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FEBBRAIO 2012

 

Niente taglio alle tasse. Perché?

di Senator

            È andata delusa la speranza di una riduzione delle tasse per i redditi più modesti in conseguenza dei promettenti risultati della lotta all’evasione. Presentata sulla stampa, alla vigilia del Consiglio dei ministri che ha adottato alcune misure fiscali, come una misura più che probabile tanto che l’operazione sembrava cosa fatta, la decisione di soprassedere ha sorpreso tanti, tranne da coloro che seguono le vicende del nostro fisco.

Quali i motivi della mancata riduzione? Sarebbe stato ritenuto “prematuro”, si è letto sui giornali di oggi, una parola che nasconde, dietro una formula anodina, la realtà degli accertamenti fiscali che sono stati condotti dall’Agenzia delle entrate. Monti sa bene che gli accertamenti, anche quando sembrano ineccepibili sul piano del diritto, non danno luogo ad una immediata riscossione del tributo evaso.

Specie nel commercio, nel quale tante sono le variabili nella individuazione del reddito tassabile, è inevitabile che il contribuente faccia ricorso alla commissione tributaria. Lo fa perché contesta l’accertamento che, se accettato, darebbe luogo a verifiche sugli anni precedenti fino al limite della prescrizione, lo fa perché non vuole portare un fardello che peserà negli anni successivi.

Il contenzioso tributario è costituito da un sistema giudiziario pesante, farraginoso, che si protrae per anni, in primo grado (Commissione provinciale) e in appello (Commissione regionale), per approdare inevitabilmente in Cassazione dove ricorreranno il contribuente soccombente o l’Avvocatura generale dello Stato che difende l’Agenzia delle entrate. L’una e l’altra oberate da un contenzioso dai grandi numeri.

Monti sa bene che questo antico male della giustizia tributaria rende incerta, nell’an e nel quantum, oltreche nel quando, la riscossione dell’imposta pretesa dall’Erario a seguito degli accertamenti dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza. E, prudentemente, ha tratto la conclusione che è “prematuro” ridurre le tasse, sia pure a chi ha problemi di sopravvivenza.

25 febbraio 2012
 

Non più leggi di conversione omnibus. Napolitano richiama i Presidenti delle Camere sui limiti delle leggi di conversione dei decreti legge
di Iudex

Un importante recupero di civiltà giuridica in una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 22 del 13 febbraio 2012 che, intervenendo nell’esame della legge di conversione del decreto-legge n. 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. "milleproroghe"), ha posto limiti invalicabili allo spazio riservato al Parlamento in sede di conversione di un provvedimento d’urgenza.

Nell’occasione il Giudice delle leggi ha precisato che “il Parlamento è chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato, contenente disposizioni giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle fattispecie regolate o per la finalità che si intende perseguire. In definitiva, l’oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione”.  E pur non potendosi escludere “che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità … Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario”. In sostanza “l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione”.

Lo andavamo sostenendo in molti da anni, a fronte di inserimenti di norme che non avevano nulla a che fare con il provvedimento in corso di conversione il cui oggetto veniva ampliato e consolidato nei maxiemendamenti, con fiducia, ai quali siamo stati abituati dagli ultimi governi, una barbarie giuridica che viene finalmente qualificata come tale.

E così interviene il Capo dello Stato, che evidentemente non aveva ritenuto di poter intervenire in sede di promulgazione delle leggi che oggi la Corte costituzionale giudica illegittime.

E così Giorgio Napolitano ha preso carta e penna ed ha scritto ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio.

Napolitano richiama la sua lettera del 22 febbraio 2011 ai Presidenti delle Camere   con la quale aveva sottolineato “la necessità di limitare gli emendamenti ammissibili, in sede di conversione dei decreti-legge, a quelli sostanzialmente omogenei rispetto al testo originario del decreto, in considerazione della particolare disciplina costituzionale e regolamentare del procedimento di conversione nonché a garanzia del vaglio preventivo spettante al Presidente della Repubblica in sede di emanazione del decreto-legge e di quello successivo sulla legge di conversione, anche per la difficoltà di esercitare la facoltà di rinvio prevista dall'art. 74 della Costituzione in prossimità della scadenza del termine tassativo di 60 giorni fissato per la conversione in legge”.

Ricorda il Presidente della Repubblica che in quella occasione aveva ripreso “considerazioni svolte dal Presidente Ciampi nel messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002 con il quale venne richiesta una nuova deliberazione sulla legge di conversione del decreto-legge n. 4 del 2002 e da me in varie occasioni anticipate fin dall'inizio del settennato ai Presidenti delle Camere e ai Governi che si sono succeduti, anche in relazione alle specifiche disposizioni legislative e dei regolamenti parlamentari relative alla decretazione d'urgenza”. Criteri ai quali “la prassi parlamentare non sempre si è attenuta … con particolare riguardo al tradizionale decreto-legge di fine anno con il quale vengono prorogati termini di efficacia di varie disposizioni legislative, essendo prevalsa la linea di ritenere sufficiente, per l'ammissibilità degli emendamenti, una generica finalità di proroga non collegata con l'oggetto e spesso neppure con la materia e le finalità del provvedimento di urgenza”.

“Talora – prosegue il Capo dello Stato -, si sono anche consentite modifiche ordinamentali non strettamente limitate all'ambito temporale della proroga di tali termini. Anche in occasione del recente decreto-legge "milleproroghe" 29 dicembre 2011, n. 216 sono stati ammessi e approvati emendamenti che hanno introdotto disposizioni in nessun modo ricollegabili alle specifiche proroghe contenute nel decreto-legge, e neppure alla finalità indicata nelle premesse di garantire l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa. Le disposizioni così introdotte, se in possesso dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, avrebbero dovuto trovare più corretta collocazione in un distinto apposito decreto-legge”.

Ritenendo di non disporre “di un potere di rinvio parziale dei disegni di legge” Napolitano afferma di non poter “esimersi dall'effettuare, nei casi di leggi di conversione, una valutazione delle criticità riscontrabili in relazione al contenuto complessivo del decreto-legge, evitando una decadenza di tutte le disposizioni, comprese quelle condivisibili e urgenti, qualora la rilevanza e la portata di queste risultino prevalenti”.

Scrupolo certamente encomiabile.

Resta la soddisfazione di una pronuncia che elimina una barbarie della quale molti hanno fatto finta di non accorgersi in Parlamento e specificamente nelle Commissioni affari costituzionali, per favorire l’inserimento di norme sicuramente estranee al decreto-legge, spesso eversive dell’ordinamento, come nel caso delle disposizioni introdotte in decreti legge riferiti alla crisi economica per limitare i poteri d’indagine delle Procure regionali della Corte dei conti e l’ambito della loro cognizione, ad esempio per quanto riguarda il danno all’immagine della pubblica amministrazione.

25 febbraio 2012
 

Rischio corruzione

se lo Stato e gli enti pubblici pagano in ritardo

di Salvatore Sfrecola

È ufficiale, le somme che il settore pubblico deve alle imprese, fino a qualche tempo fa stimate in 80 miliardi di euro, ha superato i 100 miliardi (102, per l’esattezza), una cifra paurosa che mette in difficoltà vasti settori produttivi del Paese. Infatti è evidente che le imprese le quali vantano crediti che non possono riscuotere nei termini fisiologici, che tengano conto, ad esempio, del pagamento dei fornitori di beni e servizi necessari per la produzione, accumulano interessi da pagare, ed in assenza del credito bancario, possono essere indotte a ricorrere a finanziarie senza scrupoli se non ad usurai.

In questo diffuso disagio, che spesso mette in forse la stessa sopravvivenza delle imprese, molti potrebbero essere indotti a cercare di “ungere” i funzionari addetti ai pagamenti perché anticipino quanto loro dovuto, facendo precedere la liquidazione delle loro fatture ad altre che sono avanti nel protocollo d’ufficio. In questo caso la “mazzetta”, quella che il codice penale all’art-. 318 definisce dazione “in denaro o altra utilità”, serve ad indurre il pubblico ufficiale a “compiere un atto del suo ufficio”. È la cosiddetta corruzione impropria, più diffusa di quanto non si creda a tutti i livelli e in tutte le amministrazioni.

È evidente che nelle attuali condizioni, a fronte di crediti per oltre 100 miliardi, in relazione ai quali il Governo ha messo a disposizione una somma assolutamente insufficiente, l’incentivo a cercare la scorciatoia della corruzione del funzionario che dispone i pagamenti è forte per un imprenditore che non ha la possibilità di attendere i tempi lunghi che si prospettano, spesso centinaia di giorni, in qualche caso anche un paio di anni, rispetto ai termini di legge (d.legs. n. 231 del 9 ottobre 2002) in attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (trenta giorni).

La tentazione è forte, come l’istinto di sopravvivenza di chi è impegnato in un’attività che è la fonte principale quando non esclusiva del suo guadagno.

In queste condizioni il governo nazionale e quelli delle regioni hanno il dovere di porre rapidamente mano alla situazione, trovando il modo di pagare i debiti e di facilitare l’accesso al credito bancario per restituire liquidità alle imprese, così mettendole al riparo di possibili fallimenti con danni rilevanti all’occupazione, con effetti negativi anche sul mercato interno. Perché chi perde il lavoro evidentemente riduce i consumi.

Parliamo complessivamente di 100 miliardi, non poco, certamente, ma quella somma in tempi ragionevoli, con meccanismi vari, deve tornare nella disponibilità delle imprese.

Nello stesso tempo va posto mano alla revisione della spesa pubblica non necessaria perché non si riformi un debito delle attuali dimensioni. Infatti forte è il sospetto che in alcuni ambiti delle pubbliche amministrazioni, in particolare nel settore sanitario, ci sia un eccesso di spesa destinata a beni e servizi non necessari o acquistati a prezzi gonfiati con danno finale per gli utenti di un servizio essenziale per la comunità.

Questo ci attendiamo dai tecnici chiamati a governarci. Non dubito della loro buona volontà. Non ugualmente di alcuni staff che sono passati dalla prima alla seconda repubblica senza dare la dovuta dimostrazione della loro professionalità. E che restano al loro posto solo perché “rispondono” a chi li ha indicati ai ministri.

19 febbraio 2012
 

La Corte dei conti denuncia la corruzione? Il Giornale della “Ditta Berlusconi” l’attacca
di Senator

 Nei giorni scorsi la stampa ha dato ampia notizia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 della Corte dei conti, mettendo in risalto le denunce del Presidente, Luigi Giampaolino, quanto alle disfunzioni dell’amministrazione, alle dimensioni dell’evasione fiscale e della corruzione. E Il Giornale la critica.

Tanto è il livore che quella testata ha da sempre nei confronti dei magistrati (che sia per compiacere la Famiglia Berlusconi?) che più della corruzione è disturbato dai magistrati che la denunciano e la combattono. E inizia “da che pulpito. Inquisiti, sfiorati dai sospetti, vicini alle cricche. Serviti e riveriti, i magistrati della Corte dei conti, custodi occhiuti delle finanze italiane, con stipendi e pensioni di capogiro (fino a 230mila euro l’anno) e, soprattutto, autorizzati a cumulare doppio stipendio, benefit, promozioni e scatti di anzianità. Fra i tanti c’è Lamberto Cardia, magistrato fuori ruolo, per 13 anni alla Consob e nominato presidente di sezione, che ha sommato ai 430mila euro di indennità anche lo stipendio di magistrato, poi presidente delle Fs”.

Da precisare che Cardia è da tempio in pensione.

Poi fa altri tre o quattro nomi di magistrati oggetto di indagini, poi, chiuse con assoluzione e di un paio, ancora sub iudice. Garantisti a senso unico a Il Giornale laddove si applica la norma sulla presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva (una regola che esiste in pratica solo in Italia; altrove chi è condannato in primo grado è un “presunto colpevole”) solo nei confronti dei politici della “casta”, coloro che sono inquisiti dai magistrati “cattivi”, magari “toghe rosse”.

Non più di due i magistrati della Corte dei conti sui quali i giudici ordinari stanno indagando su 500 magistrati che ogni giorno fanno il loro dovere. È questo giornalismo indipendente? O un bollettino di partito, il partito di coloro che vogliono “mani libere” nella gestione del potere, irritati se qualcuno intende esercitare quel controllo di legalità che è regola fondamentale negli stati di diritto?

Infine, quel giornale afferma di essere espressione del centrodestra liberale. E qui occorre una precisazione. Lo dice lui. Perché è ormai evidente a tutti che quello schieramento che abbiamo costruito (lo dico io da parlamentare) come espressione della destra liberale e moderna ha rapidamente perso quello spirito originario per diventare espressione del più vieto lobbysmo gestito da una pattuglia di reduci del craxismo, cioè da quella classe politica che, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ha raddoppiato il debito pubblico italiano. Un problema che ci portiamo ancora dietro, come sanno bene soprattutto i pensionati, la categoria sulla quale, per l’elevato numero che la caratterizza, sono ricadute le prime misure di austerità.

Ho scritto troppo. Quel giornale non merita ulteriore attenzione.

19 febbraio 2012

 

La realtà e ricorrenti rigurgiti anticlericali

La Chiesa e l’ICI – occorre equilibrio

di Senator

 

Ritorna a giorni alterni, sulla stampa ed in televisione, la vicenda dell’ICI sugli immobili della Chiesa cattolica, con sprazzi di incontrollato anticlericalismo, da un lato, e di azzardata difesa d’ufficio, dall’altro.

Sbagliano entrambi. Il tema va visto nella sua realtà giuridica e di fatto, nel senso che è evidente che una tassazione sugli immobili, se manda esenti i locali nei quali si svolgono attività di carattere sociale deve riguardare anche gli immobili di enti religiosi.

L’esenzione, ai sensi della lett. i) dell’art. 7, D.Lgs. 504/92, prevede due fondamentali requisiti: che si tratti di immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, co. 1, lett. c) del TUIR (enti pubblici e privati, diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali); che tale utilizzo deve avere caratteri di destinazione esclusiva allo svolgimento delle attività elencate nella norma (assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive). L’esenzione, tuttavia, vale solo per i beni destinati allo svolgimento delle attività istituzionali e rientranti nei settori sopra elencati.

La lett. i) dell’art. 7 della legge sull’I.C.I., inoltre, consente agli enti non commerciali di usufruire dell’esenzione anche in relazione agli immobili non utilizzati direttamente (ad esempio concessi in locazione o comodato) purché siano rispettate due condizioni: che essi siano comunque utilizzati da un ente non commerciale e che siano da questo esclusivamente destinati ad una delle attività indicate dalla norma.

Infatti, va sottolineato che la norma non richiede, ai fini del diritto all’agevolazione, che l’ente non commerciale utilizzatore sia anche proprietario dell’immobile.

Fatte queste precisazioni in punto di diritto, come dicono i giuristi di professione, sarà certamente agevole individuare quali immobili di proprietà della Chiesa o di organizzazioni religiose abbiano i caratteri stabiliti dalla legge e che consentono ad altri enti di godere dell’esenzione. Può darsi che occorra una ristrutturazione degli enti per delineare meglio le loro attribuzioni, ma è certo che il “problema” è facilmente risolvibile nel rispetto della legge e della par condicio di tutti gli enti che svolgono le attività che la legge ha ritenuto meritevoli dell’agevolazione.

Vanno, dunque, in soffitta tutte le elaborazioni polemiche che si leggono da qualche tempo sui giornali, come le ipotesi di soluzione “negoziata” di cui tanto spesso si parla in margine ad incontri istituzionali che vedano presenti uomini di governo dello Stato italiano e della Conferenza Episcopale Italiana. Come nel caso del ricevimento organizzato a Palazzo Borromeo, sede dell’Ambasciata Italiana presso la Santa Sede, in occasione della ricorrenza della firma del Concordato Stato-Santa Sede (c.d. Patti Lateranensi) del 1929, rivisto nel 1984.

Un incontro che ha scatenato la fantasia della stampa di sinistra che ha accreditato di un Cardinale Bagnasco che “furioso” per l’andamento delle “trattative”, avrebbe commentato a pochi intimi: "Se lo Stato italiano vuole che ci chiudiamo in sacrestia, abbandonando opere di bene e assistenza verso i più bisognosi, noi ci chiudiamo in sacrestia".

Non è nello stile dell’alto prelato.

Caterina Perniconi de “Il Fatto quotidiano" c onferma che a Palazzo Borromeo non si è parlato di Ici sui beni immobili alla Chiesa, in ciò in linea con quanto affermato Francesco Maria Greco, Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede.

Non se ne è parlato perché evidentemente va fatta una attenta ricognizione degli immobili e delle diverse situazioni nelle quali operano gli enti. Ma intanto va precisato che in materia si sono sentite cifre di fantasia, molto distanti da quelle stimate dall'Anci in 600 milioni di euro.

Se ne parlerà in Parlamento con il concorso degli opposti “schieramenti”, tra quanti cercano solo una precisazione normativa che elimini ogni ambiguità, e quanti saranno ancora presi da livido impegno antireligioso.

La soluzione andrà trovata in una norma interpretativa che eviti un contenzioso sul pregresso e chiarisca il metodo di calcolo della superficie no profit e della superficie commerciale quando uno stesso immobile ha più destinazioni. Probabilmente la strada è quella di intestare le attività ad enti diversi.

Probabilmente sarà anche necessario che gli enti che usufruiscono dell’agevolazione rendano pubblici i loro bilanci.

Senza polemiche.

18 febbraio 2012

 

Monti a Strasburgo

Un recupero di dignità nazionale

di Senator

           Non c’è dubbio che il discorso del Presidente del Consiglio Mario Monti, ieri, al Parlamento europeo, abbia inorgoglito molti italiani. Il tratto del Premier, sicuro e garbato, la puntualità delle citazioni, la fermezza nel rivendicare la bontà delle iniziative assunte dal Governo per risanare i conti pubblici ed avviare la ripresa dell’economia nel giorno in cui l’ISTAT ha certificato il dato della riduzione del PIL, cioè l’ingresso nell’area della recessione, hanno offerto l’immagine di un uomo di stato che sa il fatto suo e non si fa condizionare dai partiti che pure lo sostengono, sia pure con alcuni distiguo, soprattutto il Popolo della Libertà, il grande difensore delle corporazioni che ingessano il Paese ed impediscono di ottenere risultati di crescita, ormai da troppi anni.

Gli applausi seguiti al discorso, che non ha risparmiato critiche severe allo spirito con il quale alcuni stati, in primo luogo la Germania, interpretano il ruolo di stato membro di una comunità che ha abbandonato dal 1992 l’aggettivo “economica” per diventare Unione, nella prospettiva di quella svolta “politica” che gli statisti che prepararono, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, i Trattati di Roma avevano esattamente intravisto. Da Adenauer a Churchil a De Gasperi a Schuman.

Opportuna precisazione, quella di Monti, perché o l’Europa assume la connotazione di una unione politica, con una sua presenza sul piano internazionale, sia politica che economica, oppure fa la fine di quelle aree di libero scambio dal fiato corto che ansimano nella storia dell’umanità senza prospettive di lungo termine.

Una scossa, dunque, quella di Monti per tutti sulla quale torneremo nei prossimi giorni.

16 febbraio 2012

 

Il No di Monti alle Olimpiadi

Roma paga la pessima immagine della sua classe dirigente e imprenditoriale

di Senator

            Lo schiaffo a Roma Capitale, con aggiunta del plauso della Lega, è duro da mandare giù. Ma è inutile recriminare. Ne va preso atto con un profondo e sincero esame di coscienza che non può non portare alla conclusione che la decisione del Governo, giustificata dalla difficile situazione finanziaria e soprattutto dall’incertezza sui conti, sconta la modesta immagine della classe politica romana e la pessima fama dei suoi imprenditori. Quei “palazzinari” che si sono ingrassati all’ombra del potere con grave danno per la Città.

Nodi antichi che oggi vengono al pettine, scanditi dai ritardi nei lavori pubblici, dalla loro pessima esecuzione, un quadro sintomatico della mancanza di professionalità e di controlli.

Dopo le Olimpiadi del 1960, che hanno lasciato un’immagine visibile di un valore aggiunto per la Città, basti pensare ai sottovia lungotevere e di Corso d’Italia i lavori programmati ed eseguiti per i Mondiali di Calcio sono, nella maggior parte dei casi, un insulto a Roma, alla sua storia, ai suoi cittadini. Lo Stadio Olimpico realizzato a dispetto della tutela della Collina di Monte Mario (dal 1953!), un mostro che ancora oggi deturpa la vista di un’area storica di grande valore paesaggistico, poi i lavori ferroviari, le stazioni dove non entra il treno e via dicendo, dimostrano incapacità di gestire progettazione, direzione dei lavori e collaudi.

Non che in altre realtà sia stato fatto di meglio, come ci racconta di giorno in giorno “Striscia la Notizia”. Per restare ai Mondiali di calcio sappiamo che molti stadi sono aperti in deroga alle norme sulla sicurezza, che a Genova il Sottopasso di Caricamento aveva un’altezza inferiore al previsto. E poi il Mose a Venezia, una macchina mangiasoldi della cui utilità ancora si dubita da parte di molti. E via discorrendo. Il settore delle opere pubbliche è una piaga che dimostra incapacità di progettare e di controllare da parte delle pubbliche amministrazioni. La “Salerno Reggio Calabria” è l’immagine viva di questa realtà che ci fa perdere la faccia di fronte al mondo, una situazione possibile solo perché in un modo o nell’altro impediamo il concorso di imprese straniere negli appalti di opere pubbliche.

Per Roma sarebbe tuttavia ingiusto attribuire ad Alemanno il concorso in questa brutta immagine della classe politica della Città. È Sindaco da poco e non ha potuto scrollarsi di dosso i condizionamenti dei partiti e delle lobby vicine ai “palazzinari de noantri”, il peggio dell’imprenditoria, privi di tecnologia, quella che avrebbe consentito di realizzare rapidamente linee di metropolitana interrate e di superficie. Forse non tutti sanno, ad esempio, che è possibile lavorare nel sottosuolo a decine di metri di profondità, anche a 50, con macchinari adeguati che consentono di scavare velocemente, anche sotto i fiumi, là dove non si trovano certo quei reperti archeologici che sono l’incubo dei nostri imprenditori. La tecnologia costa, richiede, accanto a macchine, uomini addestrati, che gli imprenditori nostrani non possiedono. Modesti operatori delle costruzioni che, anche quando espongono grossi bilanci ed opere pubbliche, in realtà a livello europeo sono piccole realtà. Grandi in Italia, minuscole in Europa.

Se non si esce da questa situazione, se le amministrazioni italiane non recuperano capacità di programmazione e progettazione e, soprattutto, di controllo nella realizzazione delle opere, continueremo ad avere infrastrutture inadeguate, costose, in tempi biblici.

Per uscire da questa situazione occorre che la classe politica si convinca che la sua immagine pubblica, quella che porta consensi elettorali, è fatta di risultati e non di progetti sbandierati e di opera a volte pluriinaugurate secondo la politica del taglio del nastro.

Oggi Sul Corriere della Sera Sergio Rizzo (La contabilità delle ambizioni) ha scritto che “Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie.

Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che “la complessità, l'onerosità e la ridondanza delle strutture” decisionali rischia di causare “difficoltà e disfunzioni sul piano operativo”.

Che dire? È inevitabile. Mi rifiuto. Dobbiamo mandare a casa questa classe politica fatta di incompetenti e di molti furfanti. Gente che ha dilapidato i bilanci dello Stato e degli enti pubblici ed adesso pretende di salvare l’Italia vendendo i gioielli di famiglia, quelli che nei secoli sono stati realizzati con il sudore di milioni di italiani. Mandiamo a casa questi mestatori i quali dovrebbero essere interdetti dai pubblici uffici. L’Italia non li vuole più.

15 febbraio 2012
 

Le primarie di Genova

Un segnale solo per il Partito Democratico?

di Senator

Oggi i giornali sono impegnati a decrittare la vicenda di Genova dove il Prof. Marco Doria, battitore libero, sia pure sponsorizzato da Vendola, ha vinto le primarie battendo il Sindaco uscente, Vincenzi, e la senatrice Pinotti, data per vincitrice fino alla vigilia. Un nome che è parte essenziale della storia della città, una cattedra universitaria, Doria è il Pisapia genovese, come il Sindaco di Milano appartenente ad una importante famiglia che un curriculum professionale di tutto rispetto.

Come interpretare il “fenomeno Doria”? Certamente vi sono più motivi per questa risposta, ma uno certamente non va trascurato quello che fa emergere a sinistra, anzi diremmo all’estrema sinistra, personalità delle professioni, appartenenti all’alta borghesia, caratterizzate da forte indipendenza rispetto all’apparato di partito con una accentuata sensibilità nei confronti delle esigenze dei più disagiati. Candidature che rischiano di erodere consensi a destra, ad una destra in cerca di identità, che si è spacciata come liberale, ma di liberale ha fatto praticamente niente. Non ha liberalizzato, non ha abbassato le tasse, come pure aveva promesso fin dal primo apparire sulla scena nel 1994, non fa riformato la pubblica amministrazione. In sostanza non ha governato se, avendo gestito il potere governativo per il tempo più lungo negli ultimi 18 anni ci ha lasciato con un debito pubblico astronomico, aggravato da 120 miliardi annui di evasione fiscale (dato Agenzia delle entrate) ed oltre 60 miliardi di corruzione (dato Corte dei conti).

Ha sbagliato il centro a fare il proprio mestiere, ha sbagliato il centrosinistra che nei già ricordati 18 anni ha comunque gestito il potere e, all’opposizione, non ha saputo svolgere un ruolo essenziale nelle democrazie, pungolare chi governa e prepararsi a succedergli.

Ed è così che le preoccupazioni di Bersani, dopo le primarie che hanno lanciato la candidatura di Doria a Sindaco di Genova, devono costituire essere un campanello d’allarme per Angelino Alfano, volonteroso segretario di un PdL in trasformazione. Probabilmente anche alla ricerca di un nuovo nome er di una nuova formula.

È improbabile che a destra si facciano le primarie come abbiamo imparato a vederle nel Partito Democratico, ma è certo che il popolo moderato, tradizionalmente liberal-democratico, di ispirazione cattolica non potrà stare a guardare dopo le delusioni dell’era Berlusconi conclusasi con una stagione di lacrime e sangue, repentinamente seguita a quella dell’ottimismo a tutti i costi, quando avevano cercato di convincerci che stavamo meglio degli altri, che s’intravedeva l’uscita dalla crisi, anche perché il Presidente del Consiglio, il migliore degli ultimi 150 anni, era anche quello che conservava il più alto indice di gradimento.

In assenza di primarie, a destra possono determinarsi aggregazioni nuove, capaci di sparigliare le carte e di ricostruire un tessuto politico credibile. È il tentativo che sta conducendo l’UDC, erede di una Democrazia Cristiana che ha ancora un credito.

L’impegno di Casini in questo senso è evidente e il suo moderatismo genera senz’altro attenzione e fiducia.

Tutto è in movimento. In quest’anno che ci separa dalle elezioni può accadere di tutto, ma è certo che nulla sarà come prima, perché vorrebbe significare la fine della Grecia. Sarà Monti il leader del centrodestra o di una grande coalizione. O Passera? È certo che per i partiti come li abbiamo conosciuti sono tempi magri, a parte le fondazioni e i “rimborsi” elettorali. Non sono più credibili. Non hanno futuro.
14 febbraio 2012

 

EURO e DOLLARO: MORS TUA VITA MEA ?
di Europeo

 

"La democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno e’ malato"

(Winston Churchill)

 

Nella sua intervista al Time del 19 gennaio 2012 il presidente Obama  ha affermato: "I think we’ve been able to establish is a clear belief among other nations that the United States continues to be the one indispensable nation in tackling major international problems" (1).

Se Winston Churchill ha ragione, allora per Obama si può  affermare che tutti gli altri non esistono, salvo un altro solo, che però è malato.

 Si può supporre che  fingano di non esserci “ancora “? Si può supporre che uno solo non stia in buona salute  di fatto o per calcolo politico?

Ma allora potrebbero decidere di esistere, quell’uno solo potrebbe guarire e potrebbero tutti scoprire che l’unico malato per davvero è  chi si crede unico medico “the one indispensable nation".

Cinque giorni dopo il presidente Obama ha tenuto il discorso sulla stato dell’Unione: di fatto ha lanciato la sua candidatura per il secondo mandato ed ha tracciato il sentiero della sua campagna elettorale.

Ha detto testualmente:  “Il più grosso colpo alla fiducia nella nostra economia l’anno scorso non è arrivato da eventi al di fuori del nostro controllo. È arrivato dal dibattito a Washington sulla domanda se gli Stati Uniti dovessero pagare il loro debito o no. Nessuna riforma può esser fatta se non abbassiamo la temperatura in questa città. Abbiamo bisogno di mettere fine all’idea che i due partiti debbono rimanere bloccati in una perpetua campagna di reciproca distruzione. Bisogna fare squadra come i Navy Seal quando hanno attaccato ed ucciso Bin Laden.

 Qualcuno di loro era democratico, qualcuno repubblicano. Non aveva importanza perché tutti lavoravano ad una causa comune. Io sono un democratico. Ma credo in ciò in cui credeva il repubblicano Abraham Lincoln”.

 Ora si può fare a meno di esercitarsi nel prevedere l’esito delle prossime elezioni presidenziali negli Usa.

Comunque vada, il debito è lì e la tentazione più forte   per l’eletto di turno  e per gli interessi che lo manderanno alla casa bianca sarà quella di far  pagare il debito statunitense agli altri e di far pagare agli altri pure il nuovo debito derivante dall’esercizio di continuare ad essere “l'unica nazione indispensabile per affrontare grandi problemi internazionali”!

Tentazione a cui gli Usa hanno ben volentieri  ceduto negli ultimi  70 anni.

Soltanto che dopo 70 anni ora c’è chi può decidere di esistere sulla scena mondiale: ed anche l’ammalato europeo può  decidere  di affidarsi ad un altro medico al minimo o, il che sarebbe meglio, decidere di guarire.

La democrazia  perciò  potrebbe non funzionare più alla “ Churchill “. E del resto è ora.

A pensarci bene proprio il Regno Unito, che  ha vinto la guerra,  ha pagato in proprio il prezzo maggiore al principio churchilliano: si è dovuto  ammalare per far funzionare la democrazia dell’altro “unico” capitalista atlantico!

Se si parte da una diagnosi sbagliata, si rischia di  arrivare dritto dritto ad una terapia disastrosa.

Per esempio potremmo applicare il concetto espresso da Obama al sistema (?) monetario internazionale e  dedurne che  “il dollaro continua ad essere l’unica moneta indispensabile per affrontare i maggiori problemi - monetari e quindi economici e finanziari – internazionali”.

Così, dopo aver fatto ammalare la sterlina inglese – in omaggio alla tesi di Churchill - e lo yen giapponese – qui per riprendere alla grande  “Madama Butterfly” siamo al quasi suicidio - potrebbe venire la voglia di “far fuori” l’euro.

Così  si può risolvere con un solo colpo  il problema del debito statunitense facendo sparire un concorrente  e facendo ben capire alla Cina, all’India, al Sud America, alla Russia, alla Turchia, all’Africa, insomma a tutti gli altri  che c’è un unico posto in cui si deve investire e bruciare risparmi: la fornace dei dollari Usa.

Il leader mangia prima dei gregari; se ne resta mangeranno poi ….

Ironia del capitalismo: predica bene “don’t put all eggs in one basket” e razzola male “vuole tutte le uova foderate di dollari statunitensi”.

Perciò una  diagnosi siffatta per risolvere il problema del debito passato e futuro statunitense potrebbe essere sbagliata.

Clemenceau aveva un tale risentimento verso la Germania che non  si fermò con la sconfitta di quest'ultima nel novembre 1918.

Alla Conferenza di Parigi del 1919 pretese che la Germania venisse messa in ginocchio sia politicamente che economicamente, con la imposizione di forti compensazioni di guerra e l'occupazione militare del Reno. Aveva ottenuto tutto quello che voleva.

Sconfitto nella corsa alla Presidenza della Repubblica nel 1920, si ritirò dalla vita politica. Scrisse due libri di memorie: ne “La Grandezza e la Miseria della Vittoria “predisse che ci sarebbe stato un altro scontro con la Germania”!

In fondo ora il problema è sempre lo stesso: la Germania.

Hamilton ha avuto un grande maestro –Jean Baptiste Colbert – e due grandi allievi: la Meiji leadership giapponese  a partire dal 1860  e la Germania di Federico List e di Bismarck.

A differenza del Giappone, la Germania dopo la seconda guerra mondiale sta cercando un’altra strada - l’Unione Europea – forse data la sua natura non insulare a differenza del Giappone fatto di isole. E potrebbe essere la strada vincente.

Il problema non è che l’allievo può superare il maestro, ma è che questo successo se si consolida porta il mondo in una direzione nuova.

Se si cerca di distruggere l’esperimento ancora non consolidato si può commettere l’errore di Clemenceau.

Questa volta però non si pone a rischio il futuro della Germania e dell’Europa - che già di per sè basterebbe a scatenare un nuovo putiferio mondiale – ma si pone a rischio la prospettiva su cui vanno incamminandosi Cina, India, Sud America, Africa, Paesi arabi.

La direzione potrebbe essere quella  di ricomporre la politica ad un livello geopolitico misurabile col potere del capitalismo.

Il potere di realizzare le cose e’ stato globalizzato dal capitalismo.

La capacità politica di decidere le cose che devono essere fatte è rimasto nazionalizzato. 

Nel suo ultimo bel libro sui paradossi della globalizzazione, l'economista  Dani Rodrik descrive il "trilemma" dell'economia mondiale: democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica sono obiettivi che possono essere perseguiti solo a coppie.

1)            Se si vuole perseguire la globalizzazione economica e mantenere la sovranità nazionale bisogna rinunciare ad elementi sostanziali di democrazia.

2)            Se si vuole salvare la globalizzazione e garantire allo stesso tempo la possibilità di scelte democratiche, bisogna rinunciare alla centralità della nazione in favore di autorità democratiche globali.

3)            Se invece si intende salvare lo Stato nazione e la democrazia politica, allora bisognerebbe avere la forza di rinunciare alla globalizzazione.

Ma i buoi sono scappati già. Se la globalizzazione serve a dare un migliore destino all’80% della popolazione mondiale si devono accettare i rischi che comporta: quindi fuori l’opzione 3.

La globalizzazione è figlia del capitalismo. E da ciò nascono due grandi rischi.

Primo rischio. Il capitalismo non è eterno ed è già in crisi. E quello che  è più in crisi è il capitalismo liberale: Usa, Europa.

Ora il nemico più implacabile del capitalismo è il capitalismo:  non s’è ancora visto uno scontro mondiale tra sistemi socialisti e abbiamo dovuto subirne due tra sistemi capitalistici.

 In questa fase storica lo scontro sembra tra i due capitalismi liberali, tra le due sponde dell’Atlantico con gli altri capitalismi sociali che guardano- pour cause  - con più attenzione all’esperimento europeo e con più diffidenza altrove.

Ma l’agonia del capitale  potrebbe venire dallo scontro tra capitalismo liberale indebolito dalle lotte intestine  e capitalismo sociale in crescita - Cina , Russia – avente o meno per obiettivo la supremazia su Africa, Sud America, India, Paesi arabi.

 Secondo rischio. Il capitalismo è sempre più capitalismo di stato: quello liberale per via della crisi e quello sociale per via del sostrato politico su cui si è sviluppato.

 La mano visibile degli interessi, delle corporazioni, delle lobbies riesce sempre meglio  a far pagare allo stato tutti i fallimenti del mercato: si può dire che, con buon pace della mano invisibile, gli spiriti “animali” del capitalismo liberale sanno d’istinto dove andare  a chiedere: lo stato.

 Quanto ai newcomers del capitalismo sociale non fanno altro che applicare la lezione statunitense o tedesca delle origini: se proprio bisogna competere sul mercato globale quale migliore tycoon nel board dello stato?

 Un aggravamento della situazione – l’arresto della globalizzazione ad esempio – potrebbe portare alla trasformazione genetica del capitalismo: il socialismo di stato trionfante ovunque in forti mercati nazionali con rischi elevatissimi di conflitto per l’accaparramento di risorse primarie: acqua, terre, energia, minerali.

 La riduzione della probabilità di questa ultima disastrosa deriva sta nella scomparsa dello stato- nazione e quindi nell’eliminazione dell’opzione 3.

Ci resta un solo esperimento che appare meno rischioso:  per  salvare la globalizzazione e garantire allo stesso tempo la possibilità di scelte democratiche, bisogna rinunciare alla centralità della nazione in favore di autorità democratiche globali.

 E questo esperimento appare il più idoneo a rispondere ad altre sfide; in particolare la sfida  che la tecnologia e la scienza pongono  alla democrazia e la sfida ambientale di fronte cui sono impotenti  governi nazionali e capitalismo.

 E l’euro in questo scenario?

L’euro potrebbe essere la  prima guerra di indipendenza italiana;  la prima costituzione statunitense;  solo qualcosa di più dello zollverein tedesco.

Non è certamente  l’unità risorgimentale dell’Italia, la federazione degli Stati Uniti d’America, la piena  unità nazionale tedesca del 1871.

Ma da grande sarà molto di più di esse. Può consentire un nuovo ruolo agli Stati Uniti d’America ed indicare un nuovo modo di fare politica internazionale alle altre grandi aree del mondo.

L’euro è gli “ Stati Uniti d’Europa “ in fasce.

Bhagwan Shree Rajneesh ha scritto che ”anche una fiamma appena accesa basta a disperdere un’oscurità antichissima“.

Un’oscurità come quella di dire: “the one indispensable nation”.

Perciò la fiamma appena accesa dell’euro deve essere alimentata e non spenta.

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(1)          Io  penso che noi siamo stati in grado di stabilire una chiara convinzione tra le altre nazioni che gli Stati Uniti continuano ad essere l'unica nazione indispensabile per affrontare grandi problemi internazionali.
14 febbraio 2012

 

Il traffico a Roma a quattro giorni dalla neve

Cronache da inefficientopoli

di Marco Aurelio

 Eredi di un grande impero, che aveva fatto dell’efficienza la ragione del suo successo, gli odierni amministratori della Capitale si perdono in un bicchier d’acqua o, meglio, in una spruzzatina di neve.

Se ne potrebbero raccontare tante.

Oggi ci fermiamo sulla situazione del traffico, il grande trascurato dell’attuale giunta, della zona Monte Mario – Belsito – Balduina che è collegata a Prati Delle Vittorie, tra l’altro dalla cosiddetta “panoramica”, Viale Falcone e Borzellino, che dalla Trionfale porta a Piazzale Clodio.

Ebbene, quel viale è chiuso dal giorno della nevicata. Certo le sue curve sono pericolose per il ghiaccio, ma se a qualcuno venisse in mente di intervenire per eliminare quel po’ di neve rimasta ai bordi ed il ghiaccio che si forma la notte si potrebbe ripristinare l’uso del viale favorendo il deflusso delle auto dalla zona alta, che riceve il traffico da Monte Mario e Torrevecchia Trionfale.

Invece questa mattina era intasatissimo viale delle Medaglie d’Oro, in pratica la strada che raccoglie il 90 per cento del traffico da Roma Nord. Mentre scendevo mi chiedevo come mai nessuno avesse pensato di mettere dei vigili ai due semafori dopo la Balduina verso piazzale degli Eroi per accelerare il moto delle auto in fila. Sbagliato! Perché, all’incrocio con via Marziale, due vigili (vigilesse) c’erano, ma non per fluidificare il traffico ma per presidiare la corsia preferenziale. Giustissimo il rispetto della legge, ma l’esigenza prioritaria in quel momento era, in un orario di punta (8-8,30), quella di facilitare il deflusso delle automobili, anche per contenere l’inevitabile inquinamento.

È questo il caso in cui quattro vigili intelligenti, monitorando di minuto in minuto il flusso dei mezzi, avrebbero potuto rendere più flessibile una situazione irrigidita dai semafori.

Niente da fare, siamo amministrati da incapaci. Anche le cose più ovvie, come rendere percorribile viale Falcone e Borzellino che porta da Monte Mario un ingente numero di auto (forse all’Assessorato alla mobilità pensano che Monte Mario sia come il Gran Sasso!) o accelerare il traffico su Viale delle Medaglie d’Oro diventa un problema, irrisolto,anche quando risolvibilissimo.
8 febbraio 2012

 

I giovani e un modello di sviluppo inadeguato

Bamboccioni, sfigati, mammoni, siete il futuro d’Italia!

di Salvatore Sfrecola

        Bamboccioni, sfigati, mammoni e chissà quanti altri aggettivi inventeranno ancora i nostri “tecnici” al governo che sul punto stanno deludendo, mischiando valutazioni esatte con analisi insufficienti, quando non sbagliate.

Intanto sembrano confondere “posto fisso” con “posto sicuro” e la mobilità con il precariato, creando malcontento e, in qualche misura, pregiudicando le iniziative che vorrebbero assumere per restituire flessibilità al mercato del lavoro.

Anche perché poi, inevitabilmente, si scopre che chi se ne esce con certe improvvide affermazioni sui giovani ha i figli, e forse anche i nipoti, ben “sistemati” in modo stabile e vicino casa.

Ora non è dubbio che il lavoro sia una condizione essenziale per l’uomo, con influenza determinante sulla vita personale e familiare e sul suo inserimento nel contesto sociale, tutti momenti dell’esistenza umana che hanno un’importanza fondamentale e che concorrono a formare la personalità, il suo equilibrio psichico la sua capacità di convivere con altri nell’ambiente.

Lavoro significa, infatti, soddisfazione personale in relazione alla gratificazione professionale (qualunque sia il livello delle prestazioni rese), possibilità di disporre di un reddito capace di assicurare una vita dignitosa, di migliorare anche sul piano lavorativo, di farsi una famiglia e di contribuire in questo modo allo sviluppo della società. Con l’ovvia conseguenza negativa che la mancanza di lavoro determina frustrazione, risorse insufficienti, incentivo alla ribellione sociale.

Naturalmente la soddisfazione di queste esigenze non è affatto semplice, trova delle limitazioni in relazione alla situazione economica del Paese, ma non è dubbio che una generalizzata mancanza di lavoro determina una crisi sociale pericolosa per la democrazia.

La storia è piena di esempi di situazioni siffatte. Senza andare lontano possiamo ricordare la crisi economica del primo dopoguerra, dovuta in primo luogo alla riconversione dell’industria bellica, alla difficoltà di una ripresa in tempi brevi ed alla conseguente ribellione sociale di vaste categorie di lavoratori, intellettuali ed operai, che avevano perso il lavoro, magari per aver partecipato alla guerra. Italia e Germania hanno vissuto il dramma di quegli anni nei quali la classe politica dei due paesi non è stata in condizione di assicurare la ripresa con le conseguenze che tutti noi conosciamo, il Fascismo e il Nazismo.

È un problema, quello del lavoro, che il governo deve affrontare. Non per assicurare un posto fisso, ma un lavoro, che può anche essere a tempo, caratterizzato da mobilità, ma deve assicurare condizioni economiche a tutti, ad evitare la ribellione dei diseredati, una situazione che in termini economici e sociali costa molto di più.

Poi vanno pensate misure idonee a dare certezza alle persone che desiderano formarsi una famiglia e comprare una casa. Lo abbiamo detto più volte e viene ripetuto giornalmente sui giornali e nelle trasmissioni radiotelevisive. Chi ha un lavoro a termine non riesce ad ottenere un mutuo per compare casa. Qui possono intervenire lo Stato o le Regioni con una garanzia sulla restituzione del mutuo. Darebbe certezza alle banche e consentirebbe al lavoratore a tempo di investire e contribuire in tal modo allo sviluppo dell’economia.

È evidente, infatti, che il lavoro, anche con una modesta remunerazione, è un incentivo a migliorare, consente una presenza sul mercato interno che sviluppa i consumi e, a monte, la produzione, una condizione per nuovi posti di lavoro. Inoltre la ripresa dei consumi porta nuove risorse nelle casse dello Stato attraverso le relative imposte sugli scambi, l’IVA.

A questo punto è evidente che lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni ed ogni altra iniziativa della quale si sente parlare dal Presidente del Consiglio e dai suoi ministri “tecnici” non sono altro che tanti tasselli di un disegno complessivo che non è ancora chiaro e che dovrebbe delineare un modello di sviluppo per i prossimi anni. Un modello italiano, con le sue specificità, all’interno di un modello europeo, quando l’Europa cesserà di essere un’espressione geografica, per divenire finalmente quella potenza economica e politica che molti immaginano e che tanti temono.

Quale modello di sviluppo per il nostro Paese? Non uno qualsiasi, ad imitazione di altri paesi europei caratterizzati da altre condizioni, diverse da quelle proprie nostre, che sono storiche, ambientali, con tradizioni forti in alcuni settori della cultura, dell’arte e dell’artigianato, della moda che primeggia nel mondo.

Insomma questo Paese, che non può battere i mercati nella produzione di automobili, tanto per fare un esempio, con l’effetto di trascinare l’economia, ha delle specificità, sulle quali spesso mi soffermo, che non temono concorrenza e non suggeriscono delocalizzazioni. Penso, in primo luogo, al turismo, una risorsa che stentiamo ad implementare, coinvolgendo aree del Paese ancora fuori mercato per assenza di infrastrutture viarie adeguate, di alberghi e ristoranti al livello di flussi di visitatori molto interessanti, dalla Russia ai paesi dell’Est, alla Cina, che si aggiungono ai tradizionali ospiti europei ed americani.

Per sviluppare l’offerta turistica servono alcuni interventi sul territorio e sul sistema museale e delle aree archeologiche, che siano espressione di una moderna concezione della rappresentazione del bene artistico in condizioni di accesso a consistenti nuclei di visitatori. L’Italia, dicevo poc’anzi, non teme confronti. Nessuno, neppure la Grecia, dispone di templi della bellezza di quelli di Paestum o di Agrigento, né aree del fascino del Foro Romano o del Colosseo, che si può ripetere in tante regioni, tutte straordinariamente ricche di opere d’arte di tutti i periodi storici in un contesto ambientale mozzafiato. Non c’è regione italiana che non abbia un’attrattiva straordinaria con i suoi musei, i suoi palazzi storici le sue chiese.

Cosa aspettiamo a puntare sulla nostra ricchezza, a sviluppare l’unico settore che, in tempi rapidi, può assicurare un rilevante numero di posti di lavoro certi e duraturi.

Ma ci vuole serietà. Il ristoratore disonesto, che presenta un conto stratosferico al turista per un pranzo modesto va chiuso per sempre e tutti lo devono sapere, a cominciare dai giornali del paese del turista. Così improbabili alberghi a più stelle vanno cancellati se non offrono servizi degni della categoria che rivendicano.

Ogni tolleranza è un danno enorme che si propaga sul tam tam dei visitatori.

Ugualmente l’offerta turistica qualitativamente adeguata a prezzi contenuti ha un effetto straordinario di diffusione dell’immagine dell’Italia, perché ognuno che viene nel nostro Paese e si trova a suo agio tornando a casa diventa un ambasciatore del made in Italy, perché avrà comprato la ceramica di Deruta o di Gubbio, una seta, una borsetta di Prada o di Gucci, decanterà i vini meravigliosi che punteggiano la geografia di tutte le regioni. E poi ogni altro prodotto italiano gustato ed offerto agli amici di là dai nostri confini. È l’indotto straordinario che, a parole tutti comprendono, ma che di fatto nessuno coltiva in modo adeguato a livello istituzionale.

Ora il nuovo Ministro del turismo, Gnudi, persona di cultura e di esperienza manageriale, si né fatto garante di una crescita. Ma già non se ne parla più. Sono certo che andrà lavorando seriamente ma io vorrei che se ne parlasse ogni giorno e che si mettessero in cantiere soprattutto iniziative nuove, che offrono occupazione.

Ecco, l’Italia ha bisogno di un nuovo modello di sviluppo, che non può essere una visione astratta della nostra economia. Noi abbiamo una fiorente agricoltura, ma la nostra manifattura nel settore della conservazione e della trasformazione dei prodotti ortofrutticoli, a cominciare dalle marmellate che spesso compriamo con denominazione straniera ma fatta con frutta italiana, è ancora insufficiente.

La materia è di competenza regionale. Il Ministro Gnudi metta intorno ad un tavolo i responsabili regionali e li inchiodi ad una responsabile programmazione di una grande scommessa. Mettiamo in campo la nostra storia, fatta di arte e di cultura, “prodotti” che non si possono taroccare e riscopriamo il nostro ruolo nel Mediterraneo, che nasce da una posizione geografica unica e dalla tradizione di Roma, che è il nostro orgoglio ma anche la chiave che apre tante porte perché quella tradizione che si ritrova nelle grandi città dei paesi rivieraschi non sa di colonialismo ma di una civiltà ineguagliata.

Riprendiamoci un po’ di orgoglio e portiamo avanti un dialogo culturale nel quale possiamo vantare molte chance. Impariamo a farne una ricchezza per il Paese.

7 febbraio 2012

 

Un nuovo ruolo per le Forze Armate

Ripensiamo la protezione civile

di Senator

          Gli eventi di questi giorni, il disastro della Costa Concordia, le nevicate che hanno bloccato mezza Italia, fermato i treni, fatto mancare acqua e luce in molte località, alcune delle quali ancora isolate, hanno dimostrato che il nostro Paese non è in condizioni di far fronte ad emergenze ambientali che altrove generano minori problemi.

La polemica tra il Sindaco di Roma, Alemanno, ed il Capo della Protezione civile, Gabrielli, dimostra innanzitutto la difficoltà della politica di farsi trovare pronta, per quanto sia ragionevole attendersi, dinanzi a situazioni previste o prevedibili, sia un’alluvione, una nevicata o una siccità, com’è accaduto alcuni anni indietro, cosa gravissima per un territorio ricco di acque, come l’Italia.

Cominciamo da quest’ultimo caso. Tutti ricorderanno il Po in secca e così gli altri fiumi in un’estate di fuoco, nella quale si parlava di razionamento dell’acqua. Perché? Perché gli acquedotti perdono oltre il 50% della loro portata, perché non si fa manutenzione (costosa e di scarso impatto sull’opinione pubblica), non si fanno più invasi artificiali. Dopo la tragedia del Vajont, senza che nessuno si sia posto il dubbio a suo tempo se fosse giusto fare una diga a monte di alcuni paesi o alcuni paesi a valle di una diga, se non dovesse prevedersi che per un attentato, un terremoto, una guerra, la diga avrebbe potuto versare l’acqua a valle, con valutazione della direzione che l’acqua avrebbe assunto. Perché gli invasi artificiali, un tempo funzionali alle centrali idroelettriche, un modo di produrre elettricità a basso costo e senza inquinamento, avevano anche estrema utilità nelle esteti calde, quando le aziende idroelettriche mettevano l’acqua a disposizione delle attività irrigue.

Così un anno l’acqua è mancata. Ci sono state le solite polemiche, le denunce dei tecnici e dei politici più accorti, poi il silenzio, fino alla prossima siccità.

Una penosa constatazione dell’incapacità di gestire, che significa incapacità di prevedere e prevenire e poi operare.

Lo stesso nella vicenda delle nevicate di questi giorni. Previste, come abbiamo sentito tutti noi che seguiamo i notiziari meteorologici che ci avevano messo in guardia, segnalando date e orari e l’intensità delle precipitazioni. Per quanto è prevedibile, ovviamente, nei limiti di una certa approssimazione, perché non è possibile, come vorrebbe il Sindaco di Roma, che le informazioni meteo fossero precise al millimetro, tanti centimetri e non più né meno. Per cui è assurda la querelle sulle dimensione della nevicata per chi ha cercato di giustificare l’inefficienza dei servizi perché la Protezione Civile avrebbe indicato qualche centimetro meno di neve rispetto a quelli effettivamente caduti.

Non è questo il modo di gestire i pericoli e le emergenze. È necessario che chi ha competenza in materia di protezione civile eserciti le relative funzioni con ragionevole prudenza. Per cui un sindaco che aveva disposto la chiusura delle scuole, immaginando evidentemente del disagio per la popolazione, avrebbe dovuto mettere in campo mezzi e uomini ed i materiali occorrenti (alludo al sale) per affrontare l’emergenza neve così come si sarebbe manifestata. Con un po’ di sopravalutazione piuttosto che con una sottovalutazione evidente nei fatti, con noncuranza, ma non è necessaria una nevicata per accorgersene, del traffico cittadino, un aspetto essenziale in una grande città, tra l’altro capitale dello Stato.

Siamo stati sulla bocca di tutti nel mondo e sulle prime pagine dei giornali perché una capitale non può andare in tilt per pochi centimetri di neve, anche fossero 10, 20 o 30, al punto da chiudere gli uffici pubblici, compresi quelli giudiziari, tanto che la seduta inaugurale dell’anno giudiziario della Corte dei conti di Roma, che doveva svolgersi oggi alla presenza del Capo dello Stato, non c’è stata.

È stata la neve, ma ugualmente poteva essere un nubifragio, a bloccare le strade urbane ed exaurbane allagate per mancata manutenzione degli scarichi, anche in prossimità del fiume, dove si formano aree allagate vicino ai ponti, come a ponte Mazzini, a Roma, tanto per fare un esempio, che si sarebbe potuto evitare chiamando qualcuno a fare un condotto dalla sede stradale al fiume.

E che dire dei treni e delle autostrade, fermi per ore nelle stazioni o in mezzo alla campagna o bloccate per molte ore, per cui ho potuto sentire in televisione un camionista che aveva attraversato l’Ungheria, con temperature mediamente di 15-20 sottozero, dire che lì le autostrade erano percorribili senza l’insidia della neve e del ghiaccio.

I treni sono stati bloccati perché gli scambi si gelano. Un problema irrisolvibile all’inizio del Terzo Millennio? Quando esistono modi di riscaldare gli scambi con strumentazione neppure particolarmente costosa.

Ma si sa. Contiamo sempre sulla fortuna che non sempre ci assiste, ovviamente.

Qualcuno ha evocato Bertolaso, quasi se ci fosse stato lui le cose sarebbero andate meglio.

Intanto Bertolaso, laddove la sua attività ha raggiunto effetti positivi nelle varie emergenze che si sono susseguite nel Paese (ogni anno c’è un terremoto almeno con un po’ di danni, un’alluvione e qualche nevicata di particolare consistenza), ha operato con altissimi costi, tra l’altro utilizzando in primo luogo strutture dello Stato, in particolare militari, e degli enti locali.

Per completare l’analisi va anche detto che ci sono stati cambiamenti dopo il tentativo di trasformare la Protezione Civile, che tra l’altro era divenuta strumento di intervento per ogni evenienza, compresi i “grandi eventi”, in una società per azioni sottratta ad ogni controllo.

Ne è risultata una Protezione Civile depotenziata, messa in difficoltà quanto ai tempi di intervento dal necessario preventivo concerto con il Ministero dell’economia, oltre che da un controllo preventivo della Corte dei conti sulle ordinanze di protezione civile che non è certo funzionale alla gestione dell’urgenza.

Occorrerà, dunque, riconsiderare l’organizzazione del sistema Protezione Civile perché persegua gli obiettivi previsti nel migliore dei modi ai costi più contenuti.

Come riorganizzare la Protezione Civile? Me lo sono chiesto più volte seguendo le vicende delle tante crisi dovute a terremoti ed alluvioni nelle quali i responsabili hanno utilizzato di tutto, miliari, imprese civili, volontari, per scavare, assistere, alloggiare, alimentare le persone, per creare infrastrutture provvisorie, per ripristinare quelle inagibili. E mi sono fatto l’idea che la Protezione civile, sotto la supervisione di un funzionario con funzioni di coordinamento e direzione, debba essere costituita essenzialmente dalle Forze Armate le quali dispongono, in via permanente, dei mezzi e degli uomini per intervenire. Dal genio militare che dispone di mezzi per tutte le evenienze, che può costruire ponti, sistemare tendopoli, ripristinare strade dissestate, reti.

Le Forze armate hanno una presenza sul territorio con mezzi che consentono il monitoraggio dei luoghi. Pensiamo agli Alpini, per le montagne, alla Marina per le coste. Pensiamo alla disponibilità di mezzi per l’assistenza, delle ambulanze, degli ospedali militari, delle cucine da campo, dei ponti radio per le comunicazioni.

Perché questo non accade, anche se poi sono le Forze Armate ad intervenire per prime sotto l’egida della Protezione Civile?

Credo che abbiano concorso due fattori negativi. Da un lato una certa diffidenza dei partiti per le Forze Armate, quasi l’impegnarle in via preponderante e permanente determinasse un rischio per la democrazia. Dall’altro lato sono state le stesse Forze Armate, soprattutto negli anni ’90, a respingere l’idea, come se l’intervento dei protezione civile costituisse una deminutio in relazione alla “vocazione” militare, diremmo “combattente” dei militari.

Sbagliano entrambi i fautori delle due opinioni. Intanto le nostre Forze Armate non hanno mai avuto una vocazione golpista e comunque è facile controllare la gestione della struttura. Inoltre credo che l’immagine delle Forze Armate sarebbe estremamente positiva agli occhi della gente, soprattutto dei giovani che vi operano, in un’attività di soccorso alle persone e di difesa del territorio e dell’ambiente. Credo che sarebbe un ruolo esaltante, per nulla meno importante di quello di difesa in armi la Patria. Perché anche il soccorso, l’ambiente, la tutela del territorio sono espressione nobile della difesa della Patria.

È questa la mia proposta, considerato che l’emergenza richiede organizzazione e coordinamento che sono tipiche espressioni del mondo militare, come la disciplina, necessaria quando si lotta contro il tempo.

C’è, poi, il problema dell’approvvigionamento dei mezzi necessari per intervenire. È ovvio che acquisti programmati, monitorati e controllati, come è possibile nelle Forze Armate che dispongono di procedure ben ordinate darebbe garanzie di risparmio della spesa e di economicità della gestione.

Una proposta o, se volete, una provocazione alla ricerca di una migliore organizzazione della quale l’Italia ha estremo e urgente bisogno.

6 febbraio 2012

 

A proposito di una multa per eccesso di velocità. In Inghilterra un ministro si dimette per aver detto il falso

di Senator

          Verrà processato per eccesso di velocità. Intanto il ministro dell'Energia britannico, Chris Huhne, si è dimesso, perché aveva affermato che l’infrazione l’aveva compiuta l’ex moglie.

       “Abbiamo concluso che ci sono prove sufficienti per accusare Huhne e la ex moglie di aver interferito con il corso della giustizia”, ha detto il procuratore Keir Starmer. L'accusa contro Huhne è quella di aver falsamente attribuito nel 2003 all'allora moglie Vicky Pryce una multa per eccesso di velocità. La vicenda è emersa dopo la separazione della coppia.

Nel Regno Unito non è concepibile che un ministro menta anche su una vicenda banale come l’attribuzione di una multa per eccesso di velocità. In Italia a violare il Codice della Strada, con diminuzione dei punti patente, sono, di solito, le mamme ottantenni, arzille vecchiette scoperte a confondere le nostre strade statali con un circuito da Formula 1. Così figli e parenti vari evitano la sanzione della diminuzione dei punti della patente scaricando su mamme e nonne gli effetti dell’infrazione.

Sembra una banalità, una bugia per non apparire automobilisti indisciplinati, e tale la considereranno molti italiani abituati a ben altre bugie di politici, su case e cose.

Il fatto è che l’etica pubblica sembra più materia per saggi dotti o conferenze brillanti che regola di vita in chi ricopre una funzione istituzionale. “Non è superfluo ricordare di questi tempi che l’etica pubblica non può che essere condivisa – scrive Michele Vietti nel suo “La fatica dei giusti” – perché chi parla in nome di altri (si pensi ai poteri rappresentativi elettivi o alle responsabilità dell’alta amministrazione del governo) o chi decide per conto di altri (e qui entra in gioco il sistema della giustizia) deve rendere conto a questi “altri” delle motivazioni delle proprie azioni”.

L’etica pubblica impone, dunque, comportamenti corretti, anche personali, perché la persona che riveste un ruolo istituzionale deve non solo essere ma anche apparire rispettosa delle regole. Il che vuol dire che anche l’immagine conta, che in un Paese di antica democrazia, come l’Inghilterra, nel quale il rispetto del cittadino è fondamentale, un ministro non può dire una bugia all’autorità preposta al rispetto della legge. Come in Germania, dove un Ministro che venti anni prima (!) aveva scopiazzato nello scrivere la tesi di laurea si è dovuto dimettere.

Eppure continuiamo a ricordare della “moglie di Cesare”, di colei che non poteva neppure essere sospettata di un comportamento scorretto.

Dobbiamo ritrovare una moralità pubblica che tenga fuori dalle sedi istituzionali, politiche ed amministrative, coloro i quali vengono meno a regole giuridiche e deontologiche. È la condizione perché la politica venga considerata dalla legge una nobile attività nell’interesse del bene comune e non una cosa sporca, come sono convinti molti italiani, che giustifica ogni nefandezza, dalle scorrettezze politiche alla disinvolta gestione del denaro pubblico.

Riusciremo a recuperare questi valori?

4 febbraio 2012

 

Con Gianni Barbacetto, Giuliano Pisapia,

Bruno Tabacci e Marco Travaglio

A Milano Di Pietro ricorda i 20 anni di “Mani pulite”

di Salvatore Sfrecola

A Milano, il 17 febbraio, alle ore 17, al Teatro Elfo Puccini, Antonio Di Pietro organizza un incontro per ricordare l’inizio di “Mani pulite”, l’inchiesta che è stata un tassello importante della lotta alla corruzione in Italia.

20 anni da Mani Pulite (e rubano ancora), scrive il leader dell’Italia dei valori in una mail inviata a quanti si riferiscono al suo impegno politico.

Il 17 febbraio, alle 17. “Infatti – scrive Di Pietro - quel giorno, a quell’ora, cade il ventesimo anniversario dall’arresto di Mario Chiesa. Di lì a due anni nelle aule giudiziarie di Milano furono chiamati leader ed esponenti dei partiti per parlare di un sistema di potere, fatto di commistioni tra affari e politica, che aveva portato l’Italia sull’orlo della bancarotta. A tanti anni di distanza poco o niente è cambiato. Anzi quel sistema si è ingegnerizzato, affinato e la politica ha tentato di demonizzare la magistratura, ha depenalizzato quei reati, come il falso in bilancio, in modo da poter agire indisturbata”.

“In questi giorni – scrive il leader dell’IdV - , l’operazione rischia di completarsi e il cerchio è pronto a chiudersi con la denigrazione e la delegittimazione di quei giudici che venti anni fa, rispondendo al dettato costituzionale, individuarono la malattia presente nei partiti. Non è certo un caso che oggi i media e i noti soloni della politica si apprestino a ricordare quella data con un inedito, seppur scontato, copione: una rivisitazione strumentale di quelle vicende, al fine di riabilitare e giustificare personaggi e metodi che sono ancora in auge.

Infatti, in questi salotti mediatici per ricordare Mani Pulite, troviamo volti conosciuti alle aule giudiziarie di quel tempo. Coloro che avevano snocciolato cifre e dettagli sulle tangenti, adesso si affrettano a smentire la testimonianza rilasciata ai giudici, scritta e sottoscritta, e parlano di abuso dell’autorità giudiziaria.

Insomma gli imputati di allora si ergono a giudici. Così in una storia tra guardie e ladri le parti si invertono. Unoperazione scientifica, fatta al fine di giustificare l’operato di dirigenti politici, di logge massoniche e di comitati daffari, noti alle cronache di questi anni, di questi giorni, come a quelle dell’epoca. È un modo per mettere tutto nel calderone, per appannare e nascondere la verità.

La morale di quanto sta avvenendo è che oggi, come allora, il Parlamento cerca di fermare l'azione dei magistrati. Quando c'era “Mani pulite”, ci provarono con il decreto Biondi, oggi con la norma “anti-toghe” inserita nella Comunitaria. Si tratta di una legge che è una vera e propria vendetta, un ammonimento nei confronti dei magistrati.

Sembra proprio di tornare al lontano febbraio del '92, quando stavamo scoprendo le malefatte del Palazzo e, dentro le aule di Camera e Senato, tutti si facevano scudo dell'immunità parlamentare, etichettando come semplici mariuoli quelli che erano, in realtà, gli anelli terminali della catena. Anche oggi, mentre i cittadini assistono allibiti alle ruberie della casta, agli illeciti finanziamenti, e i magistrati portano alla luce reati gravissimi, la classe politica, invece di prendere provvedimenti contro coloro che violano la legge, pensa a punire i giudici per autotutelarsi.

La votazione di ieri ha reso evidente l’esistenza di una P2 parlamentare che si è nascosta dietro al voto segreto ed ha messo in atto la propria vendetta. Insomma, mi sembra proprio che nulla sia cambiato in questi vent’anni”.

Fin qui Antonio Di Pietro che al Teatro Puccini sarà con Gianni Barbacetto, Giuliano Pisapia, Bruno Tabacci e Marco Travaglio.

È certo che la corruzione in Italia dilaga, come dimostrano i dati forniti dalla Corte dei conti che ha stimato in 60 miliardi di euro il “costo” ogni anno di questi illeciti che hanno effetti devastanti sul Paese e sulle imprese serie, quelle che non accettano di ricorrere a scorciatoie illecite per ottenere appalti e forniture. Ecco l’effetto ulteriore, l’espunzione dal mercato delle imprese migliori, con effetti negativi sull’esecuzione delle opere, come attestano i costi lievitati oltre ogni ragionevole misura, per non dire della loro realizzazione in tempi superiori (il più delle volte di anni) a quelli preventivati, spesso con gravi difetti, come attestano quasi quotidianamente le denunce di “Striscia la notizia”, il giornale satirico di Canale 5.

Insomma, la corruzione è il grande male di questo Paese che, unito alle dimensioni dell’evasione fiscale, 120 miliardi secondo il Direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, costituisce un peso insopportabile. Circa 200 miliardi annui che potrebbero eliminare rapidamente il nostro pesante debito pubblico che ci mette in difficoltà in Europa e rende poco appetibili i nostri titoli di Stato.

Senza corruzione ed evasione fiscale questo Paese potrebbe vivere serenamente assicurando servizi efficienti ai cittadini ed abbassare il peso delle imposte. Ne risentirebbero positivamente i consumi e l’occupazione.

C’è molto da fare, dunque. Non c’è solo bisogno di controlli più efficienti e di mettere a disposizione della magistratura strumenti idonei per contrastare l’illecito, ma di procedure trasparenti che non consentano facilmente l’inserimento di interessi criminali.

Ma soprattutto ci vuole un risveglio di valori, il ritorno ad un’etica pubblica che un tempo ha caratterizzato la politica nel nostro Paese, ai tempi in cui governavano Camillo di Cavour e Quintino Sella e, più di recente, Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi.

4 febbraio 2012

 

Traffico in tilt per la neve a Roma

Niente sale (in zucca)

di Viator

     Traffico in gravi difficoltà a Roma per pochi centimetri di neve. Caos sulle strade urbane ed extraurbane, compreso il Grande raccordo anulare. Automobilisti in panne per ore.

    Naturalmente se la sono presa tutti con il Sindaco, come hanno documentato questa mattina i notiziari radiotelevisivi che hanno dato voce alla protesta degli automobilisti intrappolati un po’ ovunque in una città con zone collinari dove tutto diventa più difficile. Ma anche in basso, come nella zona di Saxa Rubra, dov’è il centro di produzione RAI, di cui hanno riferito in diretta gli stessi giornalisti del TG3 che la situazione hanno subito ieri sera e questa mattina. Alcuni sono rimasti in loco.

      Perché prendersela con il Sindaco Alemanno? È preso detto. Come hanno osservato alcuni automobilisti incolonnati in strada, il “pericolo neve” era noto da diversi giorni, tanto è vero che i notiziari radiotelevisivi hanno indicato da giorni il giorno nel quale a Roma avrebbe nevicato. Quali le misure adottate? Non si conoscono. Sembra che solo un quarto dei mezzi pubblici disponga di catene o di gomme da neve. Certo la Città non è abituata alla neve, per cui talune precauzioni, adottate normalmente in località del Nord dove nevica sistematicamente ogni anno, potrebbero sembrare eccessive e dispendiose. Ma il sale? Almeno il sale l’amministrazione comunale poteva procurarselo, organizzando la sua distribuzione sulle strade della città, magari con l’aiuto dell’Esercito e delle altre Forze armate che dispongono di uomini e mezzi.

E non c’è dubbio che il Comune in proposito abbia fallito proprio su un punto fondamentale per chi amministra, la previsione degli eventi e la prevenzione degli effetti negativi. E così i romani e quanti nella Capitale d’Italia operano o si erano recati ieri per lavoro o turismo sono rimasti intrappolati nella “morsa del gelo” per pochi centimetri di neve.

Il fatto è che è mancato il sale, sulle strade e nella zucca degli amministratori, come si usa dire.

4 febbraio 2012

 

Riflessioni sulla responsabilità civile dei magistrati

E se a “sbagliare” è il giudice d’appello?

di Salvatore Sfrecola

C’è un argomento ricorrente nella polemica sulla responsabilità civile dei magistrati, il giudice che si vede riformata la sentenza in appello ha sbagliato, dunque deve pagare per i danni causati alla parte indagata e condannata in primo grado.

L’affermazione – stavo per scrivere “il ragionamento”, poi mi sono accorto che non è così – è semplicistica. Parte dal presupposto che la sentenza di secondo grado accerti una “verità giudiziaria” negata in primo grado per colpa del giudice (ma lo sanno questi nostri “legislatori” che pressoché in tutti gli ordinamenti chi è condannato in primo grado è un “presunto colpevole”, mentre da noi è “presunto innocente” fino a che non intervenga una sentenza che le lungaggini del codice e degli avvocati spesso interviene solo per pronunciare la prescrizione).

Non è quella “la verità”. In primo luogo perché il giudice d’appello può disporre di elementi che il primo giudice ignorava o che gli erano stati prospettati in modo sbagliato o possono esserci fatti nuovi. Un pentito affidabile le cui dichiarazioni sono state attentamente vagliate può cambiare versione, una prova pur correttamente acquisita può essere oggetto, a seguito di una nuova perizia, di una diversa valutazione del giudice di secondo grado.

Tutto questo è fisiologico, tutto questo è accaduto e non vuol dire che il primo giudice abbia “sbagliato”, non dico per dolo ma neppure per colpa grave, cioè per quella negligenza e imperizia inescusabili che incardinano una qualche responsabilità.

Ma, poi, non è accettabile il mito secondo il quale la ragione sta nella pronuncia del giudice di secondo grado perché può accadere, ed è accaduto, che in Cassazione la sentenza d’appello venga annullata con rinvio a nuovo giudice.

Tutto questo per dire che la materia della responsabilità civile del magistrati che, contrariamente a quanto si crede, è attualmente disciplinata dalla legge, è estremamente complessa in quanto attiene all’esercizio della funzione giurisdizionale, certamente la più importante e delicata tra le funzioni dello stato perché attiene alla pacifica convivenza della comunità, sia per quanto riguarda la giustizia penale, quale espressione della funzione punitiva dello stato per evitare la vendetta della vittima o dei suoi familiari – ne cives ad arma veniant si diceva un tempo – sia per quanto concerne la giustizia civile, che deve assicurare certezze in ordine ai rapporti contrattuali come per quanto attiene alla responsabilità extracontrattuale, quella che scatta a seguito della violazione del principio del neminem laedere, la cosiddetta responsabilità aquiliana, dalla lex aquilia che la disciplinava in diritto romano.

Questa essenziale funzione dello stato è esercitata da pubblici funzionari, reclutati sulla base di una severa selezione, in nome dello stato, anzi in nome del popolo italiano, per cui ogni responsabilità per eventuali danni provocati dai “giudici dello stato” ricade sullo stato che risarcisce il privato. Lo stato, poi, si rivarrà sul magistrato ove questi abbia causato il danno (il risarcimento del danneggiato per effetto dell’attività giudiziaria) con condotta inescusabile che l’emendamento approvato ieri alla Camera qualifica in vario modo.

Secondo le nuove disposizioni "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto".

Sempre secondo quanto prevede la norma, "ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto, deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 234, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea".

L'emendamento, si sostiene, trarrebbe origine da una sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee in cui si è stabilito che c'è contrasto tra il diritto comunitario e una legislazione nazionale che esclude in maniera generale la responsabilità dello stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario "imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale".

La sentenza individua un contrasto anche tra il diritto comunitario e "una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente".

L’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) ha protestato e minaccia lo sciopero. Ma a ben vedere dovrebbero essere i cittadini a protestare perché la norma introdotta nella legge comunitaria (ma che c’entra la responsabilità dei giudici con quella materia?), immaginata come riferita al processo penale, si applica evidentemente anche al processo civile, con l’effetto che una controversia che vedesse una domanda risarcitoria contro un colosso economico (persona fisica o giuridica) potrebbe mettere in difficoltà il giudice nel timore che, eventualmente danneggiando il potente per aver adottato, ad esempio, una misura cautelare, possa un domani essere chiamato a risarcire una danno che non ha certamente voluto ma che potrebbe essere stato determinato da una scelta del giudice il quale “abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea” (ma potrebbe averla solamente interpretata in modo diverso) o “non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 234, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”. Anche qui siamo in una materia opinabile, che attiene all’interpretazione propria del giudice. Infatti il “rinvio pregiudiziale” è previsto “quando una questione del genere (di interpretazione n.d.A.) è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, [per cui] tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte dei giustizia”.

Com’è evidente dall’intero emendamento è sempre in discussione la funzione dell’interpretazione del giudice, cioè il suo ruolo fondamentale, com’è ugualmente evidente che la norma attua – nell’intensione o meno dei promotori – una intimidazione dei magistrati i quali, per non avere guai, potrebbero essere indotti a dare ragione al più forte in una controversia di rilevante interesse economico. Infatti tutte le qualificazioni della condotta “colposa” del magistrato sono un fumo negli occhi per nascondere la verità che abbiamo appena detto, perché solo in casi rarissimi e patologici ci sarà un magistrato che decide dolosamente (e va condannato prima di tutto all’interno dell’ordinamento giudiziario), mentre quando si fa riferimento “al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto” si introducono parametri di riferimento ampiamente opinabili.

Insomma, si è fatta tanta confusione per la soddisfazione di giornalisti superficiali e di politici di basso conio che ripetutamente s’ingegnano a minacciare i magistrati per poter fare quello di cui le cronache dei giornali anche oggi sono piene: affari.

E il cittadino comune? Non interessa perché se chi propugna la riforma della Giustizia, che poi, in realtà, riguarda solo l’attività dei magistrati, volesse realmente  soddisfare le esigenze dei cittadini si dovrebbero introdurre riforme dirette ad accelerare la durata dei processi sia civili e penali. I primi perché la certezza del diritto in tempi ragionevoli va assicurata a tutti, i secondi perché, ugualmente, chi è indagato e la parte offesa devono nel minor tempo possibile vedere l’effetto della pronuncia del giudice. Per cui vanno eliminate tutte quelle inutili procedure che il nostro ipergarantismo ha introdotto nei codici dei processi ed in conseguenza delle quali la Corte di cassazione ha un numero di processi che nessuna corte suprema conosce al di qua ed al di là dell’oceano.

3 febbraio 2012

 

 

 

 

 

 


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