesa pubblica e di rilevare in tempi ragionevoli illegittimità e disfunzioni.

Questa attribuzione della Corte ho detto è da anni negletta o trascurata. Ed è molto probabile che sia ulteriormente trascurata in relazione al decreto legge n. 174 del 10 ottobre 2012, in corso di conversione, che introducendo nuovi controlli sugli enti locali sembra destinato a distogliere unità di magistrati e impiegati dalla giurisdizione al controllo, così determinando un squilibrio pericolosissimo per il buon funzionamento della Corte nell’ambito delle cui attribuzioni il controllo e la giurisdizione contabile costituiscono due facce della medesima funzione di garanzia “obiettiva”, come ci ha insegnato Salvatore Buscema, nella corretta gestione del denaro e dei beni pubblici. Obiettiva perché svolta da una magistratura in posizione di neutralità, al servizio della Repubblica, non già dello Stato centrale, un profilo sotto il quale vanno visti i nuovi controlli preventivi di legittimità affidati proprio alla Corte.

Perché depotenziare la giurisdizione, dunque? Perché l’eutanasia di questa funzione essenziale, l’unica che, in verità, preoccupa gli amministratori ed i dipendenti incapaci o disonesti? Perché le forze sono inadeguate?

Attenzione con questo modo di procedere la Corte dei conti rischia di non corrispondere alle aspettative di Governo e Parlamento, cioè di quella parte delle Assemblee legislative che ha a cuore la buona gestione della cosa pubblica.

Cosa dirà la gente quando i corrotti non saranno condannati a risarcire il danno provocato all’erario, con quella sanzione pecuniaria che piace all’opinione pubblica perché corrisponde ad un modo di ragionare tipico del cittadino che pretende, anche nelle vertenze private, che il giudice condanni il responsabile al pagamento di una somma corrispondente al danno provocato.

Così gli amministratori onesti che si sentono responsabili nei confronti della comunità amministrata. Ricordo, a questo proposito, un episodio. Da Procuratore regionale dell’Umbria ricevetti una telefonata dal Segretario generale di un comune che m’informava che, di fronte ad un danno accertato da un perito, il sindaco non voleva denunciare il responsabile alla Corte ed intendeva agire dinanzi al giudice ordinario. Lo chiamai e gli spiegai che doveva denunciare il fatto fonte del danno alla Procura regionale. La sua risposta fu che non si fidava di noi perché abbiamo il “potere riduttivo” che, a suo dire, avremmo usato con disinvoltura e lui, invece, voleva l’integrale risarcimento.

La spuntai io, dopo una lunga trattativa, ed ottenni dalla Sezione con una requisitoria evidentemente convincente che non facesse ricorso al potere riduttivo perché la colpa del responsabile era talmente grave da sfiorare il dolo sicché nessuna “attenuante” poteva essere riconosciuta in favore del responsabile.

Torniamo, dunque, ai conti ed alla loro verifica.

Mancano le risorse umane tanto nel controllo quanto nella giurisdizione? È compito della Corte battere i pugni sul tavolo e dire al Governo, “se vuoi il mio aiuto con controlli preventivi di legittimità devi mettermi in condizioni di operare, cominciando dal consentire il completamento dell’organico che soffre da anni di un vuoto intorno al 30 per cento, un dato significativo”. Se, poi, come sostiene qualcuno le Sezioni giurisdizionali sono meno gravate rispetto ad un tempo di giudizi pensionistici è proprio il momento di incrementare l’esame dei conti dai quali verrà certamente una spinta ad una gestione più virtuosa.

E per concludere devo dire che la cosa peggiore che possa fare chi gestisce la Corte è di accettare attribuzioni nuove che non possono essere esercitate efficientemente con il rischio di scaricare su questa magistratura gli effetti di eventuali ma inevitabili futuri scandali. Inoltre non è bene creare disagio tra coloro che sono titolari delle attribuzioni di controllo e giurisdizionali usando una norma impropria, quell’art. 7 del decreto legge, del quale abbiamo parlato ieri, che è disposizione la quale, in ogni caso, appartiene alle attribuzioni del Consiglio di Presidenza e non avrebbe dovuto trovare allocazione in una norma primaria, neppure nell’attuale, gravissimo degrado della legislazione.

A questo proposito ricordo che in un convegno di qualche anno fa, organizzato da Franco Bassanini e da una serie di associazioni di giuristi, tra cui ADSTRID, Valerio Onida, intervenendo, ebbe a stigmatizzare con parole durissime l’imbarbarimento delle norme di diritto amministrativo affermando che mai aveva visto in passato uscire da Palazzo Chigi leggi e decreti scritti così male. Saranno passati circa dieci anni e le cose sono peggiorate, anche perché non si sa bene chi coordina l’attività legislativa del Governo, tra il Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio e l’Ufficio legislativo del Ministero dell’economia. Un tempo dominava l’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia, come si chiamava allora, e le norme erano, quanto meno, scritte in italiano, senza uso di parole straniere che offende la nostra sensibilità di giuristi e di italiani. E torna in mente quanto diceva Joseph de Maistre, secondo il quale se l’autorità pubblica inizia ad usare parole straniere in atti ufficiali vuol dire che lo Stato si avvia alla dissoluzione.

27 ottobre 2012

 

 

Mentre l’Italia è squassata da sprechi e corruzione

Eutanasia della giurisdizione contabile

di Salvatore Sfrecola

 

All’indomani della celebrazione dei 150 anni dello Stato unitario, l’Italia vive la più fosca stagione della sua storia politica e amministrativa, squassata da sprechi incredibili e corruzione. Dalle Alpi al Lilibeo evasori fiscali, amministratori e funzionari incapaci o, più spesso, autentici delinquenti aggrediscono le casse dello Stato e degli enti pubblici per proprio, personale tornaconto.

Fin qui tollerati, questi criminali “dai colletti bianchi” trovano oggi sulla loro strada il Governo Monti che cerca di mettere riparo alla situazione. I buoi in gran parte sono scappati, ma quelli che rimangono se la dovranno vedere con misure severe, soprattutto controlli che s’immagina siano capaci di frenare lo spreco e la corruzione. Impresa ardua in un sistema di ampia autonomia delle regioni e degli enti locali che lo stesso Governo ha in animo di rimodellare dopo la sciagurata riforma del 2001. Ma intanto la casta delle regioni e degli enti locali, potentissima in Parlamento, impedisce ogni riduzione della spesa che colpisca la politica locale.

La risposta alla mala gestione sta, dunque, nei controlli affidati alla Corte dei conti con il decreto legge n. 174 del 10 ottobre 2012. Controlli preventivi di legittimità che si vorrebbero, tuttavia, limitare agli atti generali o programmatici sotto il profilo della verifica del rispetto dei vincoli finanziari, e controlli sulla gestione, già in atto svolti dalla magistratura contabile.

Italico more la riforma si fa addossando alla Corte un impegno notevole, ben sapendo che uomini e mezzi sono insufficienti, che il ruolo della magistratura denuncia una scopertura di quasi il 30 per cento, un numero rilevante, considerata l’entità degli enti da controllare.

Ed allora, mentre il Governo non sembra disponibile a mettere mano al portafoglio per consentire il completamento del ruolo della magistratura della Corte e, magari, per l’assunzione di qualche funzionario di collaborazione in più, laureati in economia e ragionieri (servono soprattutto ragionieri per esaminare le contabilità) c’è qualche mente eletta che immagina di distogliere magistrati dalla giurisdizione per destinarli alle sezioni di controllo e formula un emendamento che, rubando il mestiere al Consiglio di Presidenza, organo di autogoverno della magistratura contabile, qualifica i magistrati assegnati alla giurisdizione quali “perdenti posto” (una formula che si usa quando un ufficio viene soppresso) per assegnarli alla sezione del controllo.

Fatta con legge questa scelta sarebbe, di per se, un fuor d’opera se non ci stessimo abituando ad un pauroso degrado della giurisdizione, sempre più grezza e approssimativa. Anche perché l’emendamento di cui ha dato notizia questo pomeriggio il Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti, Tommaso Miele, non si sa bene da chi elaborato, anche se è facile immaginarlo, prevede una successiva rideterminazione delle piante organiche sulla base dei carichi di lavoro. Ottima indicazione che tuttavia prevede statistiche affidabili sull’impegno dei singoli uffici. Statistiche che l’esperienza ha dimostrato non sempre assunte sulla base di dati che corrispondo all’effettivo lavoro degli uffici, soprattutto delle Procure e delle Sezioni giudicanti.

L’emendamento è riferito all’art. 7, comma 1, lettera a) ed ha il seguente tenore:

“a) Il Presidente della sezione regionale di controllo della Corte dei conti coordina le attività amministrative della Corte stessa presso la medesima Regione. I magistrati in servizio, alla data di entrata in vigore della presente legge, presso ciascuna delle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti e delle Procure presso le medesime, sono assegnati, quali perdenti posto, alla sezione regionale di controllo presso la medesima Regione, in misura della metà e in ragione della minore anzianità nel ruolo, con salvezza del numero minimo per la composizione del Collegio e con possibilità di applicare magistrati in via aggiuntiva a più sezioni. Fermo restando la disposizione di cui al periodo precedente, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti, nel termine perentorio di novanta giorni, ridetermina, su proposta del Presidente della Corte, sentite le Sezioni riunite, sulla base del numero di magistrati in effettivo servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto legge, le piante organiche di ciascun ufficio in coerenza con i carichi di lavoro già accertati e con le nuove funzioni di cui alla presente legge. In caso di mancata adozione delle relative delibere nel termine di cui al periodo precedente, si provvede con decreto del Presidente della Corte dei conti. Le medesime disposizioni si applicano alle sezioni istituite presso le Regioni a Statuto speciale e presso le province autonome di Trento e di Bolzano”.

Di fronte a questa iniziativa Miele si è rivolto al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, al Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, al Ministro dell’Economia e delle Finanze Vittorio Grilli, ed ai Presidenti delle Commissioni I e V della Camera dei Deputati, On. Donato Bruno e On. Giancarlo Giorgetti, manifestando “la grande preoccupazione e lo sconcerto di tutti i magistrati contabili per il tenore della disposizione proposta e per gli effetti devastanti che – se approvata - essa avrebbe sulla funzione giurisdizionale della Corte dei conti, espressamente prevista e tutelata dall’art. 103, comma 2, della Costituzione”. Ed ha fatto proporre un emendamento soppressivo dell'intero art. 7.

Naturalmente l’Associazione Magistrati si riserva di assumere ogni iniziativa per contrastare l’approvazione dell’emendamento incriminato.

Una conclusione è necessaria. I controlli preventivi e quelli successivi sono certamente nel dna della Corte dei conti e costituiscono uno strumento importante per frenare sprechi e corruzione. Con una considerazione. Quelli preventivi impediscono all’atto soggetto a controllo di esplicare efficacia, ove ne sia individuata la illegittimità. I politici non li temono, i funzionari onesti li prediligono, perché li mette al riparo da errori e dalle prepotenze degli amministratori. Quelli “sulla gestione” vengono dopo, a cose fatte, e denunciano disfunzioni e mancato perseguimento degli obiettivi agli organi espressione della volontà comunitaria, Parlamento, Consigli regionali, provinciali, comunali. Questi il più delle volte fanno orecchio da mercante. Nel senso che hanno delle denunce della Corte dei conti una visione “politica”. Chi governa li snobba. A volte se ne impossessano l’opposizione, quando non tresca con chi governa, e la stampa.

La vera sanzione, quella che politici e dipendenti disonesti temono, è la giurisdizione di responsabilità amministrativa e contabile. È in quella sede che, chiamato in giudizio dal Procuratore regionale, il cattivo amministratore e il funzionario infedele si sentono chiedere il risarcimento del danno arrecato all’erario. E vi assicuro che anche quando si tratta di poche migliaia di euro la preoccupazione è tanta e la sanzione dolorosa.

Se passasse l’emendamento contestato dall’Associazione Magistrati amministratori e dipendenti disonesti stapperebbero una bottiglia di champagne alla salute di chi ha pensato di ammazzare la giurisdizione contabile proprio nell’anno in cui ricorrono i 150 anni della istituzione della Corte dei conti. Un’eutanasia bella e buona. Un delitto contro l’Italia e gli italiani onesti.

Sono certo che il Presidente Monti non mancherà di tirare le orecchie a chi ha dato via libera a questo scempio.

26 ottobre 2012

 

 

 

La Corte dei conti ricorda Falcone e Borsellino

L’aspirazione universale alla legalità

 

Per iniziativa del Procuratore generale presso la Corte dei conti, Salvatore Nottola, si terrà domani nell’aula delle Sezioni Riunite della Corte dei conti a Roma, viale Mazzini 105, a partire dalle 9,30, una Giornata di Studio su “L’aspirazione universale alla legalità – l’opera di Falcone e Borsellino a vent’anni ” da Capaci e via D’Amelio”.

Presentato da Luigi Giampaolino e da Raffaele Squitieri, rispettivamente Presidente e Presidente aggiunto della Corte dei conti, la Giornata di Studio sarà introdotta dal Procuratore Generale, Salvatore Nottola, e si articolerà, nel corso della mattinata, in due relazioni ed un intervento, “Rievocazione dei tratti salienti dell’opera di Falcone e Borsellino. Attualità e prospettive” di Ignazio De Francisci, Avvocato Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Palermo; “Giudicare le leggi”, di Aldo Carosi, Giudice della Corte costituzionale, eletto dai magistrati della Corte dei conti.

Seguirà l’intervento di Giovanni Maria Flick, professore ordinario di diritto penale, già Ministro della Giustizia e Presidente della Corte costituzionale.

Dopo l’intervallo i lavori riprenderanno alle 13,30 sotto la presidenza di Raffaele Squitieri, con tre relazioni ed una serie di interventi.

Le relazioni previste sono quelle su “La mafia teme più la scuola della giustizia” (A. Caponnetto). Diffondere la cultura della legalità”, di Salvatore Sfrecola, Presidente della Sezione giurisdizionale del Piemonte; “La domanda di giustizia e le speranze dei giovani”, di Ilaria Annamaria Chesta, magistrato della Corte dei conti; “Il contesto operativo e culturale. Cosa è cambiato e cosa resta da fare”, di Maria Concetta Carlotti, Sostituto procuratore Generale presso la Procura Regionale per la Sicilia.

Gli interventi programmati sono quelli di: Rodolfo Sabelli, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati; Tommaso Miele, Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti; Angelo Buscema, Presidente di sezione della Corte dei conti; Salvatore Pilato, Procuratore Regionale dell’Emilia Romagna e componente del Consiglio di Presidenza; Massimiliano Minerva, Vice Procuratore Generale della Corte dei conti; Ugo Montella, Vice Procuratore Generale della Corte dei conti, e di Chiara Imposimato, Sostituito Procuratore Generale della Corte dei conti.

                Il tema è di viva attualità, all’indomani dell’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge recante norma anticorruzione e dell’esplodere degli scandali che hanno dimostrato l’esistenza di una rete di infiltrazioni mafiose in aree del Paese che, fino a qualche tempo fa, si ritenevano estranee agli interessi delle cosche mafiose. Era evidentemente una illusione ottica, considerato che ovunque c’è gestione di rilevanti risorse pubbliche ivi la malavita si inserisce per lucrare sugli appalti e per stabilire collegamenti con amministratori e funzionari in modo da condizionarli nella loro azione.

21 ottobre 2012

 

 

 

 

Rottamazione atto primo

Largo ai giovani (di idee)

di Salvatore Sfrecola

 

La parola rottamazione, entrata da tempo nel linguaggio comune, da quando le case automobilistiche ne hanno fatto uso per incentivare l’acquisto di una nuova vettura con sconti anche per mezzi “da rottamare”, è approdata nel gergo politico a seguito dell’impegno del Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che intende rinnovare il Partito Democratico.

Avrebbe potuto parlare di “rinnovamento”, ma la parola è abusata e, come insegna l’esperienza, non produce effetti significativi, anche perché rinnovare non significa “mandare in pensione” chi ha superato una certa età, quanto meno di impegno politico.

Così Renzi brutalmente invoca la rottamazione dei dirigenti che, a suo dire, hanno fatto il loro tempo. Sono da troppo sulla scena, con l’effetto, naturale quando passa un certo tempo, di non avere più quella spinta propositiva che probabilmente avevano all’ingresso in politica.

Non è nuova, nella storia la spinta della base e dei giovani per rinnovare la classe dirigente dei partiti. Anzi si direbbe che è naturale, fisiologico che le nuove idee che bussano alla porta viaggino sulle gambe di chi vuole sostituirsi a coloro che detengono il potere. Vale per i partiti come per le amministrazioni e gli enti e le imprese private.

L’età del pensionamento è alle viste per tutti, per alcuni scatta inesorabilmente in ragione dell’età, per altri è provocato da chi cerca di farsi largo.

“Largo ai giovani”, si sente ripetere. È giusto perché i giovani sono il futuro di una comunità e non sarebbe né giusto né logico che se lo trovassero confezionato dai padri. I quali hanno certamente un dovere rispetto all’assetto a venire ma è naturale che anche coloro che ne saranno protagonisti vogliono dire la loro e definire il loro futuro come meglio credono.

Rottamare, quindi? Tutti e tutto? Qui sorgono i problemi. Perché la società è formata di persone delle varie età, dai giovanissimi dei quali naturalmente si occupano i genitori, e via via lungo un arco di vita che vede interessi delle varie generazioni. L’ideale sarebbe, dunque, che tra le varie età ci fosse una collaborazione virtuosa perché l’esperienza degli uni fosse assunta dai giovani come momento di riflessione e di confronto, perché le prospettive del futuro non fossero meramente velleitarie ma l’effetto di una valutazione critica del bene e del male che hanno fatto le generazioni precedenti, perché le prospettive del dopo siano concretamente realizzabili.

In questo senso va detto che la distinzione non è tanto da riferire all’età quanto alla bontà delle idee, alla loro praticabilità ed agli effetti che sono capaci di realizzare nella società. L’esperienza, infatti, insegna che ci sono “vecchi giovani” e “giovani vecchi”, persone di esperienza che non si limitano ad amministrare l’esistente ma guardano al futuro, stimolati da studi e realizzazioni sperimentate in altri contesti, e giovani anagraficamente che non hanno un minimo di fantasia e di voglia di fare.

È stato sempre così, tanto è vero che le “rivoluzioni”, cioè i cambiamenti, da quelli brutali a quelli “morbidi” sono stati sempre realizzati su iniziativa di minoranze, che non debbono essere necessariamente composte da giovani o da persone in cerca di un ruolo. Basti pensare alla Rivoluzione francese, l’evento che ha cambiato la storia delle istituzioni, che è parsa lotta di popolo quando, invece, è stata iniziativa della borghesia cittadina e di parti significative della nobiltà.

La conclusione di queste brevi riflessioni tra storia e politica vuole essere un invito al “rottamatore” Renzi a considerare che da mandare a spasso non sono solo coloro i quali hanno superato una certa età, anagrafica e parlamentare, ma tutti quelli che hanno la fantasia stanca. Cosa che il Sindaco di Firenze sembra aver capito, quando ha detto che dalla rottamazione di deve passare alle idee, ai programmi. Le une e gli altri debbono tener conto della variegata composizione della società ai vari livelli territoriali. Solo così la spinta innovativa sarà capace di rinnovare veramente la politica in direzione di uno sviluppo che sia funzionale al progresso sociale ed economico che va governato nella consapevolezza degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli. Per aggiornare continuamente i primi e per adeguare i secondi alle esigenze di tempo e di modo per realizzare le politiche pubbliche.

19 ottobre 2012

 

 

 

 

Auguri a Paola Maria Zerman per il suo compleanno

 

     Un augurio affettuoso a Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato, nel giorno del suo compleanno.

     I nostri lettori conoscono di Paola Maria Zerman importanti, seppur saltuari (rispetto a quanto desidereremmo), interventi  su temi importanti di carattere sociale ed etico.

     Collaboratrice, più assidua di "Amministrazione e Contabilità dello Stato e degli enti Pubblici" www.contabilita-pubblica.it, con scritti su tematiche di attualità nel campo del diritto amministrativo. all'Avv. Zerman  si deve, tra l'altro, un Manuale di Diritto amministrativo edito da Giuffrè, in collaborazione con Maurizio Mirabella, Procuratore regionale della Corte dei conti per le Marche, che ne è stato anche il curatore, ed Andrea Altieri, Docente di Diritto amministrativo alla Link University.

     Auguri, dunque, di buon compleanno da collaboratori e lettori.

19 ottobre 2012

 

 

 

Non si teme il ridicolo pur di sponsorizzare le nozze gay

Genitori? N. 1 e n. 2

di Salvatore Sfrecola

 

Leggo sul Corriere della Sera di quest’oggi, in prima pagina, una corrispondenza da Parigi di Stefano Montefiori, a proposito di un progetto di legge su “Matrimonio e adozione per tutti”, nel quale si prevede che nei documenti ufficiali dello stato civile “padre” e “madre” saranno sostituiti da “genitore 1” e “genitore 2”.

Naturalmente questa dizione vale per tutti, per le coppie eterosessuali e per quelle omosessuali. E qui si palesa l’assurdità di una denominazione nella quale sta la “contraddizion che nol consente”. perché “genitore” è colui che ha generato, ciò che per le coppie omosessuali è evidentemente impossibile.

Un genitore è un padre o una madre; una persona che genera o dà la nascita ad un figlio, oppure lo nutre e lo fa crescere, oppure è un parente che esercita il ruolo di custode. La madre è genitrice. Manfredi rivolgendosi a Dante lo invita, quando fosse tornato sulla terra, ad andare “a mia bella figlia, genitrice dell'onor di Cecilia e d'Aragona, e dichi il vero a lei, s'altro si dice” (Purgatorio - Canto Terzo vv. 115 e segg.). Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, vuole che Dante dica a sua figlia la verità sulla sua situazione nell’aldilà, cioè che la scomunica non gli ha tolto l’eterno amore divino.

            Torniamo ai “genitori” dopo la divagazione storica.

È vero che oltre alla genitorialità biologica, naturale, esiste la genitorialità adottiva, nella quale il genitore non è stato partecipe della procreazione del figlio, ma è equiparato al genitore biologico a fini giuridici, ma questa è una finzione legale che per le coppie eterosessuali assicura la presenza di un uomo e di una donna accanto all’adottato per garantire quei riferimenti biologici, psicologici e affettivi che in natura delineano i rapporti nell’ambito di una famiglia.

Si vuole scardinare una realtà naturale che la Costituzione riconosce all’art. 29 quale “società naturale fondata sul matrimonio”, laddove è evidente anche ad uno studente del primo anno di Giurisprudenza che “riconosce” significa che la legge fondamentale prende atto di una situazione preesistente, la fa propria e la tutela.

Poi mi chiedevo, quando sarà approvata la legge Hollande che, è inutile nasconderlo, mira ai matrimoni omosessuali, l’unica promessa elettorale che in tempo di crisi economica il Presidente francese è in condizione di far approvare, quando il “genitore 1” o il “genitore 2” racconteranno una favola ai loro figlioli ricorreranno alle parole della legge o diranno semplicemente papà e mamma, padre e madre?

Confusione inutile e dannosa. Non sarebbe stato meglio riconoscere alcuni “diritti” patrimoniali e “doveri” assistenziali a coppie omosessuali registrate escludendo la parola “matrimonio” e vietando rigorosamente le adozioni che non tengono conto dell’esigenza del bambino di disporre di una figura paterna e di una materna, per soddisfare esclusivamente un desiderio egoistico che sacrifica una giovane esistenza che sarà nella vita segnata da una gravissima confusione affettiva?

Hanno sbagliato in molti. Una definizione rapida per le coppie “di fatto”, con una registrazione pubblica che ne definisse diritti e doveri, avrebbe fornito certezze a quelle eterosessuali variegate nella realtà di matrimoni che falliscono e si ricostruiscono sulla base di diversi rapporti affettivi, e risolto i problemi delle coppie omosessuali con diritti (tranne l’adozione) e doveri, così mettendo al riparo il matrimonio religioso, al quale la Chiesa giustamente tiene moltissimo quale fondamento della convivenza nella vita ecclesiale, o quello civile, cui uno stato laico in una realtà multietnica non può rinunciare.

Invece la contrapposizione senza via d’uscita che si è fin qui attuata, in assenza di ogni ragionevole delimitazione, che avrebbe anche l’effetto di esaltare il ruolo del matrimonio, produce gli effetti che si vedono in Francia e che è possibile si prospettino in Italia dove il Partito Democratico, a fini elettorali e non solo, continua a mettere tra i primi punti della sua piattaforma programmatica la questione delle “nozze gay”, come se fosse “il problema” di questo Paese, dove poco funziona e quel poco non soddisfa il cittadino tartassato da imposte, tasse, contributi e tariffe varie.

C’è una miopia politica che, in questo come in altri casi, ci attanaglia e ci impedisce di crescere.

18 ottobre 2012

 

 

 

Al giudizio dei lettori

I cristiani ed il rispetto per la natura, animali compresi

di Salvatore Sfrecola

 

Con questo titolo, che riproduco ritenendone la validità, ripropongo integralmente un mio articolo dell’11 agosto scorso critico, critico dei confronti di un pezzo pubblicato da Corrispondenza Romana, a firma Alfredo De Matteo, da non confondere con il direttore dell’agenzia Roberto de Mattei, il quale (il De Matteo) ha inteso replicare con un tono al quale francamente non sono abituato. Lo pubblico in calce al mio pezzo rimettendo alla valutazione dei lettori le mie e le sue parole.

Ecco, dunque I cristiani ed il rispetto per la natura, animali compresi

“Leggo da anni, sempre con molto interesse, Corrispondenza Romana, l’Agenzia settimanale diretta dal Prof. Roberto de Mattei, al quale mi lega un’antica, autentica amicizia, fondata sull’idem sentire di valori civili e religiosi. Naturalmente questo non mi ha impedito, di tanto in tanto, di avere motivi dissenso, mai, peraltro, tali da segnalarli o da scrivere in proposito.

Oggi, invece, non posso fare a meno di intervenire su un pezzo del La subdola propaganda estiva dell’animalismo”, , che mi ha lasciato sconcertato ed indignato non poco.

E mi è venuto di pensare cosa ne avrebbe detto San Francesco d’Assisi, il cristiano che, più di ogni altro, ha esaltato la grandezza di Dio attraverso quel mirabile complesso di beni straordinari che noi chiamiamo Creazione, i mari, le montagne, la flora straordinaria che li orna e quella miriade di esseri viventi che fanno vivere la natura. Immaginiamo come sarebbe squallida la natura, anche bellissima della flora, se non fosse abitata da uccelli, bipedi, quadrupedi, se i mari non fossero animati dai pesci.

“Laudato sie, mì Signore cum tucte le Tue creature”. Un Cantico, appunto il Cantico delle Creature, intonato da Francesco, per celebrare la natura, nella sua pienezza, espressione del suo amore per Gesù Cristo.

E mi sono chiesto quali sarebbero state le reazioni di quello straordinario cristiano, se avesse potuto leggere la sconsiderata prosa del Nostro, il quale esordisce affermando che l’estate “è il periodo migliore per la propaganda animalista e ciò per due ragioni fondamentali: la prima, riguarda l’aumento del (deprecabile) fenomeno dell’abbandono degli animali domestici che costituisce un formidabile pretesto per seminare odio nei confronti del genere umano; la seconda, concerne l’acutizzarsi del sentimento della solitudine che colpisce le persone prive di rapporti sociali e/o famigliari stabili e soddisfacenti, in un periodo dove il piacere dell’agognato riposo estivo si coniuga con la ricerca della compagnia ed il rafforzamento dei legami affettivi”.

Cominciamo col rilevare una contraddizione tra il fenomeno dell’abbandono degli animali domestici, giustamente definito “deprecabile”, e la presunta occasione, che ne deriverebbe, “per seminare odio nei confronti del genere umano”.

Se l’abbandono è “deprecabile” perché effetto di una incapacità di comprendere non solo le sofferenze dell’animale che nel frattempo ha maturato affezione nei confronti dei padroni, che spesso sono i bambini o gli anziani, in tal modo incidendo sui sentimenti maturati da questi nei confronti dell’animale, non si comprende perché sottolineare un comportamento definito appunto in negativo possa essere motivo di odio nei confronti del genere umano, espressione generica che, tra l’altro, trascura di considerare il valore civile di quanti, invece, portano con se il cane o il gatto o i pesciolini rossi dell’acquario o li affidano ad amici od a “pensioni” specializzate.

Lo scritto del De Matteo non meriterebbe di essere preso in considerazione, tanto il livore nei confronti degli animali e dei sentimenti che ad essi legano gli uomini è incomprensibile, se non avesse trovato ospitalità sulla prestigiosa Agenzia di Roberto de Mattei, che da anni costituisce un punto di riferimento del pensiero cattolico ispirato alla tradizione, con riflessioni importanti e notizie dal mondo, che probabilmente la stampa non avrebbe diffuso, e con iniziative, collegate alla Fondazione Lepanto ed all’Associazione Famiglia Domani, di grande interesse sotto il profilo della difesa dei valori più sacri, come quelli della vita.

Non si comprende, in particolare, come il De Matteo, che constata come si viva “in una società dove il sentimento religioso è sempre più ai margini del vivere individuale e sociale e dove l’uomo, di conseguenza, sperimenta con sempre minor frequenza la vicinanza e l’amore di Dio”, per sottolineare come “la qualità del legame affettivo con l’altro rappresenta una delle poche cose che danno valore all’esistenza”, ritenga che la campagna contro il “deprecabile” abbandono degli animali domestici sia espressione “dell’ideologia animalista… in vista di una sua maggiore presa sul cittadino medio”.

E qui si manifesta una evidente carenza di capacità di enunciare i valori del messaggio cristiano da parte di chi ha dato spazio agli ambientalisti di tutti i colori trascurando di esaltare, come dovrebbe fare chiunque crede che Dio effettivamente è l’Autore della natura. Chi se non i cristiani avrebbero dovuto difendere la natura, contro gli inquinatori e quanti la offendono, offendendo l’intento creatore di Dio che ha messo a disposizione degli uomini questo meraviglioso giardino perché se ne servisse, ma non violasse le caratteristiche naturali, che non le distruggesse. Così gli animali aiutano l’uomo a vivere ma non possono essere degradati rispetto al ruolo che il Creatore ha destinato per loro, e non è ammissibile che i piccoli, mansueti beagle siano torturati nei laboratori per dubbia utilità scientifica perché qualche “ricercatore” vuol verificare quali reazioni abbia il cuore o il cervello dell’animale mentre gli viene amputata una zampa, per capire se e quanto soffre, avendogli preventivamente reciso le corde vocali per evitare di essere disturbato dai latrati.

Questo è mancato rispetto della natura.

E quanto agli animali “domestici”, forse De Matteo trascura il valore che cani e gatti hanno per i bambini, per i malati, per gli anziani, ai quali spesso restituiscono una ragione di vita e l’occasione di un sorriso. Forse De Matteo, imprenditore in un’impresa di autoricambi, non sa che l’ippoterapia ha restituito a tanti disabili la ragione della loro esistenza e forse qualcuno ha trovato nell’aiuto di questi animali la conferma della grandezza di Dio.

Niente da fare, per il Nostro è subdolo far “leva su sentimenti ed affetti” per scoraggiare il “deprecabile” abbandono. E condanna la pubblicità che vorrebbe “incoraggiare le persone sole o segnate da esperienze fallimentari (non a caso l’espressione della donna non è gaia e spensierata come nella maggior parte delle immagini pubblicitarie) a riversare il loro affetto sull’animale domestico”, sostenendo che si vorrebbe “far passare il concetto che il rapporto con l’animale non rappresenti semplicemente il riempitivo di una vita priva di soddisfazioni ma, al contrario, costituisca addirittura il naturale completamento dell’esistenza!”.

Sarebbe una ideologia antiumana.

Et de hoc satis! Si vada a rileggere San Francesco o Sant’Antonio, vada a compulsare alcuni recenti scritti di Papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che hanno voluto esaltare Dio nel Creato, nella natura meravigliosa che ne conferma la grandezza.

Spaziamo via ecologisti e ambientalisti da strapazzo, che nella difesa dell’ambiente spesso hanno trovato motivo di un impegno remunerativo. I cristiani si devo riappropriare dei valori propri del Creato, perché mai più, come accade oggi a Taranto, i lavoratori dell’ILVA siano chiamati a scegliere se lavorare o morire di cancro, o morire piano piano lavorando.

Infine voglio ricordare alcuni passi dal "Catechismo della chiesa cattolica" sul rispetto dell'integrità della Creazione

2415 Il settimo comandamento esige il rispetto dell'integrità della creazione. Gli animali, come anche le piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati al bene comune dell'umanità passata, presente e futura.

290 L'uso delle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo non può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all'uomo non è assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni future; esige un religioso rispetto dell'integrità della creazione.

2416 Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura.

292 Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria.

293 Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali.

2417 Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine.

294 È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contribuiscono a curare o salvare vite umane.

2418 È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita.

Insomma, per rispettare la natura e per amare gli animali non c’è bisogno di evocare la vita eterna o il Paradiso. Sono animali, ma hanno una loro sensibilità e va rispettata. Soprattutto va rispettato chi li ama e trae giovamento dalla loro presenza”.

La mail di De Matteo

“Egregio direttore,

per puro caso ho notato sul suo sito on line il commento ad un articolo da me redatto e postato sul sito Corrispondenza Romana col titolo: " La subdola propaganda estiva dell'animalismo". Innanzitutto, la ringrazio per aver dato ulteriore diffusione ad un articolo che, come lei potrà verificare, ha ricevuto molti consensi.

Mi permetto solo qualche puntualizzazione.

1) L'indice di gradimento del pezzo è stato significativo tanto che, mi ripeto, ho ricevuto molti consensi e ringraziamenti per aver sollevato il problema dell'ingannevole propaganda animalista. Ovviamente non sono mancati gli insulti ma questo rientra nella normalità se pensiamo che l'animalismo ha fatto molta presa nell'opinione pubblica tanto da diventare quasi un dogma (anche per lei, vedo..). Dunque, l'accusa a me rivolta di non aver capito nulla del messaggio cristiano lei l'ha rivolta anche alle centinaia e forse migliaia di persone che hanno letto ed apprezzato il mio pezzo (rimbalzato su molti siti cattolici). Pertanto, secondo il suo punto di vista siamo tutti degli emeriti imbecilli (compreso il prof de Mattei che ha ritenuto significativo il mio articolo tanto da pubblicarlo), al contrario del direttore di "Un sogno italiano", il quale sembra essere l'unico vero cattolico col sale in zucca in circolazione.

2) Non ho alcun livore o odio nei confronti di alcuno né tantomeno nei confronti degli animali che in realtà mi piacciono molto (soprattutto cani e gatti). Ho avuto un cagnolino che è stato con me per 17 anni e a cui, a dire dei miei familiari, ero troppo legato. Figuriamoci!! Il mio articolo infatti non se la prendeva (e ci mancherebbe) mica con gli animali (né con coloro che amano gli animali e che spesso sono vittime inconsapevoli dell'ideologia animalista), piuttosto con coloro che li sfruttano per perseguire quelle perverse strategie antiumane che sono sotto gli occhi di tutti, o almeno di chi vuole vederle.

3) Non c'è alcuna contraddizione tra definire deprecabile il fenomeno dell'abbandono degli animali e considerarlo l'occasione per seminare odio nei confronti del genere umano. In realtà, la scelta del termine deprecabile non è casuale: con esso ho voluto significare che tale fenomeno dovrebbe essere considerato per quello che è, ossia un gesto di inciviltà. Per l'animalismo invece l'animale è titolare degli stessi diritti dell'uomo se non addirittura in misura maggiore. Se per lei è corretto il messaggio propagandato dalla pubblicità che descrivo nell'articolo, ossia che la vita di una persona è più completa se adotta un cane, alzo le mani e mi arrendo al suo punto di vista. Tuttavia, questo non è un'idea sana né tantomeno cristiana, come lei si affanna a dimostrare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo conosco ed infatti non parla in questi termini del rapporto tra uomo ed animale. Forse è un caso che nel riportare alcune affermazioni contenute nel Catechismo lei si sia dimenticato (ma guarda caso..) di trascrivere un'ultima determinante affermazione:

2418 .....È pure indegno dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.

Ciò è esattamente quello che ho inteso denunciare attraverso il mio articolo.

Infine, è tipico di alcuni accusare gli altri di covare odio e livore offendendo con altrettanto odio e livore. Caro direttore, il fatto che io diriga un'azienda di autoricambi non vuol dire che sono uno sprovveduto. Questi si possono trovare dappertutto, anche nelle redazioni dei giornali, anche on line...

Cordialità

Alfredo De Matteo”

Due notazioni a margine

1) “per puro caso” non mi sembra appropriato, avendo io tempestivamente inviato un sms a Roberto de Mattei per segnalargli il mio articolo.

2) quanto al riferimento al 2418, i buoni cristiani non trascurano “la miseria degli uomini” quando dimostrano amore per la natura e gli animali. Ho constatato, invece, più volte che gran parte di coloro che si aggrappano a quella regola non pensano agli animali ma neppure agli uomini.

Infine è evidente che l’amore per un animale è diverso dall’amore per l’uomo. Perché diverso è il destinatario del sentimento.

Mi dispiace di non poter sapere cosa San Francesco pensa di De Matteo!

13 ottobre 2012

 

 

 

Regioni: rissose e spendaccione

di Salvatore Sfrecola

 

            Rissose e spendaccione, come attesta la cronaca di ogni giorno, le regioni italiane sono un “errore” storico e giuridico al quale va posto rapidamente rimedio nell’interesse dello Stato e delle stesse comunità regionali.

Le regioni sono un errore storico perché, in realtà, risalendo nei secoli non si trova mai il Lazio, l’Umbria, la Lombardia e via dicendo, ma comuni e principati con esperienze, tradizioni, culture diverse, financo nei dialetti, spesso a pochi chilometri di distanza. La storia, quella vera, quella che la gente sente, sta nei campanili e nelle province, molto più omogenee rispetto alle regioni, enti politico-amministrativi costruiti per motivi politici in sede di assemblea costituente, cresciuti all’ombra di questo o di quel partito, autentici statarelli nei quali si sperimenta un centralismo che fa impallidire quello che si addebitava allo Stato che, per la verità, lo esercitava attraverso i prefetti, funzionari di elevata sensibilità politica e amministrativa che non si sono mai prestati a prevaricazioni politiche nei confronti dei sindaci e dei presidenti delle province come forse alcuni politici di Roma avrebbero desiderato.

La Capitale era lontana, il capoluogo della regione molto più vicino e pressante nei confronti degli oppositori.

Le regioni sono, altresì, un errore politico istituzionale perché i poteri loro conferiti dalla riforma costituzionale del Titolo V non hanno di uguali negli ordinamenti regionali o federali, nei quali lo stato centrale mantiene attribuzioni di interesse nazionale e prerogative dirette a garantire il rispetto di quell’interesse. Andate a chiedere al Presidente degli Stati Uniti – che è repubblica federale a tutti gli effetti - se deve ricorrere alla conferenza stato – regioni per definire delicati aspetti della legislazione di interesse generale. Lui il Formigoni di turno neppure lo chiama al telefono se c’è una emergenza in materia sanitaria o se vuole realizzare opere pubbliche di interesse federale. Invece in questo Paese in un momento di follia, addebitabile ad ambizioni egemoniche della sinistra in alcune aree del Paese ed all’ignavia della destra, alle regioni sono state attribuite competenze legislative in materie certamente di interesse nazionale. Non solo, ma le regioni sono divenute il legislatore “generale”, cioè quello al quale è attribuita la competenza a decidere su tutto ciò che è giuridicamente rilevante e non è di competenza dello Stato, nel senso che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, secondo una ripartizione contenuta nell’articolo 117 della Costituzione. Un assurdo, intrinseco non solo nella circostanza che 20 legislatori generali sono decisamente troppi, ma perché materie come le “grandi reti di trasporto e di navigazione” o il “coordinamento della finanza pubblica”, ascritti alla legislazione concorrente, costituiscono una palla al piede che la comunità nazionale non può più permettersi.

Inoltre, eliminati i controlli dello Stato sulle regioni, che effettivamente incidevano su una autonomia che comunque andava salvaguardata non sono stati istituiti altri controlli “esterni”, come quelli della Corte dei conti, che non sono esercitati nell’interesse dello Stato centrale ma dell’ordinamento in funzione della legalità e del buon andamento.

Così il Governo Monti, che ha sperimentato l’impotenza di mettere mano alla arroganza dei “governatori” e al dispendio delle risorse di bilancio, del quale sono piene le cronache, ha deciso di avviare una nuova riforma che sia coerente con le dimensioni del Paese e con la necessità di sviluppare l’economia delle singole aree geografiche.

Dobbiamo ancora una volta dire che aveva ragione da vendere Marco Minghetti che nel 1862, ministro  dell'interno, propose di dar vita a consorzi di province, una realtà storico politica più coerente con le tradizioni di quelle popolazioni.

Non si avrà il coraggio di abolire le regioni. Ci vorrebbe non una legge di revisione ma una nuova costituente, ma mancano gli uomini, quelli che, tra il 1946 ed il 1947, seppero mediare nell’interesse della comunità nazionale traumatizzata dalla guerra e da una transizione istituzionale certamente forzata.

Rispetto agli Einaudi, ai De Gasperi, ai Togliatti, ai Calamandrei, ai Ruini oggi in Parlamento e nei partiti si aggirano controfigure modestissime, con scarsa conoscenza del diritto e nessuna conoscenza della storia delle istituzioni. Gente che ha voluto o accettato il porcellum e non trova modo di disfarsene perché non vuole. Quale altra legge darebbe maggiori poteri alle ristrette oligarchie dei partiti?

            Siamo messi male. È per questo che cresce, pur nel malcontento delle misure restrittive che hanno colpito tutti, la stima per Mario Monti, nel quale la gente riconosce certamente una personalità di spicco, quanto a competenza e capacità di decidere.

12 ottobre 2012

 

 

 

 

I magistrati della Corte dei conti

dopo “il decreto legge di San Francesco”

Onorati ma…

di Salvatore Sfrecola

 

Il decreto legge del 4 ottobre, per questo detto anche “di San Francesco”, non ancora pubblicato, del quale si conoscono solo delle anticipazioni “introduce nuove regole in materia di finanza e funzionamento degli enti locali” con “rafforzamento dell’azione di controllo della Corte dei Conti, che avrà poteri di controllo e sanzionatori più ampi rispetto al passato” (in http://www.governo.it/Presidente/Comunicati/testo_int.asp?d=69368).

I magistrati della Corte dei conti sono onorati dell’attenzione che il Governo ha riservato loro e per l’evidente apprezzamento che questo rivela per l’Istituzione, ma sono anche preoccupati del carico di lavoro che le Sezioni regionali di controllo si troveranno a sopportare con mezzi inadeguati, pochi magistrati, pochissimi funzionari.

Ne abbiamo già scritto. E ne ha parlato anche il neopresidente dell’Associazione Magistrati, Tommaso Miele, in un colloquio con il Presidente dell’Istituto, Luigi Giampaolino, che Miele ha informato delle iniziative intraprese dall’Associazione già in questa prima fase.

In una lettera ai colleghi Miele riferisce anche dell’incontro con il Presidente al quale nel manifestare “la soddisfazione dei magistrati della Corte dei conti per la fiducia riposta dal Governo nell'assegnare all'Istituto un ruolo centrale ed importanti funzioni a tutela della sana e corretta gestione delle risorse pubbliche e degli enti territoriali, e nell’assicurare la piena disponibilità a corrispondere al gravoso impegno che il loro assolvimento richiederà a tutti i magistrati” nondimeno ha voluto rappresentare “la diffusa preoccupazione per alcune criticità che le emanande disposizioni presentano, e, in primo luogo, per la disposizione di cui all’art. 7 della bozza attualmente conosciuta, che prevede il coordinamento, da parte del Presidente della Sezione regionale di controllo, di tutte le attività della Corte stessa presso la medesima Regione, assoggettando in tal modo la funzione giurisdizionale alle esigenze di volta in volta individuate dallo stesso Presidente della sezione regionale di controllo, e scardinando, in tal modo, il principio di separazione ed indipendenza delle funzioni più volte enunciato dalla Corte Costituzionale”.

Miele ha fatto anche presente “l’ampio divario fra i compiti previsti e le potenzialità operative, rappresentando l’esigenza, per meglio rispondere alle aspettative dei cittadini, di avviare un’azione correttiva delle norme in parola, indirizzata sostanzialmente al conseguimento dei seguenti obiettivi:

a) razionalizzare e selezionare alcuni delle misure proposte, anche in considerazione delle scarse risorse disponibili, per dare maggiore effettività ed incisività al controllo, eliminando quegli interventi che potrebbero solo aggravare e congestionare il lavoro delle sezioni regionali, distraendo nel contempo utili risorse da interventi e funzioni sicuramente più efficaci ed incisivi;

b) razionalizzare e definire l’ampliamento dei termini previsti nella bozza attualmente disponibile, laddove la natura dell’attività rende indispensabile operare mediante adempimenti più approfonditi;

c) salvaguardare i principi di separazione ed indipendenza della funzione giurisdizionale rispetto a quella del controllo, mantenendo in capo all’organo di autogoverno (Consiglio di Presidenza) le relative competenze di distribuzione dei magistrati;

d) avviare un processo di progressiva copertura delle gravi carenze di organico dei magistrati, attualmente pari a quasi il 30%(29,5%), operando, nell’immediato, l’ampliamento a 27 posti del concorso in itinere, e prevedendo, anche in deroga al blocco del turn over, la copertura di ulteriori posti negli anni successivi;

e) incrementare la dotazione organica del personale amministrativo e tecnico di supporto, anche mediante comandi e assegnazioni di personale di altre amministrazioni”.

Richieste necessarie ma impegnative in relazione alle quali l’Associazione auspica “una effettiva e concreta unità d’intenti con il vertice istituzionale ed un’azione sinergica nei confronti delle forze politiche, al fine di conseguire, in sede di conversione, le necessarie modifiche”.

Il Presidente della Corte, riferisce Miele ai colleghi, ha dato “ampia disponibilità” che l'Associazione non mancherà di verificare nella sua concretezza.

Intanto un Gruppo di studio dell’Associazione approfondirà le problematiche connesse alle nuove disposizioni contenute nell’emanando decreto legge, con l'incarico di svolgere, nei prossimi giorni, i dovuti approfondimenti “finalizzati alla adozione delle iniziative che si renderanno necessarie e che saranno deliberate dagli organi associativi”.

10 ottobre 2012

 

 

 

Dopo gli scandali originati dall’assenza di controlli

La “riscoperta” della Corte dei conti

di Salvatore Sfrecola

 

Nell’anno che ricorda i 150 anni della Corte dei conti, “il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno”, come ebbe a dire il Ministro delle finanze Quintino Sella nel suo discorso inaugurale il 1° ottobre 1862, a Torino, il Governo, evidentemente preoccupato dagli scandali e dallo squilibrio dei conti di regioni ed enti locali, “riscopre” la Corte dei conti e le affida compiti delicati e gravosi di controllo sulla spesa, allo scopo di perseguire legalità ed efficienza. Nel segno della discontinuità rispetto alla precedente esperienza governativa e parlamentare che, assai spesso, con una sinergia degna di migliore causa, aveva segnato ripetute “limatine” a funzioni e modalità di esercizio delle stesse, in particolare nel settore della giurisdizione, dove la possibilità di agire del Pubblico Ministero è stata fortemente limitata.

Quanto ai controlli, come spesso accade in questo Paese, è difficile trovare la misura, per cui nel 1994, con la legge n. 20 del 14 gennaio, si è passati da una verifica generalizzata della legittimità dell’azione amministrativa a riscontri più limitati, sia pure in materie rilevanti, per estendere i controlli di gestione, che indubbiamente hanno una rilevante importanza nell’accertamento del rispetto dei principi della economicità, dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, ma affidano la loro capacità deterrente sostanzialmente all’autocorrezione degli enti controllati, una sorta di moral suasion che non sempre riesce a produrre effetti significativi.

Accade, dunque, che ormai fuggiti i buoi dalla stalla, il governo “tecnico” ribalta la linea di tendenza di quello “politico” e modifica il Testo Unico delle leggi sugli enti locali n. 267 del 18 agosto 2000 ripristinando una serie di controlli esterni sugli enti locali – a suo tempo azzerati dalla legge Bassanini, che aveva soppresso i Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co.) - affidandone alcuni significativi alla Corte dei conti. Una svolta “storica”, si potrebbe dire, apprezzata dai magistrati contabili, che vendono riconosciuto il loro ruolo e la loro professionalità, con qualche preoccupazione sulla praticabilità di questo ampliamento di attribuzioni, tenuto conto dei numeri, dei provvedimenti da esaminare e dei magistrati da impiegare, considerato che l’organico della magistratura soffre di antiche e più recenti carenze, mancando all’appello, rispetto alla dotazione organica, ben 154 unità, come scriveva ieri Sergio Rizzo sul Corriere della Sera in un articolo di prima pagina dal titolo significativo: “La sorveglianza (incerta) della Corte dei conti”.

D’altra parte questo procedere di Governo e Parlamento, la classica tendenza italiana a fare le nozze “con i fichi secchi”, la Corte dei conti l’aveva già sperimentato negli anni 1993-1994, quando, con una serie di decreti legge, l’ultimo dei quali convertito dalla legge n. 19 del 14 gennaio 1994, è stato attuato il decentramento della giurisdizione contabile e pensionistica senza toccare gli organici, senza tener conto, cioè, che venendo ad operare direttamente nelle regioni, con sede nei rispettivi capoluoghi, le Procure regionali si trovavano ad affrontare ipotesi di danno erariale fino a quel momento non perseguite, perché solo con l’art. 58 della legge n. 142 del 1990 erano stata estese ad amministratori e dipendenti degli enti locali le regole sulla responsabilità amministrativa e contabile già vigenti per i dipendenti dello Stato. Per cui, trovandosi ad affrontare comportamenti mai sanzionati dagli anni ’30, vigente il vecchio testo unico che attribuiva i giudizi di responsabilità al giudice ordinario, su denuncia del responsabile politico dell’ente locale, gli uffici di procura sono stati investiti da un numero inverosimile di istruttorie.

Cosa accadrà, dunque, sulla base delle nuove attribuzioni recate dal decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri del 4 ottobre, “recante disposizioni in materia di finanza e di funzionamento degli enti locali”, subito ribattezzato “decreto di San Francesco”, forse perché il Poverello di Assisi viveva di elemosine, laddove oggi sappiamo che gli amministratori si sono spartite laute somme, sottratte a funzioni importanti dello stato sociale, come nel caso dell’assistenza sanitaria.

Di fronte all’indignazione della gente ed al grave squilibrio dei conti di enti locali e regioni il Governo interviene sul testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali con una serie di disposizioni che regolano l’azione amministrativa, e inseriscono forme varie di controllo. Regolando, ad esempio, l’obbligo di motivazione da parte della Giunta e del Consiglio, quando le deliberazioni non siano conformi ai pareri dei responsabili dei servizi competenti, quanto alla regolarità tecnica o contabile, qualora comportino riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente. Con responsabilità amministrativa e contabile per i pareri espressi. Contestualmente gli enti locali “individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa”.

C’è da chiedersi perché questi controlli tornino adesso, dopo essere stati aboliti dalla “riforma Bassanini”.

Ricordo la polemica sui controlli, vecchia di decenni. Quelli sullo Stato, di competenza della Corte dei conti, ritenuti una “duplicazione” di quelli della Ragioneria, quando era evidente la diversità del ruolo, in un caso “interno”, i controlli di ragioneria, nell’altro “esterno” e indipendente, i controlli della Corte. E ancora, si diceva, che i controlli “deresponsabilizzano”, funzionari e politici. Una sciocchezza immane, un’affermazione di chi non conosce l’amministrazione, smentita dai fatti di questi ultimi tempi.

Per cui si è data via libera alla prevaricazione dell’amministrazione sul cittadino ed alla corruzione, anche “per un atto d’ufficio” (art. 318 c.p.), quando un dipendente “per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro d altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa”. È il caso di chi si fa pagare per emettere un ordinativo di spesa per una somma dovuta ad un fornitore dell’Amministrazione.

Si riaffacciano i controlli interni e alla Corte dei conti, alla quale è demandato (vi provvedono le Sezioni regionali) di verificare “la legittimità e la regolarità delle gestioni”, è chiesto, altresì, di estendere quell’accertamento al “funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto delle regole contabili e del pareggio di bilancio di ciascun ente locale”.

Nel caso in un ente locale la gestione sia condotta in modo da pregiudicare gli equilibri di bilancio il responsabile finanziario è obbligato a segnalare il fatto alla competente Sezione regionale di controllo della Corte dei conti.

Quando poi sussistano “squilibri strutturali del bilancio in grado di provocare il dissesto finanziario” è richiesta l’adozione della deliberazione per la “procedura di riequilibrio finanziario pluriennale”, con obblighi e facoltà in materia finanziaria e tariffaria ai fini della possibilità di ricevere un’anticipazione a valere sulle disponibilità del “Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali”.

C’è ancora un ruolo per la Corte dei conti, per la Sezione delle autonomie che detta “linee guida” ai fini dell’istruttoria di un’apposita Commissione ministeriale che riferisce alla Sezione regionale di controllo chiamata a deliberare “sull’approvazione o sul diniego del piano”. Delibera che è possibile impugnare dinanzi alle Sezioni riunite della Corte dei conti, una scelta normativa che desta non pochi dubbi. Che sono stati manifestati da molti magistrati della Corte dei conti convinti che la procedura di controllo non possa essere costruita come quella propria della giurisdizione contabile.

Infine è previsto il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sui piani di riparto regionale delle risorse ai dirigenti e sui piani esecutivi di gestione, i regolamenti e gli atti di programmazione e pianificazione degli enti locali.

Novità importante è la sottoposizione del rendiconto generale delle regioni al giudizio della Corte dei conti nelle forme proprie della giurisdizione, come avviene da sempre per lo Stato e le regioni e province ad autonomia speciale.

Da segnalare la possibilità della Corte dei conti di avvalersi dei Servizi ispettivi di finanza pubblica della Ragioneria Generale dello Stato e della Guardia di Finanza, così ampliando una possibilità che alla magistratura contabile era già data dal 1991 in sede di misura idonee a contrastare l’influenza illecita nella Pubblica Amministrazione.

C’è anche una competenza per le Sezioni giurisdizionali. In caso di omissione di referto “sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e sull’adeguatezza dei sistema di controlli interni” le Sezioni “irrogano agli amministratori responsabili la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volta la retribuzione dovuta al momento di commissione della violazione”.

Funzionerà il nuovo assetto normativo, non ancora comparso sulla Gazzetta Ufficiale, di cui circola un testo al quale ho attinto alcuni esempi, fatto di regole e procedimenti volti ad assicurare equilibri di bilancio e sana gestione finanziaria?

Lo attende la gente, esasperata da sprechi che significano minori e meno efficienti servizi, in un contesto di riduzione di stipendi e pensioni. Un impegno per amministratori e funzionari, sotto l’occhio vigile di una antica istituzione dello Stato che dalla sua costituzione e prima ancora negli stati preunitari ha assicurato legalità e buona amministrazione e la punizione dei colpevoli di illegalità e malamministrazione.

7 ottobre 2012

 

 

 

Se ne discute sabato a Roma, a Palazzo Ferrajoli

“Ci vorrebbe una Destra per svegliare l’Italia”

di Salvatore Sfrecola

 

Per iniziativa dell’Editore Luciano Lucarini (Pagine, Nuove Idee), da sempre impegnato nella pubblicazione di libri ideologicamente collocati sul centro destra (Aznar, Cameron, Sarkozy, Rajoy, i più recenti) sabato 6 si terrà a Roma, a Palazzo Ferrajoli, a piazza Colonna, proprio di fronte a Palazzo Chigi, una giornata di riflessioni sull’attuale situazione politica.

“Ci vorrebbe una Destra per svegliare l’Italia” è la traccia consegnata a noti intellettuali di destra, da Marcello Veneziani a Domenico Fisichella, da Gianfranco de Turris a Fabio Torriero, a Gennaro Sangiuliano.

L’appuntamento è alle 10, il dibattito prenderà corpo alle 15. Una giornata  di studio e di confronto in un momento in cui l’Italia è sull’orlo del baratro, non solo dal punto di vista economico finanziario, con la recessione che mangia i redditi degli italiani e taglia posti di lavoro, a fronte di iniziative per lo sviluppo all’evidenza insufficienti. Anche sul piano politico il Centrodestra, alla vigilia di una importante scadenza elettorale, le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del Lazio e, a distanza di pochi mesi, per Camera e Senato, subisce gli effetti negativi della gestione Berlusconi e degli scandali che hanno interessato uomini del Popolo della Libertà, da Roma a Milano, a Napoli.

I sondaggi sono impietosi. È solo il rifiuto delle Sinistre, tradizionale scelta dei moderati italiani, a mantenere sulle due cifre il consenso per il PdL, non certo l’apprezzamento di un elettorato che crede in valori di cui molti esponenti di quel partito hanno fatto strame in tutti questi anni, oltre a non mantenere le tante fantasmagoriche promesse fatte fin dal 1994 per carpire il voto degli italiani, dalla riduzione delle tasse, mai neppure avviata, all’incremento dei posti di lavoro, un milione, secondo il “contratto con gli italiani”, la burla mediatica della quale si pagano ancora le conseguenze.

Sembra, dunque, necessario un colpo di reni delle persone per bene, per quella Destra democratica e liberale della quale è senza dubbio esponente illustre il Professore Domenico Fisichella, studioso di fama internazionale, un uomo che ha dato molto ad Alleanza Nazionale con la sua parola e con i suoi scritti, impegno non apprezzato da Gianfranco Fini e dintorni ai quali stava in uggia quell’intellettuale che dialoga a tu per tu con Hobbes e Montesquieu, con Rosmini e Mourras, dei quali a stento quei signori conoscono il nome di battesimo.

Ottima iniziativa, dunque, quella di Luciano Lucarini, un editore che va sempre più diversificando le sue pubblicazioni nei confronti di quella vasta area moderata che va dai cattolici ai liberali che hanno ancora molto da dire, molto di più della misura che indicano i sondaggi sulle intenzioni di voto.

4 ottobre 2012

 

 

 

 

1° ottobre 1862 – 1° ottobre 2012

Corte dei conti: 150 anni portati bene!

di Salvatore Sfrecola

 

Centocinquant’anni fa, proprio in queste ore, in uno storico palazzo di Torino, Capitale del neo istituito Regno d’Italia, faceva ingresso il Ministro delle finanze Quintino Sella per inaugurare la Corte dei conti, “il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno”. Aggiungendo di considerare “la creazione di questa Corte come una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la Nazione debba al suo Parlamento”.

E, poi, rivolgendosi ai “Signori Magistrati di tutto il Regno d’Italia” sottolineava come altissime siano le attribuzioni che la legge loro affida. “La fortuna pubblica – spiega - è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori”.

“Nè ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità”.

Aggiunge Il Ministro: “questo timore non ebbi… perche ho fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come sopratutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità”.

Immaginate un governante dei nostri giorni, Monti escluso, che invita i magistrati della Corte a “vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge”!

È importante ricordare le parole di questo ministro propugnatore della politica “della lesina”, all’indomani dell’unificazione d’Italia, quando, come oggi, pesava sui conti pubblici un consistente debito.

È importante perché gli italiani devono sapere che, al di là dell’enfasi propria del linguaggio di un “patriota” risorgimentale, come Sella si definisce, c’è stata in alcuni momenti della storia d’Italia una classe politica che ha lavorato guardando agli interessi generali, che non ha lucrato sulle missioni, che non ha violato i risultati di un referendum popolare che cancellava il finanziamento pubblico dei partiti per attribuirsi il giorno dopo “rimborsi elettorali” estesi perfino a movimenti politici non più in vita.

È importante perché gli italiani devono sapere, come si legge sui libri di scuola, che ci sono stati in alcuni momenti della storia d’Italia politici che non si facevano comprare le case o pagare le vacanze.

Centocinquant’anni, dunque, di storia che s’intreccia con le trasformazioni costituzionali ed amministrative avvenute nel frattempo, che segue l’evoluzione dello Stato e la sua articolazione regionale, che accompagna la creazione delle amministrazioni autonome e delle aziende municipalizzate, degli enti pubblici e delle società a capitale pubblico dove si gestiscono risorse rilevanti, spesso eludendo controlli e responsabilità.

Perché non c’è stato più un Quintino Sella che abbia ritenuto di sollecitare i magistrati contabili a “vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge”, né un Parlamento di cui si possa dire che abbia adottato “provvide e sapienti deliberazioni” in materia di tutela della “fortuna pubblica”. Basti pensare alla normativa che delimita il “danno all’immagine” ad alcuni reati, rendendo impuniti gli autori di illeciti gravissimi che ledono agli occhi del cittadino l’immagine dello Stato, dal funzionario che attua una truffa aggravata al maestro pedofilo o violentatore, all’insegnante che tollera l’aggressione e la violenza nei confronti dell’alunno disabile, in aula, da parte dei compagni di scuola.

Centocinquant’anni tutto sommato portati bene, nonostante le difficoltà, l’insufficienza di uomini e mezzi per far fronte all’aggressione della corruzione e delle altre forme di illecito, dagli sprechi all’evasione fiscale di cui la cronaca ci informa quotidianamente.

Centocinquant’anni di una magistratura che, in realtà, è espressione di una evoluzione istituzionale che corre lungo i secoli. Perché, senza riandare all’ateniese tribunale dei Logisti, il cui ordinamento rivela in nuce i caratteri sostanziali dell’odierno processo contabile (la necessarietà del giudizio sul rendiconto circa l’uso dei fondi pubblici, l’autonomia funzionale del pubblico ministero, le garanzie processuali, l’autorità della cosa giudicata) o ad altre analoghe istituzioni poste a garanzia della corretta gestione dei fondi pubblici nell’evoluzione degli stati succeduti all’Impero romano, l’antenato più visibile è la Chambre des comptes francese, suprema magistratura finanziaria istituita nel secolo XIII da Luigi IX, che non soltanto giudicava i conti, ma esercitava anche un controllo preventivo mediante il diritto di rimostranza sui provvedimenti regi in materia demaniale.

Da quell’esperienza prende le mosse Camera dei conti, istituita nel 1351 a Chambery da Amedeo V, e quella di Torino, da Emanuele Filiberto. Magistrature, che esercitavano entrambe il loro controllo in forma giurisdizionale, ed alle quali era attribuito il “diritto di interinazione” per i provvedimenti normativi emanati dal princeps).

Per cui può dirsi che la nostra Corte celebra i 150 anni del suo inserimento nello Stato nazionale appena unificato che con la legge 14 agosto 1862, n. 800 assume una nuova connotazione rispetto a quella Corte che il Conte di Cavour, che mai cessava di ripetere: “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, aveva voluto riordinare nel Regno di Sardegna solo nel 1859, così denominata rispetto alla preesistente Camera dei conti. Nel frattempo la legge sarda era stata estesa alla Lombardia mentre altrove erano rimasti in vita gli istituti esistenti: in Toscana la Granducale Corte dei conti, nel Regno delle due Sicilie la Gran Corte dei conti napoletana e quella siciliana.

Un giudice “dei conti”, dunque, che svolge una funzione fondamentale, che si basa sulla regola per la quale “l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse, è regola d’ordine razionale, che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra epoca storica, ma che, nel secolare fluire delle vicende umane, sempre di vita propria, ammonitrice vive”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone il Presidente del Centenario il 10 dicembre 1962.

Un reddere rationem cui si accompagnano varie forme di controllo per accertare la bontà e la regolarità dell’operato delle amministrazioni e degli enti, mettendo in evidenza ciò che si doveva fare nel rispetto della legalità, ma anche della efficienza, efficacia ed economicità di un atto o di una gestione.

Esigenza non formale, ma di interesse sociale. L’impegno pubblico per il bene comune, all’indomani dell’unità d’Italia come oggi, sconta il rilevante fardello del debito pubblico, che esige provvedimenti rigorosi con oneri che dovrebbero essere equamente distribuiti, ed un’organizzazione dello Stato efficiente, che produca servizi e non generi sprechi, che sia di ausilio allo sviluppo dell’economia e delle istituzioni di interesse sociale e non zavorra.

Nella Repubblica che si articola in una serie di centri di potere politico ed amministrativo titolari della funzione di spesa la Corte dei conti segue con grande impegno, anche se a volte con affanno per l’inadeguatezza degli strumenti normativi, degli uomini e dei mezzi, gestioni complesse destinate ad incidere in modo significativo su servizi di rilevante interesse sociale. Basti pensare alla sanità, rimessa alla competenza delle regioni, spesso fonte di scandali e comunque di sprechi, ancor più gravi perché compiuti ai danni di persone deboli, come sono, per definizione, coloro che accedono al servizio salute.

Nel tempo alcuni controlli, il controllo preventivo su tutti i decreti reali, poi presidenziali, sui decreti ministeriali di natura finanziaria, sui mandati e sugli ordini di pagamento, ed, in taluni casi, il controllo posteriore sulle spese, sono stati limitati. A cominciare dai decreti legge e dai decreti legislativi, per i quali il controllo preventivo di legittimità è venuto meno con la legge n. 400 del 1988, sul riordinamento della Presidenza del Consiglio, essendo stata ritenuta prevalente la natura normativa primaria rispetto alla formulazione amministrativa. Poi la legge 14 gennaio 1994, n. 20, ha limitato fortemente gli atti soggetti a controllo preventivo, individuando per questa procedura solo quelli di particolare rilievo, per dare ampio risalto al controllo successivo sulla gestione, anche, per le regioni, con riferimento alle leggi di indirizzo e di programma.

Oggi, proprio in questi giorni, quando la cronaca “ha rivelato come nel disprezzo per la legalità si moltiplichino malversazioni e fenomeni di corruzione” “inimmaginabili” e “vergognosi”, come li ha definiti il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si dubita che l’assetto attuale dei controlli sia funzionale alla intercettazione dei più gravi fenomeni di mala gestione che trovano la loro origine in provvedimenti sui quali nessun controllo viene esercitato dall’organo che naturalmente quella funzione è chiamato a svolgere in posizione di assoluta neutralità.

A questo proposito istruttivo appare il richiamo ad una celebre, eppur trascurata, riflessione di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75 che ha redatto la Costituzione il quale, richiesto di dare un significato alla funzione di ausiliarietà della Corte dei conti, la definì ausiliaria “della Repubblica”, espressione ben acconcia alla articolazione dello Stato dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.

Non solo controllo, tuttavia, su atti e gestioni. Ma anche vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate e sulle cauzioni degli agenti contabili, giudizio sul rendiconto dello Stato, cui accede la relazione alle Camere, giurisdizione contenziosa sui conti dei tesorieri e contabili pubblici.

Dal punto di vista istituzionale,il decorrere del tempo, il mutare dell’assetto costituzionale dello Stato, compresa la parentesi della dittatura, non hanno determinato mutazioni apprezzabili, essendo l’ordinamento della Corte rimasto indenne da riforme capaci di alterarne la originaria essenza di organo di garanzia che, anzi, è stato meglio precisato sul piano costituzionale dagli articoli 100, comma 2, e 103, comma 2.

La continuità, del resto, la forza propria delle grandi istituzioni dello Stato - coeve alla sua stessa nascita - e questa forza, appunto, che ne spiega e ne giustifica la lunga e mai interrotta esistenza.

Così è stato definito con la legge n. 259 del 1958 il controllo “sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria” tenuti ad operare secondo “criteri di economicità”, regola sulla quale la Corte molti criteri ha fornito. Ed è stato attuato un decentramento regionale che dal 1994 ha visto nei capoluoghi di regione sezioni di giurisdizionali e di controllo alle quali, con la legge n.131 del 2003 (c.d. “La Loggia”) è stata attribuita una significativa funzione consultiva, che va nella direzione di fornire assistenza giuridica “nelle materie di contabilità pubblica” a regioni ed enti locali che di altri ausili di consulenza “giuridico-amministrativo” non ne hanno. Funzione, pertanto, apprezzata e che rende palese agli occhi di amministratori e dipendenti di regioni ed enti locali il ruolo di organo “della Repubblica” di una Corte che, fino a qualche anno fa, poteva apparire Istituzione esclusivamente dello Stato centrale.

E qui va sottolineata l’importanza della funzione “referente”, in base alla quale la Corte riferisce “direttamente” alle Camere “sul risultato del riscontro eseguito”, in tal modo fornendo alle assemblee legislative, espressione della volontà popolare, gli strumenti conoscitivi necessari ad esercitare quel ruolo di controllo politico che deputati e senatori sono chiamati a svolgere in ragione del mandato elettorale (per cui bene della Corte si è detto che è longa manus del Parlamento). Ed oggi riferisce anche ai Consigli regionali che costituiscono centri di spesa e di incidenza politica di estremo rilievo.

Nè va trascurato in questa stagione nella quale l’Europa è presente nella maggior parte dell’attività amministrativa, il controllo sull’attività di enti internazionali o sopranazionali che coinvolge la Corte dei conti italiana, in quanto quegli enti traggono i loro mezzi finanziari dalle contribuzioni poste a carico degli Stati aderenti per cui il risultato della loro azione si riverbera sui bilanci nazionali. Si tratta dell’Unione europea, del Consiglio di Europa, del Board della Nato e delle Agenzie internazionali. Contestualmente la Corte italiana è referente della Corte europea.

Accanto al controllo, la funzione giurisdizionale, con la sua tipica natura obbiettiva, agisce in connessione diretta con le funzioni istituzionali della Corte. Alla giurisdizione tipicamente propria della Corte dei conti che è e rimane quella nelle materie di conto e di responsabilità amministrativa e contabile, si aggiunge la giurisdizione relativa alla materia delle pensioni pubbliche che riguardano aspettative che la Corte ha sempre cercato di soddisfare ed oggi, pur nell’esiguità delle forze in campo, può dirsi quasi azzerato, grazie al decentramento della giurisdizione, l'arretrato ce caratterizzava i decenni scorsi.

La giurisdizione sui conti si atteggia, dunque, come logico complemento dell’attività di controllo, alla quale è legata da un intimo nesso, laddove la Costituzione, nell’affidare al legislatore ordinario la specificazione delle “altre” materie devolute alla giurisdizione della Corte, espressamente e direttamente, invece, ad essa attribuisce quella, appunto, relativa alle materie di “contabilità pubblica”. Espressione, quest’ultima, ben più vasta a quella di “contabilità di Stato”, a dimostrazione della evoluzione della finanza dello Stato in relazione alle nuove e crescenti funzioni di interesse sociale assunte come proprie dallo stato contemporaneo. In particolare assume rilievo per ciò che concerne gli enti pubblici beneficiari di contribuzioni statali e comunitari molto più del controllo, essendosi affermata la responsabilità degli amministratori che tali somme gestiscono.

Istituto di garanzia dell’Esecutivo (come detto “ausiliare”), di perfetto equilibrio e di assoluta equidistanza tra Governo e Parlamento, la Corte dei conti domina il dibattito politico e giornalistico che proprio in questi giorni richiama l’attenzione su corruzione e sprechi, un fenomeno gravissimo quanto diffuso sul quale, come abbiamo riferito, ha detto la sua parola ammonitrice il Capo dello Stato.

Per cui si sentono proposte per attribuire alla Corte altri e più significativi controlli sulla gestione delle spese della politica, proprio lì dove più grandi e ripetuti sono stati gli illeciti che hanno destato grave scandalo. Anche se rimane forte la resistenza della "casta" ad attribuire queste verificazione ad una magistratura dotata di indipendenza, quella preoccupazione che, come abbiamo visto, non aveva il Ministro delle finanze Quintino Sella all’atto della inaugurazione della nuova Corte dello stato unitario.

Per cui tornano ad affacciarsi tentativi di modificare la natura stessa della Corte mediante una rimodulazione della formazione professionale dei suoi magistrati. Per cui si è ironizzato, nel corso di una polemica interna recente sull’ingresso o meno di “magistrati economisti” che ha visto gran parte dei giudici contabili schierarsi per la preminenza della cultura giuridica.

Si è ironizzato definendo "temutissimo" l’ingresso alla Corte di magistrati con la sola laurea in economia richiamando il Bassanini-pensiero, il Ministro che aveva voluto l’ingresso dei laureati in economia, il quale aveva esplicitamente affermato che “Per vincere la sfida della qualità dei servizi e delle prestazioni occorre poi un forte impegno di rinnovamento della cultura della pubblica amministrazione. Una vera rivoluzione culturale. La cultura burocratica, la cultura del formalismo giuridico è radicata e resistente. Deve cedere il passo alla cultura della qualità, dei risultati, dell’innovazione, della sperimentazione”.

“Tra le difficoltà da superare per realizzare questo cambio di cultura ci sono le resistenze anzi la vera e propria impermeabilità spesso dimostrata dagli organi di controllo, che spesso rifiutano tout court di prendere atto che le leggi sono cambiate. Ricordo un episodio emblematico. Nella legge 127 del 1997 inserimmo una disposizione che imponeva di riservare il 20% dei posti nei concorsi per i magistrati della Corte dei Conti ai laureati in discipline diverse da quelle giuridiche. La ragione era ovvia: per sviluppare al meglio i nuovi compiti di controllo sulla gestione, sulla funzionalità, sui risultati delle amministrazioni pubbliche non bastano i giuristi: occorrono anche gli economisti, gli ingegneri gestionali, gli analisti di bilancio, che sono, del resto, il nerbo del General Accounting Office americano e dell’Audit Office britannico…. Che hanno fatto poi alla Corte dei Conti? Hanno risolto il problema sottoponendo i concorrenti provenienti da lauree non giuridiche ad un concorso basato prevalentemente su esami di diritto e li hanno bocciati tutti, lasciando vacanti i posti a loro riservati!”.

Naturalmente la posizione di Bassanini, che ha vari cultori all'interno della Corte, è legittima. Ma sarebbe una istituzione che non si potrebbe chiamare “Corte”, che vuol dire tribunale e non sarebbe ammissibile che i suoi componenti fossero definiti “magistrati”. Infatti dove queste istituzioni di controllo hanno una configurazione aziendalistica non si parla di magistrati. Ad esempio nella Contraloria General del Venezuela, ad esempio, i componenti si chiamano abocados.

Nel 150° della istituzione della Corte dei conti si potrebbe dire: “Signori magistrati, a voi la scelta. Se vi pesa la toga, abbandonatela, senza ipocrisie. Fate un altro mestiere!”.

Il Bassanini-pensiero, alla luce delle parole di Quintino Sella sull'indipendenza dei magistrati, che il Ministro del 1862 non temeva, fanno dubitare molto che i politici di oggi si preoccupino di quella garanzia della funzione e preferiscano un organismo meno indipendente nei fatti, anche se forse garantito dalle parole. Nel nostro ordinamento tante, forse troppe, sono le autorità "indipendenti", ma basta andare ai criteri di nomina per rendersi conto che quella indipendenza è formale per uomini scelti dai partiti.

1° ottobre 2012

 

 

 

 

 

 

 


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