AGOSTO
2012
La “torbida manovra” contro
il Quirinale
Una Repubblica in
dissoluzione
di Senator
Il dibattito si snoda tra
“illazioni e allusioni”, come scrive Antonio Polito nel
fondo di oggi sul Corriere della Sera, e tra “verità
e demagogia”, come titola Ezio Mauro nell’editoriale su
La Repubblica, in un clima da fine dell’impero che poi è
una repubblica purtroppo ammalata di populismo, vuoi per
ispirazione di alcuni partiti, vuoi per l’inevitabile clima
preelettorale. Che in qualche modo riguarda coloro che si
presenteranno alla competizione elettorale, tra novembre,
marzo e maggio, in vista di un risultato che, auspicato o
temuto, riguarda equilibri parlamentari dai quali dipenderà
il nuovo governo e l’elezione del successore di Giorgio
Napolitano.
Una lettura attenta di quello
che sta accadendo in questi giorni intorno alla questione,
eccessivamente enfatizzata, della intercettabilità, sia pure
indiretta, delle conversazioni del Capo dello Stato, ci dice
di un tentativo di screditare il Presidente Napolitano e,
indirettamente, le sue scelte in favore di un governo
“tecnico”, mal digerite da alcuni (soprattutto il Pdl),
in presenza di un’ipotesi che il Prof. Monti continui a
presiedere un esecutivo,
sia pure di larghe intese (come esplicitamente affermato
da Casini e, l'altro ieri, ad Omnibus dal Presidente
dell'UDC Buttiglione), anche nella prossima legislatura,
posto che la scelta del premier spetterebbe sempre a
Napolitano.
In sostanza, più che di un
“ricatto”, espressione per molti versi impropria, perché
prevederebbe che il Presidente fosse condizionabile per
qualche comportamento quanto meno illegittimo che nessuno ha
ipotizzato, traspare evidente un tentativo di diminuire la
credibilità di una istituzione che tanta ne ha conquistata
agli occhi degli italiani per sollecitazioni e moniti nei
confronti delle insufficienze della gestione governativa
nella prima parte della legislatura.
Di qui il tentativo di mandarla
“in caciara”, come si dice a Roma, per annullare i demeriti
di una classe politica che ha raggiunto i livelli più bassi
della storia d’Italia e delle democrazie occidentali.
Governi che non hanno governato, parlamenti che non hanno
legiferato né controllato tra sprechi e corruzione,
costituiscono lo scenario di una repubblica in disfacimento
nella quale tutti cercano di sopravvivere nella speranza che
il disprezzo degli italiani, dimostrato, tra l’altro,
dall’elevato astensionismo, non sia tale da mandare tutti a
casa. Per cui il balletto del confronto sulla legge
elettorale che attesta dell’evidente volontà di lasciar
sopravvivere il famigerato porcellum che a parole
tutti vorrebbero cambiare ma che nella realtà a tutti fa
comodo. Per cui è probabile che resterà questa legge o che
se ne farà un’altra peggiore, come teme Di Pietro. E poiché
il Presidente Napolitano insiste, di giorno in giorno,
perché si faccia una nuova legge, niente di meglio che
creare un polverone intorno ad una vicenda tutto sommato
tecnica (la procedura per la distruzione di intercettazioni
penalmente irrilevanti ed il ricorso del Quirinale alla
Corte costituzionale) in modo che la sollecitazione
riformatrice del Presidente perda di credibilità. E lui sia
condizionato nelle future scelte sul finire della
legislatura e nella individuazione del nuovo Presidente del
Consiglio, se non decidesse di togliere prima il disturbo
anticipando la fine del mandato.
Chi è il direttore di questa
variegata orchestra cui qualche nota stonata non fa venir
meno arroganza e improntitudine? Le “illazioni e le
allusioni”, per dirla con il titolo di Polito, sono tante e
spesso credibili anche se non facilmente verificabili.
Sta di fatto che la sorte dei
Presidenti della Repubblica in Italia, specie sul finire del
mandato, è stata spesso condizionata da polemiche
pretestuose e da tentativi di condizionamento dimostratisi
ex post inconsistenti. Come nel caso di Giovanni
Leone, costretto alle dimissioni da una campagna mediatica
ben orchestrata che si sarebbe poi dimostrata basata su
falsi. Come nel caso di Francesco Cossiga aggredito alla
prima picconata menatata su istituzioni che tutti, a parole,
avrebbero voluto modificare.
Adesso Napolitano cui va il
merito di aver dimostrato indipendenza e rigorosa difesa
delle attribuzioni costituzionali, aggredito in modo
grossolano, costretto a far presente che è “risibile l’idea
di un ricatto”. È un po’ come nel “non ci sto” di Scalfaro.
I presidenti sono, in realtà,
esposti a pressioni politiche. Non si possono difendere con
le stesse armi di un qualunque parlamentare, sono soli e
sulla loro pelle si giocano gli equilibri per la loro
successione.
La maledizione del Quirinale,
ricorda qualcuno, che è costato il trono al Papa Re ed ai
Savoia e non lascia vivere sonni tranquilli ai successori
repubblicani nel momento che, in vista del termine del
mandato, sembrano – e sono obiettivamente – ogni giorno più
più deboli.
31 agosto 2012
Ma il Ministro Patroni Griffi è ottimista
Corruzione: quella legge non s’ha da fare
di Iudex
“Sull'anticorruzione non credo
che il governo rischi. Io ritengo che il ddl, nei tempi e
nei termini che riterrà il Parlamento, verrà approvato”. La
frase del Ministro della funzione pubblica Filippo Patroni
Griffi, in apertura dell’articolo di Donatella Stasio, su Il
sole-24 ore del 29 agosto, rilancia il ruolo del Governo.
Sarà anche un ingenuo il Ministro, che pure di
amministrazione se ne intende non solo per il ruolo
governativo ma per la lunga esperienza di magistrato del
Consiglio di Stato, un “neofita”, come – riferisce sempre la
Stasio - lo ha definito il capogruppo Pdl al Senato Maurizio
Gasparri, ma è certo che il Governo, come ha dichiarato in
passato più volte anche il Ministro della Giustizia, Paola
Severino, annette grande importanza al provvedimento che
giustamente ritiene parte importante del pacchetto sviluppo,
nel senso che dove c’è corruzione non c’è competizione tra
le imprese. La lotta alla corruzione, infatti, non è una
cosa in più, doverosa anche per le sollecitazioni
provenienti dall’Europa, ma il centro del buongoverno, una
questione essenziale nel funzionamento della politica e
dell’amministrazione.
La
prova in quel che accade a pochi chilometri dalle nostre
coste adriatiche, in Serbia che, riferisce l’ANSA, è stata
invitata ad intensificare la lotta a corruzione e
criminalità organizzata, ed a proseguire nella riforma del
settore giudiziario dall’on. Jelko Kacin, relatore al
Parlamento europeo sul dossier Serbia, in relazione alla
richiesta di ingresso nell’Unione europea, al termine di una
visita di tre giorni a Belgrado nei quali ha incontrato le
massime autorità parlamentari dello stato.
I temi della giustizia e delle
istituzioni dello stato di diritto, infatti, saranno i primi
a essere affrontati in sede di negoziato con la Ue.
In Italia, a parte l’ottimismo
del Ministro Patroni Griffi, c’è poco da sperare. La lotta
alla corruzione non è evidentemente nel dna di molti
parlamentari che ostacolano da sempre ogni iniziativa anche
quelle che l’Italia si è impegnata a portare avanti in sede
internazionale. Basti pensare che solo da poco, con la legge
28 giugno 2012, n. 110, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
del 21 agosto, è stata ratificata la Convenzione penale
sulla corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999. Sì
millenovecentonovantanove! Ben tredici anni, nei quali si
sono alternati vari governi e maggioranze (tra l'altro
quelle "storiche" del Centrodestra nelle legislature
2001-2006 e nell'attuale) che non hanno trovato il tempo di
ratificare la convenzione, tra l’altro esponendo il Paese a
critiche in sede internazionale, come nel caso delle censure
del GRECO, il Gruppo europeo per la lotta alla corruzione,
che a quella della ratifica della convenzione aveva unito
nei mesi scorsi altre 21 raccomandazioni, perché l’Italia
rientrasse nei parametri di un moderno paese occidentale.
Stimo molto il Ministro Patroni
Griffi per non apprezzare il suo ottimismo. E certamente il
Governo vorrebbe che la legge anticorruzione fosse
approvata, ma è in Parlamento che non ci sono le condizioni
per far andare avanti un provvedimento serio, capace di
ostacolare comportamenti corruttivi e punirli.
Ma così l’economia non vedrà
grandi opere realizzate nei tempi previsti. Sarà ancora un
balletto di varianti e sospensioni dei lavori per imprevisti
e sorprese geologiche, archeologiche, ecc. Così non
sorprende che i lavori vadano a rilento, costino due o tre
volte quanto preventivato in un rinfacciarsi di
responsabilità che non è facile individuare da parte dei
giudici, perché intervengono continuamente fatti i quali
introducono nei procedimenti decisioni che modificano
continuamente gli scenari.
Una legge sulla corruzione va,
dunque, fatta. Non eliminerà completamente uno dei mali più
antichi nella gestione delle risorse pubbliche, che ha
caratterizzato, fin dall’antichità, democrazie e dittature,
ma potrà frenare i comportamenti più scandalosi, troppo
spesso sottolineati da lodi arbitrali nei quali le
amministrazioni sembra si presentino con la testa piegata
per porgerla alla mannaia del boia.
30 agosto 2012
Le sanzioni amministrative
nel Paese dei balocchi
(funzionano solo quelle del
Codice della strada)
di Salvatore Sfrecola
Non sappiamo al momento che fine farà il provvedimento predisposto
dal Ministro Balduzzi, contenente prescrizioni in materia di
salute con previsione anche di norme in materia di giochi,
impallinato da destra e da sinistra sotto vari profili,
perfino di costituzionalità, perché, incidendo su stili di
vita dai riflessi indubbiamente sanitari (obesità, fonte di
diabete, ecc, per quanto riguarda le bevande gassate e
alcoliche), avrebbe, a detta di alcuni, leso diritti
costituzionalmente tutelati quanto alla libertà individuale.
Se vero sarebbe uno svarione non da poco, considerato il
Prof. Renato Balduzzi, dal 2011 è ordinario di Diritto
costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dopo aver tenuto
a lungo il medesimo insegnamento nell’Università del
Piemonte orientale.
Tuttavia non intendo affrontare il tema della presunta
incostituzionalità di alcune norme portate ieri
all’attenzione del “preconsiglio”, la riunione preparatoria
del Consiglio dei ministri, e, a quanto sembra, rimaste in
stadby in attesa di ulteriori approfondimenti, per fare,
invece, alcune considerazioni sulle sanzioni che, secondo
stampa e televisione, sono ivi stabilite in caso di
violazione dei vari divieti previsti delle quali, peraltro,
non conosco le caratteristiche di applicazione.
Perché è questo il problema. Le sanzioni amministrative, istituite
in vari settori, anche con riguardo a materie già oggetto di
disciplina penale, non hanno fin qui fatto buona prova. Se
si escludono, infatti, le sanzioni in materia di violazione
del Codice della strada, la farraginosità del meccanismo di
accertamento, di istruttoria e di irrogazione delle
sanzioni, soggette a varie impugnazioni, non è assolutamente
efficace. Qualcuno ricorderà, al riguardo, la notizia, di
alcuni anni fa, che presso molte prefetture erano state
prescritte sanzioni amministrative per molti miliardi. Non
era colpa naturalmente dei prefetti e dei loro
collaboratori, forse del numero insufficiente di funzionari
addetti a curare la materia. Ma è stata indubbiamente
conseguenza della complessità del procedimento.
In materia di sanzioni per violazione del divieto di fumo, ad
esempio, sono pronto a scommettere che sia gli accertamenti
che le riscossioni saranno stati pochissimi. Starei per dire
inesistenti, come le sanzioni per la defecazione dei cani,
stabilite dal Comune di Roma ed anche qui sono certo che
esse non sono state applicate. E non solo in relazione
all’evidente stato delle strade soprattutto al centro della
Capitale.
Tuttavia sono pronto
a fare ammenda se ministeri e comune dimostreranno, dati di
bilancio alla mano, che non è così, che le sanzioni per le
violazioni accertate sono state regolarmente riscosse.
Torniamo al divieto di fumo, che attiene alla salute dei singoli ed
ai costi che, per effetto della violazione di quel divieto,
subisce la società, per gli aggravi delle cure a carico del
Servizio Sanitario Nazionale impegnato ad affrontare una
serie di patologie delle quali sono sovente affetti i
fumatori.
In origine, dunque, era la legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto
di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto
pubblico).
Poi è venuta la legge 16 gennaio 2003, n. 3
(Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica
amministrazione) che all’art. 51 (Tutela della salute dei
non fumatori), vieta di fumare nei locali chiusi, ad
eccezione di:
a)
quelli privati non aperti ad
utenti o al pubblico;
b)
quelli riservati ai fumatori e
come tali contrassegnati.
Il comma 5 stabilisce che alle infrazioni al divieto “si applicano le sanzioni di cui all'articolo 7 della legge 11
novembre
1975, n. 584, come sostituito dall'articolo 52, comma 20,
della legge 28 dicembre 2001, n. 448”.
Norma severissima che prevede
la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 25 ad euro 250; la misura
della sanzione e' raddoppiata qualora la violazione sia
commessa in presenza di una donna in evidente stato di
gravidanza o in presenza di lattanti o bambini fino a
dodici anni. E via di seguito aggravanti varie da far valere
ai sensi dell'art. 17 della legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) il quale
prevede che qualora non sia
stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il
funzionario o l'agente che ha accertato la violazione... deve
presentare rapporto, con la prova delle eseguite
contestazioni o notificazioni, all'ufficio periferico cui
sono demandati attribuzioni e compiti del Ministero nella
cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce
la violazione o, in mancanza, al prefetto.
La violazione, quando sia possibile, deve essere contestata
immediatamente al trasgressore, il quale è ammesso a pagare
il minimo della sanzione nelle mani di chi accerta la
violazione (art. 8).
Se non sia avvenuta la contestazione personale al
trasgressore, gli estremi della violazione debbono essere
notificati agli interessati residenti in Italia entro il
termine di trenta giorni dall'accertamento.
Qualora il pagamento non avvenga immediatamente, il
trasgressore può provvedervi, entro il termine perentorio di
quindici giorni dalla data di contestazione o della
notificazione, anche a mezzo di versamento in conto corrente
postale nel luogo e con le modalità indicate nel verbale di
contestazione della violazione.
Ai se3nsi dell'art. 9 i soggetti legittimati ad accertare le infrazioni, ai sensi
delle norme richiamate dall'articolo 2 della presente legge,
qualora non abbia avuto luogo il pagamento di cui all'art. 8, presentano rapporto al prefetto con
la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni.
Il prefetto, se ritiene fondato l'accertamento, sentiti gli
interessati ove questi ne facciano richiesta entro quindici
giorni dalla scadenza del termine utile per l'oblazione,
determina, con ordinanza motivata, la somma dovuta per la
violazione entro i limiti, minimo e massimo, stabiliti dalla
legge e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese per
le notificazioni, all'autore della violazione.
L'ingiunzione prefigge un termine per il pagamento stesso,
che non può essere inferiore a trenta giorni e superiore a
novanta giorni dalla notificazione.
L'ingiunzione costituisce titolo esecutivo.
Contro di essa gli interessati possono proporre azione
davanti al pretore del luogo in cui è stata accertata la
violazione entro il termine massimo prefisso per il
pagamento.
Salvo quanto è disposto dall'articolo 9, l'art. 10 prevede
che decorso il termine
prefisso per il pagamento, alla riscossione delle somme
dovute, su richiesta della Amministrazione della sanità
procede l'Amministrazione finanziaria, mediante esecuzione forzata
con la osservanza delle norme del testo unico approvato con
R.D. 14 aprile 1970, n. 639, sulla riscossione coattiva
delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti
pubblici.
Amen!
Credo che difficilmente sarebbe possibile immaginare
un meccanismo più farraginoso. Alcuni lo definirebbero
“garantista”, ma credo che una persona di buon senso non
possa ritenere questo meccanismo idoneo ad assicurare
l’efficacia di una disposizione sanzionatoria, come
dovrebbe, per definizione la norma che l’applica.
Indipendentemente dall’esito che avrà la riflessione sul
decreto Balduzzi, il Governo dovrà rivedere la materia delle
sanzioni amministrative, una vicenda che fa poco onore al
legislatore italiano, come spesso accade, equivoco quando si
tratta di adottare i meccanismi che devono rendere efficace
una sanzione. Sembra cioè, come ho scritto in altra
occasione, che le leggi si fanno per soddisfare una parte
della popolazione e si rendono inapplicabili per
accontentare l’altra parte, quella che i divieti non li
vuole. Qualcuno direbbe “una legge all’italiana”,
un’espressione che mi offende come cittadino e come
giurista.
Ma è così.
29 agosto 2012
Dietro gli
insulti niente
di Senator
Unanime verdetto, questa
mattina, dei partecipanti ad Omnibus, la trasmissione
di approfondimento de La7. La raffica di insulti che
ha caratterizzato nelle ultime 48 ore, in un crescendo mai
visto, il confronto politico, zombie, cadaveri viventi,
fascisti del web, falliti, piduisti, dimostra una sola cosa:
l’assoluta mancanza di idee. Ha cominciato Mario Sechi,
direttore de Il Tempo, richiamando il senso delle
parole non sotto il profilo semantico ma quale dimostrazione
del livello al quale è sceso il dibattito. E ne ha dedotto
che se l’avversario viene insultato vuol dire che gli
interlocutori hanno, chi più chi meno, una scarsa
disponibilità di concetti, di proposte, di programmi, tenuto
conto che siamo all’inizio di una campagna elettorale che in
vista di una scadenza storica, il ritorno alla politica dopo
la parentesi del governo tecnico e l’elezione del Presidente
della Repubblica, dovrebbe suscitare ben più meditate
riflessioni nei protagonisti della vita politica. Scadenze
importanti, difficili da affrontare per partiti che hanno la
consapevolezza che, giudicando dalla storia parlamentare
italiana, almeno degli ultimi venti anni, nessuno dei
partiti in campo con i possibili alleati ha la ragionevole
previsione di prevalere in modo da formare una maggioranza
capace di assicurare la governabilità del Paese.
Perché di questo si tratta,
quando si sente il balletto delle ipotesi di larghe o
piccole coalizioni a geometria variabile tra la campagna
elettorale e gli esiti della stessa, con la conseguenza che
si sente sempre più spesso fare il nome di Mario Monti come
Presidente del Consiglio nella futura legislatura.
Naturalmente i leader politici, che si apprestano a chiedere
il voto al loro elettorato, non ipotizzano un Monti bis,
anzi negano decisamente la praticabilità di una simile
prospettiva. E non c’è da stupirsi perché un candidato
premier, come Pierluigi Bersani, che si è particolarmente
distinto nell’esorcizzare l’ipotesi di un nuovo incarico a
Monti nel 2013, avrebbe inevitabilmente perso la faccia se
avesse, quale leader di un Partito, il Democratico, e
di una coalizione, con Sinistra Ecologia e Libertà,
di Niki Vendola, prospettato un Governo guidato dal
professore della Bocconi all’esito delle elezioni del
prossimo maggio. Ma anche Bersani sa bene che la sua
eventuale prevalenza nelle elezioni non gli consentirebbe di
disporre di una maggioranza capace di governare. Sarebbe più
o meno il Prodi del 2013, qualunque sia il premio di
maggioranza che fosse definito nella, sempre più ardua,
riforma elettorale, dacché in sede di revisione del
porcellum tutti i partiti stanno attenti che le norme
non favoriscano i concorrenti.
Pertanto, in assenza di
programmi che ci dicano come risolvere il problema del
debito pubblico, al di là di ricorrenti fantasiose ipotesi
di alienazioni di beni dello Stato, dell’insopportabile
carico fiscale, della disoccupazione crescente, della
recessione che segna punti negativi sul PIL, partiti senza
idee, come non ne hanno avute negli anni scorsi, chi ha
governato e chi ha fatto una finta opposizione, incapaci di
formulare ipotesi che abbiano la connotazione della
credibilità e della realizzabilità e siano capaci di
suscitare consenso, ricorrono all'insulto. Uno spettacolo
del quale gli italiani sono stufi.
27 agosto 2012
Dopo il Consiglio dei ministri in forma
“seminariale”
Osare per crescere
di Salvatore Sfrecola
Al termine della riunione
del Consiglio dei ministri del 24 agosto, nove ore di
discussione definita dai più “seminariale”, a testimonianza
che l’occasione era soprattutto destinata, com’era logico
che fosse dopo le ferie estive, ad una messa a punto
dell’agenda del Governo per i prossimi mesi, tra le varie
dichiarazioni e battute riportate dai giornali e dai
telegiornali spicca quella del Ministro dell’economia
Vittorio Grilli il quale avrebbe affermato, riprendo dal
Corriere, che i progetti di sviluppo “dovranno stare
entro le risorse disponibili”. Che il ministro spera
arrivino dalla revisione delle agevolazioni fiscali, dalla
valorizzazione dei beni pubblici, dalla revisione della
spesa pubblica.
È la classica scoperta
dell’acqua calda. Se non ci sono risorse non si possono fare
nuove spese. Affermazione si direbbe, absit iniuria
verbis, ragioneristica (Grilli è stato Ragioniere
generale dello Stato), sicuramente coerente con l’esigenza
di fare il passo secondo la gamba, come invita la prudenza
popolare, ma è certo che se si vuol crescere occorre anche
un po’ di fantasia ed anche una dose, sia pure prudente, di
audacia. Non solo perché, per dirla con Virgilio,
audentes fortuna iuvat, ma perché non si può attendere
il realizzarsi delle risorse, occorre provocarne la
formazione attraverso iniziative capaci di stimolare la
crescita, che significa nuove produzioni, nuovi posti di
lavoro, nuove disponibilità per le famiglie, ripresa del
mercato interno. Il tutto con nuove entrate fiscali, dalle
produzioni, dai posti di lavoro, dagli acquisti delle
famiglie. Per questo la demonizzazione dell’IVA meriterebbe
qualche riflessione che non si fa.
La crescita richiede
fiducia anche negli imprenditori che per “osare”, e giovarsi
della fortuna che assiste gli “audentes”, devono percepire
possibilità di crescita, partendo dagli investimenti
necessari a diversificare ed aumentare le produzioni, che le
banche non finanziano e che il Governo non assiste
attraverso mirati, prudenti incentivi fiscali.
Ho sempre ritenuto che il
fisco sia lo strumento di elezione della politica economica,
flessibile e di immediati effetti, per questo ho visto con
favore l'iniziativa del Viceministro per le infrastrutture,
Mario Ciaccia, che ha proposto di eliminare l’IVA sulle
grandi opere, convinto che l’iniziativa possa generare nuove
entrate attraverso la velocizzazione di un settore
fondamentale per il Paese. Certo vanno studiati gli effetti
dal punto di vista della tenuta dei conti.
Ma questa è la strada “la
fantasia al Governo”, avrebbe detto Tommaso Marinetti. È
stato sempre così, come per le semplificazioni, troppo
timide, assolutamente inadeguate all’esigenza del momento.
Naturalmente anche in questo caso, in un Paese
dall’autocertificazione facile, falsa “tanto nessuno
controlla”, occorre verificare come attuare semplificazioni
che non distorcano il mercato alterandone le regole, nel
senso di danneggiare gli operatori economici onesti, quelli
che le leggi le rispettano.
Ma nel 2012, nell’era
dell’informatica nella quale il codice fiscale permette di
individuare tutti i soggetti che operano in rapporto alle
pubbliche amministrazioni, con una griglia di adempimenti
verificabili attraverso banche dati ad hoc, anche il
timore che le semplificazioni aiutino solo i furbi va
ridimensionato.
L’Italia e gli operatori
economici non possono aspettare che le entrate dello Stato
siano accertate, riscosse e versate in tesoreria, come
prescrive la legge di contabilità dello Stato. È solo
necessario che gli accertamenti siano verificabili, che le
previsioni siano certe. Ma a questo provvede la Ragioneria
Generale dello Stato.
Anni addietro Andrea
Monorchio, Ragioniere Generale, mi parlava di un modello
econometrico del quale esaltava la capacità di tenere sotto
controllo i conti e di elaborare previsioni in ogni settore.
Che fine ha fatto se non possiamo giocare d’anticipo, osare
nell’interesse del Paese?
26 agosto 2012
Il taccuino
del
Direttore
C’è Sinistra e Sinistra (i fatti di
Holland e le chiacchiere di Prodi e Bersani).
I giornali ne parlano poco. “Ecco cosa ha fatto Hollande
(non parole, fatti) in 56 giorni di governo:
- ha abolito il 100% delle auto blu e le ha messe all’asta;
il ricavato va al fondo welfare da distribuire alle regioni
con il più alto numero di centri urbani con periferie
dissestate.
- Ha fatto inviare un documento (dodici righe) a tutti gli
enti statali dipendenti dall’amministrazione centrale in cui
comunicava l’abolizione delle “vetture aziendali” sfidando e
insultando provocatoriamente gli alti funzionari, con frasi
del tipo “un dirigente che guadagna 650.000 euro all’anno,
se non può permettersi il lusso di acquistare una bella
vettura con il proprio guadagno meritato, vuol dire che è
troppo avaro, o è stupido, o è disonesto. La Nazione non ha
bisogno di nessuna di queste tre figure”. Touchè. Via con le
Peugeot e le Citroen.
- 345 milioni di euro risparmiati subito, spostati per
creare (apertura il 15 agosto 2012) 175 istituti di ricerca
scientifica avanzata ad alta tecnologia assumendo 2.560
giovani scienziati disoccupati “per aumentare la
competitività e la produttività della nazione”.
- Ha abolito il concetto di scudo fiscale (definito
“socialmente immorale”) e ha emanato un urgente decreto
presidenziale stabilendo un’aliquota del 75% di aumento
nella tassazione per tutte le famiglie che, al netto,
guadagnano più di 5 milioni di euro all’anno.
- Con quei soldi (rispettando quindi il fiscal compact)
senza intaccare il bilancio di un euro ha assunto 59.870
laureati disoccupati, di cui 6.900 dal 1 luglio del 2012, e
poi altri 12.500 dal 1 settembre come insegnanti nella
pubblica istruzione.
- Ha sottratto alla Chiesa sovvenzioni statali per il valore
di 2,3 miliardi di euro che finanziavano licei privati
esclusivi, e ha varato (con quei soldi) un piano per la
costruzione di 4.500 asili nido e 3.700 scuole elementari
avviando un piano di rilancio degli investimenti nelle
infrastrutture nazionali.
- Ha istituito il “bonus cultura” presidenziale, un
dispositivo che consente di pagare tasse zero a chiunque si
costituisca come cooperativa e apra una libreria
indipendente assumendo almeno due laureati disoccupati
iscritti alla lista dei disoccupati oppure cassintegrati, in
modo tale da far risparmiare soldi della spesa pubblica,
dare un minimo contributo all’occupazione e rilanciare dei
nuovi status sociale. - Ha abolito tutti i sussidi
governativi a riviste, rivistucole, fondazioni, e case
editrici, sostituite da comitati di “imprenditori statali”
che finanziano aziende culturali sulla base di presentazione
di piani business legati a strategie di mercato avanzate.
- Ha varato un provvedimento molto complesso nel quale si
offre alle banche una scelta (non imposizione): chi offre
crediti agevolati ad aziende che producono merci francesi
riceve agevolazioni fiscali, chi offre strumenti finanziari
paga una tassa supplementare: prendere o lasciare.
- Ha decurtato del 25% lo stipendio di tutti i funzionari
governativi, del 32% di tutti i parlamentari, e del 40% di
tutti gli alti dirigenti statali che guadagnano più di 800
mila euro all’anno. Con quella cifra (circa 4 miliardi di
euro) ha istituito un fondo garanzia welfare che attribuisce
a “donne mamme singole” in condizioni finanziarie disagiate
uno stipendio garantito mensile per la durata di cinque
anni, finché il bambino non va alle scuole elementari, e per
tre anni se il bambino è più grande. Il tutto senza toccare
il pareggio di bilancio.
Risultato: lo spread con i bond tedeschi è sceso, per magia.
E’ arrivato a 101 (da noi viaggia intorno oltre 400 punti).
L’inflazione non è salita. La competitività e la
produttività nazionale è aumentata nel mese di giugno per la
prima volta da tre anni a questa parte.
Hollande è un genio dell’economia? Non, ha semplicemente buon
senso.
Aveva previsto di incassare 155 milioni, ne ha riscossi solo
23.5 per la tassa di stazionamento
il fisco italiano diventato improvvisamente esoso con i
proprietari di barche, una di quelle iniziative demagogiche
assunte da un Governo, quello del Cavaliere, sotto la cui
gestione è progressivamente cresciuta l’evasione fiscale.
Una tassa contro il lusso delle unità da
diporto, divenuta per iniziativa del Governo Monti tassa “di
possesso” è stata facilmente schivata in un Paese, l’Italia,
con ottomila chilometri di coste vicine ad altre coste, le
francesi, innanzitutto, poi le greche, quelle dell’adriatico
orientale. Conseguenza, il calo delle entrate dei porti.
Ora è certo giusto che i proprietari di barche,
più o meno lunghe, paghino, ma imposte e tasse devono tener
conto della loro capacità di dissuasione, oltre un certo
limite. E così abbiamo aiutato i porti dei paesi limitrofi.
Poi c’è il problema dei controlli in mare.
Giustissimi per verificare la regolarità dei mezzi, anche
sotto il profili della dotazioni di sicurezza, ma anche qui
è mancato il coordinamento, così accade che una barca sia
controllata più volte nella stessa giornata, da Guardia
Costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato
e Municipale, Guardia forestale e Penitenziaria. Un mare
affollato! Ma basterebbe un minimo di coordinamento per
evitare un peso che dimostra innanzitutto inefficienza e
spesso è visto dagli utenti del mare come una sorta
persecuzione. Contro gli interessi nazionali, anche del
fisco, considerato che l’industria cantieristica è in
difficoltà e dalla diffusione della navigazione da diporto
deriva un utile anche per l’erario non indifferente.
È un errore criminalizzare un settore nel quale
l?Italia vanta (o vantava?) una buon posizione in Europa e
nel Mediterraneo. D’altra parte non esistono solo yacht di
venti e più metri, anche gommoni che costano quanto una
utilitaria.
Fisco vorace, fisco inefficace verrebbe da dire.
Che favorisce l’elusione e il passaggio all’estero di beni e
capitali. Altrimenti come avremmo lavoro nero ed evasione
fiscale?
“Snav ti porta in vacanza con il massimo della convenienza”,
così la pubblicità del trasporto passeggeri. La realtà è
un’altra. Sulla tratta Ancona Spalato e ritorno i vacanzieri
hanno constatato, a metà agosto, come tutto fosse molto
diverso da quanto avevano previsto.
All’andata il traghetto veloce che, in partenza
da Ancona, avrebbe dovuto salpare alle ore 11 è partito con
grave ritardo, mentre, al ritorno, la partenza prevista da
Spalato per le 17, è avvenuta oltre le 18 con arrivo alle 24
anziché alle 22, come previsto. In sostanza i passeggeri
hanno potuto lasciare la nave intorno all’1 di notte.
Nessuno ha chiarito i motivi del ritardo, il
mare grosso, che so, un ammutinamento! Solo annunci radio
per pubblicizzare paste e pizze.
Seguendo la pubblicità si legge che le linee Snav sono
attive sulle tratte Ancona-Spalato fino al 16 settembre! Che
“se le isole Eolie sono la tua meta ideale, puoi partire
da Napoli per
Stromboli, Panarea, Salina, Vulcano e Lipari
fino al 9 settembre”, che se hai
“voglia di esplorare la natura e i fondali di Ponza e
Ventotene Snav ti porta alle isole Pontine da Napoli ogni
sabato e domenica dal 7 luglio al 2 settembre”.
“Cosa aspetti?” si chiede la pubblicità. Che gli orari
previsti siano rispettati e se c’è un disguido, sempre
possibile in mare, che i passeggeri ne siano informati e
magari assistiti, a mo’ di risarcimento.
Disagi non indifferenti. Ma nessuno si è scusato.
Chissà se la direzione della SNAV è informata di queste
situazioni.
26 agosto 2012
Un centro politico affollato
Convergenze e conversioni
di Senator
Nell’incertezza del momento
politico, nel senso che non si sa quando si voterà, se a
novembre o a maggio, quali saranno le coalizioni e quali i
candidati a Presidente del Consiglio e quali a Presidente
della Repubblica, il palcoscenico è ingombro di personaggi
in cerca di un ruolo.
Le difficoltà del partito oggi
di maggioranza, il Popolo della Libertà, che non è
chiaro se schiererà ancora una volta Silvio Berlusconi come
candidato premier, l’incertezza della Sinistra, che sente la
difficoltà di vincere ove il Partito Democratico non
arruolasse Sinistra Ecologia e Libertà di Niki
Vendola, con la prospettiva di primarie con un numero di
candidati tale da far emergere in modo traumatico le varie
anime di quello schieramento e con il rischio di esodi che
potrebbero minarne l’immagine “socialdemocratica”, per
semplificare, si vanno manifestando variegate
convergenze al Centro i cui effetti non è, al momento,
facile valutare.
A fianco di Casini, che quella
posizione legittimamente occupa, come erede della
Democrazia Cristiana, e per la coraggiosa iniziativa di
correre da solo nel 2006, si agitano Fini e Rutelli, due
personaggi la cui storia politica è lontana da quella dell’Unione
dei Democratici di Centro il cui elettorato non ha mai
avuto simpatie per i postfascisti o per i postradicali, che
sente lontani dall’esperienza del centro cattolico,
vuoi per le posizioni laiciste assunte a far data dal voto
dell'ex leader di Alleanza Nazionale nel referendum
sulla legge 40, vuoi per le posizioni laiciste del
pannelliano Rutelli, anche se, a differenza di Fini, ha
fatto a suo tempo una sorta di conversione con una ben
pubblicizzata visita al Santo Padre Giovanni Paolo II.
Se, dunque, la posizione di
Casini, sul piano dei numeri, è fragile e non la rafforzano
le incerte schiere dei finiani e dei rutelliani, comunque
abilmente tenute a distanza dall'erede di Arnaldo Forlani,
non c’è dubbio che il centro possa contribuire in modo
significativo all’evoluzione della situazione politica nella
prospettiva di una nuova maggioranza dopo le elezioni. Non
solo perché potrebbe fare da "ago della bilancia",
considerato che sinistra e destra non sono in condizione di
far uscire dalle urne gruppi parlamentari di una consistenza
che renda sicura la navigazione del prossimo governo,
ma perché è da considerare che nella guerra di posizione
interviene non solo il nome del premier ma anche quello del
futuro Presidente della Repubblica, carica alla quale
aspirano in molti. Innanzitutto proprio Casini, il quale
potrebbe condizionare l’appoggio dell’UDC al futuro governo
con il consenso alla propria candidatura e lo stesso Monti.
Certo il professore della Bocconi non ha manifestato tale
desiderio ma se ne parla molto e questo ha una logica in
quanto il personaggio è indubbiamente ingombrante nel
dibattito del dopo elezioni e la sua “sistemazione” è un
passaggio obbligato, considerato che nessuno immagina che
voglia, sulle orme di Cincinnato, tornare ad insegnare o,
quanto meno, fare “solo” il senatore a vita. I partiti che
ne hanno appoggiato l’esperienza governativa non potrebbero
mai accantonarlo, anche per giustificare il loro impegno in
favore delle misure assunte dal Governo, ritenute impopolari
ma necessarie. Per cui delle due l'una, o resta Premier con
una maggioranza politica o sale sul colle più alto di Roma.
C’è, dunque,una convergenza al
Centro, spontanea o necessitata dalla prospettiva di
sopravvivere in politica (Fini e Rutelli) per chi non ha
adeguati consensi.
Tra convergenze e conversioni,
dunque, il Centro, quello che un tempo veniva definito “la
palude”, fuori dagli schieramenti ideologici della Destra e
della Sinistra, continua ad avere il suo fascino tra quanti
hanno assistito al fallimento dell’esperienza del Cavaliere
e delle promesse che aveva elargito a piene mani e quanti,
la maggioranza degli italiani, non sono disponibili a votare
un partito postcomunista, alleato dei comunisti duri e puri,
dove uno sparuto manipolo di cattolici “di sinistra” fanno
da specchietto delle allodole, fastidioso quanto
politicamente inconsistente, limitandosi più o meno ad una
difesa d’ufficio delle posizioni contrarie ai matrimoni
omosessuali. Troppo poco per costituire un riferimento
politico di qualche significatività all’interno di un
partito, quello democratico, che non riesce a somigliare ad
una sinistra occidentale moderna.
Guerra di posizioni, dunque, a
destra, a sinistra e al centro. Con incertezza sull’esito
del voto, quando sarà, e della governabilità di questo Paese
che ha bisogno di idee chiare e di capacità di realizzarle.
I partiti italiani,infatti, non hanno ancora capito che
nella classe dirigente vanno distinti i ruoli di governo e
parlamentari, ciò perché lo spirito di servizio che dovrebbe
guidare chi si mette in politica è merce poco diffusa e le
ambizioni personali, cui i dirigenti dei partiti spesso
danno inopinatamente spazio, ne danneggiano l’immagine
stessa. Governare e fare politica in Parlamento non è
proprio la spessa cosa, esige attitudini diverse. Aver
ignorato questa realtà è stato l’errore di Silvio Berlusconi
e dei suoi alleati che hanno fatto decadere la maggioranza
più grande della storia repubblicana ed affidato la gestione
del potere ad un governo “del Presidente” (della Repubblica)
di tecnici, alcuni dei quali digiuni di politica e con
scarsa attitudine a percepire le esigenze della politica,
cioè le esigenze dei cittadini.
23 agosto 2012
“Investimenti” nei quali non si investe
Investire in beni e attività culturali
di Salvatore Sfrecola
Pochi sanno che l’art. 10 della
legge 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni
culturali) qualifica “investimenti” gli interventi in
materia di beni culturali. Pertanto, negli ultimi anni, una
quota fino al tre per cento degli stanziamenti di bilancio
nel settore delle infrastrutture sono stati destinati ad
interventi a favore dei beni e le attività culturali.
La valutazione degli effetti
degli investimenti in cultura, attraverso note metodologie
di analisi ex ante ed ex post, per scegliere
dove investire le risorse e verificare che gli effetti della
spesa siano stati quelli previsti e sperati, utilizzando
l’analisi dell’impatto economico, una tecnica mutuata
dall’economia del turismo, consente di calcolare gli effetti
delle somme impiegate sull’economia del territorio (numero
dei visitatori, posti di lavoro, ecc.).
Mi auguro che i ministri
interessati, il Prof. Ornaghi, chiamato a dirigere il
dicastero dei beni culturali, la cui sensibilità ci è nota,
e il dottor Gnudi, preposto al settore del turismo, assumano
rapidamente decisioni che abbiano la capacità di effetti
ravvicinati. E mentre pensano a dove e come investire
adottino misure normative idonee a facilitare attività
culturali e turistico ricreative connesse al patrimonio
storico artistico favorendo tutte quelle iniziative che
possono mettere in campo risorse e lavoro, eliminando quei
lacci e lacciuoli che in Italia spesso frenano l’iniziativa
imprenditoriale non per verificabili e giuste esigenze di
sicurezza dei locali e degli ambienti di lavoro, ma per
antiche e superate o comunque non necessarie pratiche
burocratiche che assicurano soltanto “potere” a burocrazie
statali o, più spesso, locali.
Facciano funzionare il sistema,
considerando, ne ho fatto cenno prima, che il turismo
culturale ha un indotto enorme. Si pensi agli acquisti che
il turista è incentivato a fare stimolato dalla diversità
delle culture e delle tradizioni locali, dalle ceramiche
alle trine ricamate, dai vini ai prodotti alimentari più
diversi, che inducono lo straniero, ma anche il connazionale
in viaggio attraverso il Bel Paese, a portare con se
un ricordo del suo peregrinare tra monumenti e musei.
Questi turisti, al ritorno a
casa sono ambasciatori dell’Italia e delle singole realtà
visitate nel paese d’origine, preparano nuovi viaggi e ne
suggeriscono agli amici. Ad una condizione. Che
l’accoglienza sia civile, che non siano saccheggiati da
operatori poco seri e che siano forniti servizi adeguati
alle realtà dei nostri concorrenti turistici. Perché in tal
caso l’“ambasciatore” non trasmetterà un’immagine positiva
ma sarà indotto a sparlare di noi, magari anche sui
giornali.
Tra le varie iniziative che
sarebbero da adottare c’è anche quella di una polizia
turistica o di servizi di sicurezza nell’ambito delle
polizie attuali con capacità di assistenza linguistica e
operativa. Altri paesi hanno servizi di questo genere. Non
sarebbe difficile attuarli in Italia.
Possiamo sperarlo? O dobbiamo
trarre dalla perdurante mancanza del numero unico delle
emergenze sfiducia in questa possibilità di crescita?
23 agosto 2012
Un commento di Francesco Damato sulla vicenda
ILVA
Pericolosa confusione di idee
di Salvatore Sfrecola
“L'anno
orribile della giustizia all'italiana” per
Francesco Damato, che ne scrive su Il Tempo, è questo
2012. E se la prende con i magistrati i quali sarebbero
ricorsi a “furbizie”
“per sottrarsi alla dieta reclamata da un’opinione pubblica
costretta a stringere davvero la cinghia, i magistrati no”.
Essi, inoltre, “o quelli consapevolmente o inconsapevolmente
più politicizzati.. fanno indagini per riscrivere la storia
del Paese più che per scoprire reati e trovarne i
responsabili”, o “scambiano per reato il profitto in una
impresa, hanno continuato imperterriti a ritenere di potere,
anzi di dovere sostituirsi alla politica”.
“È emblematico, a questo proposito, - scrive Damato - ciò
che è accaduto, sta accadendo ed è destinato ad accadere
ancora a Taranto attorno alla vicenda dell’Ilva. Specie dopo
l’ultima decisione della giudice Anna Patrizia Todisco, che
spero sia rossa solo di capelli, decisa a compromettere le
sorti dell’acciaieria, e di decine di migliaia di posti di
lavoro, nonostante gli spiragli lasciati aperti dal
tribunale del riesame ad una soluzione ragionevole di
compromesso. Che sapesse e sappia conciliare la lotta
all’inquinamento e la salvaguardia dell’occupazione e, più
in generale, del sistema industriale”. Per cui “ci voleva un
governo tecnico, senza le consuete proteste o preoccupazioni
del Pd, o addirittura con il suo consenso, almeno fino al
momento in cui scrivo… perché il ministro della Giustizia
chiedesse l’acquisizione degli atti giudiziari che stanno
compromettendo le sorti dell’acciaieria e dei suoi
dipendenti, in curiosa concorrenza con i guasti ambientali
da essa prodotti. E perché il presidente del Consiglio
disponesse la partenza di altri ministri per Taranto, in
modo da dimostrare anche visivamente che lo Stato -sì, lo
Stato- non è solo il titolare di un ufficio giudiziario, per
quanto subito coperto dalla solidarietà della sua
associazione, o sindacato. E perché ancora, o soprattutto,
si reagisse alla estemporanea decisione di un giudice
preparandosi a contestarne la legittimità davanti alla Corte
Costituzionale con un nuovo conflitto di attribuzione, o di
potere”.
La citazione è lunga ma non
poteva essere diversamente perché i lettori comprendano,
come spero abbiano compreso i lettori de Il Tempo,
sul quale Damato è impegnato da qualche tempo, mi sia
consentito il bisticcio, a scrivere di giustizia (con la “g”
minuscola, come lui stesso scrive) con un taglio coerente
alla sua posizione politica ed alle sue esperienze
professionali, rispettabilissime, ovviamente, l’una e le
altre ma confinate in un ambito che potremmo definire
costantemente paragovernativo, dalla direzione de Il
Giorno, alle collaborazioni a Il Giornale.
Cominciamo col dire
che non so a cosa si riferisca Damato quando fa intendere
che i magistrati si sarebbero sottratti alla stretta di
cinghia che il Governo ha imposto agli italiani. S'informi,
i magistrati hanno avuto un'immediata decurtazione degli
stipendi a partire dal 2010, quindi prima del Governo Monti,
come conseguenza di un decreto-legge di Berlusconi che ha
falcidiato il trattamento economico dei dipendenti pubblici,
di tutti.
Ho cercato su google una
biografia del Nostro che arricchisse la mia memoria e
non ne ho trovata nessuna, anche se un ironico pezzo di
Giuliano Ferrara ne ricorda la vicinanza al potere. Anche
Cazzullo scrive della sua prossimità al mondo Fininvest.
Niente di male, ognuno di noi
ha amicizie ed idee politiche che giustamente difende e
diffonde, come può.
Però Damato, a mio modesto
avviso, si muove con difficoltà nel mondo del diritto
ritenendo, evidentemente, che compito dei giudici sia quello
di fare politica industriale, ovvero di assistere la
politica industriale del Governo o delle imprese. Sbagliato.
I giudici applicano la legge e cercano di farla rispettare
così a Taranto un giudice, sul quale Damato ironizza a causa
del colore dei capelli (rossi), che sia augura non sia il
colore delle sue idee politiche, non a suo arbitrio, ma
sulla base di accertamenti tecnici, verificato che gli
impianti inquinano l’ambiente con gravi danni per la salute
ha adottato i provvedimenti conseguenti, quelli che la legge
prescrive. Non si è trattato, quindi, di una “estemporanea”
decisione.
Il giudice rappresenta lo
Stato. Non lo Stato potere esecutivo, di Monti, Passera e
Clini, quello che chiamiamo lo Stato-persona, ma lo
Stato-ordinamento, la legge cui anche il potere esecutivo è
soggetto. Con delle regole, compreso anche l’eventuale
ricorso del Governo alla Corte costituzionale ove ritenga
violata una sua prerogativa costituzionalmente definita,
come nel caso il giudice si intromettesse in competenze
proprie dell’Amministrazione.
Ciò che nella specie non è
avvenuto. Il giudice, infatti, non ha adottato provvedimenti
incidenti sulla “politica industriale” del Governo, come
incautamente qualcuno aveva affermato, come se avesse
fornito indicazioni all’impresa in ordine alla produzione,
ma ha adottato, come già detto, il provvedimento previsto
dalla legge in presenza di condizioni, dalla stessa legge
stabilite, concernenti il tasso di inquinamento ritenuto
pregiudizievole della salute delle persone, lavoratori ed
abitanti di Taranto.
Non spetta al giudice stabilire
eventuali modalità di prosecuzione della produzione, ma il
Governo può certamente adottare un provvedimento di legge,
cosiddetto di legge-provvedimento, in quanto riferito al
caso concreto ILVA, che, incidendo sulla normativa vigente,
cioè in deroga, stabilisca tempi e modalità del risanamento.
Non sarebbe una novità.
Quel che va evitato, profilo
che evidentemente Damato ha trascurato, è la sovrapposizione
di competenze, nel senso che si scarichi sul giudice
responsabilità per errori o inadempimenti dell’impresa che
l’Autorità amministrativa non ha verificato o tollerato.
Ognuno faccia la sua parte.
Ricordo anni addietro, da
magistrato della Corte dei conti responsabile
dell’istruttoria di un decreto di finanziamento del Servizio
Sanitario Nazionale, che, ad alcune osservazioni in punto di
diritto che sconsigliavano la registrazione, mi veniva detto
che avevo certamente ragione ma che, ove il provvedimento
fosse stato fermato, ne andavano di mezzo gli stipendi del
mese successivo degli addetti alle ASL.
Replicai che non era un
problema mio. Perché nel nostro sistema il Parlamento fa le
leggi, l’Amministrazione le applica, i giudici accertano che
siano applicate correttamente.
Questo non era avvenuto. Le
indicazioni del Parlamento, contenute in una legge
finanziaria che stabiliva dei parametri per la spesa
sanitaria, non erano stati rispettati e la Corte dei conti,
giudice della legittimità, non avrebbe potuto ammettere al
visto il provvedimento.
La querelle andò avanti
per qualche giorno, finché il Governo adottò un
provvedimento d’urgenza, un decreto-legge, con il quale
sanava i vizi dell’atto sottoposto a controllo.
Ne fui soddisfatto. La legge
era stata rispettata. Compresi anche – sono passati oltre 25
anni – che la difficoltà dell’esecutivo consisteva nel non
far emergere la grave situazione finanziaria del Servizio
Sanitario Nazionale che il decreto avrebbe in qualche modo
certificato.
In un sistema costituzionale,
in uno stato di diritto, si rispettano le competenze. Lo
afferma anche il Trattato istitutivo della Comunità
economica europea, oggi Unione europea, che pone alla base
del funzionamento delle istituzioni il principio cosiddetto
di attribuzione delle competenze.
Damato preferisce evidentemente
un ordinamento nel quale i giudici non disturbino il
manovratore. Ma sono altri ordinamenti che non sono
qualificati “di diritto” e non applicano quella separazione
di poteri, in forma di distinzione di funzioni, che il
barone di Montesquieu aveva indicato a metà Settecento come
regola per superare lo stato assoluto, così ponendo le
regole che la Rivoluzione Francese avrebbe adottato e
diffuso negli ordinamenti europei.
20 agosto 2012
Presidente Monti, attenzione all’uso delle parole
“Abuso” riferito ad un magistrato significa illecito
di Salvatore Sfrecola
Un uomo di Governo ha il
dovere di essere attento nelle sue dichiarazioni. Le parole
hanno sempre un significato che ha riflessi politici, in
particolare sull’opinione pubblica. E quando si tratta di
questioni attinenti alla Giustizia le parole hanno un
significato giuridico preciso. Per cui se il Premier, come
si legge su Blitz Quotidiano dice ai giudici: “Basta
con gli abusi”, indica un comportamento in qualche misura
illecito. Con le conseguenze che ne derivano nei confronti
degli accusati e della gente che apprende, dalle parole del
Presidente del Consiglio, che non è un politico qualunque ma
un docente universitario di prestigio, che i giudici,
coloro, cioè, che devono fare giustizia ed assicurare la
pacifica convivenza dei cittadini (ne cives ad arma ruant),
abusano in qualche modo del loro potere. Ciò che, in prima
approssimazione, evoca un’espressione, l’“abuso”, appunto,
cui il codice penale riconduce fattispecie varie previste e
punite nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro
la pubblica amministrazione (Capo primo del Titolo secondo).
E se il Prof. Monti, come molto più probabilmente è
avvenuto, ha usato una espressione generica ciò non è meno
grave, trattandosi di materia sensibile riferita ai giudici.
E, in tal modo, idonea, tra l’altro, a trasmettere,
dall’alta cattedra dalla quale proviene, una qual
delegittimazione dei magistrati agli occhi dei cittadini che
ad essi si rivolgono per avere giustizia.
Non entro nel dettaglio
della polemica, nella quale è intervenuta sia l’Associazione
Nazionale Magistrati, sia il Procuratore aggiunto presso
il Tribunale di Palermo, Antonio Ingroia, che si è sentito
chiamato direttamente in causa in relazione alla vicenda
delle intercettazioni per le quali il Presidente della
Repubblica si è rivolto alla Corte costituzionale ritenendo
che sia stata violata una sua prerogativa costituzionalmente
garantita.
Nulla di male se
un’autorità, anche la più alta della Repubblica, ritiene di
adire la Consulta. È un suo diritto esercitato ai sensi di
legge. E in tale ambito va mantenuta la querelle
giudiziaria. Nessuno si deve offendere se chi ritiene di
essere stato leso in un proprio diritto lo fa valere davanti
al giudice competente. Altra cosa è trarre da una ordinaria
azione processuale l’occasione per buttarla in politica.
Naturalmente si può fare. La politica, il Governo e il
Parlamento stanno lì proprio per correggere eventuali norme
che nella prassi fossero state oggetto di ricorrente, errata
applicazione.
Ma va chiarito il senso
della circostanza che muove il titolare della funzione di
iniziativa legislativa. Che la gente deve capire.
Altrimenti il rischio è di
sentirsi dire, come ha fatto Ingroia, che “È la politica che
sconfina”, con la conseguenza che l’Associazione
Nazionale Magistrati rincara la dose: “Intervento
improprio (quello del Presidente del Consiglio, n.d.A.),
aspetti le decisioni della Corte Costituzionale”.
E così si riproduce quel
contrato tra politica e magistratura, tra giudici e politici
che non fa bene al Paese.
Inoltre c’è da
sottolineare che la delicatezza della vicenda oggetto delle
investigazioni della Procura della Repubblica di Palermo –
il presunto accordo Stato – Mafia dopo le stragi del 1992 –
avrebbe dovuto sconsigliare di allargare la polemica, che
naturalmente induce ad ulteriori sospetti. Con molta
opportunità, in una dichiarazione di qualche giorno fa,
proprio il P.M. Ingroia aveva fatto presente che se il
Governo avesse ritenuto che ne ricorressero la condizioni
avrebbe potuto apporre il “segreto di Stato” sulla vicenda.
Un segreto che non è, se correttamente usato, un abuso,
tanto per usare il linguaggio del Premier, ma una corretta
utilizzazione di uno strumento normativo che tiene conto dei
supremi interessi dello Stato su fatti da non divulgare.
Questo tanto su vicende interne che estere.
Invece il Premier, forse
male consigliato, considerata la sua formazione
economicistica e non giuridica, si avventura in una materia,
quella delle intercettazioni, che da sempre tocca un nervo
scoperto dei politici, tenuto conto che, due su tre, ad
essere intercettato, è un politico intento a sbrigare affari
personali o di partito.
Quei politici, diciamola
tutta, che vorrebbero eliminare le intercettazioni come
mezzo di accertamento dei reati, soprattutto di corruzione,
concussione e truffa ai danni dello Stato, e traggono spunto
dall’impropria diffusione del testo di alcune
intercettazioni per tornare alla carica allo scopo di
ottenere una modifica della normativa vigente.
Attenzione. Distinguiamo
l’intercettazione dalla diffusione che ne fa la stampa
nell’esercizio di un potere di cronaca che non può essere
compresso ma non deve neppure dar luogo ad esercizi
inutilmente diffamatori.
È un profilo delicato, che
comporta l’equilibrio tra due diritti fondamentali, quello
alla repressione degli illeciti e quello alla riservatezza
di tutto quanto non è giuridicamente rilevante.
A parole sono tutti
concordi nel comprendere la differenza tra i due profili
d’interesse generale. Nella pratica si vorrebbe
surrettiziamente comprimere la funzione investigativa in
modo da limitare i danni a chi opera nell’illecito. Lo si fa
in vario modo, ad esempio limitando il tempo delle
intercettazioni, come se un malavitoso e il suo referente
politico ad ogni telefonata si raccontino di quel che
progettano o fanno. A volte servono mesi per poter cogliere
da una frase un profilo di interesse investigativo, magari
con riferimento ad altro soggetto in quel momento non
intercettato.
Quanto, poi, ai costi
delle intercettazioni (che potrebbero essere contenuti se lo
Stato intercettasse in proprio anziché rivolgersi a privati)
essi sono una conseguenza dell’attività investigativa in un
Paese che ha 120 miliardi di evasione fiscale e 60 miliardi
di corruzione, ogni anno. L’una e l’altra strettamente
collegate in quanto la mazzetta, com’è noto, si paga in
nero.
E poi si finisca per dire
che in Italia le intercettazioni sono più di quelle che fa
la magistratura in altri paesi, perché altrove, ad esempio
negli Stati Uniti, intercettano tutti, mentre da noi è
compito esclusivo dei giudici.
Non si tratta, dunque, di
pro-giudici o contro-giudici, come si legge su alcuni
giornali. È un fatto di giustizia consentire le
intercettazioni delle quali le persone perbene non hanno
nulla da temere.
Si puniscano gli abusi se
ce ne sono, nell’esercizio della funzione inquirente ed in
quella della informazione. Ma si eviti di dare in pasto
all’opinione pubblica polemiche generiche e forse
strumentali, magari per distrarre i cittadini da tasse e
balzelli vari dei quali, giorno dopo giorno, sentono il peso
sempre più grave.
19 agosto 2012
Se le tasse che non si possono ridurre
almeno fatele pagare a tutti
di Salvatore Sfrecola
Dalla sua vacanza svizzera il Presidente del Consiglio ha
fatto sapere, per correggere talune improvvide
“anticipazioni” di ambienti governativi che preannunciavano
riduzioni di imposte, che non ci sono le condizioni per
queste misure.
“Per adesso non si può fare”, ha detto il Prof. Monti.
Anzi, tra imposte,
tasse e tariffe è probabile che il peso sulle spalle degli
italiani sia destinato a qualche eufemistico “ritocco”,
naturalmente al rialzo.
Dalle dichiarazioni del Premier ha tratto lo spunto Nicola
Saldutti sul Corriere della Sera di ieri per qualche
riflessione in prima pagina: “Più della promessa di ridurre
le tasse vale l'impegno per non aumentarle”, è il titolo. “Le
promesse rientrano a pieno diritto nell'attività di governo.
A patto che vengano rispettate, però. O almeno così dovrebbe
essere”, scrive Saldutti. Che ricorda “un territorio nel
quale, soprattutto negli ultimi anni, c'è stata la (cattiva)
abitudine di non mantenerle quasi mai: la riduzione delle
tasse”.
Cominciò Berlusconi nel 1994 promettendo nel “contratto con
gli italiani" che le avrebbe diminuite, come ha continuato a
promettere anche negli anni successivi, sempre alla vigilia
delle elezioni. Del resto il Cavaliere aveva anche promesso
un milione di nuovi posti di lavoro!
Il fatto è che le imposte costituiscono uno strumento
essenziale di politica economica, non solo, come scrive
Saldutti, perché “reggono l'architrave del bilancio
pubblico”. Aggiungendo che “con un vincolo esterno come il
debito, che solo di interessi porta con sé un fardello di
quasi 80 miliardi di oneri, immaginare la riduzione delle
aliquote per famiglie e imprese, rappresenta più spesso una
buona intenzione (elettorale) che un piano effettivo”.
Il problema è più ampio. Le imposte hanno perso da tempo il
ruolo di esclusivo strumento di acquisizione delle entrate
al bilancio dello Stato per far fronte alle spese, anche se
ancora si leggono cose del genere nei libri di scuola.
Perché quella funzione è certamente importante. Lo Stato si
assume una serie infinita di oneri, non solo per far
funzionare gli apparati riferiti alle varie politiche
pubbliche, dalla sicurezza alla giustizia, all’istruzione
alla salute. Le imposte, infatti, sono oggi uno strumento
essenziale di regolazione del mercato, nel senso che la
misura del prelievo determina la compressione o lo sviluppo
di un settore dell’economia, o delle imprese in una
determinata area del Paese. Non è dubbio, ad esempio, che se
si vuole favorire l’insediamento di industrie in un
determinato territorio uno strumento importante, insieme a
quelli di predisporre idonee infrastrutture, è dato dalle
agevolazioni fiscali sulle produzioni o sul lavoro. Accade
un po’ ovunque all’estero. Ugualmente se si vuole favorire
il mercato interno è necessario liberare risorse delle
famiglie.
Oggi, ad esempio, si è letto sui giornali, e ne ha dato
ampio spazio la televisione, che il mercato degli immobili è
fermo, per il costo elevato dei mutui che scoraggiano
l’investimento. È un settore nel quale si può intervenire
con la leva fiscale favorendo le costruzioni e gli acquisti.
Si è fatto sempre così. Si fa così ovunque.
Il fisco italiano, invece, sembra incapace di valutare,
sulla base di un modello econometrico che tenga conto di
tutte le numerose variabili dei fattori della produzione e
del mercato, quali siano le conseguenze delle imposte
sull’economia del Paese e quali misure fiscali possano
essere adottate per assicurare uno sviluppo equilibrato sul
piano economico e sociale.
Un modo è quello di diminuire le imposte su alcuni redditi o
di selezionare i consumi da sottoporre ad IVA e le aliquote
conseguenti.
Ma c’è un altro sistema per rendere il fisco idoneo alle
funzioni che abbiamo ricordato dando un esempio di
perequazione, far pagare a tutti il dovuto.
Invece questo sembra impossibile. Ad onta dell’impegno,
doveroso, dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di
Finanza non sembra che l’evasione diminuisca in misura
sensibile. Anzi si parla di ingenti capitali esportati
illegalmente tanto, si sa bene, al momento opportuno arriva
un condono molto conveniente.
Con 120 miliardi annui di evasione fiscale l’impegno del
Governo non può essere limitato ai blitz invernali o
agostani o dei fine settimana nelle località più “in” o
nelle vie storiche delle città, dalla romana Via Condotti
alla milanese via Montenapoleone. Occorre lavorare sui
meccanismi di imposizione del tributo e di giustificazione
delle spese da dedurre, laddove si annida l’evasione più
significativa.
E poi occorre essere chiari. L’Agenzia delle entrate dà
sovente notizia di accertamenti per svariate somme. Ma
queste somme si trasformano in riscossioni effettive? In
quale misura e in quali tempi, considerate le condizioni del
contenzioso tributario, delle commissioni, provinciali e
regionali che non hanno una dotazione organica di giudici
professionisti, e del processo che consente tempi lunghi,
fino al ricorso in Cassazione. Sicché il fisco spesso
ottiene una sentenza favorevole dopo anni, spesso quando il
contribuente è morto o fallito.
L’impegno deve essere quello di non aumentare le tasse
scrive Saldutti.
A mio giudizio deve essere soprattutto quello di farle
pagare a tutti eliminando, ad esempio, l’evasione collegata
al lavoro nero che, secondo alcuni dovrebbe essere
intoccabile perché “mantiene l’Italia”. Sbagliato. A
mantenere l’Italia sono quanti di noi pagano le tasse fini
all’ultimo centesimo, coloro che pagano anche per il
lavoratori “in nero”!
Ricordiamo che l’ingiustizia è fonte di malessere sociale e
di ribellione. Il successo del “grillismo” si basa anche su
queste ingiustizie diffuse in ogni regione. L’evasione,
hanno dimostrato gli accertamenti del fisco, infatti, non si
concentra in alcune aree specifiche d'Italia ma è un male
endemico che per le dimensioni assunte non può non essere
tollerato, per incapacità dei governi di immaginare un
sistema efficace di riscossione delle imposte, come
insegnano tanti paesi, in Europa e oltre oceano, o di
gestirlo in modo che produca gli effetti voluti. A meno che
siano voluti quelli che oggi abbiamo sotto gli occhi. Cioè
l'evasione fiscale più alta in Europa.
18 agosto 2012
L’impresa, il Governo e la Magistratura
ILVA: legalità e buonsenso. Per fortuna c’è un Giudice
a Taranto
di Salvatore Sfrecola
Archiviata l’ipotesi, imprudente frutto di improvvisazione,
di sollevare un conflitto nei confronti della magistratura,
immaginato da qualche burocrate di Palazzo Chigi con
riferimento alla decisione del GIP di Taranto, Patrizia
Todisco, di bloccare la produzione degli altoforni dell’ILVA
a causa dell’inquinamento ambientale che producono, perché
quel provvedimento del giudice avrebbe inciso sulla politica
industriale del Governo (!), il Presidente Monti ha affidato
ai Ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente,
Passera e Clini, il compito di studiare una misura
compatibile con la giusta iniziativa della magistratura,
senza danneggiare la produzione di acciaio, in tal modo
assicurando il mantenimento dei livelli occupazionali.
Così, d’intesa con l’impresa, è stato definito un programma
di risanamento ambientale in linea con le indicazioni
provenienti dall’Unione Europea in materia di inquinamento,
con impegno del Governo e dell’azienda sotto il profilo
delle risorse economiche necessarie ad attuare le iniziative
necessarie.
Si è così tornati ad una corretta distinzione dei ruoli tra
impresa, Governo e magistratura. Questa, per iniziativa
della Procura della Repubblica e del Giudice per le Indagini
Preliminari ha adottato provvedimenti conformi alla
normativa ambientale che a Taranto era stata apertamente
violata, con gravi danni alla salute delle persone. Non
cedendo al ricatto di chi voleva che le cose rimanessero
come sono per assicurare la produzione di acciaio ed i
livelli occupazionali, la magistratura ha fatto la sua
parte, come deve fare, perché il suo compito è quello di far
rispettare la legge. L’impresa ed il Governo, da parte loro,
avendo trovato un giudice che non lasciava perdere, hanno
fatto quanto loro competeva, assumere delle iniziative
idonee a mantenere livelli di produzione e occupazione con
un impegno ad adottare le iniziative necessarie a far
rientrare rapidamente nei parametri di difesa ambientale
l’attività dell’impresa.
"Auspichiamo che non vengano
prese decisioni che siano irrimediabili nelle loro
conseguenze", ha detto il Ministro Corrado Passera a
Taranto, al termine dell’incontro con le autorità locali e
l’impresa. "La collaborazione con la magistratura è e sarà
totale".Passera poi ha definito la decisione di ieri una
"tappa importante" sottolineando come "il governo nel suo
insieme si sente impegnato". Aggiungendo che “non ci può
essere una scelta tra la salute e il lavoro".
Un po’ imprudente il
Ministro Passera quando, come riferisce ANSA, afferma: "si
convinca la magistratura ad aiutare il processo di
ammodernamento dell'Ilva in modo tale che l'azienda sia
totalmente in linea con le regole, ma che questo non porti
alla chiusura dello stabilimento". "In una fase così
iniziale della procedura giudiziaria – ha aggiunto - sarebbe
per noi sbagliato che venissero prese delle decisioni,
quelle sì irreversibili, che potrebbero causare un danno non
più recuperabile. Se questo si evita e poi lavorando tutti
sull'Aia e facendo riconoscere il lavoro che sarà fatto a
livello di Aia, anche la magistratura potrà prendere meglio
le sue decisioni sul futuro; poi, sul passato è un altro
discorso".
Se è necessario il Governo
può sempre ricorrere ad un provvedimento d’urgenza che
distingua le vecchie responsabilità da un impegno, a tempo,
di risanamento. Non può, invece, sulla base della
legislazione vigente, chiedere alla magistratura di non far
rispettare la legge.
Se, dunque, dovessero
sorgere ulteriori problemi la via maestra è quella di una
norma urgente, una sorta di “legge-provvedimento” che attui
una deroga temporanea e ragionevole stabilendo tempi certi
della bonifica ambientale e della messa a norma degli
impianti.
Per parte sua il Ministro
dell'Ambiente, Corrado Clini ha spiegato che la nuova Aia
"recepisce le prescrizioni del gip fatta eccezione di quelle
sulla fermata degli impianti". Clini ha sottolineato,
altresì, che recepisce le "disposizioni Ue in merito alle
tecnologie, le indicazioni della Regione Puglia e tiene
conto delle decisioni del Tar in merito alla prima Aia
2011".
Al di là del caso specifico, questa vicenda deve essere
d’insegnamento per tutti. In Italia troppo spesso ci
troviamo a gestire situazioni nelle quali si verifica una
confusione di competenze con effetti deleteri per la
legalità, la sicurezza degli impianti, la salute dei
lavoratori e degli abitanti dell’area interessata.
Meno male che c’è stato un giudice a Taranto che ha fatto
onore al ruolo che la legge gli assegna, così costringendo
Governo e impresa a fare la loro parte. La tutela ambientale
costa e questo è spesso il motivo per il quale si omette
l’adozione di misure necessarie ad evitare che fumi o
residui di lavorazione inquinino l’ambiente ed il
territorio.
Mi auguro che ci siano altri giudici in giro per l’Italia
che richiamino il rispetto delle regole, come nel caso
dell’inquinamento dei terreni e delle falde acquifere,
situazioni nelle quali alla “disattenzione” delle
amministrazioni competenti si aggiungono gli interessi della
malavita che lucra ingenti somme dallo smaltimento illecito
di rifiuti speciali. In sostanza, le imprese si affidano a
malavitosi che smaltiscono a costi inferiori a quelli
previsti dalle discariche ufficiali, ma con grandi utili e
gravissimi rischi per la salute della gente.
18 agosto 2012
Scorte alle personalità:
legittimità e senso della misura
di Salvatore Sfrecola
Era scontato che Gianfranco Fini non
avrebbe mai abusato nella gestione della scorta che ne
tutela la sicurezza. Non è nel suo stile, nel suo modo di
intendere il servizio alle istituzioni.
È stato, dunque, imprudente Maurizio
Belpietro, Direttore di Libero, nell’accusare il
Presidente della Camera, che lo ha poi querelato, di essersi
portato in vacanza a Orbetello nove uomini della scorta e di
avergli pagato, “con soldi nostri”, l’albergo.
Tuttavia la polemica rovente, la quale ha
coinvolto gran parte della stampa che ha ripreso la polemica
di Libero, ha portato a conoscenza del grande
pubblico l’argomento scorte, anche per le opportune
precisazioni del Ministero dell’interno che ha chiarito
quanto è ovvio. Che Fini non c’entra nulla con la decisione
contestata e che la scorta, con tutti i suoi spostamenti,
viene gestita unicamente della Polizia. In particolare, nel
comunicato del Viminale si legge che “il dispositivo di
tutela del Presidente della Camera è normativamente fissato
al massimo livello di rischio che impone la necessità di
assicurare la protezione della personalità in tutti gli
spostamenti sul territorio nazionale. La gestione,
l’organizzazione e l’esecuzione del relativo servizio non
rientrano nelle competenze della Presidenza della Camera ma
fanno capo all’Ispettorato di P.S. presso Montecitorio”.
La polemica agostana, nella quale Libero si è lanciato a corpo morto, come aveva fatto a
proposito della casa di Montecarlo, per evidente ostilità
nei confronti dell’ex leader di Alleanza Nazionale,
consente tuttavia qualche riflessione generale sul sistema
di protezione dei nostri uomini politici e di governo. E
segue di poco altra polemica che aveva investito il
Presidente dei Senatori del Partito Democratico, Anna
Finocchiaro, che qualcuno aveva visto in un supermercato
accompagnata dagli uomini della sua scorta.
Chi vive a Roma incontra sovente auto
“blu”, come comunemente si definiscono le automobili del
potere, anche se ormai, e da tempo, il colore varia dal nero
al grigio metallizzato, sfrecciare con lampeggiante e
sirena, spesso seguite o precedute, o seguite e precedute,
da altre auto di scorta.
Il cittadino spesso s’indigna,
soprattutto quando, sbirciando dietro i vetri, che tuttavia
in molti casi sono oscurati, individua personaggi secondari
della scena politica.
In sostanza nessuno nega che la
sicurezza di personalità del Governo o della politica debba
essere gestita dallo Stato secondo criteri discrezionalmente
definiti dalla competente Autorità di pubblica sicurezza. Ma
poiché la discrezionalità non è, come qualcuno riteneva un
tempo, scelta libera, al limite dell’arbitrio,
incondizionata ed esclusa da qualsiasi riscontro sotto il
profilo dell’eccesso di potere, è possibile fare qualche
riflessione generale considerato il variegato profilo della
sicurezza che il Ministero dell’interno ha richiamato in
relazione al dispositivo di protezione del Presidente della
Camera, come di altre alte cariche dello Stato.
In una prospettiva generale sembra
evidente che il primo indice di sicurezza debba riguardare
quanti rischiano fisicamente per il tipo di lavoro svolto o
per minacce delle quali siano stati oggetto, purché ne sia
valutata l’attendibilità.
In questo senso viene innanzitutto da
pensare ai magistrati che, in funzioni requirenti o
giudicanti, hanno a che fare con la criminalità organizzata
che può attentare alla loro vita e minacciare quella dei
familiari. A loro è sempre assicurata una protezione che,
invece, spesso non è data a quanti, sempre nelle
magistrature, sono chiamati a decidere su questioni civili o
amministrative di rilevante interesse economico, spesso
illecito, che potrebbe e spesso muove pesante intimidazioni.
Venendo, poi, ai politici, si è detto
spesso che la sirena, il lampeggiante sull’autovettura, le
scorte, costituiscono uno status simbol che soddisfa,
dunque, non un’esigenza obiettiva ma segue, ratione
officii si direbbe, la carica ricoperta quasi
pedissequamente. Ora non è dubbio che una personalità abbia
esigenza di essere tutelata, non solo in relazione alla
possibilità di un’aggressione, obiettivamente rara, ma anche
in rapporto all’eventualità che sia importunata da passanti
o da postulanti. Tuttavia, il numero degli agenti assegnati
ad alcuni sembrano obiettivamente troppi rispetto a queste
eventualità. Per i personaggi più noti sembra siano più che
sufficienti uno o due agenti, come avviene nella maggior
parte dei paesi esteri. Ad esempio non si mai visto il primo
ministro inglese circondato da numerosi agenti, come il
Premier Monti che i telegiornali continuano a mandare in
onda circondato da agenti nel breve percorso da Montecitorio
a Palazzo Chigi. Invece assistiamo a volte a numerose
presenze che infastidiscono il cittadino il quale
inevitabilmente ricorda a se stesso ed a chi gli è vicino
che quegli agenti costano alla comunità.
C’è, poi, il capitolo vacanze e
shopping. In questo caso dimostrare il “senso della misura”
spetta alla personalità che ha il dovere di essere parco, di
scegliere una località nella quale riposarsi continuando ad
essere tutelato nel modo meno appariscente. E qui viene
acconcia un’osservazione. Alcuni di questi nostri politici,
che nella vita sociale sono autentici parvenu, spesso
anche, consentitemi una considerazione che parrà un po’
classista, di modeste origini familiari ritengono la vacanza
ulteriore occasione di esibizione per comparire sui
rotocalchi del gossip con mogli e figli o con la compagna o
il compagno del momento, fedeli al motto, “parlate di me
purché parliate”, convinti, forse a ragione, che la
pubblicità negativa sul momento premia nel tempo.
La misura, dunque, il “senso della
misura” che deve guidare le autorità competenti ad
assicurare la tutela della personalità e la stessa
personalità. Non è estraneo alle dimensioni delle scorte
anche l’“orgoglio” della forza di polizia incaricata della
tutela, che vuole esibire la propria capacità operativa e la
soddisfazione di essere incaricata dello specifico compito.
Ricordo alcuni anni fa a Perugia, in
occasione di un convegno di studi organizzato dalla Regione
Umbria, un Ministro delle finanze (allora l’economia era
affidata a distinti Ministri del tesoro, delle finanze e del
bilancio) giungere sul posto con un’autovettura preceduta da
due auto e seguita da altrettante. Certamente alla scorta
del Ministro si erano aggiunte auto del comando locale, in
omaggio al vertice dell’Amministrazione e ad esibizione di
efficienza. I commenti dei presenti furono le consuete
lamentazioni sui costi delle scorte. Chi conosce la salacia
degli umbri potrà immaginare senza far ricorso alla
fantasia.
Senso della misura, dunque, perché la
personalità soggetta a tutela ha il diritto di andare in
vacanza e di fare shopping nelle vie principali delle
località turistiche o nei supermercati, ma lo faccia con
discrezione. Basta una presenza discreta accanto con
collegamento radio, mai per portare la busta delle compere.
15 agosto 2012
Riconsiderare la spesa pubblica
Cultura liberale per liberare risorse
di
Salvatore Sfrecola
Mario Monti, scrivono i giornali, avrebbe invitato i suoi
ministri,
tra un tuffo in mare ed un a passeggiata tra i boschi a
meditare sulle esigenze delle crescita in un Paese che,
ormai è evidente a tutti, è in grave recessione. Stagna la
domanda interna, si contrae l’occupazione. Il classico cane
che si morde la coda. La gente non compra perché non
ha risorse, la minore domanda si riversa sulla produzione,
la minore produzione comporta la riduzione della manodopera.
Crescita con riduzione del debito, ovviamente. Un teorema
difficile sul quale si esercitano
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul
Corriere della
Sera di oggi ("Riduzione
del debito e crescita - I compromessi che non
servono”) con un editoriale che dà per scontato che si stia
affrontando seriamente la questione che è al centro della
discussione politica, la riduzione della spesa pubblica.
“Aver cominciato a discutere di come ridurre il debito
pubblico è un passo avanti importante. Se questo tema
divenisse il fulcro della campagna elettorale, finalmente ci
staremmo chiedendo chi meglio difenderà gli interessi dei
nostri figli”. Un po’ ingenui i due. In campagna elettorale
troveremo formulazioni pressoché identiche, come è sempre
stato. I partiti si giudicano non dalle promesse che fanno
prema del voto, ma dalle politiche dei governi che
esprimono.
Convinti che le discussioni su come ridurre il debito siano
anche piene di “tranelli insidiosi” i Nostri ricordano che
quel che conta “non è il debito in sé, ma il rapporto fra il
debito e il reddito nazionale (il Pil)”, per sottolineare
come, “se l'economia non ricomincia a crescere quel rapporto
non scenderà mai abbastanza”. Con invito a diffidare da chi
propone “fantasiose ricette finanziarie per ridurre il
debito sostenendo che tutto il resto è secondario”. E da chi
“invoca imposte patrimoniali: i contribuenti onesti di
imposte ne pagano già troppe”.
Pertanto la indicazione essenziale è nel senso che la
crescita impone la riduzione della spesa pubblica,
“altrimenti la pressione fiscale rimarrà elevatissima. Meno
spesa e più crescita”.
È il
leit motiv di questa stagione, la
“parola d’ordine” è tagliare la spesa pubblica. Sulla quale,
peraltro, nessuno sembra soffermarsi a ragionare, a
considerare se quella spesa ha come suo effetto una parte
della produzione di beni e servizi. Con la conseguenza che
non basta dire tagliamo la spesa se non si aggiunge un
aggettivo che sento poco negli editoriali e nelle
dichiarazioni di politici ed esperti. Questo aggettivo è
“improduttiva”, ovvero "inutile".
Dobbiamo considerare, infatti, che il complesso
che possiamo chiamare “spesa pubblica”, cioè le somme che
spendono lo Stato, le Regioni, Le Province ed i Comuni e gli
altri enti e società a capitale pubblico, per far funzionare
gli apparati e per rendere i servizi loro assegnati (si
pensi alle aziende sanitarie locali o all’ANAS, che
costruisce e mantiene in esercizio le strade statali),
costituiscono un intervento nell’economia che muove una
parte significativa del PIL.
In sostanza il pubblico nel suo complesso è il
più grande operatore economico del Paese. Molte imprese
producono solo per lo Stato e gli enti pubblici, per cui una
riduzione della spesa determinerebbe una limitazione delle
produzioni e dell’occupazione.
Questo non vuol dire, ovviamente, che la spesa
non possa o debba essere ridotta. Ma quale spesa? Quella
aggettivata “improduttiva” o “inutile” che grava sui
cittadini in forma di imposte senza rendere un servizio che
quelle imposte possa far considerare “giuste”, che, per
usare una frase dell’allora Ministro delle’economia, Padoa
Schioppa, sia “bello” pagare. Come avviene in alcuni paesi
del Nord Europa dove ad una elevata pressione fiscale fa
riscontro un sistema di servizi di altrettanta elevata
qualità.
Questa dovrebbe essere l’analisi necessaria per
una efficace e strutturale politica della riduzione della
spesa pubblica (non uso spending review perché mi
disturba il ricorso ad espressioni di altre lingue che a
volte si ha l’impressione vengano usate un po’ per un
qualche snobismo, un po’ per cattiva educazione, quasi non
si volesse far giungere il concetto autentico alle persone
culturalmente più modeste).
Il Governo “di tecnici” è ricorso ad un tecnico,
l’ex Commissario Parmalat, Bondi, che a sua volta è ricorso
ai tecnici dei ministeri, per cercare di capire dove
tagliare come se degli sprechi di cui si parla non avessero
abbondantemente scritto negli anni, aggiornando
costantemente i dati, Ragioneria Generale dello Stato e
Corte dei conti.
De “Le risorse da liberare”, ha scritto ieri
Piero Ostellino sul Corriere della Sera, aggiungendo,
da liberale, che, oltre alla riduzione della spesa pubblica,
occorre semplificare, cosa che il Governo non ha fatto con
il timido provvedimento che pure parta di semplificazione,
perché l’invasività della burocrazia si è dimostrata nel
tempo un peso insopportabile per le imprese, fin dalla loro
costituzione che richiede spesso anni prima che l’attività
d’impresa inizi a realizzare le produzioni per le quali è
stata costituita.
Occorre semplificare gli adempimenti burocratici
richiesti. E qui si vedrà la “virtude” dei dirigenti delle
amministrazioni che fin qui sembrano aver puntato più a
creare pastoie, lacci e lacciuoli che a dare prova di
quell’efficienza che le migliori burocrazie dei paesi
occidentali portano a loro vanto.
Ricordo quel che mi riferì alcuni anni fa un mio
amico avvocato, consulente di un imprenditore che intendeva
iniziare un’attività in Canada. Lo accompagnò in quel Paese
dove non solo l’imprenditore, che intendeva aprire una
fabbrica di pneumatici, ebbe dallo stato il terreno e
l’esenzione fiscale per un certo numero di anni, ma gli fu
affiancato un funzionario il quale aveva il compito di
predisporre tutti gli adempimenti necessari per avviare
l’impresa.
In Canada, non sulla Luna.
Perché non si potrebbe fare in Italia? Forse
verrebbero meno certe rendite di posizione di amministratori
e funzionari che gestiscono scelte politiche e adempimenti
burocratici che portati per le lunghe suggeriscono il
ricorso ad indebite scorciatoie.
Partiamo dalla semplificazione, Professor Monti,
ma che sia autentica, non quella specie di simulacro che non
fa onore ad una delle prime economie del mondo. Nonostante
tutto!
12 agosto 2012
Il costo della casta
Ci ha scritto Gaspare Serra sottoponendo
all’attenzione dei nostri lettori una accurata analisi sui
costi, a suo ed a nostro dire, “esorbitanti”- del tanto
pletorico quanto ipertrofico apparato politico-istituzionale
del nostro Paese.
Ne ha già scritto
sul suo blog
http://gaspareserra.blogspot.it/2012/07/dove-ce-casta-ce-italia.html)
inaugurando, con questo articolo, la serie “Pillole di
spending review”, una raccolta di saggi, dossier ed
inchieste, tutti in pubblicazione sul blog “Panta Rei”:
http://gaspareserra.blogspot.it)
aventi come denominatore comune la denuncia dei più
insopportabili “sprechi” di denaro pubblico e dei più odiosi
“privilegi” di cui beneficiano le varie “Caste” (non solo
politiche) che continuano a prosperare in Italia.
Questo primo pezzo di Gaspare Serra
riguarda “il costo della Repubblica”.
Lo riportiamo integralmente, ritenendo che
sia un contributo di conoscenza importante. Il taglio è
spesso quello della domanda.
Quanto costano i “Palazzi” del Potere?
Quanto costa agli Italiani mantenere un tanto
pletorico quanto ipertrofico apparato
politico-istituzionale?
Che la (Casta) politica italiana sia la più costosa d’Europa
(probabilmente tra le più dispendiose al mondo!) è un fatto
notorio…
L’Italia,
rispetto agli altri paesi europei,
spende in media il 30% in più per i costi della politica.
Per l’esattezza (dati Uil):
-
ogni contribuente destina al mantenimento della macchina
della repubblica circa “646 euro” l’anno;
-
e i costi della politica italiana
(diretti e indiretti) ammontano a circa “24,7 miliardi” di
euro (cifra, per intendersi, pari al 2% del Pil
nazionale e ad oltre il 12% dell’intero gettito Irpef!).
Più in dettaglio (secondo quanto emerge dai rapporti sui
costi della politica presentati da Uil e Confindustria):
-
gli organi dello Stato centrale
(Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Corte
Costituzionale, Presidenza del Consiglio e Ministeri) costano ai cittadini “3,2 miliardi” di euro l’anno (in
media, 82 euro per ogni contribuente!);
-
le quattro più alte Istituzioni dello Stato (quirinale,
senato, camera e consulta) pesano sulle tasche degli
italiani per “2,2 miliardi” di euro;
-
il solo funzionamento della presidenza del consiglio
(dati 2011) comporta spese per “477 milioni”;
-
i costi per il funzionamento dei Ministeri
(dati 2011) ammontano a “226 milioni”;
-
per gli Organi di regioni, province e comuni
(Giunte e Consigli) si spendono “3,3 miliardi” (ossia 85
euro per contribuente!);
-
ed Organi quali
la Corte dei conti, il Consiglio di
Stato, il Cnel, il CSM ed il Consiglio giustizia
amministrativa della Regione Sicilia pesano sul bilancio
dello stato per “529 milioni” di euro.
Spulciando i conti delle due Camere,
poi, si scopre che:
-
dal 2001 al 2011, il bilancio della
Camera dei deputati è salito da 749 milioni di euro ad oltre
“1 miliardo e 70 milioni”;
-
mentre il bilancio del Senato della
Repubblica è passato da 349 milioni nel 2001 a “603
milioni” nel 2011.
Secondo la Banca d’Italia, in barba a ogni
crisi, DAL 2001 AL 2010 la spesa per la pubblica
amministrazione è passata (in rapporto al pil) dal 48,1% al
51,2%.
“Questo è il normale costo di ogni
democrazia”, si sostiene…
Ma quanto è “normale” il fatto che
in
Francia l’Eliseo e il Parlamento costano “900 milioni” di
euro l’anno (meno che la meta’ delle pari istituzioni
italiane) e in Spagna soli “700 milioni”?
Come spiegare il fatto che in Spagna il
Congresso dei deputati costa soltanto “100 milioni” (meno di
un decimo di Montecitorio)???
Come dar conto del dato “impressionante” per il quale (fonte
la Stampa,
30/01/2012) il Parlamento italiano costa più della somma
degli altri quattro grandi parlamenti nazionali d’Europa (la
Bundestaq, la Assemblée Nationale, la House of Commons e il
Congreso de Los Deputados),
i cui costi di funzionamento solo complessivamente ammontano
a 3,18 miliardi di euro l’anno?!
Come giustificare il fatto che (sempre
secondo la Stampa) ogni cittadino italiano spende “27,15
euro” l’anno solo per mantenere la Camera dei deputati,
mentre:
-
un francese 8,11 euro per la
Assemblée Nationale
(tre volte meno che in Italia);
-
un inglese 4,18 euro per la
House of Commons
(quasi
sette volte meno);
-
ed uno spagnolo 2,14 euro per il
Congreso de Los
Deputados
(dieci volte meno)???
Cosa giustifica simili “sproporzioni”?
Delle due l’una:
a-
o l’Italia vanta la classe dirigente “migliore” al mondo,
che
conseguentemente
merita anche un trattamento
“unico” al mondo (il che, non fosse per altro, si
contraddice con la constatazione d’avere l’unica classe
politica, al pari di quella greca, al contempo
“commissariata” da un tecnico, “sfiduciata” dall’Europa e
“screditata” da ogni agenzia di rating!);
b-
oppure siamo di fronte alla più grande
“truffa” orchestrata ai danni di un’intera Nazione! Per
quanto altro tempo tale odioso “spread” (tra il costo della
politica italiana e d’oltralpe) sarà tollerabile???
La democrazia ha certamente un costo,
tanto fisiologico quanto irrinunciabile…
Ma la politica italiana ha raggiunto
costi che definire “patologici” è dir poco!
Il debito pubblico italiano ormai si
attesta sui “2.000 miliardi” di euro, i conti dello Stato
hanno più buchi di una gruviera (il pareggio di bilancio nel
2013 è solo un’ipotesi…), la finanza pubblica rischia il
collasso (il debito pubblico ha superato quota 123% sul Pil,
mentre molti enti locali rischiano il dissesto finanziario),
la “stagflazione” è dietro l’angolo (una fase di pesante
recessione coniugata ad una perdurante inflazione…).
In questo scenario l’aumento delle tasse
per “far cassa” non è più una strada percorribile (la
pressione fiscale italiana “effettiva” o legale, secondo gli
ultimi dati della Confcommercio del luglio 2012, si attesta
al 55%, facendo registrare un record mondiale!).
Prima di trovarsi costretti a metter mano
al welfare ed alla spesa sociale, ovvero a tagli sulla “viva
carne” delle persone (dai licenziamenti nel pubblico impiego
alla cancellazione delle tredicesime…), è dunque un “dovere
morale” per la classe politica mostrare un “sussulto di
dignità”: provvedere da subito ad un taglio netto della
spesa pubblica “parassitaria”!
In Italia è
proprio la politica il principale terreno fertile per
“sprechi e privilegi”.
Per tutto questo tagliare i costi della
politica e la spesa pubblica improduttiva non è più
un’opportunità bensì una necessità per il Paese!
La crisi economica e finanziaria non ha
cause esclusivamente endogene, essendo legata a filo stretto
alla capacità di autoriformarsi dell’Europa ed alle
strategie occulte della speculazione internazionale.
Ma sull’Italia pesa, diversamente o
più che in altri paesi, anche l’insopportabile fardello
di una classe dirigente inadeguata, di una politica
“gattopardesca” sempre più obesa ed ingorda (praticamente
un’“oligarchia insaziabile”!).
Ogni singolo cittadino può ben poco contro lo
strapotere di caste consolidate, di lobby coalizzate, di
poteri forti ben radicati…
Ma un popolo che non sente il bisogno di
“indignarsi” di fronte a
insostenibili “sprechi” e insopportabili “privilegi”,
che non mostra alcun moto di ribellione dinanzi
all’autoreferenzialità, all’affarismo ed al professionismo
politico di un’intera classe dirigente, E’ semplicemente un
popolo senza dignità!
P.S. è indicata la fonte dei dati e il commento, per
quanto duro, è condivisibile. Ho lasciato il riferimento al
costo delle magistrature, amministrativa e contabile pur
ritenendo che quello sia un costo fisiologico per la
comunità. Le magistrature amministrativa e contabile hanno
il compito di assicurare il buon andamento
dell’amministrazione. Se non ci riescono o non ci riescono
integralmente vuol dire che le loro forze sono insufficienti
rispetto alle dimensioni dell’illegalità, dell’illiceità e
degli sprechi.
Ho eliminato una frase che accusava la casta di
costituire “una vera e propria “Associazione
politica a delinquere”!”
Le responsabilità penali sono personali e
non possono essere attribuite all’intera classe politica.
Certamente l’indicazione era atecnica, ma ho voluto fare
questa precisazione per mantenere la critica nei termini di
una duro ma sereno confronto.
Salvatore Sfrecola
12 agosto 2012
I cristiani ed il rispetto per la natura, animali compresi
di Salvatore Sfrecola
Leggo da anni, sempre con molto interesse,
Corrispondenza Romana, l’Agenzia settimanale diretta
dal Prof. Roberto de Mattei, al quale mi lega un’antica,
autentica amicizia, fondata sull’idem sentire di
valori civili e religiosi. Naturalmente questo non mi ha
impedito, di tanto in tanto, di avere motivi dissenso, mai,
peraltro, tali da segnalarli o da scrivere in proposito.
E mi è venuto di pensare
cosa ne avrebbe detto San Francesco d’Assisi, il cristiano
che, più di ogni altro, ha esaltato la grandezza di Dio
attraverso quel mirabile complesso di beni straordinari che
noi chiamiamo Creazione, i mari, le montagne, la flora
straordinaria che li orna e quella miriade di esseri viventi
che fanno vivere la natura. Immaginiamo come sarebbe
squallida la natura, anche bellissima della flora, se non
fosse abitata da uccelli, bipedi, quadrupedi, se i mari non
fossero animati dai pesci.
“Laudato sie, mì Signore cum tucte le
Tue creature”. Un Cantico, appunto il Cantico delle
Creature, intonato da Francesco, per celebrare la
natura, nella sua pienezza, espressione del suo amore per
Gesù Cristo.
E mi sono chiesto quali sarebbero state le
reazioni di quello straordinario cristiano, se avesse potuto
leggere la sconsiderata prosa del Nostro, il quale esordisce
affermando che l’estate “è
il periodo migliore per la propaganda animalista e ciò per
due ragioni fondamentali: la prima, riguarda l’aumento del
(deprecabile) fenomeno dell’abbandono degli animali
domestici che costituisce un formidabile pretesto per
seminare odio nei confronti del genere umano; la seconda,
concerne l’acutizzarsi del sentimento della solitudine che
colpisce le persone prive di rapporti sociali e/o famigliari
stabili e soddisfacenti, in un periodo dove il piacere
dell’agognato riposo estivo si coniuga con la ricerca della
compagnia ed il rafforzamento dei legami affettivi”.
Cominciamo col rilevare una contraddizione tra il fenomeno
dell’abbandono degli animali domestici, giustamente definito
“deprecabile”, e la presunta occasione, che ne deriverebbe,
“per seminare odio nei confronti del genere umano”.
Se l’abbandono è “deprecabile” perché effetto di una
incapacità di comprendere non solo le sofferenze
dell’animale che nel frattempo ha maturato affezione nei
confronti dei padroni, che spesso sono i bambini o gli
anziani, in tal modo incidendo sui sentimenti maturati da
questi nei confronti dell’animale, non si comprende perché
sottolineare un comportamento definito appunto in negativo
possa essere motivo di odio nei confronti del genere umano,
espressione generica che, tra l’altro, trascura di
considerare il valore civile di quanti, invece, portano con
se il cane o il gatto o i pesciolini rossi dell’acquario o
li affidano ad amici od a “pensioni” specializzate.
Lo scritto del De Matteo non meriterebbe di essere preso in
considerazione, tanto il livore nei confronti degli animali
e dei sentimenti che ad essi legano gli uomini è
incomprensibile, se non avesse trovato ospitalità sulla
prestigiosa Agenzia di Roberto de Mattei, che da anni
costituisce un punto di riferimento del pensiero cattolico
ispirato alla tradizione, con riflessioni importanti e
notizie dal mondo, che probabilmente la stampa non avrebbe
diffuso, e con iniziative, collegate alla Fondazione
Lepanto ed all’Associazione Famiglia Domani, di
grande interesse sotto il profilo della difesa dei valori
più sacri, come quelli della vita.
Non si comprende, in particolare, come il De Matteo, che
constata come si viva “in
una società dove il sentimento religioso è sempre più ai
margini del vivere individuale e sociale e dove l’uomo,
di conseguenza, sperimenta con sempre minor frequenza la
vicinanza e l’amore di Dio”, per sottolineare come “la
qualità del legame affettivo con l’altro rappresenta una
delle poche cose che danno valore all’esistenza”, ritenga
che la campagna contro il “deprecabile” abbandono degli
animali domestici sia espressione “dell’ideologia
animalista… in vista di una sua maggiore presa sul cittadino
medio”.
E qui si manifesta una evidente carenza di capacità di
enunciare i valori del messaggio cristiano da parte di chi
ha dato spazio agli ambientalisti di tutti i colori
trascurando di esaltare, come dovrebbe fare chiunque crede
che Dio effettivamente è l’Autore della natura. Chi se non i
cristiani avrebbero dovuto difendere la natura, contro gli
inquinatori e quanti la offendono, offendendo l’intento
creatore di Dio che ha messo a disposizione degli uomini
questo meraviglioso giardino perché se ne servisse, ma non
violasse le caratteristiche naturali, che non le
distruggesse. Così gli animali aiutano l’uomo a vivere ma
non possono essere degradati rispetto al ruolo che il
Creatore ha destinato per loro, e non è ammissibile che i
piccoli, mansueti beagle siano torturati nei
laboratori per dubbia utilità scientifica perché qualche
“ricercatore” vuol verificare quali reazioni abbia il cuore
o il cervello dell’animale mentre gli viene amputata una
zampa, per capire se e quanto soffre, avendogli
preventivamente reciso le corde vocali per evitare di essere
disturbato dai latrati.
Questo è mancato rispetto della natura.
E quanto agli animali “domestici”, forse De Matteo trascura
il valore che cani e gatti hanno per i bambini, per i
malati, per gli anziani, ai quali spesso restituiscono una
ragione di vita e l’occasione di un sorriso. Forse De
Matteo, imprenditore in un’impresa di autoricambi, non sa
che l’ippoterapia ha restituito a tanti disabili la ragione
della loro esistenza e forse qualcuno ha trovato nell’aiuto
di questi animali la conferma della grandezza di Dio.
Niente da fare, per il Nostro è subdolo far “leva su
sentimenti ed affetti” per scoraggiare il “deprecabile”
abbandono. E condanna la pubblicità che vorrebbe
“incoraggiare le persone sole o segnate da esperienze
fallimentari (non a caso l’espressione della donna non è
gaia e spensierata come nella maggior parte delle immagini
pubblicitarie) a riversare il loro affetto sull’animale
domestico”, sostenendo che si vorrebbe “far passare il
concetto che il rapporto con l’animale non rappresenti
semplicemente il riempitivo di una vita priva di
soddisfazioni ma, al contrario, costituisca addirittura il
naturale completamento dell’esistenza!”.
Sarebbe una ideologia antiumana.
Et de hoc satis!
Si vada a rileggere San Francesco o Sant’Antonio, vada a
compulsare alcuni recenti scritti di Papa Giovanni Paolo II
e di Benedetto XVI che hanno voluto esaltare Dio nel Creato,
nella natura meravigliosa che ne conferma la grandezza.
Spaziamo via ecologisti e ambientalisti da
strapazzo, che nella difesa dell’ambiente spesso hanno
trovato motivo di un impegno remunerativo. I cristiani si
devo riappropriare dei valori propri del Creato, perché mai
più, come accade oggi a Taranto, i lavoratori dell’ILVA
siano chiamati a scegliere se lavorare o morire di cancro, o
morire piano piano lavorando.
Infine voglio
ricordare alcuni passi dal
"Catechismo della chiesa cattolica" sul rispetto
dell'integrità della Creazione
2415 Il settimo comandamento esige il rispetto
dell'integrità della creazione. Gli animali, come anche le
piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati
al bene comune dell'umanità passata, presente e futura.
290 L'uso delle risorse minerali, vegetali e animali
dell'universo non può essere separato dal rispetto delle
esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli
altri viventi accordata dal Creatore all'uomo non è
assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità
della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni
future; esige un religioso rispetto dell'integrità della
creazione.
2416 Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda
della sua provvida cura.
292 Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli
rendono gloria.
293 Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro.
Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san
Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli
animali.
2417 Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha
creato a sua immagine.
294 È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere
al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere
addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche
a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e
scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente
accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e
contribuiscono a curare o salvare vite umane.
2418 È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente
gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita.
Insomma, per rispettare la natura e per amare gli animali
non c’è bisogno di evocare la vita eterna o il Paradiso.
Sono animali, ma hanno una loro sensibilità e va rispettata.
Soprattutto va rispettato chi li ama e trae giovamento dalla
loro presenza.
11 agosto 2012
Prima di vendere il patrimonio pubblico confiscare i beni
personali di quanti, nella classe politica e di governo,
hanno concorso a portarci sull’orlo dell’abisso
di
Senator
È ormai sulla bocca di tutti e viene
ripetuto con incredibile sicumera. Dobbiamo vendere
parti importanti del patrimonio dello Stato per rientrare
dal debito che ormai raggiunge i duemila miliardi di euro.
Palazzi storici, caserme, scuole, terreni non per fare
cassa, si dice, ma per eliminare partite di debito, quel
debito che autoalimenta attraverso le spese per interessi,
sempre maggiori e sempre più preoccupanti con lo spread che
richiede tassi più appetibili per gli investitori.
Della questione sembra
si occupi oggi anche il Consiglio dei ministri per definire,
così abbiamo letto sui giornali, una prima tranche di beni
da alienare.
Ho affrontato l’argomento più volte
invitando alla cautela. Innanzitutto perché non è poi così
semplice vendere un immobile storico o una caserma. Ci sono
problemi urbanistici, di destinazione d’uso e oneri di
adeguamento strutturale e degli impianti in relazione alle
normative di sicurezza che non sono facilmente superabili.
Problemi che sono destinati ad incidere sul prezzo,
abbattendolo spesso di molto. Poi chi ha il denaro per
comprare questi beni? Investitori esteri? La malavita? Certo
sarebbe il colmo che una caserma dei Carabinieri divenisse
un albergo a cinque stelle si proprietà di una impresa “in
odore” di mafia!
Vendere comunque si può e, in altra
occasione questo giornale ha scritto che in alcune
circostanze “si deve”, ma ad alcune condizioni.
Prima di tutto una cosa è “vendere”, altra
è “svendere”, come insegna l’esperienza delle
privatizzazioni fin qui eseguite che, attraverso le “società
veicolo”, hanno fatto ingrassare alcuni imprenditori i quali
hanno lucrato sulla differenza tra quanto versato agli enti
pubblici e quanto richiesto ai nuovi acquirenti, con effetti
negativi sul piano sociale.
È accaduto, infatti, che inquilini di enti
previdenziali che hanno messo in vendita parte del
patrimonio si sono trovati a sostenere rate di mutuo in
misura doppia rispetto al canone di affitto che pagavano.
Sarebbe stata possibile una rata di mutuo di poco superiore
al vecchio canone sulla base di una cessione diretta degli
immobili da parte degli enti proprietari assistita da un
prestito agevolato di una banca o di un pool di banche che
si fosse assunto il compito con garanzia dello Stato. È
quanto aveva immaginato, all’inizio degli anni ’90, il
Ministro dei lavori pubblici, Giovanni Prandini, in un piano
che poi non ebbe seguito per uno dei tanti cambi di governo
che avevano caratterizzato la Prima Repubblica.
Ugualmente è possibile alienare agli
inquilini le case degli Istituti delle Case Popolari, adesso
ATER, un complesso di immobili che sono sempre costati agli
enti proprietari più di quanto rendevano, per la diffusa
morosità a fronte di oneri di gestione necessitati da
esigenze di sicurezza degli inquilini. Sarebbe stata già un
vantaggio per gli enti la cessione gratuita. Ma è certo che
l’operazione non andrà facilmente in porto perché sarà
difficile obbligare gli inquilini ad acquistare, abituati
dall'accondiscendenza dei politici locali a pagare canoni
irrisori, quando non evasi. Senza tener conto che molti
abitanti delle case popolari hanno da tempo perduto i
requisiti per disporre di un tale vantaggio. E nessuno ha
chiesto loro conto di questa condizione.
Vendere è, dunque, più facile a dirsi che
a farsi.
Né va trascurato che la riduzione del
patrimonio, anche se l’Italia è, tra gli stati, uno dei
maggiori proprietari di beni immobili, determina una
riduzione delle garanzie che possono essere offerte per
prestiti a livello interno ed internazionale. Come una
famiglia, se vende immobili non avrà, poi, con cosa
garantire eventuali, successive richieste di mutuo.
Saremmo, dunque, privi di garanzie per un
Paese che non riesce ad esprimere una classe dirigente,
politica e di governo, degna della sua storia. Una classe
politica la quale consente che un gran numero di uffici
pubblici siano in affitto in presenza di un patrimonio
immobiliare immenso, in parte utilizzabile proprio per
esigenze degli uffici pubblici, come una caserma, ad
esempio, spesso al centro delle città dove gli uffici
amministrativi o giudiziari potrebbero essere facilmente
allocati, risparmiando milioni di euro di affitti passivi,
spesso pagati a privati. Un problema grave, che va avanti da
anni, che nessuno si impegna a risolvere.
Un esempio per tutti. A Torino la Corte
dei conti, il Tribunale Amministrativo Regionale e
l’Avvocatura distrettuale dello Stato occupano locali
privati mentre in città ci sono immobili demaniali di
incerta destinazione, tra cui la Caserma de Sonnaz, che
potrebbe assicurare alla Città, al Foro e agli utenti un
polo giudiziario rilevante al centro.
Nulla si smuove.
Torniamo all’ipotesi di alienazione dei
beni appartenenti al patrimonio pubblico, ai “gioielli di
famiglia”, come si dice a proposito di quelli che possono
essere più appetibili per eventuali investitori.
Si tratta di beni che sono stati
accumulati dallo Stato e dagli enti locali nei secoli,
grazie al sacrificio di milioni di italiani che, nel corso
del tempo, hanno pagato imposte, svolto lavori obbligatori,
subito espropri e requisizioni, somme somministrate al
principe, come scrive Giovanni Botero, “per sostegno della
sua grandezza e per mantenimento della Repubblica” (Della
ragion di Stato, 1589).
Vanno venduti, se
necessario, al loro valore di mercato, anche se questo, in
presenza di una offerta consistente tenderà a collocarsi su
valori bassi.
Va, dunque, presa una misura preliminare.
L’interdizione dagli uffici pubblici e la confisca dei beni
per quanti hanno amministrato l’Italia negli ultimi anni,
amministratori e super manager pubblici, per coloro, cioè,
che hanno portato al fallimento enti e società pubbliche,
senza prevedere e prevenire, con una politica di sprechi, di
tolleranza dell’evasione fiscale e della corruzione, una
situazione che, correttamente e tempestivamente individuata
avrebbe consentito di adottare le misure idonee ad evitare
la frenata brusca sull’orlo del precipizio, cui sta
provvedendo il Presidente Monti con grande difficoltà e con
richiesta di ulteriori, pesanti sacrifici che, inutile
dirlo, graveranno sui “soliti noti”, i lavoratori dipendenti
ed i piccoli proprietari di immobili.
Vedremo cosa
partorirà il Consiglio dei ministri. Poi torneremo sul tema.
10 agosto 2012
Fiamme dolose avvolgono l’Italia
Chi incendia paghi!
di Salvatore Sfrecola
Molti gli incendi, prevalentemente di
natura dolosa. Fermato vicino Roma un piromane. Così le
televisioni questa mattina nei servizi sugli incendi che
avvolgono l’Italia da nord a sud in questa estate quanto mai
torrida.
Così, come sempre, la maggior parte degli
incendi è di natura dolosa, come può confermare qualunque
vigile del fuoco o agente della forestale. A volte è
l’imprudenza, che spesso ha punito anche il responsabile,
come nel caso delle stoppie bruciate nella convinzione che
l’anno successivo il campo renda di più, quando
un’improvvisa deviazione del vento ha investito il contadino
con il cerino in mano.
Ricordo qualche anno fa, in Umbria, dalle
parti di Terni, un incendio di 25 ettari di bosco provocato
da una nonnina impegnata nella preparazione delle bottiglie
di salsa di pomodoro. Lo faceva all’ombra degli alberi in un
pentolone alimentato da fascine. È bastata una scintilla
perché il fuoco attaccasse i primi alberi e si estendesse in
un baleno, complice il vento, all’intera boscaglia. 25
ettari andati in fumo!
Incendi, dunque, per un mozzicone di
sigaretta gettata ai margini di una strada sulle sterpaglie
riarse, ma anche per interessi, anche se la legislazione
limita il cambio di destinazione dei terreni percorsi dal
fuoco (ma per quanto tempo? Ed è sempre possibile una
deroga), perché è bello vedere le fiamme che si sviluppano,
come testimoniano alcuni di coloro che sono stati
identificati, folli tante volte sorpresi con i cerini in
mano, dei quali la stampa riferisce che sono stati
"assicurati alla giustizia".
Ma con quali conseguenze? Il codice penale
prevede per l’incendio boschivo la pena da quattro a dieci
anni (art. 423-bis, comma 1) che scende ad una pena da uno a
cinque anni (comma 2) se il fatto è dovuto a colpa. La pena
è aumentata della metà “se dall’incendio deriva un danno
grave, esteso e persistente all’ambiente” (comma 3).
Sembrano pene gravi e dissuasive ma tali
non si sono rivelate, come dimostra il fatto che di anno in
anno gli incendi si ripetono, spesso ad opera delle stesse
persone. Prevalgono considerazioni sullo stato di salute
mentale dei responsabili (in effetti solo un malato di mente
può dar fuoco ad un bosco) e le norme che consentono la
libertà anticipata. Insomma, come in altri casi di cui le
cronache sono piene, la minaccia della sanzione penale non
ha quegli effetti dissuasivi che si legge sui libri di
scuola.
Cosa fare, dunque?
Occorre tornare ad una regola fondamentale
antica e, purtroppo, spesso trascurata. Chi provoca un danno
deve risarcirlo. Al di là del danno al patrimonio boschivo e
all’ambiente, infatti, lo Stato subisce un danno consistente
nell’impiego di uomini e mezzi per lo spegnimento
dell’incendio. Migliaia, centinaia di migliaia di euro per
ogni incendio per le autobotti dei vigili del fuoco, per gli
elicotteri e gli aerei chiamati a gettare acqua sui roghi. E
poi per tutto il personale impiegato, Carabinieri, Guardie
forestali, personale della Protezione civile al quale vanno
corrisposte indennità per il lavoro straordinario.
Se all’inizio dell’estate, oltre alle
consuete informazioni radio-televisive su chi va allertato
in caso di avvistamento di incendi, fosse anche ricordato
che i piromani saranno chiamati a risarcire il danno
provocato sono certo che molti si asterrebbero da certe
imprese. Soprattutto se la stampa desse notizia che Tizio o
Caio ha dovuto risarcire effettivamente. E nessuno pensi di
cavarsela sostenendo di essere nullatenente, perché qualche
bene di famiglia è sempre disponibile per risarcire
l’erario, anche in quelle contadine tra le quali spesso
alligna l’autore dell’incendio, sia esso dovuto a dolo o a
colpa (come nel caso della nonnina intenta a fare le
bottiglie di salsa di pomodoro per figli e nipoti). E se in
qualche famiglia c’è un figlio scemo che si diverte a vagare
per i boschi con una scatola di fiammiferi – come mi è stato
detto una volta quasi a giustificazione dell’impunità - la
minaccia del risarcimento convincerà i genitori a tenerlo
sotto chiave, almeno fino alle prime piogge.
Per completare queste riflessioni, che
nascono anche dall’esperienza, negli anni scorsi, di
magistrato della Corte dei conti con funzioni di Procuratore
in una regione spesso colpita dagli incendi, l’Umbria, quel
che stupisce è la difficoltà per molti amministratori e
funzionari pubblici, anche a livello governativo, anche solo
di immaginare di percorrere la strada del risarcimento.
Ricordo che mi sentii ripetere che la costituzione di parte
civile nel processo non avrebbe prodotto molto, non
riuscendo i miei interlocutori, ai massimi livelli delle
decisioni amministrative e di difesa erariale, a percepire
l’effetto deterrente del risarcimento del danno, al di là
dell'effettivo recupero dell'intero pregiudizio subito.
Ricordo l’ostilità a considerare le mie
sollecitazioni ad intervenire nei processi, quasi il
fastidio delle mie parole e delle mie note istruttorie,
considerato che non potevo agire sul privato incendiario, ma
solo sulla mancata difesa degli interessi erariali. Ma
neppure il timore di una mia azione ha avuto l’effetto di
sollecitare determinazioni coerenti con l’esigenza di
recuperare, almeno in parte, le somme spese per spegnere gli
incendi.
Ricordo in quegli anni che il Procuratore
della Repubblica di Perugia, Nicola Miriano, all’epoca
impegnato in una serie di importanti processi a carico di
magistrati romani accusati di corruzione, era solito
ripetere, nel corso dei nostri colloqui, che l’azione del
Pubblico Ministero presso la Corte dei conti era molto più
efficace della sua perché, diceva, “tu metti le mani delle
tasche dei responsabili che in prigione stanno poco o
niente”.
In una stanza della Procura regionale del
Lazio della Corte dei conti, a Roma, in viale Mazzini, un
funzionario ha affisso un cartello con scritto “chi sbaglia
paga”, come dire, nel nostro caso “chi incendia paga”.
Speriamo!
9 agosto 2012
Con 120 miliardi annui di evasione fiscale!
Fisco maldestro e distratto
di
Salvatore Sfrecola
Il dato, lo abbiamo ricordato più volte, è
certo e certificato, di provenienza Agenzia delle Entrate.
120 miliardi annui di evasione fiscale sono un dato che
ridicolizza il nostro Paese. Altro che spread, il guaio è in
quel dato, terribile, che dimostra incapacità di immaginare
un sistema fiscale equanime, perché l’evasione impone al
fisco continue correzioni, cioè aggravi, che pagano sempre i
“soliti noti”, come si usa dire, essenzialmente i lavoratori
dipendenti.
Ne ho parlato più volte, da anni. Il
meccanismo che evita la fuga dall’obbligo fiscale è uno
solo, come accade nei paesi più civili, la contrapposizione
degli interessi tra chi paga e chi riscuote, in modo da far
emergere il reddito di chi riscuote.
Un esempio noto a tutti. L’idraulico, ma
potrebbe essere il tappezziere, l’imbianchino e via dicendo,
artigiani i quali fanno il solito discorso tot, senza
fattura, in contanti, tot più iva con fattura. La risposta è
sempre la stessa, “senza fattura”. Nessuna esitazione. Il
cliente di quegli artigiani, lavoratori “in nero”, per i
quali la prestazione il più delle volte viene effettuata
nelle ore libere dal lavoro principale, offre una
alternativa alla quale non si può che dare una sola
risposta. Infatti la convenienza è troppo evidente. Si
consideri che spesso la prestazione in nero comporta
l’acquisto di materiali, anche esso in nero, in una catena
perversa che fa perdere al fisco somme ingenti.
Certo c’è chi non rinuncia alla fattura.
Ma è certo di pochi, perché il fisco non aiuta gli onesti i
quali di quella fattura non sanno cosa farne, non possono
dedurre le somme corrisposte all’artigiano, come, invece,
avviene nella maggior parte dei regimi fiscali dei più
organizzati ordinamenti occidentali.
È una questione sulla quale il fisco non
intende ragioni. Ne ho parlato già nel 1992 in un convegno
della CIDA e mi sentii rispondere da alcuni superispettori
del fisco intervenuti nel dibattito che la scelta di operare
deduzioni avrebbe fatto scendere il gettito.
È una risposta a dir poco approssimativa,
che non tiene conto dell’esperienza di altri regimi fiscali
e della flessibilità della normativa in materia tributaria
che consente, attraverso alcune cautele, di evitare ogni
effetto negativo che comunque non è ipotizzabile in presenza
dell’emersione di un reddito altrimenti occultato.
Il problema è che
per avviare un sistema di deduzioni, conseguenza di una
generalizzata emissione di scontrini e fatture deducibili,
occorre che il cliente dell’artigiano abbia un interesse
evidente e concreto alla richiesta del documento fiscale. In
atto questa convenienza non c’è. Anzi c’è la convenienza
opposta, quella ad evitare scontrino o fattura per pagare
meno.
Altro aspetto che denuncia la incapacità del fisco è quello
relativo al contenzioso tributario. È vero che con le ultime
manovre economiche estive il legislatore si è proposto di
costringere il contribuente a pagare o patteggiare, rendendo
estremamente difficoltoso e costoso il ricorso alla
giustizia tributaria, peraltro gestita da giudici non
professionali, a tempo parziale e poco remunerati, gestiti
(anche economicamente) dal Ministero dell’economia e delle
finanze, che è la parte avversa.
Il processo andrebbe ulteriormente snellito, ad evitare che
le decisioni arrivino troppo tardi, quando il contribuente è
defunto o la società fallita, e reso più oneroso per i
ricorrenti temerari.
C’è molto da fare e presto. Ne va dell’immagine del Paese a
livello europeo, mentre all’interno il livello della
pressione fiscale è insopportabile, limita la capacità delle
persone di favorire la tenuta del mercato interno e sviluppa
quel sentimento di ribellione che, unitamente alle
difficoltà economiche ed alla crescita della disoccupazione,
costituiscono elementi di una miscela pericolosa che mina la
pace sociale e l’ordine pubblico.
8 agosto 2012
In margine alle polemiche sulle dichiarazioni di Monti al "Der
Spiegel" sui rapporti tra Governo e Parlamento
Repubblica parlamentare? Certamente sì
di
Salvatore Sfrecola
Capita anche ai più esperti tra gli uomini di governo e gli
imprenditori che alcune frasi contenute in una
dichiarazione, in un discorso o in un’intervista suscitino
polemiche, perché equivocate. Naturalmente sta all’autore
della dichiarazione, consapevole di questo rischio e del
fatto che le sue parole possano comunque essere
strumentalizzate, ponderare attentamente le espressioni alle
quali affida le proprie opinioni.
È accaduto così, che l’intervista
rilasciata dal Presidente del Consiglio Mario Monti al
settimanale tedesco "Der Spiegel" abbia suscitato alcune
reazioni, in Germania e non solo, sui rapporti Governi -
Parlamenti in merito alle vicende recenti dell’Europa che il
Premier ha ritenuto dovute ad equivoci sui quali è
intervenuto con una nota ufficiale che si legge nel sito del
Governo,
www.governo.it.
Premette Monti di essere “convinto che la legittimazione
democratica parlamentare sia fondamentale nel processo
d’integrazione europea”, aggiungendo che “proprio a questo
fine nel trattato di Lisbona è stato opportunamente
rafforzato sia il ruolo dei Parlamenti nazionali, sia quello
del Parlamento europeo”.
Precisa, quindi, di “non aver inteso in alcun modo auspicare
una limitazione del controllo parlamentare sui governi che,
anzi, penso vada rafforzato tanto sul piano nazionale che su
quello europeo”.
Premesso, in particolare, che, suo giudizio “l’autonomia del
parlamento nei confronti dell’esecutivo non è affatto in
questione, nell’ovvio rispetto, peraltro, di quanto previsto
dagli ordinamenti costituzionali di ciascuno Stato europeo,
precisa di aver “unicamente voluto sottolineare la necessità
al fine di compiere passi avanti nell’integrazione europea
che si mantenga un costante e sistematico dialogo fra
governo e parlamento. Infatti, nel corso dei negoziati tra
governi a livello di Unione europea, può rivelarsi
necessaria una certa flessibilità per giungere ad un
accordo, da esercitarsi sempre nel solco di scelte condivise
con il proprio parlamento”.
“In questa ottica – conclude la nota di Palazzo Chigi -,
ritengo che ogni governo abbia il dovere di spiegarsi e
interagire in modo dinamico, trasparente ed efficace con il
Parlamento, in maniera da individuare soluzioni, ove
opportuno anche innovative e coraggiose, verso un comune
obiettivo europeo”.
La spiegazione della frase, oggetto delle polemiche, secondo
la quale i governi non dovrebbero “lasciarsi completamente
imbrigliare dalla decisioni del Parlamento”, senza
preservare un loro spazio di manovra, lascia inevitabilmente
spazio a dubbi interpretativi, considerato che il rapporto
Governo – Parlamento è sempre al centro del dibattito dei
costituzionalisti e dei politici. È argomento quotidiano,
affrontato in vario modo a seconda della cultura giuridica e
della concezione della democrazia che anima gli
interlocutori.
In questa ottica si colloca la proposta di riforma
costituzionale di stampo presidenzialista o
semipresidenzialista votata nei giorni scorsi dal Senato,
figlia di una cultura antiparlamentare che serpeggia in
tutti i partiti, specie in quelli di governo, ampiamente
condivisa da chi ricopre cariche ministeriali.
Se “il Parlamento mi fa perdere tempo”, di berlusconiana
memoria, è una delle più recenti esternazioni di questa
concezione, non c’è dubbio che molti hanno manifestato
insofferenza rispetto alle iniziative delle Camere che
facevano le pulci a provvedimenti governativi assunti con le
forme del decreto legge, per cui i maxiemendamenti blindati,
di fatto limitativi delle prerogative parlamentari.
Mettiamo qualche puntino sulle molteplici “i” di questo
dibattito.
Esistono stati nei quali il Parlamento ha un ruolo centrale,
rappresenta la volontà popolare, è il titolare della
funzione legislativa primaria, condiziona la vita dei
governi che rimangono in carica fino a quando gode della
fiducia delle Camere.
Il governo, a sua volta, è espressione della maggioranza
parlamentare e ne realizza l’indirizzo politico uscito dalle
urne. Nei casi di straordinaria necessità ed urgenza la
funzione legislativa è assunta dal Governo con
provvedimenti, i decreti-legge, che devono essere convertiti
in legge dalle Camere entro sessanta giorni.
Questo quadro “idilliaco”, formale, nella realtà non sempre
funziona come dovrebbe. Nel senso che le maggioranze, anche
se forti, come nel caso della presente legislatura che ha
dato al Popolo della libertà numeri mai visti prima,
possono non sostenere il governo con un atteggiamento
coerente per motivi i più vari, l’eterogeneità della
maggioranza, l’insufficiente esperienza politica dei
parlamentari, la scarsa capacità di direzione dei
responsabili dei gruppi che sostengono il governo.
D’altro canto è possibile anche che sia il governo a
mostrare inadeguatezza rispetto alle esigenze di gestione
del potere per cui la maggioranza non si senta di seguirne
pedissequamente le iniziative o, per contro, ritenga di
trovarsi costretta a scelte che non condivide, a votare
emendamenti governativi blindati.
È un’analisi, quest’ultima che si attaglia a questo momento
storico.
Come uscirne? Attribuendo al governo poteri in modo che non
si lasci “imbrigliare dalla decisioni del Parlamento”, per
usare le parole del Presidente Monti? Avviare una svolta
presidenzialista o semipresidenzialista? Con un Presidente
della Repubblica eletto direttamente dal popolo che di fatto
domini l’esecutivo, come avviene in Francia? Come auspica il
PdL nella formula votata dal Senato la scorsa
settimana?
In questo caso, come in Francia, occorrono contrappesi, ad
esempio un controllo preventivo della Corte costituzionale
sugli atti normativi del Governo. E se diventasse Presidente
della Repubblica una personalità che ha in uggia non solo il
Parlamento, ma la Magistratura nelle sue varie articolazioni
e proprio la Corte costituzionale?
A mio parere è bene tenersi l’attuale sistema parlamentare,
sia pure rivisitato sotto il profilo del bicameralismo
perfetto che nessuno difende più, lasciamo al Presidente
della Repubblica, eletto o meno dal popolo, il ruolo di
garante della legalità costituzionale e degli equilibri
politici e facciamo funzionare meglio il Parlamento nel
senso che i partiti si impegnino a portare a Montecitorio e
a Palazzo Madama persone con esperienza politica e
amministrativa, com’era un tempo. Diamo forza ai Gruppi
parlamentari ed autorità a chi li dirige e poi se c’è da
battagliare sugli emendamenti vorrà dire che, invece di
lavorare un paio di giorni la settimana, gli eletti dal
popolo si impegneranno di più, magari facendo qualche
nottata per contribuire ad una legislazione più meditata
secondo la volontà degli elettori.
Infine non può mancare un consiglio al Prof. Monti. Stia
attento nelle dichiarazioni, ne mediti gli effetti, anche
quelli enfatizzati da quanti sono interessati ad equivocare,
come in Germania alla vigilia di una campagna elettorale
difficile, o in Italia, come dimostrano le reazioni ad
un'altra intervista, questa volta al World Street Journal.
Quello spread ad oltre 1200 punti, ritenuto nel contesto
dell'intervista come riferito all'ipotesi che fosse rimasto
in carica Berlusconi, è stato smentito, il riferimento era
altro, ma l'"incidente" c'è stato lo stesso. Anche se vero o
equivocato molti sono convinti che con Berlusconi la crisi
sarebbe stata più grave.
7 agosto 2012
La storia virtuale
E se Gianfranco Fini. . . . . ?
di Salvatore Sfrecola
“È stato detto – esordisce Robert Cowley nella sua
introduzione a “La storia fatta con i se” – che “e se?” (o
la storia virtuale o alternativa o parallela, per usare i
termini in voga nei circoli accademici) è la domanda segreta
preferita dagli storici. La storia virtuale ha un valore che
va al di là del “futile gioco di società” (per citare lo
storico inglese E. H. Carr)”. Per il quale (Sei lezioni
sulla storia, Einaudi 1961, 104) è un atteggiamento “più
emotivo che razionale”, che ha indubbiamente un suo fascino
perché inevitabilmente, dinanzi ad un fatto storico, siamo
istintivamente tentati dal pensare “se fosse andata
diversamente?”. Se la rivoluzione francese o quella russa
fossero fallite? Se Napoleone avesse vinto a Waterloo? Se
nella guerra di secessione avesse vinto l’esercito del Sud?
E via fantasticando di storia, grande storia, in un
esercizio che sa di un gioco di società, applicabile
sicuramente anche alla cronaca, agli avvenimenti ancora in
corso o recenti dei quali si può facilmente immaginare anche
un diverso esito, anche perché “a volte ritornano”, si è
detto di alcuni personaggi della politica sconfitti nelle
urne e poi resuscitati da un nuovo voto o da un accordo di
partito o tra i partiti.
Così mi vien fatto di riflettere, all’inizio di questa
campagna elettorale, della quale l’unica cosa incerta è la
durata in relazione alla data possibile delle elezioni
(novembre o maggio, tertium non datur!) del ruolo di
Gianfranco Fini, oggi alla testa di una compagine modesta e
di modeste dimensioni con la quale vorrebbe, sembra,
svolgere un ruolo nei futuri assetti della politica italiana
dei quali ho già scritto in un libro che ancora conserva una
sorprendete attualità nel titolo e nel contenuto
“Un’occasione mancata”(Nuove Idee, Roma, 2006), che
mi aveva suggerito lo stesso Fini. Un’analisi convalidata
dagli eventi successivi che nel periodo 2001 – 2006 trovano
la loro genesi. Nella incapacità di Silvio Berlusconi e
della sua squadra di governo di corrispondere alle esigenze
della comunità nazionale sul piano economico e sociale. Ciò
che spetta ad un governo fare in primo luogo, senza negare
che possa elargire piaceri anche a qualche amico.
Ma poiché
est modus in rebus, quel governo avrebbe
dovuto fare almeno alcune delle cose che aveva promesso,
diminuire le tasse ed aumentare l’occupazione. Magari solo
un po’ meno tasse e qualche posto di lavoro in più, se non
il milione solennemente promesso agli italiani in diretta
televisiva nello studio di Bruno Vespa.
Ho scritto di Fini “risorsa della Repubblica”, ma ho anche
individuato qualche insufficienza della sua azione politica,
qualche incoerenza, valutazione che, sembra, non abbia
gradito. Dubito che abbia letto il libro, mentre sono certo
che alcuni dei suoi ne abbiano fornito una versione
sbagliata. Gli stessi ai quali stava in uggia Domenico
Fisichella, Gustavo Selva o Pietro Mitolo, uomini di cultura
e di fede, fastidiosi intellettuali.
Se Fini avesse letto il libro, non solo confrontandolo con
gli altri che parlano di lui, dalla lettura dei quali non
esce mai bene, considerato la disponibilità a comprendere
anche gli errori che ha guidato la mia penna (ma, come molti
politici, evidentemente preferisci le piaggerie ai richiami
seri), avrebbe apprezzato l’equilibrata valutazione della
sua linea politica con le sue luci e le sue ombre e ne
avrebbe tratto elementi per la sua azione futura che
certamente (ecco il “se”) gli avrebbe dato la possibilità di
succedere a Berlusconi alla guida del Centrodestra.
Gli avrebbe dato la possibilità, non la certezza, perché il
rapporto tra i due non è stato mai improntato a sincera
amicizia, al di là di espressioni di convenienza, come
dimostra qualche sporadica investitura, subito revocata per
non dispiacere ai big di Forza Italia. Perché
Berlusconi non solo non avrebbe mollato la presa ma, una
volta costituito il Partito della Libertà, non
avrebbe potuto giustificare alla maggioranza interna di ex
forzisti il passaggio dello scettro ad un postmissino, sia
pure decorato della vicepresidenza del Consiglio, poi della
gestione della Farnesina (un ministero politicamente
improduttivo) e della Camera dei deputati. Altra vetrina
politicamente improduttiva se non accompagnata da una forza
politica che Fini non aveva ed alla quale anzi ha rinunciato
abbandonando il Partito. Fini ha pensato evidentemente che
il distacco dal partito ed una posizione istituzionale
quantomeno “visibile” se non politicamente produttiva gli
avrebbe dato quel prestigio del quale in passato si era
giovato Giuliano Amato, anche grazie a ben note simpatie di
oltre oceano. Magari guardando al Quirinale. Se lo ha fatto
vuol dire che medita poco sulle vicende politiche.
Come poteva evolvere il ruolo di Gianfranco Fini “risorsa
della Repubblica”, accreditato in Europa per il ruolo svolto
nel corso della Convenzione europea nella quale, in
rappresentanza del Governo italiano, aveva fortemente
sponsorizzato la richiesta di inserire nel Preambolo della
Costituzione europea un riferimento alle “Radici cristiane”
del vecchio continente, in termini di notevole capacità
persuasiva, grazie alla consulenza del Prof. Roberto de
Mattei, storico cattolico ben screditato oltre Tevere? E poi
successivamente, all’opposizione e di nuovo nella
maggioranza uscita dalle urne del 2008?
Qui l’esercitazione nel gioco “di società” nel quale ci
siamo impegnati è anche semplice ed ha alcuni punti fermi,
ben spiegati nel mio libro. In primo luogo il discorso di
Fini, Vicepresidente del Consiglio, al Primo Congresso
dell’alta dirigenza statale organizzato da Franco Frattini,
Ministro della funzione pubblica, al Palazzo del Congressi.
Un discorso che avevo scritto mettendo dentro tutto quanto
poteva dare agli alti dirigenti dello Stato il senso
dell’attenzione del Governo per il loro ruolo in vista della
realizzazione del programma della maggioranza. Fu un grande
successo. Ricordo quanto mi dissero importanti dirigenti
dello Stato, il nerbo dell’amministrazione: “finalmente
abbiamo un punto di riferimento”.
Per un attimo ho pensato che la maggioranza, attraverso un
suo autorevole esponente, avesse capito che la prima
esigenza di chi vuole governare è quella di disporre di
un’amministrazione capace di realizzare il programma di
governo, con leggi, procedure e funzionari “al servizio
esclusivo della Nazione”, come recita l’articolo 98 della
Costituzione. Come accade nelle grandi democrazie
occidentali, eredi di grandi imperi, dove le burocrazie
hanno dato costantemente certezze all’azione dei governi, in
Francia, in Spagna, nel Regno Unito, in Germania.
Invece non se ne è fatto niente di niente, con la
conseguenza che, sul finire della legislatura ed alla
vigilia delle elezioni del 2006, Fini mi disse che la
burocrazia “ci si è rivoltata contro”. Chissà mai perché,
considerato che nel 2001 la burocrazia, soprattutto statale
era passata in massa sotto le bandiere di Forza Italia
e di Alleanza Nazionale dopo che le leggi Bassanini
(il Ministro della funzione pubblica della Sinistra) avevano
creato non pochi problemi le cui conseguenze sono ancora
percepite negativamente. Basti pensare all’abolizione del
Segretario comunale di carriera che da un lato dà mano
libera ai sindaci, dall’altro li espone alle conseguenze di
verifiche della legalità dei provvedimenti del tutto
insufficienti, essendo oggi rimesse ad un funzionario
soggetto a spoil system, pertanto non indipendente.
L’esordio del Governo Berlusconi, atteso dai dipendenti
pubblici, è stato ben presto giudicato negativamente, in
primo luogo dai funzionari di Palazzo Chigi. Più volte ho
sentito nei corridoi e negli ascensori lamentele perché non
era cambiato niente.
Se Fini avesse dedicato maggiore attenzione alla pubblica
amministrazione avrebbe avuto costantemente il polso della
situazione e concrete possibilità di far funzionare
l’apparato, almeno nei ministeri assegnati ad AN.
Ricordo che gli suggerii di chiedere la delega della
Funzione Pubblica quando Frattini fu trasferito agli affari
esteri. Niente, non la chiese, forse non l’avrebbe avuta. Ma
non la chiese.
Altri momenti da valutare sotto il profilo del “se” avesse
operato diversamente riguardano il referendum sulla legge 40
e il tema della famiglia, argomenti cari ai cattolici che
avrebbero potuto rendere maggiormente affidabile il leader
di AN.
Sul referendum è noto che Fini manifestò un dissenso
rispetto alla posizione di chi chiedeva un “no” alla
abrogazione delle norme sulla procreazione assistita. Per
quale motivo Fini votò “si” non si è mai compreso a fondo.
Almeno non l’ho compreso io, considerato che il leader di un
partito politico, a stragrande maggioranza di cattolici
convinti (basta vedere le presenze dei “colonnelli” alle
cerimonie religiose in San Pietro o a quelle officiate dall’Opus
Dei), avrebbe dovuto, quanto meno soprassedere ad una
presa di posizione pubblica. “Parigi val bene una Messa!”
avrebbe detto l’ugonotto Enrico IV costretto a convertirsi
al cattolicesimo per ottenere il trono di Francia.
Nel caso del referendum era in gioco molto meno di un trono
ma la credibilità di Fini agli occhi della Chiesa. Così
inizia una deriva laicista dell’ex leader di AN che
lo porterà a mandare a monte i risultati della Commissione
per la famiglia nella quale avevo chiamato i massimi
esponenti delle associazioni cattoliche (Binetti compresa)
per un risultato – un disegno di legge sullo Statuto dei
diritti della famiglia – molto serio e comunque da spendere
in sede elettorale in quella competizione persa per 24mila
voti. C’è da ritenere che quell’iniziativa, ben
pubblicizzata, avrebbe potuto fare la differenza.
Deriva laicista, ho detto, perché non solo Fini non ha
presentato il disegno di legge ma ha anche negato la
possibilità all’On. Buttiglione di farsene promotore, come
l’attuale presidente dell’UDC mi ha rivelato, deriva
laicista convalidata dal ruolo attribuito in Futuro e
Libertà a Benedetto Della Vedova, ex esponente radicale,
lanciato spesso nelle trasmissioni televisive a
rappresentare il partito.
La Chiesa aveva scommesso su Fini, è il titolo di un
capitolo del mio libro ed è una frase pronunciata da un
giornalista di Avvenire, Arturo Celletti, dinanzi
all’editore Lucarini in una riunione nella quale si parlò
dell’ipotesi di fare un libro sul leader di AN.
Credibile che la Chiesa avesse scommesso su Fini, il leader
di un partito nazionale, di ispirazione cattolica, una
solida presenza sul territorio, una garanzia superiore a
quella che avrebbe potuto assicurare, agli occhi
dell’elettorato cattolico, il Cavaliere del burlesque.
Con due mosse Fini si è giocato tutto, la possibilità di
succedere a Berlusconi attraverso la cura del partito ed una
forte presenza nel governo. Invece ha scelto ancora una
vetrina, dopo gli esteri la Camera, a parole la terza carica
dello Stato, nella realtà un ruolo politicamente emarginato
se chi siede sullo scranno più alto di Palazzo Montecitorio
non ha una forte posizione politica. Che Fini, infatti, non
ha avuto, al punto da essere stato, di fatto, cacciato, o
essere stato costretto ad andarsene, secondo una versione
più edulcorata e quindi esposto a campagne mediatiche che ne
hanno inevitabilmente consumato l’immagine.
Con più concretezza, se avesse creato uno staff politico e
di consulenti all’altezza delle ambizioni che andava
manifestando, oggi il futuro di Fini sarebbe diverso.
Ma si sa la presunzione non porta lontano. D’altra parte è
in buona compagnia, in questo, almeno, con Berlusconi.
Anche in politica è sempre possibile il miracolo. Ma se non
avverrà, la “risorsa della Repubblica” è da considerare
sprecata, colposamente sprecata.
6 agosto 2012
Incredibile Cicchitto.
Accusa Casini di consegnare il Paese alla Sinistra, non il
Centrodestra che ha tradito l’elettorato e portato
l’Italia sull’orlo del baratro!
di Senator
Per Fabrizio Cicchitto, Presidente dei deputati del
Popolo della Libertà, "Casini con il suo “correrò da
solo ma poi possibile un'alleanza con il Pd” sta
consegnando il Paese alla sinistra". Lo ha affermato in
una una intervista a Repubblica aggiungendo che
"Casini e l'Udc avevano, e l'avrebbero tuttora,
l'occasione di dar vita con il Pdl a una grande
aggregazione moderata-riformista collegata lungo la linea
del Ppe". Invece "scelgono una via diversa, del tutto
tatticistica, quella di andare apparentemente da soli alle
elezioni, ma con la preferenza per una successiva alleanza
di governo con il Pd". Poi l'auspicio: "Speriamo che
Casini ci ripensi".
Incredibile, veramente incredibile, che uno dei massimi
esponenti del partito che, autodefinendosi di
centrodestra, ha portato l’Italia allo sfascio, così dando
spazio, in un’Italia sicuramente moderata, all’opposizione
di sinistra, possa accusare di contribuire al successo di
un’eventuale coalizione targata Partito Democratico
un partito, l’UDC che ha annunciato di correre da sola,
come aveva fatto nelle elezioni del 2008, nelle quali il
partito di Berlusconi aveva avuto uno straordinario
successo. Quel partito che, nonostante la più grande
maggioranza di tutti i tempi, non ha saputo governare e
realizzare nemmeno una delle tante riforme promesse in
campagna elettorale.
Ci vuole un’incredibile faccia tosta ed una servile
dedizione al Cavaliere fare di queste affermazioni, già
sentite nei giorni scorsi da Angelino Alfano, Segretario
virtuale del PdL che non ha trovato di meglio che
proporre, per cercare di uscire dalla crisi, cercare
perché se non cambia politica non c’è speranza, di vendere
il patrimonio dello Stato, delle Regioni, delle province e
dei comuni. In sostanza, il partito responsabile del
dissesto propone la vendita dei gioielli di famiglia.
Non lo farebbe neppure una famiglia normale che finché ha
un patrimonio sa di poter avere un prestito, magari a
strozzo, ma venduto quello, non avrebbe altra risorsa che
andare sotto i ponti.
Forse Alfano non sa che la proprietà di quei beni, che
sono la gloria del Paese, immobili e partecipazioni
azionarie in importanti imprese di prestigio
internazionale, è stata possibile grazie al sacrificio di
generazioni di italiani nel corso dei secoli, italiani i
quali, pagando le imposte o chiamati a lavori obbligatori
hanno consentito a Re, Papi e Principi di costruire
palazzi, caserme, scuole e, nel tempo, di iniziare
attività produttive pubbliche in settori nei quali
l’investimento privato non era adeguatamente remunerativo.
“Deus insanit eos qui vult perdere!” è stato detto
più volte e mai come in questo caso è vero. Il PdL porta
alla rovina il centrodestra e lo spirito democratico
liberale che naturalmente lo anima. Quando il vessillo dei
moderati è in mano ad un pool di socialisti, reduci del
partito annientato da tangentopoli non c’è da essere
allegri. Solo la speranza può ancora far sorridere la
maggioranza degli italiani, quella che si materializzi
all’orizzonte un leader capace di mobilitare il popolo dei
moderati su un programma di riforme vere con un progetto
di crescita e benessere economico e sociale, quello che si
può realizzare, basta volerlo, con il concorso degli
italiani che fin qui hanno dimostrato disponibilità ai
sacrifici, nonostante ne percepissero l’intrinseca
ingiustizia. Perché con 120 miliardi di evasione l’anno,
60 miliardi di corruzione e 80 di sprechi a pagare sono
stati e sono sempre i soliti a quali non si può chiedere
ulteriore pazienza avendone già dimostrata tanta.
5 agosto 2012
Idee confuse e miopia politica.
Lo spread è a livelli altissimi, i disoccupati sono
quasi tre milioni, la recessione minaccia altri posti di
lavoro ma per il Segretario del PD, Bersani, una delle
priorità è la disciplina delle coppie gay!
di Senator
Nei giorni scorsi lo spread ha sfiorato i 500
punti, nel frattempo l’ISTAT fa sapere che i disoccupati
sfiorano i tre milioni, che potranno crescere ancora in
conseguenza della recessione, il Ministro Severino è corsa
al Carcere romano di Regina Coeli per rendersi
conto di persona di quel sovraffollamento degli istituti
penitenziari che certamente concorre a determinare un
disagio forte, al punto di indurre detenuti ed agenti di
custodia al suicidio. Potremmo elencare altri motivi di
disagio sotto gli occhi di tutti, come quelli testimoniati
dalle persone anziane che frugano nei cassonetti alla
ricerca di qualche foglia di insalata scartata perché non
integra, ma potremmo anche tornare a denunciare la grave
situazione della sanità in molte realtà locali dove
l’appuntamento per una TAC viene fissato a mesi di
distanza, spesso quando il paziente non ne ha più bisogno
perché passato a miglior vita. Perché gli sprechi di
primariati inutili, costi fuori mercato e apparecchiature
rimaste inutilizzate non consentono di curare chi ha
bisogno.
Queste ed altre sono le emergenze dalle Alpi al Lilibeo
per cui stupisce l’enfasi con la quale il Segretario del
Partito Democratico, Pierluigi Bersani, impegna la sua
formazione politica, che, si dice, potrebbe vincere le
prossime elezioni, nella disciplina delle coppie gay.
In
contemporanea le televisioni, dalle inserzioni
pubblicitarie (i gay sembra siano grandi consumatori di
prodotti di bellezza) ai servizi di approfondimento ed
agli spettacoli cinematografici narrano di amori
omosessuali e La7 ne fa uno speciale, condotto da
Enrico Mentana, che manda in onda, tra altre, la
testimonianza di chi, interpellato dalla madre su quali
fossero i rapporti con l’altro o l’altra, dice “mamma,
facciamo quello che tu fai con papà”.
Intendiamoci bene. Non mi incammino in un discorso
moralista che non mi interessa, ma vorrei richiamare
alcuni punti di riferimento di carattere giuridico dei
quali i partiti dovrebbero tener conto nella veste di
legislatori.
Nulla quaestio sulla necessità di una
disciplina di diritti e doveri che integri il codice
civile per le coppie di fatto eterosessuali. Si tratta di
situazioni che corrispondono a scelte personali, sempre
rispettabili. Si convive in attesa del matrimonio o di un
nuovo matrimonio o si convive perché si è scelto di non
formalizzare il rapporto. Se si vuole dare forma giuridica
al rapporto tra un uomo ed una donna, se si rivendicano
conseguenti diritti è necessario, tuttavia, che si accetti
anche l’assunzione di alcuni doveri che la Costituzione
delinea per la famiglia, quanto alla “uguaglianza morale e
giuridica” (art. 29, comma 2), reciproca assistenza, al
“dovere e diritto” di “mantenere, istruire ed educare i
figli” (art. 30, comma 1). Insieme vanno considerati i
diritti alle “misure economiche”per le “famiglie numerose”
(art. 31, comma 1).
Diritti e doveri sono due facce della stessa medaglia. E
se in Italia si vorranno dare certezze a coppie che
decidono di vivere insieme senza formalizzare il rapporto
nelle ordinarie del matrimonio, civile o religioso, il
loro riconoscimento non potrà non tenere conto dei diritti
e dei doveri che la Costituzione prescrive per le coppie
unite da matrimonio per non creare una disuguaglianza che
sarebbe lesiva dei principi costituzionali.
Diversa è la questione delle coppie omosessuali.
Anche per esse potranno essere stabiliti, a seguito di un
riconoscimento dai precisi ambiti giuridici, diritti e
doveri, esclusi evidentemente quelli connessi con la
genitorialità che è prerogativa delle coppie fertili che
possono geneticamente procreare, che è fine sociale
direttamente funzionale allo sviluppo della società.
Vanno escluse, dunque, adozioni da parte di coppie dello
stesso sesso nel rispetto dei bambini i quali hanno
diritto ad una figura maschile e ad una femminile.
L’adozione, infatti, non è un diritto che può essere fatto
valere nell’interesse esclusivo degli adottandi, ma
nell’interessi comune di chi adotta e di chi è adottato.
La versione egoistica dell’adozione che fa prevalere
esclusivamente l’interesse degli adottandi, non è
ammissibile.
2 agosto 2012
Il taccuino del Direttore
Idee
confuse sul da farsi (colte nel dibattito di Omnibus,
ieri)
L’On.le Lorenzin è una garbata Signora con un bel sorriso,
ora che ha tolto l’apparecchio ortodonzico che esibiva
coraggiosamente fino a quale tempo fa. È una parlamentare
del Partito della Libertà, del partito, cioè, che
ha governato per la maggior parte del tempo dal 1994, ma,
chiamata a partecipare ieri alla quotidiana puntata di
Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, si
è esibita in considerazioni sul tema delle imposte che
farebbero ritenere che la sorridente Signora abbia negli
ultimi anni soggiornato lontano dal Bel Paese, se
non addirittura su Marte.
Infatti, venendo a parlare delle operazioni di verifica
della Guardia di Finanza in alcune località turistiche,
richiamate dal conduttore sulla scorta di notizie di
giornale, sentendo che era stato accertato circa il 38% di
evasione dell’obbligo di emettere lo scontrino fiscale, l’On.le
Lorenzin l’ha mandata in caciara, come si dice a Roma,
inserendo argomenti, tutti certamente validi, dal carico
eccessivo del fisco, alle difficoltà delle imprese in un
contesto fortemente recessivo, omettendo,tuttavia, di dire
da dove partirebbe una riforma del fisco targata PdL,
considerato che il quadro delineato non è recente e, in
ogni caso, era presente al Cavaliere sotto le cu insegne
milita, tanto che ripetutamente ne ha fatto oggetto di
promesse miracolistiche, del tipo diminuirò le tasse,
soprattutto sulla famiglia, creerò oltre un milione di
posti di lavoro.
Naturalmente in sede elettorale, unitamente all’avversione
degli italiani per la sinistra, le promesse del
Presidente-imprenditore hanno funzionato e qualcuno dice
che potrebbero assicurare ad un PdL disfatto ancora
un discreto consenso, non per governare, ovviamente, ma
per assicurare al medesimo imprenditore una posizione
politica, quale leader della opposizione, idonea a
garantirgli tranquillità per le sue aziende, che è poi la
ragione della sua “discesa in campo"
1° agosto 2012