FEBBRAIO 2012
Niente taglio alle tasse. Perché?
di Senator
È andata delusa la speranza di una riduzione delle tasse
per i redditi più modesti in conseguenza dei promettenti
risultati della lotta all’evasione. Presentata sulla
stampa, alla vigilia del Consiglio dei ministri che ha
adottato alcune misure fiscali, come una misura più che
probabile tanto che l’operazione sembrava cosa fatta, la
decisione di soprassedere ha sorpreso tanti, tranne da
coloro che seguono le vicende del nostro fisco.
Quali i motivi della mancata riduzione? Sarebbe stato
ritenuto “prematuro”, si è letto sui giornali di oggi, una
parola che nasconde, dietro una formula anodina, la realtà
degli accertamenti fiscali che sono stati condotti
dall’Agenzia delle entrate. Monti sa bene che gli
accertamenti, anche quando sembrano ineccepibili sul piano
del diritto, non danno luogo ad una immediata riscossione
del tributo evaso.
Specie nel commercio, nel quale tante sono le variabili
nella individuazione del reddito tassabile, è inevitabile
che il contribuente faccia ricorso alla commissione
tributaria. Lo fa perché contesta l’accertamento che, se
accettato, darebbe luogo a verifiche sugli anni precedenti
fino al limite della prescrizione, lo fa perché non vuole
portare un fardello che peserà negli anni successivi.
Il contenzioso tributario è costituito da un sistema
giudiziario pesante, farraginoso, che si protrae per anni,
in primo grado (Commissione provinciale) e in appello
(Commissione regionale), per approdare inevitabilmente in
Cassazione dove ricorreranno il contribuente soccombente o
l’Avvocatura generale dello Stato che difende l’Agenzia
delle entrate. L’una e l’altra oberate da un contenzioso
dai grandi numeri.
Monti sa bene che questo antico male della giustizia
tributaria rende incerta, nell’an e nel quantum,
oltreche nel quando, la riscossione dell’imposta
pretesa dall’Erario a seguito degli accertamenti
dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza. E,
prudentemente, ha tratto la conclusione che è “prematuro”
ridurre le tasse, sia pure a chi ha problemi di
sopravvivenza.
25 febbraio 2012
Non più leggi di conversione omnibus. Napolitano
richiama i Presidenti delle Camere sui limiti delle
leggi di conversione dei decreti legge
di Iudex
Un importante recupero di civiltà giuridica in una
recente sentenza della Corte costituzionale,
la n. 22 del 13 febbraio 2012 che, intervenendo
nell’esame della legge di conversione del decreto-legge
n. 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. "milleproroghe"), ha
posto limiti invalicabili allo spazio riservato al
Parlamento in sede di conversione di un provvedimento
d’urgenza.
Nell’occasione il Giudice delle leggi ha precisato che “il Parlamento è
chiamato a convertire, o non, in legge un atto,
unitariamente considerato, contenente disposizioni
giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle
fattispecie regolate o per la finalità che si intende
perseguire. In definitiva, l’oggetto del decreto-legge
tende a coincidere con quello della legge di
conversione”. E pur non potendosi escludere “che le
Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria
potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del
decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina
normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni
parlamentari difformi nel merito della disciplina,
rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime
finalità … Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica
profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è
l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa
urgente, quale risulta dal testo originario”. In sostanza
“l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria
funzione legislativa può certamente essere effettuato, per
ragioni di economia procedimentale, a patto di non
spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e
potere di conversione”.
Lo andavamo sostenendo in molti da anni, a fronte di
inserimenti di norme che non avevano nulla a che fare con
il provvedimento in corso di conversione il cui oggetto
veniva ampliato e consolidato nei maxiemendamenti, con
fiducia, ai quali siamo stati abituati dagli ultimi
governi, una barbarie giuridica che viene finalmente
qualificata come tale.
E così interviene il Capo dello Stato, che evidentemente
non aveva ritenuto di poter intervenire in sede di
promulgazione delle leggi che oggi la Corte costituzionale
giudica illegittime.
E così Giorgio Napolitano ha preso carta e penna ed ha
scritto ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del
Consiglio.
Napolitano richiama la sua lettera del 22 febbraio 2011 ai
Presidenti delle Camere con la quale aveva sottolineato
“la necessità di limitare gli emendamenti ammissibili, in
sede di conversione dei decreti-legge, a quelli
sostanzialmente omogenei rispetto al testo originario del
decreto, in considerazione della particolare disciplina
costituzionale e regolamentare del procedimento di
conversione nonché a garanzia del vaglio preventivo
spettante al Presidente della Repubblica in sede di
emanazione del decreto-legge e di quello successivo sulla
legge di conversione, anche per la difficoltà di
esercitare la facoltà di rinvio prevista dall'art. 74
della Costituzione in prossimità della scadenza del
termine tassativo di 60 giorni fissato per la conversione
in legge”.
Ricorda il Presidente della Repubblica che in quella
occasione aveva ripreso “considerazioni svolte dal
Presidente Ciampi nel messaggio inviato alle Camere il 29
marzo 2002 con il quale venne richiesta una nuova
deliberazione sulla legge di conversione del decreto-legge
n. 4 del 2002 e da me in varie occasioni anticipate fin
dall'inizio del settennato ai Presidenti delle Camere e ai
Governi che si sono succeduti, anche in relazione alle
specifiche disposizioni legislative e dei regolamenti
parlamentari relative alla decretazione d'urgenza”.
Criteri ai quali “la prassi parlamentare non sempre si è
attenuta … con particolare riguardo al tradizionale
decreto-legge di fine anno con il quale vengono prorogati
termini di efficacia di varie disposizioni legislative,
essendo prevalsa la linea di ritenere sufficiente, per
l'ammissibilità degli emendamenti, una generica finalità
di proroga non collegata con l'oggetto e spesso neppure
con la materia e le finalità del provvedimento di
urgenza”.
“Talora – prosegue il Capo dello Stato -, si sono anche
consentite modifiche ordinamentali non strettamente
limitate all'ambito temporale della proroga di tali
termini. Anche in occasione del recente decreto-legge "milleproroghe"
29 dicembre 2011, n. 216 sono stati ammessi e approvati
emendamenti che hanno introdotto disposizioni in nessun
modo ricollegabili alle specifiche proroghe contenute nel
decreto-legge, e neppure alla finalità indicata nelle
premesse di garantire l'efficienza e l'efficacia
dell'azione amministrativa. Le disposizioni così
introdotte, se in possesso dei requisiti di straordinaria
necessità ed urgenza, avrebbero dovuto trovare più
corretta collocazione in un distinto apposito
decreto-legge”.
Ritenendo di non disporre “di un potere di rinvio parziale
dei disegni di legge” Napolitano afferma di non poter
“esimersi dall'effettuare, nei casi di leggi di
conversione, una valutazione delle criticità riscontrabili
in relazione al contenuto complessivo del decreto-legge,
evitando una decadenza di tutte le disposizioni, comprese
quelle condivisibili e urgenti, qualora la rilevanza e la
portata di queste risultino prevalenti”.
Scrupolo certamente encomiabile.
Resta la soddisfazione di una pronuncia che elimina una
barbarie della quale molti hanno fatto finta di non
accorgersi in Parlamento e specificamente nelle
Commissioni affari costituzionali, per favorire
l’inserimento di norme sicuramente estranee al
decreto-legge, spesso eversive dell’ordinamento, come nel
caso delle disposizioni introdotte in decreti legge
riferiti alla crisi economica per limitare i poteri
d’indagine delle Procure regionali della Corte dei conti e
l’ambito della loro cognizione, ad esempio per quanto
riguarda il danno all’immagine della pubblica
amministrazione.
25 febbraio 2012
Rischio corruzione
se lo Stato e gli enti pubblici pagano in ritardo
di Salvatore Sfrecola
È ufficiale, le somme che il settore pubblico deve alle
imprese, fino a qualche tempo fa stimate in 80 miliardi di
euro, ha superato i 100 miliardi (102, per l’esattezza),
una cifra paurosa che mette in difficoltà vasti settori
produttivi del Paese. Infatti è evidente che le imprese le
quali vantano crediti che non possono riscuotere nei
termini fisiologici, che tengano conto, ad esempio, del
pagamento dei fornitori di beni e servizi necessari per la
produzione, accumulano interessi da pagare, ed in assenza
del credito bancario, possono essere indotte a ricorrere a
finanziarie senza scrupoli se non ad usurai.
In questo diffuso disagio, che spesso mette in forse la
stessa sopravvivenza delle imprese, molti potrebbero
essere indotti a cercare di “ungere” i funzionari addetti
ai pagamenti perché anticipino quanto loro dovuto, facendo
precedere la liquidazione delle loro fatture ad altre che
sono avanti nel protocollo d’ufficio. In questo caso la
“mazzetta”, quella che il codice penale all’art-. 318
definisce dazione “in denaro o altra utilità”, serve ad
indurre il pubblico ufficiale a “compiere un atto del suo
ufficio”. È la cosiddetta corruzione impropria, più
diffusa di quanto non si creda a tutti i livelli e in
tutte le amministrazioni.
È evidente che nelle attuali condizioni, a fronte di
crediti per oltre 100 miliardi, in relazione ai quali il
Governo ha messo a disposizione una somma assolutamente
insufficiente, l’incentivo a cercare la scorciatoia della
corruzione del funzionario che dispone i pagamenti è forte
per un imprenditore che non ha la possibilità di attendere
i tempi lunghi che si prospettano, spesso centinaia di
giorni, in qualche caso anche un paio di anni, rispetto ai
termini di legge (d.legs. n. 231 del 9 ottobre 2002) in
attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta
contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali (trenta giorni).
La tentazione è forte, come l’istinto di sopravvivenza di
chi è impegnato in un’attività che è la fonte principale
quando non esclusiva del suo guadagno.
In queste condizioni il governo nazionale e quelli delle
regioni hanno il dovere di porre rapidamente mano alla
situazione, trovando il modo di pagare i debiti e di
facilitare l’accesso al credito bancario per restituire
liquidità alle imprese, così mettendole al riparo di
possibili fallimenti con danni rilevanti all’occupazione,
con effetti negativi anche sul mercato interno. Perché chi
perde il lavoro evidentemente riduce i consumi.
Parliamo complessivamente di 100 miliardi, non poco,
certamente, ma quella somma in tempi ragionevoli, con
meccanismi vari, deve tornare nella disponibilità delle
imprese.
Nello stesso tempo va posto mano alla revisione della
spesa pubblica non necessaria perché non si riformi un
debito delle attuali dimensioni. Infatti forte è il
sospetto che in alcuni ambiti delle pubbliche
amministrazioni, in particolare nel settore sanitario, ci
sia un eccesso di spesa destinata a beni e servizi non
necessari o acquistati a prezzi gonfiati con danno finale
per gli utenti di un servizio essenziale per la comunità.
Questo ci attendiamo dai tecnici chiamati a governarci.
Non dubito della loro buona volontà. Non ugualmente di
alcuni staff che sono passati dalla prima alla
seconda repubblica senza dare la dovuta dimostrazione
della loro professionalità. E che restano al loro posto
solo perché “rispondono” a chi li ha indicati ai ministri.
19 febbraio 2012
La Corte dei conti denuncia la corruzione? Il Giornale
della “Ditta Berlusconi” l’attacca
di Senator
Nei giorni scorsi la stampa ha dato ampia notizia
dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 della Corte
dei conti, mettendo in risalto le denunce del Presidente,
Luigi Giampaolino, quanto alle disfunzioni
dell’amministrazione, alle dimensioni dell’evasione
fiscale e della corruzione. E Il Giornale la
critica.
Tanto è il livore che quella testata ha da sempre nei
confronti dei magistrati (che sia per compiacere la
Famiglia Berlusconi?) che più della corruzione è
disturbato dai magistrati che la denunciano e la
combattono. E inizia “da che pulpito. Inquisiti, sfiorati
dai sospetti, vicini alle cricche. Serviti e riveriti, i
magistrati della Corte dei conti, custodi occhiuti delle
finanze italiane, con stipendi e pensioni di capogiro
(fino a 230mila euro l’anno) e, soprattutto, autorizzati a
cumulare doppio stipendio, benefit, promozioni e scatti di
anzianità. Fra i tanti c’è Lamberto Cardia, magistrato
fuori ruolo, per 13 anni alla Consob e nominato
presidente di sezione, che ha sommato ai 430mila euro di
indennità anche lo stipendio di magistrato, poi presidente
delle Fs”.
Da precisare che Cardia è da tempio in pensione.
Poi fa altri tre o quattro nomi di magistrati oggetto di
indagini, poi, chiuse con assoluzione e di un paio, ancora
sub iudice. Garantisti a senso unico a Il
Giornale laddove si applica la norma sulla presunzione
di non colpevolezza fino a sentenza definitiva (una regola
che esiste in pratica solo in Italia; altrove chi è
condannato in primo grado è un “presunto colpevole”) solo
nei confronti dei politici della “casta”, coloro che sono
inquisiti dai magistrati “cattivi”, magari “toghe rosse”.
Non più di due i magistrati della Corte dei conti sui
quali i giudici ordinari stanno indagando su 500
magistrati che ogni giorno fanno il loro dovere. È questo
giornalismo indipendente? O un bollettino di partito, il
partito di coloro che vogliono “mani libere” nella
gestione del potere, irritati se qualcuno intende
esercitare quel controllo di legalità che è regola
fondamentale negli stati di diritto?
Infine, quel giornale afferma di essere espressione del
centrodestra liberale. E qui occorre una precisazione. Lo
dice lui. Perché è ormai evidente a tutti che quello
schieramento che abbiamo costruito (lo dico io da
parlamentare) come espressione della destra liberale e
moderna ha rapidamente perso quello spirito originario per
diventare espressione del più vieto lobbysmo
gestito da una pattuglia di reduci del craxismo, cioè da
quella classe politica che, tra la fine degli anni ’80 e
l’inizio degli anni ’90, ha raddoppiato il debito pubblico
italiano. Un problema che ci portiamo ancora dietro, come
sanno bene soprattutto i pensionati, la categoria sulla
quale, per l’elevato numero che la caratterizza, sono
ricadute le prime misure di austerità.
Ho scritto troppo. Quel giornale non merita ulteriore
attenzione.
19 febbraio 2012
La realtà e ricorrenti rigurgiti anticlericali
La Chiesa e l’ICI – occorre equilibrio
di Senator
Ritorna a giorni alterni, sulla stampa ed in televisione,
la vicenda dell’ICI sugli immobili della Chiesa cattolica,
con sprazzi di incontrollato anticlericalismo, da un lato,
e di azzardata difesa d’ufficio, dall’altro.
Sbagliano entrambi. Il tema va visto nella sua realtà
giuridica e di fatto, nel senso che è evidente che una
tassazione sugli immobili, se manda esenti i locali nei
quali si svolgono attività di carattere sociale deve
riguardare anche gli immobili di enti religiosi.
L’esenzione, ai sensi della
lett. i) dell’art. 7, D.Lgs. 504/92, prevede due
fondamentali requisiti: che si tratti di immobili
utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, co. 1, lett.
c) del TUIR (enti pubblici e privati, diversi dalle
società, residenti nel territorio dello Stato, che non
hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
attività commerciali); che tale utilizzo deve avere
caratteri di destinazione esclusiva allo svolgimento delle
attività elencate nella norma (assistenziali,
previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive,
culturali, ricreative e sportive). L’esenzione, tuttavia,
vale solo per i beni destinati allo svolgimento delle
attività istituzionali e rientranti nei settori sopra
elencati.
La lett. i) dell’art. 7 della legge sull’I.C.I., inoltre,
consente agli enti non commerciali di usufruire
dell’esenzione anche in relazione agli immobili non
utilizzati direttamente (ad esempio concessi in locazione
o comodato) purché siano rispettate due condizioni: che
essi siano comunque utilizzati da un ente non commerciale
e che siano da questo esclusivamente destinati ad una
delle attività indicate dalla norma.
Infatti, va sottolineato che la norma non richiede, ai
fini del diritto all’agevolazione, che l’ente non
commerciale utilizzatore sia anche proprietario
dell’immobile.
Fatte queste precisazioni in punto di diritto, come dicono
i giuristi di professione, sarà certamente agevole
individuare quali immobili di proprietà della Chiesa o di
organizzazioni religiose abbiano i caratteri stabiliti
dalla legge e che consentono ad altri enti di godere
dell’esenzione. Può darsi che occorra una ristrutturazione
degli enti per delineare meglio le loro attribuzioni, ma è
certo che il “problema” è facilmente risolvibile nel
rispetto della legge e della par condicio di tutti
gli enti che svolgono le attività che la legge ha ritenuto
meritevoli dell’agevolazione.
Vanno, dunque, in soffitta tutte le elaborazioni polemiche
che si leggono da qualche tempo sui giornali, come le
ipotesi di soluzione “negoziata” di cui tanto spesso si
parla in margine ad incontri istituzionali che vedano
presenti uomini di governo dello Stato italiano e della
Conferenza Episcopale Italiana. Come nel caso del
ricevimento organizzato a Palazzo Borromeo, sede
dell’Ambasciata Italiana presso la Santa Sede, in
occasione della ricorrenza della firma del Concordato
Stato-Santa Sede (c.d. Patti Lateranensi) del 1929,
rivisto nel 1984.
Un incontro che ha scatenato la fantasia della stampa di
sinistra che ha accreditato di un Cardinale Bagnasco che
“furioso” per l’andamento delle “trattative”, avrebbe
commentato a pochi intimi: "Se lo Stato italiano vuole che
ci chiudiamo in sacrestia, abbandonando opere di bene e
assistenza verso i più bisognosi, noi ci chiudiamo in
sacrestia".
Non è nello stile dell’alto prelato.
Caterina Perniconi de “Il
Fatto
quotidiano"
c onferma che a Palazzo Borromeo non si è parlato di Ici
sui beni immobili alla Chiesa, in ciò in linea con quanto
affermato Francesco Maria Greco, Ambasciatore d’Italia
presso la Santa Sede.
Non se ne è parlato perché evidentemente va fatta una
attenta ricognizione degli immobili e delle diverse
situazioni nelle quali operano gli enti. Ma intanto va
precisato che in materia si sono sentite cifre di
fantasia, molto distanti da quelle stimate dall'Anci in
600 milioni di euro.
Se ne parlerà in Parlamento con il concorso degli opposti
“schieramenti”, tra quanti cercano solo una precisazione
normativa che elimini ogni ambiguità, e quanti saranno
ancora presi da livido impegno antireligioso.
La soluzione andrà trovata in una norma interpretativa che
eviti un contenzioso sul pregresso e chiarisca il metodo
di calcolo della superficie no profit e della superficie
commerciale quando uno stesso immobile ha più
destinazioni. Probabilmente la strada è quella di
intestare le attività ad enti diversi.
Probabilmente sarà anche necessario che gli enti che
usufruiscono dell’agevolazione rendano pubblici i loro
bilanci.
Senza polemiche.
18 febbraio 2012
Monti a Strasburgo
Un recupero di dignità nazionale
di Senator
Non c’è dubbio che il discorso del Presidente del
Consiglio Mario Monti, ieri, al Parlamento europeo, abbia
inorgoglito molti italiani. Il tratto del Premier, sicuro
e garbato, la puntualità delle citazioni, la fermezza nel
rivendicare la bontà delle iniziative assunte dal Governo
per risanare i conti pubblici ed avviare la ripresa
dell’economia nel giorno in cui l’ISTAT ha certificato il
dato della riduzione del PIL, cioè l’ingresso nell’area
della recessione, hanno offerto l’immagine di un uomo di
stato che sa il fatto suo e non si fa condizionare dai
partiti che pure lo sostengono, sia pure con alcuni
distiguo, soprattutto il Popolo della Libertà, il
grande difensore delle corporazioni che ingessano il Paese
ed impediscono di ottenere risultati di crescita, ormai da
troppi anni.
Gli applausi seguiti al discorso, che non ha risparmiato
critiche severe allo spirito con il quale alcuni stati, in
primo luogo la Germania, interpretano il ruolo di stato
membro di una comunità che ha abbandonato dal 1992
l’aggettivo “economica” per diventare Unione, nella
prospettiva di quella svolta “politica” che gli statisti
che prepararono, all’indomani della fine della seconda
guerra mondiale, i Trattati di Roma avevano esattamente
intravisto. Da Adenauer a Churchil a De Gasperi a Schuman.
Opportuna precisazione, quella di Monti, perché o l’Europa
assume la connotazione di una unione politica, con una sua
presenza sul piano internazionale, sia politica che
economica, oppure fa la fine di quelle aree di libero
scambio dal fiato corto che ansimano nella storia
dell’umanità senza prospettive di lungo termine.
Una scossa, dunque, quella di Monti per tutti sulla quale
torneremo nei prossimi giorni.
16 febbraio 2012
Il No di Monti alle Olimpiadi
Roma paga la pessima immagine della sua classe dirigente e
imprenditoriale
di Senator
Lo schiaffo a Roma Capitale, con aggiunta del plauso della
Lega, è duro da mandare giù. Ma è inutile recriminare. Ne
va preso atto con un profondo e sincero esame di coscienza
che non può non portare alla conclusione che la decisione
del Governo, giustificata dalla difficile situazione
finanziaria e soprattutto dall’incertezza sui conti,
sconta la modesta immagine della classe politica romana e
la pessima fama dei suoi imprenditori. Quei “palazzinari”
che si sono ingrassati all’ombra del potere con grave
danno per la Città.
Nodi antichi che oggi vengono al pettine, scanditi dai
ritardi nei lavori pubblici, dalla loro pessima
esecuzione, un quadro sintomatico della mancanza di
professionalità e di controlli.
Dopo le Olimpiadi del 1960, che hanno lasciato un’immagine
visibile di un valore aggiunto per la Città, basti pensare
ai sottovia lungotevere e di Corso d’Italia i lavori
programmati ed eseguiti per i Mondiali di Calcio sono,
nella maggior parte dei casi, un insulto a Roma, alla sua
storia, ai suoi cittadini. Lo Stadio Olimpico realizzato a
dispetto della tutela della Collina di Monte Mario (dal
1953!), un mostro che ancora oggi deturpa la vista di
un’area storica di grande valore paesaggistico, poi i
lavori ferroviari, le stazioni dove non entra il treno e
via dicendo, dimostrano incapacità di gestire
progettazione, direzione dei lavori e collaudi.
Non che in altre realtà sia stato fatto di meglio, come ci
racconta di giorno in giorno “Striscia la Notizia”. Per
restare ai Mondiali di calcio sappiamo che molti stadi
sono aperti in deroga alle norme sulla sicurezza, che a
Genova il Sottopasso di Caricamento aveva un’altezza
inferiore al previsto. E poi il Mose a Venezia, una
macchina mangiasoldi della cui utilità ancora si dubita da
parte di molti. E via discorrendo. Il settore delle opere
pubbliche è una piaga che dimostra incapacità di
progettare e di controllare da parte delle pubbliche
amministrazioni. La “Salerno Reggio Calabria” è l’immagine
viva di questa realtà che ci fa perdere la faccia di
fronte al mondo, una situazione possibile solo perché in
un modo o nell’altro impediamo il concorso di imprese
straniere negli appalti di opere pubbliche.
Per Roma sarebbe tuttavia ingiusto attribuire ad Alemanno
il concorso in questa brutta immagine della classe
politica della Città. È Sindaco da poco e non ha potuto
scrollarsi di dosso i condizionamenti dei partiti e delle
lobby vicine ai “palazzinari de noantri”, il peggio
dell’imprenditoria, privi di tecnologia, quella che
avrebbe consentito di realizzare rapidamente linee di
metropolitana interrate e di superficie. Forse non tutti
sanno, ad esempio, che è possibile lavorare nel sottosuolo
a decine di metri di profondità, anche a 50, con
macchinari adeguati che consentono di scavare velocemente,
anche sotto i fiumi, là dove non si trovano certo quei
reperti archeologici che sono l’incubo dei nostri
imprenditori. La tecnologia costa, richiede, accanto a
macchine, uomini addestrati, che gli imprenditori nostrani
non possiedono. Modesti operatori delle costruzioni che,
anche quando espongono grossi bilanci ed opere pubbliche,
in realtà a livello europeo sono piccole realtà. Grandi in
Italia, minuscole in Europa.
Se non si esce da questa situazione, se le amministrazioni
italiane non recuperano capacità di programmazione e
progettazione e, soprattutto, di controllo nella
realizzazione delle opere, continueremo ad avere
infrastrutture inadeguate, costose, in tempi biblici.
Per uscire da questa situazione
occorre che la classe politica si convinca che la sua
immagine pubblica, quella che porta consensi elettorali, è
fatta di risultati e non di progetti sbandierati e di
opera a volte pluriinaugurate
secondo la politica del
taglio del nastro.
Oggi Sul Corriere della Sera Sergio Rizzo (La
contabilità delle ambizioni) ha scritto che “Il
partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi
anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e
di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina
impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni
prezzi, varianti in corso d'opera, veti di chicchessia:
dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di
burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso
alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di
strada il triplo che nel resto d'Europa. E in due decenni
non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi
di Italia 90 abbiamo speso l'equivalente di un miliardo e
160 milioni di euro attuali, l'84% più di quanto era
previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai
mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con
una bella dose di inchieste giudiziarie.
Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi
si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo,
la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti
di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è
impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di
Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile
immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo
andrebbe rivolto anche all'Expo 2015 di Milano, per cui la
Corte dei conti ha eccepito che “la complessità,
l'onerosità e la ridondanza delle strutture” decisionali
rischia di causare “difficoltà e disfunzioni sul piano
operativo”.
Che dire? È inevitabile. Mi rifiuto. Dobbiamo mandare a
casa questa classe politica fatta di incompetenti e di
molti furfanti. Gente che ha dilapidato i bilanci dello
Stato e degli enti pubblici ed adesso pretende di salvare
l’Italia vendendo i gioielli di famiglia, quelli che nei
secoli sono stati realizzati con il sudore di milioni di
italiani. Mandiamo a casa questi mestatori i quali
dovrebbero essere interdetti dai pubblici uffici. L’Italia
non li vuole più.
15 febbraio 2012
Le primarie di Genova
Un segnale solo per il Partito Democratico?
di Senator
Oggi i giornali sono impegnati a decrittare la vicenda di
Genova dove il Prof. Marco Doria, battitore libero, sia
pure sponsorizzato da Vendola, ha vinto le primarie
battendo il Sindaco uscente, Vincenzi, e la senatrice
Pinotti, data per vincitrice fino alla vigilia. Un nome
che è parte essenziale della storia della città, una
cattedra universitaria, Doria è il Pisapia genovese, come
il Sindaco di Milano appartenente ad una importante
famiglia che un curriculum professionale di tutto
rispetto.
Come interpretare il “fenomeno Doria”? Certamente vi sono
più motivi per questa risposta, ma uno certamente non va
trascurato quello che fa emergere a sinistra, anzi diremmo
all’estrema sinistra, personalità delle professioni,
appartenenti all’alta borghesia, caratterizzate da forte
indipendenza rispetto all’apparato di partito con una
accentuata sensibilità nei confronti delle esigenze dei
più disagiati. Candidature che rischiano di erodere
consensi a destra, ad una destra in cerca di identità, che
si è spacciata come liberale, ma di liberale ha fatto
praticamente niente. Non ha liberalizzato, non ha
abbassato le tasse, come pure aveva promesso fin dal primo
apparire sulla scena nel 1994, non fa riformato la
pubblica amministrazione. In sostanza non ha governato se,
avendo gestito il potere governativo per il tempo più
lungo negli ultimi 18 anni ci ha lasciato con un debito
pubblico astronomico, aggravato da 120 miliardi annui di
evasione fiscale (dato Agenzia delle entrate) ed oltre 60
miliardi di corruzione (dato Corte dei conti).
Ha sbagliato il centro a fare il proprio mestiere, ha
sbagliato il centrosinistra che nei già ricordati 18 anni
ha comunque gestito il potere e, all’opposizione, non ha
saputo svolgere un ruolo essenziale nelle democrazie,
pungolare chi governa e prepararsi a succedergli.
Ed è così che le preoccupazioni di Bersani, dopo le
primarie che hanno lanciato la candidatura di Doria a
Sindaco di Genova, devono costituire essere un campanello
d’allarme per Angelino Alfano, volonteroso segretario di
un PdL in trasformazione. Probabilmente anche alla ricerca
di un nuovo nome er di una nuova formula.
È improbabile che a destra si facciano le primarie come
abbiamo imparato a vederle nel Partito Democratico, ma è
certo che il popolo moderato, tradizionalmente
liberal-democratico, di ispirazione cattolica non potrà
stare a guardare dopo le delusioni dell’era Berlusconi
conclusasi con una stagione di lacrime e sangue,
repentinamente seguita a quella dell’ottimismo a tutti i
costi, quando avevano cercato di convincerci che stavamo
meglio degli altri, che s’intravedeva l’uscita dalla
crisi, anche perché il Presidente del Consiglio, il
migliore degli ultimi 150 anni, era anche quello che
conservava il più alto indice di gradimento.
In assenza di primarie, a destra possono determinarsi
aggregazioni nuove, capaci di sparigliare le carte e di
ricostruire un tessuto politico credibile. È il tentativo
che sta conducendo l’UDC, erede di una Democrazia
Cristiana che ha ancora un credito.
L’impegno di Casini in questo senso è evidente e il suo
moderatismo genera senz’altro attenzione e fiducia.
Tutto è in movimento. In quest’anno che ci separa dalle
elezioni può accadere di tutto, ma è certo che nulla sarà
come prima, perché vorrebbe significare la fine della
Grecia. Sarà Monti il leader del centrodestra o di una
grande coalizione. O Passera? È certo che per i partiti
come li abbiamo conosciuti sono tempi magri, a parte le
fondazioni e i “rimborsi” elettorali. Non sono più
credibili. Non hanno futuro.
14 febbraio 2012
EURO e DOLLARO: MORS TUA VITA MEA ?
di Europeo
"La democrazia funziona quando a decidere sono in due e
uno e’ malato"
(Winston Churchill)
Nella sua intervista al Time del 19
gennaio 2012 il presidente Obama ha affermato: "I
think we’ve been able to establish is a clear belief among
other nations that the United States continues to be the
one indispensable nation in tackling major international
problems" (1).
Se Winston Churchill ha ragione,
allora per Obama si può affermare che tutti gli altri non
esistono, salvo un altro solo, che però è malato.
Si può supporre che fingano di non
esserci “ancora “? Si può supporre che uno solo non stia
in buona salute di fatto o per calcolo politico?
Ma allora potrebbero decidere di
esistere, quell’uno solo potrebbe guarire e potrebbero
tutti scoprire che l’unico malato per davvero è chi si
crede unico medico “the one indispensable nation".
Cinque giorni dopo il presidente
Obama ha tenuto il discorso sulla stato dell’Unione: di
fatto ha lanciato la sua candidatura per il secondo
mandato ed ha tracciato il sentiero della sua campagna
elettorale.
Ha detto testualmente: “Il
più grosso colpo alla fiducia nella nostra economia l’anno
scorso non è arrivato da eventi al di fuori del nostro
controllo. È arrivato dal dibattito a Washington sulla
domanda se gli Stati Uniti dovessero pagare il loro debito
o no. Nessuna riforma può esser fatta se non abbassiamo la
temperatura in questa città. Abbiamo bisogno di mettere
fine all’idea che i due partiti debbono rimanere bloccati
in una perpetua campagna di reciproca distruzione. Bisogna
fare squadra come i Navy Seal quando hanno attaccato ed
ucciso Bin Laden.
Qualcuno
di loro era democratico, qualcuno repubblicano. Non aveva
importanza perché tutti lavoravano ad una causa comune. Io
sono un democratico. Ma credo in ciò in cui credeva il
repubblicano Abraham
Lincoln”.
Ora si può fare a meno di
esercitarsi nel prevedere l’esito delle prossime elezioni
presidenziali negli Usa.
Comunque vada, il debito è lì e la
tentazione più forte per l’eletto di turno e per gli
interessi che lo manderanno alla casa bianca sarà quella
di far pagare il debito statunitense agli altri e di far
pagare agli altri pure il nuovo debito derivante
dall’esercizio di continuare ad essere “l'unica nazione
indispensabile per affrontare grandi problemi
internazionali”!
Tentazione a cui gli Usa hanno ben
volentieri ceduto negli ultimi 70 anni.
Soltanto che dopo 70 anni ora c’è
chi può decidere di esistere sulla scena mondiale: ed
anche l’ammalato europeo può decidere di affidarsi ad un
altro medico al minimo o, il che sarebbe meglio, decidere
di guarire.
La democrazia perciò potrebbe non
funzionare più alla “ Churchill “. E del resto è ora.
A pensarci bene proprio il Regno
Unito, che ha vinto la guerra, ha pagato in proprio il
prezzo maggiore al principio churchilliano: si è dovuto
ammalare per far funzionare la democrazia dell’altro
“unico” capitalista atlantico!
Se si parte da una diagnosi
sbagliata, si rischia di arrivare dritto dritto ad una
terapia disastrosa.
Per esempio potremmo applicare il
concetto espresso da Obama al sistema (?) monetario
internazionale e dedurne che “il dollaro continua ad
essere l’unica moneta indispensabile per affrontare i
maggiori problemi - monetari e quindi economici e
finanziari – internazionali”.
Così, dopo aver fatto ammalare la
sterlina inglese – in omaggio alla tesi di Churchill - e
lo yen giapponese – qui per riprendere alla grande
“Madama Butterfly” siamo al quasi suicidio - potrebbe
venire la voglia di “far fuori” l’euro.
Così si può risolvere con un solo
colpo il problema del debito statunitense facendo sparire
un concorrente e facendo ben capire alla Cina, all’India,
al Sud America, alla Russia, alla Turchia, all’Africa,
insomma a tutti gli altri che c’è un unico posto in cui
si deve investire e bruciare risparmi: la fornace dei
dollari Usa.
Il leader mangia prima dei gregari;
se ne resta mangeranno poi ….
Ironia del capitalismo: predica bene
“don’t put all eggs in one basket” e razzola male “vuole
tutte le uova foderate di dollari statunitensi”.
Perciò una diagnosi siffatta per
risolvere il problema del debito passato e futuro
statunitense potrebbe essere sbagliata.
Clemenceau aveva un tale
risentimento verso la Germania che non si fermò con la
sconfitta di quest'ultima nel novembre 1918.
Alla Conferenza di
Parigi del 1919 pretese che la Germania venisse messa in
ginocchio sia politicamente che economicamente, con la
imposizione di forti compensazioni di guerra e
l'occupazione militare del Reno. Aveva ottenuto tutto
quello che voleva.
Sconfitto nella corsa alla
Presidenza della Repubblica nel 1920, si ritirò dalla vita
politica. Scrisse due libri di memorie: ne “La Grandezza e
la Miseria della Vittoria “predisse che ci sarebbe stato
un altro scontro con la Germania”!
In fondo ora il problema è sempre lo
stesso: la Germania.
Hamilton ha avuto un grande maestro
–Jean Baptiste Colbert – e due grandi allievi: la Meiji
leadership giapponese a partire dal 1860 e la Germania
di Federico List e di Bismarck.
A differenza del Giappone, la
Germania dopo la seconda guerra mondiale sta cercando
un’altra strada - l’Unione Europea – forse data la sua
natura non insulare a differenza del Giappone fatto di
isole. E potrebbe essere la strada vincente.
Il problema non è che l’allievo può
superare il maestro, ma è che questo successo se si
consolida porta il mondo in una direzione nuova.
Se si cerca di distruggere
l’esperimento ancora non consolidato si può commettere
l’errore di Clemenceau.
Questa volta però non si pone a
rischio il futuro della Germania e dell’Europa - che già
di per sè basterebbe a scatenare un nuovo putiferio
mondiale – ma si pone a rischio la prospettiva su cui
vanno incamminandosi Cina, India, Sud America, Africa,
Paesi arabi.
La direzione potrebbe essere quella
di ricomporre la politica ad un livello geopolitico
misurabile col potere del capitalismo.
Il potere di realizzare le cose e’
stato globalizzato dal capitalismo.
La capacità politica di decidere le
cose che devono essere fatte è rimasto nazionalizzato.
Nel suo ultimo bel libro sui paradossi della
globalizzazione, l'economista Dani Rodrik descrive il "trilemma"
dell'economia mondiale: democrazia, sovranità nazionale e
globalizzazione economica sono obiettivi che possono
essere perseguiti solo a coppie.
1)
Se si vuole perseguire la globalizzazione economica e
mantenere la sovranità nazionale bisogna rinunciare ad
elementi sostanziali di democrazia.
2)
Se si vuole salvare la globalizzazione e garantire allo
stesso tempo la possibilità di scelte democratiche,
bisogna rinunciare alla centralità della nazione in favore
di autorità democratiche globali.
3)
Se invece si intende salvare lo Stato nazione e la
democrazia politica, allora bisognerebbe avere la forza di
rinunciare alla globalizzazione.
Ma i buoi sono scappati già. Se la globalizzazione serve a
dare un migliore destino all’80% della popolazione
mondiale si devono accettare i rischi che comporta: quindi
fuori l’opzione 3.
La globalizzazione è figlia del capitalismo. E da ciò
nascono due grandi rischi.
Primo rischio. Il capitalismo non è eterno ed è già in
crisi. E quello che è più in crisi è il capitalismo
liberale: Usa, Europa.
Ora il nemico più implacabile del capitalismo è il
capitalismo: non s’è ancora visto uno scontro mondiale
tra sistemi socialisti e abbiamo dovuto subirne due tra
sistemi capitalistici.
In questa fase storica lo scontro sembra tra i due
capitalismi liberali, tra le due sponde dell’Atlantico con
gli altri capitalismi sociali che guardano- pour cause -
con più attenzione all’esperimento europeo e con più
diffidenza altrove.
Ma l’agonia del capitale potrebbe venire dallo scontro
tra capitalismo liberale indebolito dalle lotte intestine
e capitalismo sociale in crescita - Cina , Russia – avente
o meno per obiettivo la supremazia su Africa, Sud America,
India, Paesi arabi.
Secondo rischio. Il capitalismo è sempre più capitalismo
di stato: quello liberale per via della crisi e quello
sociale per via del sostrato politico su cui si è
sviluppato.
La mano visibile degli interessi, delle corporazioni,
delle lobbies riesce sempre meglio a far pagare allo
stato tutti i fallimenti del mercato: si può dire che, con
buon pace della mano invisibile, gli spiriti “animali” del
capitalismo liberale sanno d’istinto dove andare a
chiedere: lo stato.
Quanto ai newcomers del capitalismo sociale non fanno
altro che applicare la lezione statunitense o tedesca
delle origini: se proprio bisogna competere sul mercato
globale quale migliore tycoon nel board dello stato?
Un aggravamento della situazione – l’arresto della
globalizzazione ad esempio – potrebbe portare alla
trasformazione genetica del capitalismo: il socialismo di
stato trionfante ovunque in forti mercati nazionali con
rischi elevatissimi di conflitto per l’accaparramento di
risorse primarie: acqua, terre, energia, minerali.
La riduzione della probabilità di questa ultima
disastrosa deriva sta nella scomparsa dello stato- nazione
e quindi nell’eliminazione dell’opzione 3.
Ci resta un solo esperimento che appare meno rischioso:
per salvare la globalizzazione e garantire allo stesso
tempo la possibilità di scelte democratiche, bisogna
rinunciare alla centralità della nazione in favore di
autorità democratiche globali.
E questo esperimento appare il più idoneo a rispondere ad
altre sfide; in particolare la sfida che la tecnologia e
la scienza pongono alla democrazia e la sfida ambientale
di fronte cui sono impotenti governi nazionali e
capitalismo.
E l’euro in questo scenario?
L’euro potrebbe essere la prima guerra di indipendenza
italiana; la prima costituzione statunitense; solo
qualcosa di più dello zollverein tedesco.
Non è certamente l’unità
risorgimentale dell’Italia, la federazione degli Stati
Uniti d’America, la piena unità nazionale tedesca del
1871.
Ma da grande sarà molto di più di
esse. Può consentire un nuovo ruolo agli Stati Uniti
d’America ed indicare un nuovo modo di fare politica
internazionale alle altre grandi aree del mondo.
L’euro è gli “ Stati Uniti d’Europa
“ in fasce.
Bhagwan Shree Rajneesh ha scritto che ”anche una fiamma
appena accesa basta a disperdere un’oscurità
antichissima“.
Un’oscurità come quella di dire: “the
one indispensable nation”.
Perciò la fiamma appena accesa
dell’euro deve essere alimentata e non spenta.
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(1)
Io penso che noi siamo stati in grado di stabilire una
chiara convinzione tra le altre nazioni che gli Stati
Uniti continuano ad essere l'unica nazione indispensabile
per affrontare grandi problemi internazionali.
14 febbraio 2012
Il traffico a Roma a quattro giorni dalla neve
Cronache da inefficientopoli
di Marco Aurelio
Eredi di un grande impero, che aveva fatto
dell’efficienza la ragione del suo successo, gli odierni
amministratori della Capitale si perdono in un bicchier
d’acqua o, meglio, in una spruzzatina di neve.
Se ne potrebbero raccontare tante.
Oggi ci fermiamo sulla situazione del traffico, il grande
trascurato dell’attuale giunta, della zona Monte Mario –
Belsito – Balduina che è collegata a Prati Delle Vittorie,
tra l’altro dalla cosiddetta “panoramica”, Viale Falcone e
Borzellino, che dalla Trionfale porta a Piazzale Clodio.
Ebbene, quel viale è chiuso dal giorno della nevicata.
Certo le sue curve sono pericolose per il ghiaccio, ma se
a qualcuno venisse in mente di intervenire per eliminare
quel po’ di neve rimasta ai bordi ed il ghiaccio che si
forma la notte si potrebbe ripristinare l’uso del viale
favorendo il deflusso delle auto dalla zona alta, che
riceve il traffico da Monte Mario e Torrevecchia
Trionfale.
Invece questa mattina era intasatissimo viale delle
Medaglie d’Oro, in pratica la strada che raccoglie il 90
per cento del traffico da Roma Nord. Mentre scendevo mi
chiedevo come mai nessuno avesse pensato di mettere dei
vigili ai due semafori dopo la Balduina verso piazzale
degli Eroi per accelerare il moto delle auto in fila.
Sbagliato! Perché, all’incrocio con via Marziale, due
vigili (vigilesse) c’erano, ma non per fluidificare il
traffico ma per presidiare la corsia preferenziale.
Giustissimo il rispetto della legge, ma l’esigenza
prioritaria in quel momento era, in un orario di punta
(8-8,30), quella di facilitare il deflusso delle
automobili, anche per contenere l’inevitabile
inquinamento.
È questo il caso in cui quattro vigili intelligenti,
monitorando di minuto in minuto il flusso dei mezzi,
avrebbero potuto rendere più flessibile una situazione
irrigidita dai semafori.
Niente da fare, siamo amministrati da incapaci. Anche le
cose più ovvie, come rendere percorribile viale Falcone e
Borzellino che porta da Monte Mario un ingente numero di
auto (forse all’Assessorato alla mobilità pensano che
Monte Mario sia come il Gran Sasso!) o accelerare il
traffico su Viale delle Medaglie d’Oro diventa un
problema, irrisolto,anche quando risolvibilissimo.
8 febbraio 2012
I giovani e un modello di sviluppo inadeguato
Bamboccioni, sfigati, mammoni, siete il futuro d’Italia!
di Salvatore Sfrecola
Bamboccioni, sfigati, mammoni e chissà quanti altri
aggettivi inventeranno ancora i nostri “tecnici” al
governo che sul punto stanno deludendo, mischiando
valutazioni esatte con analisi insufficienti, quando non
sbagliate.
Intanto sembrano confondere “posto fisso” con “posto
sicuro” e la mobilità con il precariato, creando
malcontento e, in qualche misura, pregiudicando le
iniziative che vorrebbero assumere per restituire
flessibilità al mercato del lavoro.
Anche perché poi, inevitabilmente, si scopre che chi se ne
esce con certe improvvide affermazioni sui giovani ha i
figli, e forse anche i nipoti, ben “sistemati” in modo
stabile e vicino casa.
Ora non è dubbio che il lavoro sia una condizione
essenziale per l’uomo, con influenza determinante sulla
vita personale e familiare e sul suo inserimento nel
contesto sociale, tutti momenti dell’esistenza umana che
hanno un’importanza fondamentale e che concorrono a
formare la personalità, il suo equilibrio psichico la sua
capacità di convivere con altri nell’ambiente.
Lavoro significa, infatti, soddisfazione personale in
relazione alla gratificazione professionale (qualunque sia
il livello delle prestazioni rese), possibilità di
disporre di un reddito capace di assicurare una vita
dignitosa, di migliorare anche sul piano lavorativo, di
farsi una famiglia e di contribuire in questo modo allo
sviluppo della società. Con l’ovvia conseguenza negativa
che la mancanza di lavoro determina frustrazione, risorse
insufficienti, incentivo alla ribellione sociale.
Naturalmente la soddisfazione di queste esigenze non è
affatto semplice, trova delle limitazioni in relazione
alla situazione economica del Paese, ma non è dubbio che
una generalizzata mancanza di lavoro determina una crisi
sociale pericolosa per la democrazia.
La storia è piena di esempi di situazioni siffatte. Senza
andare lontano possiamo ricordare la crisi economica del
primo dopoguerra, dovuta in primo luogo alla riconversione
dell’industria bellica, alla difficoltà di una ripresa in
tempi brevi ed alla conseguente ribellione sociale di
vaste categorie di lavoratori, intellettuali ed operai,
che avevano perso il lavoro, magari per aver partecipato
alla guerra. Italia e Germania hanno vissuto il dramma di
quegli anni nei quali la classe politica dei due paesi non
è stata in condizione di assicurare la ripresa con le
conseguenze che tutti noi conosciamo, il Fascismo e il
Nazismo.
È un problema, quello del lavoro, che il governo deve
affrontare. Non per assicurare un posto fisso, ma un
lavoro, che può anche essere a tempo, caratterizzato da
mobilità, ma deve assicurare condizioni economiche a
tutti, ad evitare la ribellione dei diseredati, una
situazione che in termini economici e sociali costa molto
di più.
Poi vanno pensate misure idonee a dare certezza alle
persone che desiderano formarsi una famiglia e comprare
una casa. Lo abbiamo detto più volte e viene ripetuto
giornalmente sui giornali e nelle trasmissioni
radiotelevisive. Chi ha un lavoro a termine non riesce ad
ottenere un mutuo per compare casa. Qui possono
intervenire lo Stato o le Regioni con una garanzia sulla
restituzione del mutuo. Darebbe certezza alle banche e
consentirebbe al lavoratore a tempo di investire e
contribuire in tal modo allo sviluppo dell’economia.
È evidente, infatti, che il lavoro, anche con una modesta
remunerazione, è un incentivo a migliorare, consente una
presenza sul mercato interno che sviluppa i consumi e, a
monte, la produzione, una condizione per nuovi posti di
lavoro. Inoltre la ripresa dei consumi porta nuove risorse
nelle casse dello Stato attraverso le relative imposte
sugli scambi, l’IVA.
A questo punto è evidente che lavoro, privatizzazioni,
liberalizzazioni ed ogni altra iniziativa della quale si
sente parlare dal Presidente del Consiglio e dai suoi
ministri “tecnici” non sono altro che tanti tasselli di un
disegno complessivo che non è ancora chiaro e che dovrebbe
delineare un modello di sviluppo per i prossimi anni. Un
modello italiano, con le sue specificità, all’interno di
un modello europeo, quando l’Europa cesserà di essere
un’espressione geografica, per divenire finalmente quella
potenza economica e politica che molti immaginano e che
tanti temono.
Quale modello di sviluppo per il nostro Paese? Non uno
qualsiasi, ad imitazione di altri paesi europei
caratterizzati da altre condizioni, diverse da quelle
proprie nostre, che sono storiche, ambientali, con
tradizioni forti in alcuni settori della cultura,
dell’arte e dell’artigianato, della moda che primeggia nel
mondo.
Insomma questo Paese, che non può battere i mercati nella
produzione di automobili, tanto per fare un esempio, con
l’effetto di trascinare l’economia, ha delle specificità,
sulle quali spesso mi soffermo, che non temono concorrenza
e non suggeriscono delocalizzazioni. Penso, in primo
luogo, al turismo, una risorsa che stentiamo ad
implementare, coinvolgendo aree del Paese ancora fuori
mercato per assenza di infrastrutture viarie adeguate, di
alberghi e ristoranti al livello di flussi di visitatori
molto interessanti, dalla Russia ai paesi dell’Est, alla
Cina, che si aggiungono ai tradizionali ospiti europei ed
americani.
Per sviluppare l’offerta turistica servono alcuni
interventi sul territorio e sul sistema museale e delle
aree archeologiche, che siano espressione di una moderna
concezione della rappresentazione del bene artistico in
condizioni di accesso a consistenti nuclei di visitatori.
L’Italia, dicevo poc’anzi, non teme confronti. Nessuno,
neppure la Grecia, dispone di templi della bellezza di
quelli di Paestum o di Agrigento, né aree del fascino del
Foro Romano o del Colosseo, che si può ripetere in tante
regioni, tutte straordinariamente ricche di opere d’arte
di tutti i periodi storici in un contesto ambientale
mozzafiato. Non c’è regione italiana che non abbia
un’attrattiva straordinaria con i suoi musei, i suoi
palazzi storici le sue chiese.
Cosa aspettiamo a puntare sulla nostra ricchezza, a
sviluppare l’unico settore che, in tempi rapidi, può
assicurare un rilevante numero di posti di lavoro certi e
duraturi.
Ma ci vuole serietà. Il ristoratore disonesto, che
presenta un conto stratosferico al turista per un pranzo
modesto va chiuso per sempre e tutti lo devono sapere, a
cominciare dai giornali del paese del turista. Così
improbabili alberghi a più stelle vanno cancellati se non
offrono servizi degni della categoria che rivendicano.
Ogni tolleranza è un danno enorme che si propaga sul
tam tam dei visitatori.
Ugualmente l’offerta turistica qualitativamente adeguata a
prezzi contenuti ha un effetto straordinario di diffusione
dell’immagine dell’Italia, perché ognuno che viene nel
nostro Paese e si trova a suo agio tornando a casa diventa
un ambasciatore del made in Italy, perché avrà
comprato la ceramica di Deruta o di Gubbio, una seta, una
borsetta di Prada o di Gucci, decanterà i vini
meravigliosi che punteggiano la geografia di tutte le
regioni. E poi ogni altro prodotto italiano gustato ed
offerto agli amici di là dai nostri confini. È l’indotto
straordinario che, a parole tutti comprendono, ma che di
fatto nessuno coltiva in modo adeguato a livello
istituzionale.
Ora il nuovo Ministro del turismo, Gnudi, persona di
cultura e di esperienza manageriale, si né fatto garante
di una crescita. Ma già non se ne parla più. Sono certo
che andrà lavorando seriamente ma io vorrei che se ne
parlasse ogni giorno e che si mettessero in cantiere
soprattutto iniziative nuove, che offrono occupazione.
Ecco, l’Italia ha bisogno di un nuovo modello di sviluppo,
che non può essere una visione astratta della nostra
economia. Noi abbiamo una fiorente agricoltura, ma la
nostra manifattura nel settore della conservazione e della
trasformazione dei prodotti ortofrutticoli, a cominciare
dalle marmellate che spesso compriamo con denominazione
straniera ma fatta con frutta italiana, è ancora
insufficiente.
La materia è di competenza regionale. Il Ministro Gnudi
metta intorno ad un tavolo i responsabili regionali e li
inchiodi ad una responsabile programmazione di una grande
scommessa. Mettiamo in campo la nostra storia, fatta di
arte e di cultura, “prodotti” che non si possono taroccare
e riscopriamo il nostro ruolo nel Mediterraneo, che nasce
da una posizione geografica unica e dalla tradizione di
Roma, che è il nostro orgoglio ma anche la chiave che apre
tante porte perché quella tradizione che si ritrova nelle
grandi città dei paesi rivieraschi non sa di colonialismo
ma di una civiltà ineguagliata.
Riprendiamoci un po’ di orgoglio e portiamo avanti un
dialogo culturale nel quale possiamo vantare molte
chance. Impariamo a farne una ricchezza per il Paese.
7 febbraio 2012
Un nuovo ruolo per le Forze Armate
Ripensiamo la protezione civile
di Senator
Gli
eventi di questi giorni, il disastro della Costa
Concordia, le nevicate che hanno bloccato mezza
Italia, fermato i treni, fatto mancare acqua e luce in
molte località, alcune delle quali ancora isolate, hanno
dimostrato che il nostro Paese non è in condizioni di far
fronte ad emergenze ambientali che altrove generano minori
problemi.
La polemica tra il Sindaco di Roma, Alemanno, ed il Capo
della Protezione civile, Gabrielli, dimostra innanzitutto
la difficoltà della politica di farsi trovare pronta, per
quanto sia ragionevole attendersi, dinanzi a situazioni
previste o prevedibili, sia un’alluvione, una nevicata o
una siccità, com’è accaduto alcuni anni indietro, cosa
gravissima per un territorio ricco di acque, come
l’Italia.
Cominciamo da quest’ultimo caso. Tutti ricorderanno il Po
in secca e così gli altri fiumi in un’estate di fuoco,
nella quale si parlava di razionamento dell’acqua. Perché?
Perché gli acquedotti perdono oltre il 50% della loro
portata, perché non si fa manutenzione (costosa e di
scarso impatto sull’opinione pubblica), non si fanno più
invasi artificiali. Dopo la tragedia del Vajont, senza che
nessuno si sia posto il dubbio a suo tempo se fosse giusto
fare una diga a monte di alcuni paesi o alcuni paesi a
valle di una diga, se non dovesse prevedersi che per un
attentato, un terremoto, una guerra, la diga avrebbe
potuto versare l’acqua a valle, con valutazione della
direzione che l’acqua avrebbe assunto. Perché gli invasi
artificiali, un tempo funzionali alle centrali
idroelettriche, un modo di produrre elettricità a basso
costo e senza inquinamento, avevano anche estrema utilità
nelle esteti calde, quando le aziende idroelettriche
mettevano l’acqua a disposizione delle attività irrigue.
Così un anno l’acqua è mancata. Ci sono state le solite
polemiche, le denunce dei tecnici e dei politici più
accorti, poi il silenzio, fino alla prossima siccità.
Una penosa constatazione dell’incapacità di gestire, che
significa incapacità di prevedere e prevenire e poi
operare.
Lo stesso nella vicenda delle nevicate di questi giorni.
Previste, come abbiamo sentito tutti noi che seguiamo i
notiziari meteorologici che ci avevano messo in guardia,
segnalando date e orari e l’intensità delle
precipitazioni. Per quanto è prevedibile, ovviamente, nei
limiti di una certa approssimazione, perché non è
possibile, come vorrebbe il Sindaco di Roma, che le
informazioni meteo fossero precise al millimetro, tanti
centimetri e non più né meno. Per cui è assurda la
querelle sulle dimensione della nevicata per chi ha
cercato di giustificare l’inefficienza dei servizi perché
la Protezione Civile avrebbe indicato qualche centimetro
meno di neve rispetto a quelli effettivamente caduti.
Non è questo il modo di gestire i pericoli e le emergenze.
È necessario che chi ha competenza in materia di
protezione civile eserciti le relative funzioni con
ragionevole prudenza. Per cui un sindaco che aveva
disposto la chiusura delle scuole, immaginando
evidentemente del disagio per la popolazione, avrebbe
dovuto mettere in campo mezzi e uomini ed i materiali
occorrenti (alludo al sale) per affrontare l’emergenza
neve così come si sarebbe manifestata. Con un po’ di
sopravalutazione piuttosto che con una sottovalutazione
evidente nei fatti, con noncuranza, ma non è necessaria
una nevicata per accorgersene, del traffico cittadino, un
aspetto essenziale in una grande città, tra l’altro
capitale dello Stato.
Siamo stati sulla bocca di tutti nel mondo e sulle prime
pagine dei giornali perché una capitale non può andare in
tilt per pochi centimetri di neve, anche fossero 10, 20 o
30, al punto da chiudere gli uffici pubblici, compresi
quelli giudiziari, tanto che la seduta inaugurale
dell’anno giudiziario della Corte dei conti di Roma, che
doveva svolgersi oggi alla presenza del Capo dello Stato,
non c’è stata.
È stata la neve, ma ugualmente poteva essere un
nubifragio, a bloccare le strade urbane ed exaurbane
allagate per mancata manutenzione degli scarichi, anche in
prossimità del fiume, dove si formano aree allagate vicino
ai ponti, come a ponte Mazzini, a Roma, tanto per fare un
esempio, che si sarebbe potuto evitare chiamando qualcuno
a fare un condotto dalla sede stradale al fiume.
E che dire dei treni e delle autostrade, fermi per ore
nelle stazioni o in mezzo alla campagna o bloccate per
molte ore, per cui ho potuto sentire in televisione un
camionista che aveva attraversato l’Ungheria, con
temperature mediamente di 15-20 sottozero, dire che lì le
autostrade erano percorribili senza l’insidia della neve e
del ghiaccio.
I treni sono stati bloccati perché gli scambi si gelano.
Un problema irrisolvibile all’inizio del Terzo Millennio?
Quando esistono modi di riscaldare gli scambi con
strumentazione neppure particolarmente costosa.
Ma si sa. Contiamo sempre sulla fortuna che non sempre ci
assiste, ovviamente.
Qualcuno ha evocato Bertolaso, quasi se ci fosse stato lui
le cose sarebbero andate meglio.
Intanto Bertolaso, laddove la sua attività ha raggiunto
effetti positivi nelle varie emergenze che si sono
susseguite nel Paese (ogni anno c’è un terremoto almeno
con un po’ di danni, un’alluvione e qualche nevicata di
particolare consistenza), ha operato con altissimi costi,
tra l’altro utilizzando in primo luogo strutture dello
Stato, in particolare militari, e degli enti locali.
Per completare l’analisi va anche detto che ci sono stati
cambiamenti dopo il tentativo di trasformare la Protezione
Civile, che tra l’altro era divenuta strumento di
intervento per ogni evenienza, compresi i “grandi eventi”,
in una società per azioni sottratta ad ogni controllo.
Ne è risultata una Protezione Civile depotenziata, messa
in difficoltà quanto ai tempi di intervento dal necessario
preventivo concerto con il Ministero dell’economia, oltre
che da un controllo preventivo della Corte dei conti sulle
ordinanze di protezione civile che non è certo funzionale
alla gestione dell’urgenza.
Occorrerà, dunque, riconsiderare l’organizzazione del
sistema Protezione Civile perché persegua gli obiettivi
previsti nel migliore dei modi ai costi più contenuti.
Come riorganizzare la Protezione Civile? Me lo sono
chiesto più volte seguendo le vicende delle tante crisi
dovute a terremoti ed alluvioni nelle quali i responsabili
hanno utilizzato di tutto, miliari, imprese civili,
volontari, per scavare, assistere, alloggiare, alimentare
le persone, per creare infrastrutture provvisorie, per
ripristinare quelle inagibili. E mi sono fatto l’idea che
la Protezione civile, sotto la supervisione di un
funzionario con funzioni di coordinamento e direzione,
debba essere costituita essenzialmente dalle Forze Armate
le quali dispongono, in via permanente, dei mezzi e degli
uomini per intervenire. Dal genio militare che dispone di
mezzi per tutte le evenienze, che può costruire ponti,
sistemare tendopoli, ripristinare strade dissestate, reti.
Le Forze armate hanno una presenza sul territorio con
mezzi che consentono il monitoraggio dei luoghi. Pensiamo
agli Alpini, per le montagne, alla Marina per le coste.
Pensiamo alla disponibilità di mezzi per l’assistenza,
delle ambulanze, degli ospedali militari, delle cucine da
campo, dei ponti radio per le comunicazioni.
Perché questo non accade, anche se poi sono le Forze
Armate ad intervenire per prime sotto l’egida della
Protezione Civile?
Credo che abbiano concorso due fattori negativi. Da un
lato una certa diffidenza dei partiti per le Forze Armate,
quasi l’impegnarle in via preponderante e permanente
determinasse un rischio per la democrazia. Dall’altro lato
sono state le stesse Forze Armate, soprattutto negli anni
’90, a respingere l’idea, come se l’intervento dei
protezione civile costituisse una deminutio in
relazione alla “vocazione” militare, diremmo “combattente”
dei militari.
Sbagliano entrambi i fautori delle due opinioni. Intanto
le nostre Forze Armate non hanno mai avuto una vocazione
golpista e comunque è facile controllare la gestione della
struttura. Inoltre credo che l’immagine delle Forze Armate
sarebbe estremamente positiva agli occhi della gente,
soprattutto dei giovani che vi operano, in un’attività di
soccorso alle persone e di difesa del territorio e
dell’ambiente. Credo che sarebbe un ruolo esaltante, per
nulla meno importante di quello di difesa in armi la
Patria. Perché anche il soccorso, l’ambiente, la tutela
del territorio sono espressione nobile della difesa della
Patria.
È questa la mia proposta, considerato che l’emergenza
richiede organizzazione e coordinamento che sono tipiche
espressioni del mondo militare, come la disciplina,
necessaria quando si lotta contro il tempo.
C’è, poi, il problema dell’approvvigionamento dei mezzi
necessari per intervenire. È ovvio che acquisti
programmati, monitorati e controllati, come è possibile
nelle Forze Armate che dispongono di procedure ben
ordinate darebbe garanzie di risparmio della spesa e di
economicità della gestione.
Una proposta o, se volete, una provocazione alla ricerca
di una migliore organizzazione della quale l’Italia ha
estremo e urgente bisogno.
6 febbraio 2012
A proposito di una multa
per eccesso di velocità. In Inghilterra un ministro si
dimette per aver detto il falso
di Senator
Verrà
processato per eccesso di velocità. Intanto il ministro
dell'Energia britannico, Chris Huhne, si è dimesso, perché
aveva affermato che l’infrazione l’aveva compiuta l’ex
moglie.
“Abbiamo concluso che ci sono prove sufficienti per
accusare Huhne e la ex moglie di aver interferito con il
corso della giustizia”, ha detto il procuratore Keir
Starmer. L'accusa contro Huhne è quella di aver falsamente
attribuito nel 2003 all'allora moglie Vicky Pryce una
multa per eccesso di velocità. La vicenda è emersa dopo la
separazione della coppia.
Nel Regno Unito non è concepibile che un ministro menta
anche su una vicenda banale come l’attribuzione di una
multa per eccesso di velocità. In Italia a violare il
Codice della Strada, con diminuzione dei punti patente,
sono, di solito, le mamme ottantenni, arzille vecchiette
scoperte a confondere le nostre strade statali con un
circuito da Formula 1. Così figli e parenti vari evitano
la sanzione della diminuzione dei punti della patente
scaricando su mamme e nonne gli effetti dell’infrazione.
Sembra una banalità, una bugia per non apparire
automobilisti indisciplinati, e tale la considereranno
molti italiani abituati a ben altre bugie di politici, su
case e cose.
Il fatto è che l’etica pubblica sembra più materia per
saggi dotti o conferenze brillanti che regola di vita in
chi ricopre una funzione istituzionale. “Non è superfluo
ricordare di questi tempi che l’etica pubblica non può che
essere condivisa – scrive Michele Vietti nel suo “La
fatica dei giusti” – perché chi parla in nome di altri (si
pensi ai poteri rappresentativi elettivi o alle
responsabilità dell’alta amministrazione del governo) o
chi decide per conto di altri (e qui entra in gioco il
sistema della giustizia) deve rendere conto a questi
“altri” delle motivazioni delle proprie azioni”.
L’etica pubblica impone, dunque, comportamenti corretti,
anche personali, perché la persona che riveste un ruolo
istituzionale deve non solo essere ma anche apparire
rispettosa delle regole. Il che vuol dire che anche
l’immagine conta, che in un Paese di antica democrazia,
come l’Inghilterra, nel quale il rispetto del cittadino è
fondamentale, un ministro non può dire una bugia
all’autorità preposta al rispetto della legge. Come in
Germania, dove un Ministro che venti anni prima (!) aveva
scopiazzato nello scrivere la tesi di laurea si è dovuto
dimettere.
Eppure continuiamo a ricordare della “moglie di Cesare”,
di colei che non poteva neppure essere sospettata di un
comportamento scorretto.
Dobbiamo ritrovare una moralità pubblica che tenga fuori
dalle sedi istituzionali, politiche ed amministrative,
coloro i quali vengono meno a regole giuridiche e
deontologiche. È la condizione perché la politica venga
considerata dalla legge una nobile attività nell’interesse
del bene comune e non una cosa sporca, come sono convinti
molti italiani, che giustifica ogni nefandezza, dalle
scorrettezze politiche alla disinvolta gestione del denaro
pubblico.
Riusciremo a recuperare questi valori?
4 febbraio 2012
Con Gianni Barbacetto, Giuliano Pisapia,
Bruno Tabacci e Marco Travaglio
A Milano Di Pietro ricorda i 20 anni di “Mani pulite”
di Salvatore Sfrecola
A
Milano, il–
17
febbraio, alle ore 17, al Teatro Elfo Puccini, Antonio Di
Pietro
organizza un incontro per
ricordare l’inizio di “Mani pulite”,
l’inchiesta che è stata un tassello importante della lotta
alla corruzione in Italia.
20
anni da Mani Pulite (e
rubano ancora), scrive il leader dell’Italia dei valori in
una mail inviata a quanti si riferiscono al suo impegno
politico.
Il
17 febbraio, alle 17. “Infatti – scrive Di Pietro - quel
giorno, a quell’ora,
cade il ventesimo anniversario dall’arresto di Mario
Chiesa. Di lì a due anni nelle
aule giudiziarie di Milano furono chiamati leader ed
esponenti dei partiti per parlare di un sistema di potere,
fatto di commistioni tra affari e politica, che aveva
portato l’Italia
sull’orlo della bancarotta. A tanti anni di distanza
poco o niente è cambiato. Anzi quel sistema si è
ingegnerizzato, affinato e la politica ha tentato di
demonizzare la magistratura, ha depenalizzato quei reati,
come il falso in bilancio, in modo da poter agire
indisturbata”.
“In questi giorni – scrive il leader dell’IdV - , l’operazione
rischia di completarsi e il
cerchio è pronto a chiudersi con la denigrazione e la
delegittimazione di quei giudici che venti anni fa,
rispondendo al dettato costituzionale, individuarono la
malattia presente nei partiti. Non è certo un caso che
oggi i media e i noti soloni della politica si apprestino
a ricordare quella data con un inedito, seppur scontato,
copione: una rivisitazione strumentale di quelle vicende,
al fine di riabilitare e giustificare personaggi e metodi
che sono ancora in auge.
Infatti, in questi salotti mediatici per ricordare Mani
Pulite, troviamo volti conosciuti alle aule giudiziarie di
quel tempo. Coloro che avevano snocciolato cifre e
dettagli sulle tangenti, adesso si affrettano a smentire
la testimonianza rilasciata ai giudici, scritta e
sottoscritta, e parlano di abuso dell’autorità
giudiziaria.
Insomma gli imputati di allora si ergono a giudici. Così
in una storia tra guardie e ladri le parti si invertono.
Un’operazione
scientifica, fatta al fine di giustificare l’operato di
dirigenti
politici, di logge massoniche e di comitati d’affari,
noti alle cronache di
questi anni, di questi giorni, come a quelle dell’’epoca.
È un modo per mettere tutto nel
calderone, per appannare e nascondere la verità.
La morale di quanto sta avvenendo è che oggi, come allora,
il Parlamento cerca di fermare l'azione dei magistrati.
Quando c'era “Mani pulite”, ci provarono con il decreto
Biondi, oggi con la norma “anti-toghe” inserita nella
Comunitaria. Si tratta di una legge che è una vera e
propria vendetta, un ammonimento nei confronti dei
magistrati.
Sembra proprio di tornare al lontano febbraio del '92,
quando stavamo scoprendo le malefatte del Palazzo e,
dentro le aule di Camera e Senato, tutti si facevano scudo
dell'immunità parlamentare, etichettando come semplici
mariuoli’
quelli che erano, in realtà, gli anelli terminali della
catena. Anche oggi, mentre i cittadini assistono allibiti
alle ruberie della casta, agli illeciti finanziamenti, e i
magistrati portano alla luce reati gravissimi, la classe
politica, invece di prendere provvedimenti contro coloro
che violano la legge, pensa a punire i giudici per
autotutelarsi.
La
votazione di ieri ha reso evidente l’esistenza
di una P2 parlamentare che si è nascosta dietro al voto
segreto ed ha messo in atto la propria vendetta. Insomma,
mi sembra proprio che nulla sia cambiato in questi vent’anni”.
Fin qui Antonio Di Pietro che al Teatro Puccini sarà con
Gianni Barbacetto, Giuliano Pisapia, Bruno Tabacci e Marco
Travaglio.
È certo che la corruzione in Italia dilaga, come
dimostrano i dati forniti dalla Corte dei conti che ha
stimato in 60 miliardi di euro il “costo” ogni anno di
questi illeciti che hanno effetti devastanti sul Paese e
sulle imprese serie, quelle che non accettano di ricorrere
a scorciatoie illecite per ottenere appalti e forniture.
Ecco l’effetto ulteriore, l’espunzione dal mercato delle
imprese migliori, con effetti negativi sull’esecuzione
delle opere, come attestano i costi lievitati oltre ogni
ragionevole misura, per non dire della loro realizzazione
in tempi superiori (il più delle volte di anni) a quelli
preventivati, spesso con gravi difetti, come attestano
quasi quotidianamente le denunce di “Striscia la notizia”,
il giornale satirico di Canale 5.
Insomma, la corruzione è il grande male di questo Paese
che, unito alle dimensioni dell’evasione fiscale, 120
miliardi secondo il Direttore dell’Agenzia delle Entrate,
Attilio Befera, costituisce un peso insopportabile. Circa
200 miliardi annui che potrebbero eliminare rapidamente il
nostro pesante debito pubblico che ci mette in difficoltà
in Europa e rende poco appetibili i nostri titoli di
Stato.
Senza corruzione ed evasione fiscale questo Paese potrebbe
vivere serenamente assicurando servizi efficienti ai
cittadini ed abbassare il peso delle imposte. Ne
risentirebbero positivamente i consumi e l’occupazione.
C’è molto da fare, dunque. Non c’è solo bisogno di
controlli più efficienti e di mettere a disposizione della
magistratura strumenti idonei per contrastare l’illecito,
ma di procedure trasparenti che non consentano facilmente
l’inserimento di interessi criminali.
Ma soprattutto ci vuole un risveglio di valori, il ritorno
ad un’etica pubblica che un tempo ha caratterizzato la
politica nel nostro Paese, ai tempi in cui governavano
Camillo di Cavour e Quintino Sella e, più di recente,
Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi.
4 febbraio 2012
Traffico in tilt per la neve a Roma
Niente sale (in zucca)
di Viator
Traffico in gravi difficoltà a Roma per pochi centimetri
di neve. Caos sulle strade urbane ed extraurbane, compreso
il Grande raccordo anulare. Automobilisti in panne per
ore.
Naturalmente se la sono presa tutti con il Sindaco, come
hanno documentato questa mattina i notiziari
radiotelevisivi che hanno dato voce alla protesta degli
automobilisti intrappolati un po’ ovunque in una città con
zone collinari dove tutto diventa più difficile. Ma anche
in basso, come nella zona di Saxa Rubra, dov’è il centro
di produzione RAI, di cui hanno riferito in diretta gli
stessi giornalisti del TG3 che la situazione hanno subito
ieri sera e questa mattina. Alcuni sono rimasti in loco.
Perché prendersela con il Sindaco Alemanno? È preso detto.
Come hanno osservato alcuni automobilisti incolonnati in
strada, il “pericolo neve” era noto da diversi giorni,
tanto è vero che i notiziari radiotelevisivi hanno
indicato da giorni il giorno nel quale a Roma avrebbe
nevicato. Quali le misure adottate? Non si conoscono.
Sembra che solo un quarto dei mezzi pubblici disponga di
catene o di gomme da neve. Certo la Città non è abituata
alla neve, per cui talune precauzioni, adottate
normalmente in località del Nord dove nevica
sistematicamente ogni anno, potrebbero sembrare eccessive
e dispendiose. Ma il sale? Almeno il sale
l’amministrazione comunale poteva procurarselo,
organizzando la sua distribuzione sulle strade della
città, magari con l’aiuto dell’Esercito e delle altre
Forze armate che dispongono di uomini e mezzi.
E non c’è dubbio che il Comune in proposito abbia fallito
proprio su un punto fondamentale per chi amministra, la
previsione degli eventi e la prevenzione degli effetti
negativi. E così i romani e quanti nella Capitale d’Italia
operano o si erano recati ieri per lavoro o turismo sono
rimasti intrappolati nella “morsa del gelo” per pochi
centimetri di neve.
Il fatto è che è mancato il sale, sulle strade e nella
zucca degli amministratori, come si usa dire.
4 febbraio 2012
Riflessioni sulla responsabilità civile dei magistrati
E se a “sbagliare” è il giudice d’appello?
di Salvatore Sfrecola
C’è un argomento ricorrente nella polemica sulla
responsabilità civile dei magistrati, il giudice che si
vede riformata la sentenza in appello ha sbagliato, dunque
deve pagare per i danni causati alla parte indagata e
condannata in primo grado.
L’affermazione – stavo per scrivere “il ragionamento”, poi
mi sono accorto che non è così – è semplicistica. Parte
dal presupposto che la sentenza di secondo grado accerti
una “verità giudiziaria” negata in primo grado per colpa
del giudice (ma lo sanno questi nostri “legislatori” che
pressoché in tutti gli ordinamenti chi è condannato in
primo grado è un “presunto colpevole”, mentre da noi è
“presunto innocente” fino a che non intervenga una
sentenza che le lungaggini del codice e degli avvocati
spesso interviene solo per pronunciare la prescrizione).
Non è quella “la verità”. In primo luogo perché il giudice
d’appello può disporre di elementi che il primo giudice
ignorava o che gli erano stati prospettati in modo
sbagliato o possono esserci fatti nuovi. Un pentito
affidabile le cui dichiarazioni sono state attentamente
vagliate può cambiare versione, una prova pur
correttamente acquisita può essere oggetto, a seguito di
una nuova perizia, di una diversa valutazione del giudice
di secondo grado.
Tutto questo è fisiologico, tutto questo è accaduto e non
vuol dire che il primo giudice abbia “sbagliato”, non dico
per dolo ma neppure per colpa grave, cioè per quella
negligenza e imperizia inescusabili che incardinano una
qualche responsabilità.
Ma, poi, non è accettabile il mito secondo il quale la
ragione sta nella pronuncia del giudice di secondo grado
perché può accadere, ed è accaduto, che in Cassazione la
sentenza d’appello venga annullata con rinvio a nuovo
giudice.
Tutto questo per dire che la materia della responsabilità
civile del magistrati che, contrariamente a quanto si
crede, è attualmente disciplinata dalla legge, è
estremamente complessa in quanto attiene all’esercizio
della funzione giurisdizionale, certamente la più
importante e delicata tra le funzioni dello stato perché
attiene alla pacifica convivenza della comunità, sia per
quanto riguarda la giustizia penale, quale espressione
della funzione punitiva dello stato per evitare la
vendetta della vittima o dei suoi familiari – ne cives
ad arma veniant si diceva un tempo – sia per quanto
concerne la giustizia civile, che deve assicurare certezze
in ordine ai rapporti contrattuali come per quanto attiene
alla responsabilità extracontrattuale, quella che scatta a
seguito della violazione del principio del neminem
laedere, la cosiddetta responsabilità aquiliana, dalla
lex aquilia che la disciplinava in diritto romano.
Questa essenziale funzione dello stato è esercitata da
pubblici funzionari, reclutati sulla base di una severa
selezione, in nome dello stato, anzi in nome del popolo
italiano, per cui ogni responsabilità per eventuali danni
provocati dai “giudici dello stato” ricade sullo stato che
risarcisce il privato. Lo stato, poi, si rivarrà sul
magistrato ove questi abbia causato il danno (il
risarcimento del danneggiato per effetto dell’attività
giudiziaria) con condotta inescusabile che l’emendamento
approvato ieri alla Camera qualifica in vario modo.
Secondo le nuove disposizioni "chi ha subito un danno
ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di
un provvedimento giudiziario posto in essere dal
magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo
o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per
diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il
soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il
risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà
personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale
della violazione del diritto".
Sempre secondo quanto prevede la norma, "ai fini della
determinazione dei casi in cui sussiste una violazione
manifesta del diritto, deve essere valutato se il giudice
abbia tenuto conto di tutti gli elementi che
caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato
con particolare riferimento al grado di chiarezza e di
precisione della norma violata, al carattere intenzionale
della violazione, alla scusabilità o inescusabilità
dell'errore di diritto. In caso di violazione del diritto
dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice
abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da
un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato
l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo
234, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea, nonché se abbia ignorato
manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia
dell'Unione europea".
L'emendamento, si sostiene, trarrebbe origine da una
sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee
in cui si è stabilito che c'è contrasto tra il diritto
comunitario e una legislazione nazionale che esclude in
maniera generale la responsabilità dello stato membro per
i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione
del diritto comunitario "imputabile a un organo
giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la
violazione controversa risulta da un'interpretazione delle
norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle
prove operate da tale organo giurisdizionale".
La sentenza individua un contrasto anche tra il diritto
comunitario e "una legislazione nazionale che limiti la
sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o
colpa grave del giudice, ove una tale limitazione
conducesse ad escludere la sussistenza della
responsabilità dello Stato membro interessato in altri
casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta
del diritto vigente".
L’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) ha protestato e
minaccia lo sciopero. Ma a ben vedere dovrebbero essere i
cittadini a protestare perché la norma introdotta nella
legge comunitaria (ma che c’entra la responsabilità dei
giudici con quella materia?), immaginata come riferita al
processo penale, si applica evidentemente anche al
processo civile, con l’effetto che una controversia che
vedesse una domanda risarcitoria contro un colosso
economico (persona fisica o giuridica) potrebbe mettere in
difficoltà il giudice nel timore che, eventualmente
danneggiando il potente per aver adottato, ad esempio, una
misura cautelare, possa un domani essere chiamato a
risarcire una danno che non ha certamente voluto ma che
potrebbe essere stato determinato da una scelta del
giudice il quale “abbia ignorato la posizione adottata
eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea” (ma
potrebbe averla solamente interpretata in modo diverso) o
“non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai
sensi dell'articolo 234, terzo paragrafo, del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea”. Anche qui siamo in una
materia opinabile, che attiene all’interpretazione propria
del giudice. Infatti il “rinvio pregiudiziale” è previsto
“quando una questione del genere (di interpretazione
n.d.A.) è sollevata in un giudizio pendente davanti a una
giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa
proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno,
[per cui] tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla
Corte dei giustizia”.
Com’è evidente dall’intero emendamento è sempre in
discussione la funzione dell’interpretazione del giudice,
cioè il suo ruolo fondamentale, com’è ugualmente evidente
che la norma attua – nell’intensione o meno dei promotori
– una intimidazione dei magistrati i quali, per non avere
guai, potrebbero essere indotti a dare ragione al più
forte in una controversia di rilevante interesse
economico. Infatti tutte le qualificazioni della condotta
“colposa” del magistrato sono un fumo negli occhi per
nascondere la verità che abbiamo appena detto, perché solo
in casi rarissimi e patologici ci sarà un magistrato che
decide dolosamente (e va condannato prima di tutto
all’interno dell’ordinamento giudiziario), mentre quando
si fa riferimento “al grado di chiarezza e di precisione
della norma violata, al carattere intenzionale della
violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore
di diritto” si introducono parametri di riferimento
ampiamente opinabili.
Insomma, si è fatta tanta confusione per la soddisfazione
di giornalisti superficiali e di politici di basso conio
che ripetutamente s’ingegnano a minacciare i magistrati
per poter fare quello di cui le cronache dei giornali
anche oggi sono piene: affari.
E il cittadino comune? Non interessa perché se chi
propugna la riforma della Giustizia, che poi, in realtà,
riguarda solo l’attività dei magistrati, volesse
realmente soddisfare le esigenze dei cittadini si
dovrebbero introdurre riforme dirette ad accelerare la
durata dei processi sia civili e penali. I primi perché la
certezza del diritto in tempi ragionevoli va assicurata a
tutti, i secondi perché, ugualmente, chi è indagato e la
parte offesa devono nel minor tempo possibile vedere
l’effetto della pronuncia del giudice. Per cui vanno
eliminate tutte quelle inutili procedure che il nostro
ipergarantismo ha introdotto nei codici dei processi ed in
conseguenza delle quali la Corte di cassazione ha un
numero di processi che nessuna corte suprema conosce al di
qua ed al di là dell’oceano.
3 febbraio 2012