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UnSognoItaliano.it

 

 

AGOSTO 2012

 

La “torbida manovra” contro il Quirinale

Una Repubblica in dissoluzione

di Senator

 

Il dibattito si snoda tra “illazioni e allusioni”, come scrive Antonio Polito nel fondo di oggi sul Corriere della Sera, e tra “verità e demagogia”, come titola Ezio Mauro nell’editoriale su La Repubblica, in un clima da fine dell’impero che poi è una repubblica purtroppo ammalata di populismo, vuoi per ispirazione di alcuni partiti, vuoi per l’inevitabile clima preelettorale. Che in qualche modo riguarda coloro che si presenteranno alla competizione elettorale, tra novembre, marzo e maggio, in vista di un risultato che, auspicato o temuto, riguarda equilibri parlamentari dai quali dipenderà il nuovo governo e l’elezione del successore di Giorgio Napolitano.

Una lettura attenta di quello che sta accadendo in questi giorni intorno alla questione, eccessivamente enfatizzata, della intercettabilità, sia pure indiretta, delle conversazioni del Capo dello Stato, ci dice di un tentativo di screditare il Presidente Napolitano e, indirettamente, le sue scelte in favore di un governo “tecnico”, mal digerite da alcuni (soprattutto il Pdl), in presenza di un’ipotesi che il Prof. Monti continui a presiedere un esecutivo, sia pure di larghe intese (come esplicitamente affermato da Casini e, l'altro ieri, ad Omnibus dal Presidente dell'UDC Buttiglione), anche nella prossima legislatura, posto che la scelta del premier spetterebbe sempre a Napolitano.

In sostanza, più che di un “ricatto”, espressione per molti versi impropria, perché prevederebbe che il Presidente fosse condizionabile per qualche comportamento quanto meno illegittimo che nessuno ha ipotizzato, traspare evidente un tentativo di diminuire la credibilità di una istituzione che tanta ne ha conquistata agli occhi degli italiani per sollecitazioni e moniti nei confronti delle insufficienze della gestione governativa nella prima parte della legislatura.

Di qui il tentativo di mandarla “in caciara”, come si dice a Roma, per annullare i demeriti di una classe politica che ha raggiunto i livelli più bassi della storia d’Italia e delle democrazie occidentali. Governi che non hanno governato, parlamenti che non hanno legiferato né controllato tra sprechi e corruzione, costituiscono lo scenario di una repubblica in disfacimento nella quale tutti cercano di sopravvivere nella speranza che il disprezzo degli italiani, dimostrato, tra l’altro, dall’elevato astensionismo, non sia tale da mandare tutti a casa. Per cui il balletto del confronto sulla legge elettorale che attesta dell’evidente volontà di lasciar sopravvivere il famigerato porcellum che a parole tutti vorrebbero cambiare ma che nella realtà a tutti fa comodo. Per cui è probabile che resterà questa legge o che se ne farà un’altra peggiore, come teme Di Pietro. E poiché il Presidente Napolitano insiste, di giorno in giorno, perché si faccia una nuova legge, niente di meglio che creare un polverone intorno ad una vicenda tutto sommato tecnica (la procedura per la distruzione di intercettazioni penalmente irrilevanti ed il ricorso del Quirinale alla Corte costituzionale) in modo che la sollecitazione riformatrice del Presidente perda di credibilità. E lui sia condizionato nelle future scelte sul finire della legislatura e nella individuazione del nuovo Presidente del Consiglio, se non decidesse di togliere prima il disturbo anticipando la fine del mandato.

Chi è il direttore di questa variegata orchestra cui qualche nota stonata non fa venir meno arroganza e improntitudine? Le “illazioni e le allusioni”, per dirla con il titolo di Polito, sono tante e spesso credibili anche se non facilmente verificabili.

Sta di fatto che la sorte dei Presidenti della Repubblica in Italia, specie sul finire del mandato, è stata spesso condizionata da polemiche pretestuose e da tentativi di condizionamento dimostratisi ex post inconsistenti. Come nel caso di Giovanni Leone, costretto alle dimissioni da una campagna mediatica ben orchestrata che si sarebbe poi dimostrata basata su falsi. Come nel caso di Francesco Cossiga aggredito alla prima picconata menatata su istituzioni che tutti, a parole, avrebbero voluto modificare.

Adesso Napolitano cui va il merito di aver dimostrato indipendenza e rigorosa difesa delle attribuzioni costituzionali, aggredito in modo grossolano, costretto a far presente che è “risibile l’idea di un ricatto”. È un po’ come nel “non ci sto” di Scalfaro.

I presidenti sono, in realtà, esposti a pressioni politiche. Non si possono difendere con le stesse armi di un qualunque parlamentare, sono soli e sulla loro pelle si giocano gli equilibri per la loro successione.

La maledizione del Quirinale, ricorda qualcuno, che è costato il trono al Papa Re ed ai Savoia e non lascia vivere sonni tranquilli ai successori repubblicani nel momento che, in vista del termine del mandato, sembrano – e sono obiettivamente – ogni giorno più più deboli.

31 agosto 2012

 

 

 

Ma il Ministro Patroni Griffi è ottimista

Corruzione: quella legge non s’ha da fare

di Iudex

 

“Sull'anticorruzione non credo che il governo rischi. Io ritengo che il ddl, nei tempi e nei termini che riterrà il Parlamento, verrà approvato”. La frase del Ministro della funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, in apertura dell’articolo di Donatella Stasio, su Il sole-24 ore del 29 agosto, rilancia il ruolo del Governo. Sarà anche un ingenuo il Ministro, che pure di amministrazione se ne intende non solo per il ruolo governativo ma per la lunga esperienza di magistrato del Consiglio di Stato, un “neofita”, come – riferisce sempre la Stasio - lo ha definito il capogruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri, ma è certo che il Governo, come ha dichiarato in passato più volte anche il Ministro della Giustizia, Paola Severino, annette grande importanza al provvedimento che giustamente ritiene parte importante del pacchetto sviluppo, nel senso che dove c’è corruzione non c’è competizione tra le imprese. La lotta alla corruzione, infatti, non è una cosa in più, doverosa anche per le sollecitazioni provenienti dall’Europa, ma il centro del buongoverno, una questione essenziale nel funzionamento della politica e dell’amministrazione.

La prova in quel che accade a pochi chilometri dalle nostre coste adriatiche, in Serbia che, riferisce l’ANSA, è stata invitata ad intensificare la lotta a corruzione e criminalità organizzata, ed a proseguire nella riforma del settore giudiziario dall’on. Jelko Kacin, relatore al Parlamento europeo sul dossier Serbia, in relazione alla richiesta di ingresso nell’Unione europea, al termine di una visita di tre giorni a Belgrado nei quali ha incontrato le massime autorità parlamentari dello stato.

I temi della giustizia e delle istituzioni dello stato di diritto, infatti, saranno i primi a essere affrontati in sede di negoziato con la Ue.

In Italia, a parte l’ottimismo del Ministro Patroni Griffi, c’è poco da sperare. La lotta alla corruzione non è evidentemente nel dna di molti parlamentari che ostacolano da sempre ogni iniziativa anche quelle che l’Italia si è impegnata a portare avanti in sede internazionale. Basti pensare che solo da poco, con la legge 28 giugno 2012, n. 110, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 21 agosto, è stata ratificata la Convenzione penale sulla corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999. Sì millenovecentonovantanove! Ben tredici anni, nei quali si sono alternati vari governi e maggioranze (tra l'altro quelle "storiche" del Centrodestra nelle legislature 2001-2006 e nell'attuale) che non hanno trovato il tempo di ratificare la convenzione, tra l’altro esponendo il Paese a critiche in sede internazionale, come nel caso delle censure del GRECO, il Gruppo europeo per la lotta alla corruzione, che a quella della ratifica della convenzione aveva unito nei mesi scorsi altre 21 raccomandazioni, perché l’Italia rientrasse nei parametri di un moderno paese occidentale.

Stimo molto il Ministro Patroni Griffi per non apprezzare il suo ottimismo. E certamente il Governo vorrebbe che la legge anticorruzione fosse approvata, ma è in Parlamento che non ci sono le condizioni per far andare avanti un provvedimento serio, capace di ostacolare comportamenti corruttivi e punirli.

Ma così l’economia non vedrà grandi opere realizzate nei tempi previsti. Sarà ancora un balletto di varianti e sospensioni dei lavori per imprevisti e sorprese geologiche, archeologiche, ecc. Così non sorprende che i lavori vadano a rilento, costino due o tre volte quanto preventivato in un rinfacciarsi di responsabilità che non è facile individuare da parte dei giudici, perché intervengono continuamente fatti i quali introducono nei procedimenti decisioni che modificano continuamente gli scenari.

Una legge sulla corruzione va, dunque, fatta. Non eliminerà completamente uno dei mali più antichi nella gestione delle risorse pubbliche, che ha caratterizzato, fin dall’antichità, democrazie e dittature, ma potrà frenare i comportamenti più scandalosi, troppo spesso sottolineati da lodi arbitrali nei quali le amministrazioni sembra si presentino con la testa piegata per porgerla alla mannaia del boia.

30 agosto 2012

 

 

 

 

Le sanzioni amministrative nel Paese dei balocchi

(funzionano solo quelle del Codice della strada)

di Salvatore Sfrecola

 

Non sappiamo al momento che fine farà il provvedimento predisposto dal Ministro Balduzzi, contenente prescrizioni in materia di salute con previsione anche di norme in materia di giochi, impallinato da destra e da sinistra sotto vari profili, perfino di costituzionalità, perché, incidendo su stili di vita dai riflessi indubbiamente sanitari (obesità, fonte di diabete, ecc, per quanto riguarda le bevande gassate e alcoliche), avrebbe, a detta di alcuni, leso diritti costituzionalmente tutelati quanto alla libertà individuale. Se vero sarebbe uno svarione non da poco, considerato il Prof. Renato Balduzzi, dal 2011 è ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dopo aver tenuto a lungo il medesimo insegnamento nell’Università del Piemonte orientale.

Tuttavia non intendo affrontare il tema della presunta incostituzionalità di alcune norme portate ieri all’attenzione del “preconsiglio”, la riunione preparatoria del Consiglio dei ministri, e, a quanto sembra, rimaste in stadby in attesa di ulteriori approfondimenti, per fare, invece, alcune considerazioni sulle sanzioni che, secondo stampa e televisione, sono ivi stabilite in caso di violazione dei vari divieti previsti delle quali, peraltro, non conosco le caratteristiche di applicazione.

Perché è questo il problema. Le sanzioni amministrative, istituite in vari settori, anche con riguardo a materie già oggetto di disciplina penale, non hanno fin qui fatto buona prova. Se si escludono, infatti, le sanzioni in materia di violazione del Codice della strada, la farraginosità del meccanismo di accertamento, di istruttoria e di irrogazione delle sanzioni, soggette a varie impugnazioni, non è assolutamente efficace. Qualcuno ricorderà, al riguardo, la notizia, di alcuni anni fa, che presso molte prefetture erano state prescritte sanzioni amministrative per molti miliardi. Non era colpa naturalmente dei prefetti e dei loro collaboratori, forse del numero insufficiente di funzionari addetti a curare la materia. Ma è stata indubbiamente conseguenza della complessità del procedimento.

In materia di sanzioni per violazione del divieto di fumo, ad esempio, sono pronto a scommettere che sia gli accertamenti che le riscossioni saranno stati pochissimi. Starei per dire inesistenti, come le sanzioni per la defecazione dei cani, stabilite dal Comune di Roma ed anche qui sono certo che esse non sono state applicate. E non solo in relazione all’evidente stato delle strade soprattutto al centro della Capitale.

Tuttavia sono pronto a fare ammenda se ministeri e comune dimostreranno, dati di bilancio alla mano, che non è così, che le sanzioni per le violazioni accertate sono state regolarmente riscosse.

Torniamo al divieto di fumo, che attiene alla salute dei singoli ed ai costi che, per effetto della violazione di quel divieto, subisce la società, per gli aggravi delle cure a carico del Servizio Sanitario Nazionale impegnato ad affrontare una serie di patologie delle quali sono sovente affetti i fumatori.

In origine, dunque, era la legge 11 novembre 1975, n. 584 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico). Poi è venuta la legge 16 gennaio 2003, n. 3 (Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione) che all’art. 51 (Tutela della salute dei non fumatori), vieta di fumare nei locali chiusi, ad eccezione di:

a)      quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico;

b)       quelli riservati ai fumatori e come tali contrassegnati.

           Il comma 5 stabilisce che alle infrazioni al divieto “si applicano le sanzioni di cui all'articolo 7 della legge 11 novembre 1975, n. 584, come sostituito dall'articolo 52, comma 20, della legge 28 dicembre 2001, n. 448”.

           Norma severissima che prevede la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 25 ad euro 250; la misura della sanzione e' raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di una donna in evidente stato di gravidanza o in presenza di lattanti o bambini fino a dodici anni. E via di seguito aggravanti varie da far valere ai sensi dell'art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) il quale prevede che qualora non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il funzionario o l'agente che ha accertato la violazione... deve presentare rapporto, con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni, all'ufficio periferico cui sono demandati attribuzioni e compiti del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione o, in mancanza, al prefetto.

La violazione, quando sia possibile, deve essere contestata immediatamente al trasgressore, il quale è ammesso a pagare il minimo della sanzione nelle mani di chi accerta la violazione (art. 8).

Se non sia avvenuta la contestazione personale al trasgressore, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti in Italia entro il termine di trenta giorni dall'accertamento.

Qualora il pagamento non avvenga immediatamente, il trasgressore può provvedervi, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla data di contestazione o della notificazione, anche a mezzo di versamento in conto corrente postale nel luogo e con le modalità indicate nel verbale di contestazione della violazione.

Ai se3nsi dell'art. 9 i soggetti legittimati ad accertare le infrazioni, ai sensi delle norme richiamate dall'articolo 2 della presente legge, qualora non abbia avuto luogo il pagamento di cui all'art. 8, presentano rapporto al prefetto con la prova delle eseguite contestazioni o notificazioni.

Il prefetto, se ritiene fondato l'accertamento, sentiti gli interessati ove questi ne facciano richiesta entro quindici giorni dalla scadenza del termine utile per l'oblazione, determina, con ordinanza motivata, la somma dovuta per la violazione entro i limiti, minimo e massimo, stabiliti dalla legge e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese per le notificazioni, all'autore della violazione.

L'ingiunzione prefigge un termine per il pagamento stesso, che non può essere inferiore a trenta giorni e superiore a novanta giorni dalla notificazione.

L'ingiunzione costituisce titolo esecutivo.

Contro di essa gli interessati possono proporre azione davanti al pretore del luogo in cui è stata accertata la violazione entro il termine massimo prefisso per il pagamento.

Salvo quanto è disposto dall'articolo 9, l'art. 10 prevede che decorso il termine prefisso per il pagamento, alla riscossione delle somme dovute, su richiesta della Amministrazione della sanità procede l'Amministrazione finanziaria, mediante esecuzione forzata con la osservanza delle norme del testo unico approvato con R.D. 14 aprile 1970, n. 639, sulla riscossione coattiva delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici.

Amen!

Credo che difficilmente sarebbe possibile immaginare un meccanismo più farraginoso. Alcuni lo definirebbero “garantista”, ma credo che una persona di buon senso non possa ritenere questo meccanismo idoneo ad assicurare l’efficacia di una disposizione sanzionatoria, come dovrebbe, per definizione la norma che l’applica.

Indipendentemente dall’esito che avrà la riflessione sul decreto Balduzzi, il Governo dovrà rivedere la materia delle sanzioni amministrative, una vicenda che fa poco onore al legislatore italiano, come spesso accade, equivoco quando si tratta di adottare i meccanismi che devono rendere efficace una sanzione. Sembra cioè, come ho scritto in altra occasione, che le leggi si fanno per soddisfare una parte della popolazione e si rendono inapplicabili per accontentare l’altra parte, quella che i divieti non li vuole. Qualcuno direbbe “una legge all’italiana”, un’espressione che mi offende come cittadino e come giurista.

Ma è così.

29 agosto 2012

 

 

 

Dietro gli insulti niente

di Senator

 

Unanime verdetto, questa mattina, dei partecipanti ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7. La raffica di insulti che ha caratterizzato nelle ultime 48 ore, in un crescendo mai visto, il confronto politico, zombie, cadaveri viventi, fascisti del web, falliti, piduisti, dimostra una sola cosa: l’assoluta mancanza di idee. Ha cominciato Mario Sechi, direttore de Il Tempo, richiamando il senso delle parole non sotto il profilo semantico ma quale dimostrazione del livello al quale è sceso il dibattito. E ne ha dedotto che se l’avversario viene insultato vuol dire che gli interlocutori hanno, chi più chi meno, una scarsa disponibilità di concetti, di proposte, di programmi, tenuto conto che siamo all’inizio di una campagna elettorale che in vista di una scadenza storica, il ritorno alla politica dopo la parentesi del governo tecnico e l’elezione del Presidente della Repubblica, dovrebbe suscitare ben più meditate riflessioni nei protagonisti della vita politica. Scadenze importanti, difficili da affrontare per partiti che hanno la consapevolezza che, giudicando dalla storia parlamentare italiana, almeno degli ultimi venti anni, nessuno dei partiti in campo con i possibili alleati ha la ragionevole previsione di prevalere in modo da formare una maggioranza capace di assicurare la governabilità del Paese.

Perché di questo si tratta, quando si sente il balletto delle ipotesi di larghe o piccole coalizioni a geometria variabile tra la campagna elettorale e gli esiti della stessa, con la conseguenza che si sente sempre più spesso fare il nome di Mario Monti come Presidente del Consiglio nella futura legislatura. Naturalmente i leader politici, che si apprestano a chiedere il voto al loro elettorato, non ipotizzano un Monti bis, anzi negano decisamente la praticabilità di una simile prospettiva. E non c’è da stupirsi perché un candidato premier, come Pierluigi Bersani, che si è particolarmente distinto nell’esorcizzare l’ipotesi di un nuovo incarico a Monti nel 2013, avrebbe inevitabilmente perso la faccia se avesse, quale leader di un Partito, il Democratico, e di una coalizione, con Sinistra Ecologia e Libertà, di Niki Vendola, prospettato un Governo guidato dal professore della Bocconi all’esito delle elezioni del prossimo maggio. Ma anche Bersani sa bene che la sua eventuale prevalenza nelle elezioni non gli consentirebbe di disporre di una maggioranza capace di governare. Sarebbe più o meno il Prodi del 2013, qualunque sia il premio di maggioranza che fosse definito nella, sempre più ardua, riforma elettorale, dacché in sede di revisione del porcellum tutti i partiti stanno attenti che le norme non favoriscano i concorrenti.

Pertanto, in assenza di programmi che ci dicano come risolvere il problema del debito pubblico, al di là di ricorrenti fantasiose ipotesi di alienazioni di beni dello Stato, dell’insopportabile carico fiscale, della disoccupazione crescente, della recessione che segna punti negativi sul PIL, partiti senza idee, come non ne hanno avute negli anni scorsi, chi ha governato e chi ha fatto una finta opposizione, incapaci di formulare ipotesi che abbiano la connotazione della credibilità e della realizzabilità e siano capaci di suscitare consenso, ricorrono all'insulto. Uno spettacolo del quale gli italiani sono stufi.

27 agosto 2012

 

 

 

 

Dopo il Consiglio dei ministri in forma “seminariale”

Osare per crescere

di Salvatore Sfrecola

 

Al termine della riunione del Consiglio dei ministri del 24 agosto, nove ore di discussione definita dai più “seminariale”, a testimonianza che l’occasione era soprattutto destinata, com’era logico che fosse dopo le ferie estive, ad una messa a punto dell’agenda del Governo per i prossimi mesi, tra le varie dichiarazioni e battute riportate dai giornali e dai telegiornali spicca quella del Ministro dell’economia Vittorio Grilli il quale avrebbe affermato, riprendo dal Corriere, che i progetti di sviluppo “dovranno stare entro le risorse disponibili”. Che il ministro spera arrivino dalla revisione delle agevolazioni fiscali, dalla valorizzazione dei beni pubblici, dalla revisione della spesa pubblica.

È la classica scoperta dell’acqua calda. Se non ci sono risorse non si possono fare nuove spese. Affermazione si direbbe, absit iniuria verbis, ragioneristica (Grilli è stato Ragioniere generale dello Stato), sicuramente coerente con l’esigenza di fare il passo secondo la gamba, come invita la prudenza popolare, ma è certo che se si vuol crescere occorre anche un po’ di fantasia ed anche una dose, sia pure prudente, di audacia. Non solo perché, per dirla con Virgilio, audentes fortuna iuvat, ma perché non si può attendere il realizzarsi delle risorse, occorre provocarne la formazione attraverso iniziative capaci di stimolare la crescita, che significa nuove produzioni, nuovi posti di lavoro, nuove disponibilità per le famiglie, ripresa del mercato interno. Il tutto con nuove entrate fiscali, dalle produzioni, dai posti di lavoro, dagli acquisti delle famiglie. Per questo la demonizzazione dell’IVA meriterebbe qualche riflessione che non si fa.

La crescita richiede fiducia anche negli imprenditori che per “osare”, e giovarsi della fortuna che assiste gli “audentes”, devono percepire possibilità di crescita, partendo dagli investimenti necessari a diversificare ed aumentare le produzioni, che le banche non finanziano e che il Governo non assiste attraverso mirati, prudenti incentivi fiscali.

Ho sempre ritenuto che il fisco sia lo strumento di elezione della politica economica, flessibile e di immediati effetti, per questo ho visto con favore l'iniziativa del Viceministro per le infrastrutture, Mario Ciaccia, che ha proposto di eliminare l’IVA sulle grandi opere, convinto che l’iniziativa possa generare nuove entrate attraverso la velocizzazione di un settore fondamentale per il Paese. Certo vanno studiati gli effetti dal punto di vista della tenuta dei conti.

Ma questa è la strada “la fantasia al Governo”, avrebbe detto Tommaso Marinetti. È stato sempre così, come per le semplificazioni, troppo timide, assolutamente inadeguate all’esigenza del momento. Naturalmente anche in questo caso, in un Paese dall’autocertificazione facile, falsa “tanto nessuno controlla”, occorre verificare come attuare semplificazioni che non distorcano il mercato alterandone le regole, nel senso di danneggiare gli operatori economici onesti, quelli che le leggi le rispettano.

Ma nel 2012, nell’era dell’informatica nella quale il codice fiscale permette di individuare tutti i soggetti che operano in rapporto alle pubbliche amministrazioni, con una griglia di adempimenti verificabili attraverso banche dati ad hoc, anche il timore che le semplificazioni aiutino solo i furbi va ridimensionato.

L’Italia e gli operatori economici non possono aspettare che le entrate dello Stato siano accertate, riscosse e versate in tesoreria, come prescrive la legge di contabilità dello Stato. È solo necessario che gli accertamenti siano verificabili, che le previsioni siano certe. Ma a questo provvede la Ragioneria Generale dello Stato.

Anni addietro Andrea Monorchio, Ragioniere Generale, mi parlava di un modello econometrico del quale esaltava la capacità di tenere sotto controllo i conti e di elaborare previsioni in ogni settore. Che fine ha fatto se non possiamo giocare d’anticipo, osare nell’interesse del Paese?

26 agosto 2012

 

 

 

Il taccuino del Direttore

 

C’è Sinistra e Sinistra (i fatti di Holland e le chiacchiere di Prodi e Bersani). I giornali ne parlano poco. “Ecco cosa ha fatto Hollande (non parole, fatti) in 56 giorni di governo:

- ha abolito il 100% delle auto blu e le ha messe all’asta; il ricavato va al fondo welfare da distribuire alle regioni con il più alto numero di centri urbani con periferie dissestate.

- Ha fatto inviare un documento (dodici righe) a tutti gli enti statali dipendenti dall’amministrazione centrale in cui comunicava l’abolizione delle “vetture aziendali” sfidando e insultando provocatoriamente gli alti funzionari, con frasi del tipo “un dirigente che guadagna 650.000 euro all’anno, se non può permettersi il lusso di acquistare una bella vettura con il proprio guadagno meritato, vuol dire che è troppo avaro, o è stupido, o è disonesto. La Nazione non ha bisogno di nessuna di queste tre figure”. Touchè. Via con le Peugeot e le Citroen.

- 345 milioni di euro risparmiati subito, spostati per creare (apertura il 15 agosto 2012) 175 istituti di ricerca scientifica avanzata ad alta tecnologia assumendo 2.560 giovani scienziati disoccupati “per aumentare la competitività e la produttività della nazione”.

- Ha abolito il concetto di scudo fiscale (definito “socialmente immorale”) e ha emanato un urgente decreto presidenziale stabilendo un’aliquota del 75% di aumento nella tassazione per tutte le famiglie che, al netto, guadagnano più di 5 milioni di euro all’anno.

 - Con quei soldi (rispettando quindi il fiscal compact) senza intaccare il bilancio di un euro ha assunto 59.870 laureati disoccupati, di cui 6.900 dal 1 luglio del 2012, e poi altri 12.500 dal 1 settembre come insegnanti nella pubblica istruzione.

- Ha sottratto alla Chiesa sovvenzioni statali per il valore di 2,3 miliardi di euro che finanziavano licei privati esclusivi, e ha varato (con quei soldi) un piano per la costruzione di 4.500 asili nido e 3.700 scuole elementari avviando un piano di rilancio degli investimenti nelle infrastrutture nazionali.

- Ha istituito il “bonus cultura” presidenziale, un dispositivo che consente di pagare tasse zero a chiunque si costituisca come cooperativa e apra una libreria indipendente assumendo almeno due laureati disoccupati iscritti alla lista dei disoccupati oppure cassintegrati, in modo tale da far risparmiare soldi della spesa pubblica, dare un minimo contributo all’occupazione e rilanciare dei nuovi status sociale. - Ha abolito tutti i sussidi governativi a riviste, rivistucole, fondazioni, e case editrici, sostituite da comitati di “imprenditori statali” che finanziano aziende culturali sulla base di presentazione di piani business legati a strategie di mercato avanzate.

- Ha varato un provvedimento molto complesso nel quale si offre alle banche una scelta (non imposizione): chi offre crediti agevolati ad aziende che producono merci francesi riceve agevolazioni fiscali, chi offre strumenti finanziari paga una tassa supplementare: prendere o lasciare.

- Ha decurtato del 25% lo stipendio di tutti i funzionari governativi, del 32% di tutti i parlamentari, e del 40% di tutti gli alti dirigenti statali che guadagnano più di 800 mila euro all’anno. Con quella cifra (circa 4 miliardi di euro) ha istituito un fondo garanzia welfare che attribuisce a “donne mamme singole” in condizioni finanziarie disagiate uno stipendio garantito mensile per la durata di cinque anni, finché il bambino non va alle scuole elementari, e per tre anni se il bambino è più grande. Il tutto senza toccare il pareggio di bilancio.

Risultato: lo spread con i bond tedeschi è sceso, per magia.

E’ arrivato a 101 (da noi viaggia intorno oltre 400 punti).

L’inflazione non è salita. La competitività e la produttività nazionale è aumentata nel mese di giugno per la prima volta da tre anni a questa parte.

Hollande è un genio dell’economia? Non, ha semplicemente buon senso.

 

Aveva previsto di incassare 155 milioni, ne ha riscossi solo 23.5 per la tassa di stazionamento il fisco italiano diventato improvvisamente esoso con i proprietari di barche, una di quelle iniziative demagogiche assunte da un Governo, quello del Cavaliere, sotto la cui gestione è progressivamente cresciuta l’evasione fiscale.

            Una tassa contro il lusso delle unità da diporto, divenuta per iniziativa del Governo Monti tassa “di possesso” è stata facilmente schivata in un Paese, l’Italia, con ottomila chilometri di coste vicine ad altre coste, le francesi, innanzitutto, poi le greche, quelle dell’adriatico orientale. Conseguenza, il calo delle entrate dei porti.

            Ora è certo giusto che i proprietari di barche, più o meno lunghe, paghino, ma imposte e tasse devono tener conto della loro capacità di dissuasione, oltre un certo limite. E così abbiamo aiutato i porti dei paesi limitrofi.

            Poi c’è il problema dei controlli in mare. Giustissimi per verificare la regolarità dei mezzi, anche sotto il profili della dotazioni di sicurezza, ma anche qui è mancato il coordinamento, così accade che una barca sia controllata più volte nella stessa giornata, da Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato e Municipale, Guardia forestale e Penitenziaria. Un mare affollato! Ma basterebbe un minimo di coordinamento per evitare un peso che dimostra innanzitutto inefficienza e spesso è visto dagli utenti del mare come una sorta persecuzione. Contro gli interessi nazionali, anche del fisco, considerato che l’industria cantieristica è in difficoltà e dalla diffusione della navigazione da diporto deriva un utile anche per l’erario non indifferente.

            È un errore criminalizzare un settore nel quale l?Italia vanta (o vantava?) una buon posizione in Europa e nel Mediterraneo. D’altra parte non esistono solo yacht di venti e più metri, anche gommoni che costano quanto una utilitaria.

            Fisco vorace, fisco inefficace verrebbe da dire. Che favorisce l’elusione e il passaggio all’estero di beni e capitali. Altrimenti come avremmo lavoro nero ed evasione fiscale?

 

“Snav ti porta in vacanza con il massimo della convenienza”, così la pubblicità del trasporto passeggeri. La realtà è un’altra. Sulla tratta Ancona Spalato e ritorno i vacanzieri hanno constatato, a metà agosto, come tutto fosse molto diverso da quanto avevano previsto.

            All’andata il traghetto veloce che, in partenza da Ancona, avrebbe dovuto salpare alle ore 11 è partito con grave ritardo, mentre, al ritorno, la partenza prevista da Spalato per le 17, è avvenuta oltre le 18 con arrivo alle 24 anziché alle 22, come previsto. In sostanza i passeggeri hanno potuto lasciare la nave intorno all’1 di notte.

            Nessuno ha chiarito i motivi del ritardo, il mare grosso, che so, un ammutinamento! Solo annunci radio per pubblicizzare paste e pizze.

Seguendo la pubblicità si legge che le linee Snav sono attive sulle tratte Ancona-Spalato fino al 16 settembre! Che “se le isole Eolie sono la tua meta ideale, puoi partire da Napoli per Stromboli, Panarea, Salina, Vulcano e Lipari fino al 9 settembre”, che se hai “voglia di esplorare la natura e i fondali di Ponza e Ventotene Snav ti porta alle isole Pontine da Napoli ogni sabato e domenica dal 7 luglio al 2 settembre”.

“Cosa aspetti?” si chiede la pubblicità. Che gli orari previsti siano rispettati e se c’è un disguido, sempre possibile in mare, che i passeggeri ne siano informati e magari assistiti, a mo’ di risarcimento.

Disagi non indifferenti. Ma nessuno si è scusato.

Chissà se la direzione della SNAV è informata di queste situazioni.

26  agosto 2012

 

 

 

 

Un centro politico affollato

Convergenze e conversioni

di Senator

 

Nell’incertezza del momento politico, nel senso che non si sa quando si voterà, se a novembre o a maggio, quali saranno le coalizioni e quali i candidati a Presidente del Consiglio e quali a Presidente della Repubblica, il palcoscenico è ingombro di personaggi in cerca di un ruolo.

Le difficoltà del partito oggi di maggioranza, il Popolo della Libertà, che non è chiaro se schiererà ancora una volta Silvio Berlusconi come candidato premier, l’incertezza della Sinistra, che sente la difficoltà di vincere ove il Partito Democratico non arruolasse Sinistra Ecologia e Libertà di Niki Vendola, con la prospettiva di primarie con un numero di candidati tale da far emergere in modo traumatico le varie anime di quello schieramento e con il rischio di esodi che potrebbero minarne l’immagine “socialdemocratica”, per semplificare, si vanno manifestando variegate  convergenze al Centro i cui effetti non è, al momento, facile valutare.

A fianco di Casini, che quella posizione legittimamente occupa, come erede della Democrazia Cristiana, e per la coraggiosa iniziativa di correre da solo nel 2006, si agitano Fini e Rutelli, due personaggi la cui storia politica è lontana da quella dell’Unione dei Democratici di Centro il cui elettorato non ha mai avuto simpatie per i postfascisti o per i postradicali, che sente lontani dall’esperienza del centro cattolico, vuoi per le posizioni laiciste assunte a far data dal voto dell'ex leader di Alleanza Nazionale nel referendum sulla legge 40, vuoi per le posizioni laiciste del pannelliano Rutelli, anche se, a differenza di Fini, ha fatto a suo tempo una sorta di conversione con una ben pubblicizzata visita al Santo Padre Giovanni Paolo II.

Se, dunque, la posizione di Casini, sul piano dei numeri, è fragile e non la rafforzano le incerte schiere dei finiani e dei rutelliani, comunque abilmente tenute a distanza dall'erede di Arnaldo Forlani, non c’è dubbio che il centro possa contribuire in modo significativo all’evoluzione della situazione politica nella prospettiva di una nuova maggioranza dopo le elezioni. Non solo perché potrebbe fare da "ago della bilancia", considerato che sinistra e destra non sono in condizione di far uscire dalle urne gruppi parlamentari di una consistenza che renda sicura la navigazione del  prossimo governo, ma perché è da considerare che nella guerra di posizione interviene non solo il nome del premier ma anche quello del futuro Presidente della Repubblica, carica alla quale aspirano in molti. Innanzitutto proprio Casini, il quale potrebbe condizionare l’appoggio dell’UDC al futuro governo con il consenso alla propria candidatura e lo stesso Monti. Certo il professore della Bocconi non ha manifestato tale desiderio ma se ne parla molto e questo ha una logica in quanto il personaggio è indubbiamente ingombrante nel dibattito del dopo elezioni e la sua “sistemazione” è un passaggio obbligato, considerato che nessuno immagina che voglia, sulle orme di Cincinnato, tornare ad insegnare o, quanto meno, fare “solo” il senatore a vita. I partiti che ne hanno appoggiato l’esperienza governativa non potrebbero mai accantonarlo, anche per giustificare il loro impegno in favore delle misure assunte dal Governo, ritenute impopolari ma necessarie. Per cui delle due l'una, o resta Premier con una maggioranza politica o sale sul colle più alto di Roma.

C’è, dunque,una convergenza al Centro, spontanea o necessitata dalla prospettiva di sopravvivere in politica (Fini e Rutelli) per chi non ha adeguati consensi.

Tra convergenze e conversioni, dunque, il Centro, quello che un tempo veniva definito “la palude”, fuori dagli schieramenti ideologici della Destra e della Sinistra, continua ad avere il suo fascino tra quanti hanno assistito al fallimento dell’esperienza del Cavaliere e delle promesse che aveva elargito a piene mani e quanti, la maggioranza degli italiani, non sono disponibili a votare un partito postcomunista, alleato dei comunisti duri e puri, dove uno sparuto manipolo di cattolici “di sinistra” fanno da specchietto delle allodole, fastidioso quanto politicamente inconsistente, limitandosi più o meno ad una difesa d’ufficio delle posizioni contrarie ai matrimoni omosessuali. Troppo poco per costituire un riferimento politico di qualche significatività all’interno di un partito, quello democratico, che non riesce a somigliare ad una sinistra occidentale moderna.

Guerra di posizioni, dunque, a destra, a sinistra e al centro. Con incertezza sull’esito del voto, quando sarà, e della governabilità di questo Paese che ha bisogno di idee chiare e di capacità di realizzarle. I partiti italiani,infatti, non hanno ancora capito che nella classe dirigente vanno distinti i ruoli di governo e parlamentari, ciò perché lo spirito di servizio che dovrebbe guidare chi si mette in politica è merce poco diffusa e le ambizioni personali, cui i dirigenti dei partiti spesso danno inopinatamente spazio, ne danneggiano l’immagine stessa. Governare e fare politica in Parlamento non è proprio la spessa cosa, esige attitudini diverse. Aver ignorato questa realtà è stato l’errore di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati che hanno fatto decadere la maggioranza più grande della storia repubblicana ed affidato la gestione del potere ad un governo “del Presidente” (della Repubblica) di tecnici, alcuni dei quali digiuni di politica e con scarsa attitudine a percepire le esigenze della politica, cioè le esigenze dei cittadini.

23 agosto 2012

 

 

 

 

“Investimenti” nei quali non si investe

Investire in beni e attività culturali

di Salvatore Sfrecola

 

Pochi sanno che l’art. 10 della legge 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali) qualifica “investimenti” gli interventi in materia di beni culturali. Pertanto, negli ultimi anni, una quota fino al tre per cento degli stanziamenti di bilancio nel settore delle infrastrutture sono stati destinati ad interventi a favore dei beni e le attività culturali.

Pochi lo sanno ma molti intuiscono facilmente che questa definizione di “investimenti” per le somme destinate al settore culturale è corretta e, per certi versi, lungimirante in quanto  quelle somme concorrono in misura significativa allo sviluppo e alla crescita economica del Paese che trova, in un’offerta culturale di elevatissimo livello, variegata e distribuita su tutto il territorio nazionale, le ragioni del turismo interno ed internazionale che mobilita, inoltre, un indotto rilevante in vari settori dell’economica. Oltre ad assicurare un sostanziale apporto all’occupazione particolarmente significativo.

Ne scrivo spesso con qualche timore che qualcuno mi dica che tutto questo è ovvio, che il turismo italiano è essenzialmente basato sul nostro patrimonio storico artistico, costituito da una quantità e qualità di opere d’arte distribuite in una miriade di musei statali e locali in un contesto immobiliare, di palazzi, chiese e aree archeologiche che visibilmente caratterizza un ambiente naturalistico che, dalle Alpi al Lilibeo, è di straordinaria bellezza.

È una realtà sotto gli occhi di tutti, eppure incompresa. È certo, infatti, che i vacanzieri stranieri e gli stessi turisti italiani che visitano regioni lontane da quella nella quale vivono, che visitano le città d’arte ed i borghi che parlano della storia civile, religiosa, culturale della nostra Italia, siano attirati essenzialmente da questa realtà, più che dal sole, dal clima moderato, dalle montagne innevate o boscose, dai mari e dalle isole che circondano lo stivale. Non che questo conti meno. Ma ambiente e cultura sono inscindibili. Altrimenti saremmo costretti a cedere rispetto ad altre realtà, soprattutto dell’Europa mediterranea che hanno meno arte ma più servizi, a minor costo.

Il tre per cento degli investimenti in infrastrutture non è poco ma negli ultimi anni è stato complesso e comunque lento il reperimento di disponibilità immediate e spesso ardua la capacità d’impiego delle risorse, la selezione e promozione di interventi che si caratterizzino come investimenti dotati di effettiva capacità innovativa, in grado di fungere da volano e moltiplicatore della realizzazione progettuale, mediante l’attrazione di ulteriori risorse acquisite sul territorio da soggetti pubblici e privati che ne percepiscano la capacità di generare benefici sociali ed economici – diretti ed indiretti – per l’area interessata e per l’intero Paese.

Si era tentato con ARCUS, iniziativa promossa dall’allora Ministro Urbani, una società a capitale pubblico che avrebbe dovuto, con procedure snelle rispetto a quelle ordinarie ministeriali, attuare iniziative nei vari campi della cultura, dai restauri alla valorizzazione di strutture museali, al patrocinio di attività teatrali, cinematografiche e musicali. I ministri per i beni culturali e delle infrastrutture vi hanno subito messo gli occhi addosso per scegliere ed a volta per imporre ad ARCUS iniziative di interesse delle aree o di enti loro vicini, poi, spremuto il limone ne hanno decretato la chiusura con il decreto legge n. 95 del 2012. E adesso la società, presieduta dall'Ambasciatore Ludovico Ortona, è in liquidazione.

Non è questione di ARCUS o meno, quel che credo si possa e debba chiedere al Governo, sulla base di una indicazione proveniente dal Parlamento, la legge che qualifica “investimenti” gli interventi in materia culturale, di assumere, adesso che è impegnato ad adottare provvedimenti capaci di favorire la crescita dell’economia, iniziative idonee a salvaguardare il nostro patrimonio storico artistico ed a rendere maggiormente fruibili beni, immobili, pachi archeologici, in tal modo favorendo aree del Paese trascurate per assenza di infrastrutture viarie, di luoghi di ristoro, alberghi, bar, ristoranti, cioè di tutto quanto è funzionale alla presenza di turisti. Ne deriverebbero nuovi posti di lavoro, tra l’altro in un settore - il turistico alberghiero -  che si caratterizza per una molteplicità di esigenze professionali facilmente intuibili.

La valutazione degli effetti degli investimenti in cultura, attraverso note metodologie di analisi ex ante ed ex post, per scegliere dove investire le risorse e verificare che gli effetti della spesa siano stati quelli previsti e sperati, utilizzando l’analisi dell’impatto economico, una tecnica mutuata dall’economia del turismo, consente di calcolare gli effetti delle somme impiegate sull’economia del territorio (numero dei visitatori, posti di lavoro, ecc.).

Mi auguro che i ministri interessati, il Prof. Ornaghi, chiamato a dirigere il dicastero dei beni culturali, la cui sensibilità ci è nota, e il dottor Gnudi, preposto al settore del turismo, assumano rapidamente decisioni che abbiano la capacità di effetti ravvicinati. E mentre pensano a dove e come investire adottino misure normative idonee a facilitare attività culturali e turistico ricreative connesse al patrimonio storico artistico favorendo tutte quelle iniziative che possono mettere in campo risorse e lavoro, eliminando quei lacci e lacciuoli che in Italia spesso frenano l’iniziativa imprenditoriale non per verificabili e giuste esigenze di sicurezza dei locali e degli ambienti di lavoro, ma per antiche e superate o comunque non necessarie pratiche burocratiche che assicurano soltanto “potere” a burocrazie statali o, più spesso, locali.

Facciano funzionare il sistema, considerando, ne ho fatto cenno prima, che il turismo culturale ha un indotto enorme. Si pensi agli acquisti che il turista è incentivato a fare stimolato dalla diversità delle culture e delle tradizioni locali, dalle ceramiche alle trine ricamate, dai vini ai prodotti alimentari più diversi, che inducono lo straniero, ma anche il connazionale in viaggio attraverso il Bel Paese, a portare con se un ricordo del suo peregrinare tra monumenti e musei.

Questi turisti, al ritorno a casa sono ambasciatori dell’Italia e delle singole realtà visitate nel paese d’origine, preparano nuovi viaggi e ne suggeriscono agli amici. Ad una condizione. Che l’accoglienza sia civile, che non siano saccheggiati da operatori poco seri e che siano forniti servizi adeguati alle realtà dei nostri concorrenti turistici. Perché in tal caso l’“ambasciatore” non trasmetterà un’immagine positiva ma sarà indotto a sparlare di noi, magari anche sui giornali.

Tra le varie iniziative che sarebbero da adottare c’è anche quella di una polizia turistica o di servizi di sicurezza nell’ambito delle polizie attuali con capacità di assistenza linguistica e operativa. Altri paesi hanno servizi di questo genere. Non sarebbe difficile attuarli in Italia.

Possiamo sperarlo? O dobbiamo trarre dalla perdurante mancanza del numero unico delle emergenze sfiducia in questa possibilità di crescita?

23 agosto 2012

 

 

 

 

Un commento di Francesco Damato sulla vicenda ILVA

Pericolosa confusione di idee

di Salvatore Sfrecola

 

            “L'anno orribile della giustizia all'italiana” per Francesco Damato, che ne scrive su Il Tempo, è questo 2012. E se la prende con i magistrati i quali sarebbero ricorsi a “furbizie” “per sottrarsi alla dieta reclamata da un’opinione pubblica costretta a stringere davvero la cinghia, i magistrati no”. Essi, inoltre, “o quelli consapevolmente o inconsapevolmente più politicizzati.. fanno indagini per riscrivere la storia del Paese più che per scoprire reati e trovarne i responsabili”, o “scambiano per reato il profitto in una impresa, hanno continuato imperterriti a ritenere di potere, anzi di dovere sostituirsi alla politica”.

             “È emblematico, a questo proposito, - scrive Damato - ciò che è accaduto, sta accadendo ed è destinato ad accadere ancora a Taranto attorno alla vicenda dell’Ilva. Specie dopo l’ultima decisione della giudice Anna Patrizia Todisco, che spero sia rossa solo di capelli, decisa a compromettere le sorti dell’acciaieria, e di decine di migliaia di posti di lavoro, nonostante gli spiragli lasciati aperti dal tribunale del riesame ad una soluzione ragionevole di compromesso. Che sapesse e sappia conciliare la lotta all’inquinamento e la salvaguardia dell’occupazione e, più in generale, del sistema industriale”. Per cui “ci voleva un governo tecnico, senza le consuete proteste o preoccupazioni del Pd, o addirittura con il suo consenso, almeno fino al momento in cui scrivo… perché il ministro della Giustizia chiedesse l’acquisizione degli atti giudiziari che stanno compromettendo le sorti dell’acciaieria e dei suoi dipendenti, in curiosa concorrenza con i guasti ambientali da essa prodotti. E perché il presidente del Consiglio disponesse la partenza di altri ministri per Taranto, in modo da dimostrare anche visivamente che lo Stato -sì, lo Stato- non è solo il titolare di un ufficio giudiziario, per quanto subito coperto dalla solidarietà della sua associazione, o sindacato. E perché ancora, o soprattutto, si reagisse alla estemporanea decisione di un giudice preparandosi a contestarne la legittimità davanti alla Corte Costituzionale con un nuovo conflitto di attribuzione, o di potere”.

La citazione è lunga ma non poteva essere diversamente perché i lettori comprendano, come spero abbiano compreso i lettori de Il Tempo, sul quale Damato è impegnato da qualche tempo, mi sia consentito il bisticcio, a scrivere di giustizia (con la “g” minuscola, come lui stesso scrive) con un taglio coerente alla sua posizione politica ed alle sue esperienze professionali, rispettabilissime, ovviamente, l’una e le altre ma confinate in un ambito che potremmo definire costantemente paragovernativo, dalla direzione de Il Giorno, alle collaborazioni a Il Giornale.

Cominciamo col dire che non so a cosa si riferisca Damato quando fa intendere che i magistrati si sarebbero sottratti alla stretta di cinghia che il Governo ha imposto agli italiani. S'informi, i magistrati hanno avuto un'immediata decurtazione degli stipendi a partire dal 2010, quindi prima del Governo Monti, come conseguenza di un decreto-legge di Berlusconi che ha falcidiato il trattamento economico dei dipendenti pubblici, di tutti.

Ho cercato su google una biografia del Nostro che arricchisse la mia memoria  e non ne ho trovata nessuna, anche se un ironico pezzo di Giuliano Ferrara ne ricorda la vicinanza al potere. Anche Cazzullo scrive della sua prossimità al mondo Fininvest.

Niente di male, ognuno di noi ha amicizie ed idee politiche che giustamente difende e diffonde, come può.

Però Damato, a mio modesto avviso, si muove con difficoltà nel mondo del diritto ritenendo, evidentemente, che compito dei giudici sia quello di fare politica industriale, ovvero di assistere la politica industriale del Governo o delle imprese. Sbagliato. I giudici applicano la legge e cercano di farla rispettare così a Taranto un giudice, sul quale Damato ironizza a causa del colore dei capelli (rossi), che sia augura non sia il colore delle sue idee politiche, non a suo arbitrio, ma sulla base di accertamenti tecnici, verificato che gli impianti inquinano l’ambiente con gravi danni per la salute ha adottato i provvedimenti conseguenti, quelli che la legge prescrive. Non si è trattato, quindi, di una “estemporanea” decisione.

Il giudice rappresenta lo Stato. Non lo Stato potere esecutivo, di Monti, Passera e Clini, quello che chiamiamo lo Stato-persona, ma lo Stato-ordinamento, la legge cui anche il potere esecutivo è soggetto. Con delle regole, compreso anche l’eventuale ricorso del Governo alla Corte costituzionale ove ritenga violata una sua prerogativa costituzionalmente definita, come nel caso il giudice si intromettesse in competenze proprie dell’Amministrazione.

Ciò che nella specie non è avvenuto. Il giudice, infatti, non ha adottato provvedimenti incidenti sulla “politica industriale” del Governo, come incautamente qualcuno aveva affermato, come se avesse fornito indicazioni all’impresa in ordine alla produzione, ma ha adottato, come già detto, il provvedimento previsto dalla legge in presenza di condizioni, dalla stessa legge stabilite, concernenti il tasso di inquinamento ritenuto pregiudizievole della salute delle persone, lavoratori ed abitanti di Taranto.

Non spetta al giudice stabilire eventuali modalità di prosecuzione della produzione, ma il Governo può certamente adottare un provvedimento di legge, cosiddetto di legge-provvedimento, in quanto riferito al caso concreto ILVA, che, incidendo sulla normativa vigente, cioè in deroga, stabilisca tempi e modalità del risanamento.

Non sarebbe una novità.

Quel che va evitato, profilo che evidentemente Damato ha trascurato, è la sovrapposizione di competenze, nel senso che si scarichi sul giudice responsabilità per errori o inadempimenti dell’impresa che l’Autorità amministrativa non ha verificato o tollerato.

Ognuno faccia la sua parte.

Ricordo anni addietro, da magistrato della Corte dei conti responsabile dell’istruttoria di un decreto di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, che, ad alcune osservazioni in punto di diritto che sconsigliavano la registrazione, mi veniva detto che avevo certamente ragione ma che, ove il provvedimento fosse stato fermato, ne andavano di mezzo gli stipendi del mese successivo degli addetti alle ASL.

Replicai che non era un problema mio. Perché nel nostro sistema il Parlamento fa le leggi, l’Amministrazione le applica, i giudici accertano che siano applicate correttamente.

Questo non era avvenuto. Le indicazioni del Parlamento, contenute in una legge finanziaria che stabiliva dei parametri per la spesa sanitaria, non erano stati rispettati e la Corte dei conti, giudice della legittimità, non avrebbe potuto ammettere al visto il provvedimento.

La querelle andò avanti per qualche giorno, finché il Governo adottò un provvedimento d’urgenza, un decreto-legge, con il quale sanava i vizi dell’atto sottoposto a controllo.

Ne fui soddisfatto. La legge era stata rispettata. Compresi anche – sono passati oltre 25 anni – che la difficoltà dell’esecutivo consisteva nel non far emergere la grave situazione finanziaria del Servizio Sanitario Nazionale che il decreto avrebbe in qualche modo certificato.

In un sistema costituzionale, in uno stato di diritto, si rispettano le competenze. Lo afferma anche il Trattato istitutivo della Comunità economica europea, oggi Unione europea, che pone alla base del funzionamento delle istituzioni il principio cosiddetto di attribuzione delle competenze.

Damato preferisce evidentemente un ordinamento nel quale i giudici non disturbino il manovratore. Ma sono altri ordinamenti che non sono qualificati “di diritto” e non applicano quella separazione di poteri, in forma di distinzione di funzioni, che il barone di Montesquieu aveva indicato a metà Settecento come regola per superare lo stato assoluto, così ponendo le regole che la Rivoluzione Francese avrebbe adottato e diffuso negli ordinamenti europei.

20 agosto 2012

 

 

 

Presidente Monti, attenzione all’uso delle parole

“Abuso” riferito ad un magistrato significa illecito

di Salvatore Sfrecola

 

Un uomo di Governo ha il dovere di essere attento nelle sue dichiarazioni. Le parole hanno sempre un significato che ha riflessi politici, in particolare sull’opinione pubblica. E quando si tratta di questioni attinenti alla Giustizia le parole hanno un significato giuridico preciso. Per cui se il Premier, come si legge su Blitz Quotidiano dice ai giudici: “Basta con gli abusi”, indica un comportamento in qualche misura illecito. Con le conseguenze che ne derivano nei confronti degli accusati e della gente che apprende, dalle parole del Presidente del Consiglio, che non è un politico qualunque ma un docente universitario di prestigio, che i giudici, coloro, cioè, che devono fare giustizia ed assicurare la pacifica convivenza dei cittadini (ne cives ad arma ruant), abusano in qualche modo del loro potere. Ciò che, in prima approssimazione, evoca un’espressione, l’“abuso”, appunto, cui il codice penale riconduce fattispecie varie previste e punite nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (Capo primo del Titolo secondo). E se il Prof. Monti, come molto più probabilmente è avvenuto, ha usato una espressione generica ciò non è meno grave, trattandosi di materia sensibile riferita ai giudici. E, in tal modo, idonea, tra l’altro, a trasmettere, dall’alta cattedra dalla quale proviene, una qual delegittimazione dei magistrati agli occhi dei cittadini che ad essi si rivolgono per avere giustizia.

Non entro nel dettaglio della polemica, nella quale è intervenuta sia l’Associazione Nazionale Magistrati, sia il Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo, Antonio Ingroia, che si è sentito chiamato direttamente in causa in relazione alla vicenda delle intercettazioni per le quali il Presidente della Repubblica si è rivolto alla Corte costituzionale ritenendo che sia stata violata una sua prerogativa costituzionalmente garantita.

Nulla di male se un’autorità, anche la più alta della Repubblica, ritiene di adire la Consulta. È un suo diritto esercitato ai sensi di legge. E in tale ambito va mantenuta la querelle giudiziaria. Nessuno si deve offendere se chi ritiene di essere stato leso in un proprio diritto lo fa valere davanti al giudice competente. Altra cosa è trarre da una ordinaria azione processuale l’occasione per buttarla in politica. Naturalmente si può fare. La politica, il Governo e il Parlamento stanno lì proprio per correggere eventuali norme che nella prassi fossero state oggetto di ricorrente, errata applicazione.

Ma va chiarito il senso della circostanza che muove il titolare della funzione di iniziativa legislativa. Che la gente deve capire.

Altrimenti il rischio è di sentirsi dire, come ha fatto Ingroia, che “È la politica che sconfina”, con la conseguenza che l’Associazione Nazionale Magistrati rincara la dose: “Intervento improprio (quello del Presidente del Consiglio, n.d.A.), aspetti le decisioni della Corte Costituzionale”.

E così si riproduce quel contrato tra politica e magistratura, tra giudici e politici che non fa bene al Paese.

Inoltre c’è da sottolineare che la delicatezza della vicenda oggetto delle investigazioni della Procura della Repubblica di Palermo – il presunto accordo Stato – Mafia dopo le stragi del 1992 – avrebbe dovuto sconsigliare di allargare la polemica, che naturalmente induce ad ulteriori sospetti. Con molta opportunità, in una dichiarazione di qualche giorno fa, proprio il P.M. Ingroia aveva fatto presente che se il Governo avesse ritenuto che ne ricorressero la condizioni avrebbe potuto apporre il “segreto di Stato” sulla vicenda. Un segreto che non è, se correttamente usato, un abuso, tanto per usare il linguaggio del Premier, ma una corretta utilizzazione di uno strumento normativo che tiene conto dei supremi interessi dello Stato su fatti da non divulgare. Questo tanto su vicende interne che estere.

Invece il Premier, forse male consigliato, considerata la sua formazione economicistica e non giuridica, si avventura in una materia, quella delle intercettazioni, che da sempre tocca un nervo scoperto dei politici, tenuto conto che, due su tre, ad essere intercettato, è un politico intento a sbrigare affari personali o di partito.

Quei politici, diciamola tutta, che vorrebbero eliminare le intercettazioni come mezzo di accertamento dei reati, soprattutto di corruzione, concussione e truffa ai danni dello Stato, e traggono spunto dall’impropria diffusione del testo di alcune intercettazioni per tornare alla carica allo scopo di ottenere una modifica della normativa vigente.

Attenzione. Distinguiamo l’intercettazione dalla diffusione che ne fa la stampa nell’esercizio di un potere di cronaca che non può essere compresso ma non deve neppure dar luogo ad esercizi inutilmente diffamatori.

È un profilo delicato, che comporta l’equilibrio tra due diritti fondamentali, quello alla repressione degli illeciti e quello alla riservatezza di tutto quanto non è giuridicamente rilevante.

A parole sono tutti concordi nel comprendere la differenza tra i due profili d’interesse generale. Nella pratica si vorrebbe surrettiziamente comprimere la funzione investigativa in modo da limitare i danni a chi opera nell’illecito. Lo si fa in vario modo, ad esempio limitando il tempo delle intercettazioni, come se un malavitoso e il suo referente politico ad ogni telefonata si raccontino di quel che progettano o fanno. A volte servono mesi per poter cogliere da una frase un profilo di interesse investigativo, magari con riferimento ad altro soggetto in quel momento non intercettato.

Quanto, poi, ai costi delle intercettazioni (che potrebbero essere contenuti se lo Stato intercettasse in proprio anziché rivolgersi a privati) essi sono una conseguenza dell’attività investigativa in un Paese che ha 120 miliardi di evasione fiscale e 60 miliardi di corruzione, ogni anno. L’una e l’altra strettamente collegate in quanto la mazzetta, com’è noto, si paga in nero.

E poi si finisca per dire che in Italia le intercettazioni sono più di quelle che fa la magistratura in altri paesi, perché altrove, ad esempio negli Stati Uniti, intercettano tutti, mentre da noi è compito esclusivo dei giudici.

Non si tratta, dunque, di pro-giudici o contro-giudici, come si legge su alcuni giornali. È un fatto di giustizia consentire le intercettazioni delle quali le persone perbene non hanno nulla da temere.

Si puniscano gli abusi se ce ne sono, nell’esercizio della funzione inquirente ed in quella della informazione. Ma si eviti di dare in pasto all’opinione pubblica polemiche generiche e forse strumentali, magari per distrarre i cittadini da tasse e balzelli vari dei quali, giorno dopo giorno, sentono il peso sempre più grave.

19 agosto 2012

 

 

 

 

Se le tasse che non si possono ridurre

almeno fatele pagare a tutti

di Salvatore Sfrecola

 

Dalla sua vacanza svizzera il Presidente del Consiglio ha fatto sapere, per correggere talune improvvide “anticipazioni” di ambienti governativi che preannunciavano riduzioni di imposte, che non ci sono le condizioni per queste misure. “Per adesso non si può fare”, ha detto il Prof. Monti. Anzi, tra imposte, tasse e tariffe è probabile che il peso sulle spalle degli italiani sia destinato a qualche eufemistico “ritocco”, naturalmente al rialzo.

Dalle dichiarazioni del Premier ha tratto lo spunto Nicola Saldutti sul Corriere della Sera di ieri per qualche riflessione in prima pagina: “Più della promessa di ridurre le tasse vale l'impegno per non aumentarle”, è il titolo. “Le promesse rientrano a pieno diritto nell'attività di governo. A patto che vengano rispettate, però. O almeno così dovrebbe essere”, scrive Saldutti. Che ricorda “un territorio nel quale, soprattutto negli ultimi anni, c'è stata la (cattiva) abitudine di non mantenerle quasi mai: la riduzione delle tasse”.

Cominciò Berlusconi nel 1994 promettendo nel “contratto con gli italiani" che le avrebbe diminuite, come ha continuato a promettere anche negli anni successivi, sempre alla vigilia delle elezioni. Del resto il Cavaliere aveva anche promesso un milione di nuovi posti di lavoro!

Il fatto è che le imposte costituiscono uno strumento essenziale di politica economica, non solo, come scrive Saldutti, perché “reggono l'architrave del bilancio pubblico”. Aggiungendo che “con un vincolo esterno come il debito, che solo di interessi porta con sé un fardello di quasi 80 miliardi di oneri, immaginare la riduzione delle aliquote per famiglie e imprese, rappresenta più spesso una buona intenzione (elettorale) che un piano effettivo”.

Il problema è più ampio. Le imposte hanno perso da tempo il ruolo di esclusivo strumento di acquisizione delle entrate al bilancio dello Stato per far fronte alle spese, anche se ancora si leggono cose del genere nei libri di scuola. Perché quella funzione è certamente importante. Lo Stato si assume una serie infinita di oneri, non solo per far funzionare gli apparati riferiti alle varie politiche pubbliche, dalla sicurezza alla giustizia, all’istruzione alla salute. Le imposte, infatti, sono oggi uno strumento essenziale di regolazione del mercato, nel senso che la misura del prelievo determina la compressione o lo sviluppo di un settore dell’economia, o delle imprese in una determinata area del Paese. Non è dubbio, ad esempio, che se si vuole favorire l’insediamento di industrie in un determinato territorio uno strumento importante, insieme a quelli di predisporre idonee infrastrutture, è dato dalle agevolazioni fiscali sulle produzioni o sul lavoro. Accade un po’ ovunque all’estero. Ugualmente se si vuole favorire il mercato interno è necessario liberare risorse delle famiglie.

Oggi, ad esempio, si è letto sui giornali, e ne ha dato ampio spazio la televisione, che il mercato degli immobili è fermo, per il costo elevato dei mutui che scoraggiano l’investimento. È un settore nel quale si può intervenire con la leva fiscale favorendo le costruzioni e gli acquisti. Si è fatto sempre così. Si fa così ovunque.

Il fisco italiano, invece, sembra incapace di valutare, sulla base di un modello econometrico che tenga conto di tutte le numerose variabili dei fattori della produzione e del mercato, quali siano le conseguenze delle imposte sull’economia del Paese e quali misure fiscali possano essere adottate per assicurare uno sviluppo equilibrato sul piano economico e sociale.

Un modo è quello di diminuire le imposte su alcuni redditi o di selezionare i consumi da sottoporre ad IVA e le aliquote conseguenti.

Ma c’è un altro sistema per rendere il fisco idoneo alle funzioni che abbiamo ricordato dando un esempio di perequazione, far pagare a tutti il dovuto.

Invece questo sembra impossibile. Ad onta dell’impegno, doveroso, dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza non sembra che l’evasione diminuisca in misura sensibile. Anzi si parla di ingenti capitali esportati illegalmente tanto, si sa bene, al momento opportuno arriva un condono molto conveniente.

Con 120 miliardi annui di evasione fiscale l’impegno del Governo non può essere limitato ai blitz invernali o agostani o dei fine settimana nelle località più “in” o nelle vie storiche delle città, dalla romana Via Condotti alla milanese via Montenapoleone. Occorre lavorare sui meccanismi di imposizione del tributo e di giustificazione delle spese da dedurre, laddove si annida l’evasione più significativa.

E poi occorre essere chiari. L’Agenzia delle entrate dà sovente notizia di accertamenti per svariate somme. Ma queste somme si trasformano in riscossioni effettive? In quale misura e in quali tempi, considerate le condizioni del contenzioso tributario, delle commissioni, provinciali e regionali che non hanno una dotazione organica di giudici professionisti, e del processo che consente tempi lunghi, fino al ricorso in Cassazione. Sicché il fisco spesso ottiene una sentenza favorevole dopo anni, spesso quando il contribuente è morto o fallito.

L’impegno deve essere quello di non aumentare le tasse scrive Saldutti.

A mio giudizio deve essere soprattutto quello di farle pagare a tutti eliminando, ad esempio, l’evasione collegata al lavoro nero che, secondo alcuni dovrebbe essere intoccabile perché “mantiene l’Italia”. Sbagliato. A mantenere l’Italia sono quanti di noi pagano le tasse fini all’ultimo centesimo, coloro che pagano anche per il lavoratori “in nero”!

Ricordiamo che l’ingiustizia è fonte di malessere sociale e di ribellione. Il successo del “grillismo” si basa anche su queste ingiustizie diffuse in ogni regione. L’evasione, hanno dimostrato gli accertamenti del fisco, infatti, non si concentra in alcune aree specifiche d'Italia ma è un male endemico che per le dimensioni assunte non può non essere tollerato, per incapacità dei governi di immaginare un sistema efficace di riscossione delle imposte, come insegnano tanti paesi, in Europa e oltre oceano, o di gestirlo in modo che produca gli effetti voluti. A meno che siano voluti quelli che oggi abbiamo sotto gli occhi. Cioè l'evasione fiscale più alta in Europa.

18 agosto 2012

 

 

 

 

L’impresa, il Governo e la Magistratura

ILVA: legalità e buonsenso. Per fortuna c’è un Giudice

a Taranto

di Salvatore Sfrecola

 

Archiviata l’ipotesi, imprudente frutto di improvvisazione, di sollevare un conflitto nei confronti della magistratura, immaginato da qualche burocrate di Palazzo Chigi con riferimento alla decisione del GIP di Taranto, Patrizia Todisco, di bloccare la produzione degli altoforni dell’ILVA a causa dell’inquinamento ambientale che producono, perché quel provvedimento del giudice avrebbe inciso sulla politica industriale del Governo (!), il Presidente Monti ha affidato ai Ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, Passera e Clini, il compito di studiare una misura compatibile con la giusta iniziativa della magistratura, senza danneggiare la produzione di acciaio, in tal modo assicurando il mantenimento dei livelli occupazionali.

Così, d’intesa con l’impresa, è stato definito un programma di risanamento ambientale in linea con le indicazioni provenienti dall’Unione Europea in materia di inquinamento, con impegno del Governo e dell’azienda sotto il profilo delle risorse economiche necessarie ad attuare le iniziative necessarie.

Si è così tornati ad una corretta distinzione dei ruoli tra impresa, Governo e magistratura. Questa, per iniziativa della Procura della Repubblica e del Giudice per le Indagini Preliminari ha adottato provvedimenti conformi alla normativa ambientale che a Taranto era stata apertamente violata, con gravi danni alla salute delle persone. Non cedendo al ricatto di chi voleva che le cose rimanessero come sono per assicurare la produzione di acciaio ed i livelli occupazionali, la magistratura ha fatto la sua parte, come deve fare, perché il suo compito è quello di far rispettare la legge. L’impresa ed il Governo, da parte loro, avendo trovato un giudice che non lasciava perdere, hanno fatto quanto loro competeva, assumere delle iniziative idonee a mantenere livelli di produzione e occupazione con un impegno ad adottare le iniziative necessarie a far rientrare rapidamente nei parametri di difesa ambientale l’attività dell’impresa.

"Auspichiamo che non vengano prese decisioni che siano irrimediabili nelle loro conseguenze", ha detto il Ministro Corrado Passera a Taranto, al termine dell’incontro con le autorità locali e l’impresa. "La collaborazione con la magistratura è e sarà totale".Passera poi ha definito la decisione di ieri una "tappa importante" sottolineando come "il governo nel suo insieme si sente impegnato". Aggiungendo che “non ci può essere una scelta tra la salute e il lavoro".

Un po’ imprudente il Ministro Passera quando, come riferisce ANSA, afferma: "si convinca la magistratura ad aiutare il processo di ammodernamento dell'Ilva in modo tale che l'azienda sia totalmente in linea con le regole, ma che questo non porti alla chiusura dello stabilimento". "In una fase così iniziale della procedura giudiziaria – ha aggiunto - sarebbe per noi sbagliato che venissero prese delle decisioni, quelle sì irreversibili, che potrebbero causare un danno non più recuperabile. Se questo si evita e poi lavorando tutti sull'Aia e facendo riconoscere il lavoro che sarà fatto a livello di Aia, anche la magistratura potrà prendere meglio le sue decisioni sul futuro; poi, sul passato è un altro discorso".

Se è necessario il Governo può sempre ricorrere ad un provvedimento d’urgenza che distingua le vecchie responsabilità da un impegno, a tempo, di risanamento. Non può, invece, sulla base della legislazione vigente, chiedere alla magistratura di non far rispettare la legge.

Se, dunque, dovessero sorgere ulteriori problemi la via maestra è quella di una norma urgente, una sorta di “legge-provvedimento” che attui una deroga temporanea e ragionevole stabilendo tempi certi della bonifica ambientale e della messa a norma degli impianti.

Per parte sua il Ministro dell'Ambiente, Corrado Clini ha spiegato che la nuova Aia "recepisce le prescrizioni del gip fatta eccezione di quelle sulla fermata degli impianti". Clini ha sottolineato, altresì, che recepisce le "disposizioni Ue in merito alle tecnologie, le indicazioni della Regione Puglia e tiene conto delle decisioni del Tar in merito alla prima Aia 2011". 

Al di là del caso specifico, questa vicenda deve essere d’insegnamento per tutti. In Italia troppo spesso ci troviamo a gestire situazioni nelle quali si verifica una confusione di competenze con effetti deleteri per la legalità, la sicurezza degli impianti, la salute dei lavoratori e degli abitanti dell’area interessata.

Meno male che c’è stato un giudice a Taranto che ha fatto onore al ruolo che la legge gli assegna, così costringendo Governo e impresa a fare la loro parte. La tutela ambientale costa e questo è spesso il motivo per il quale si omette l’adozione di misure necessarie ad evitare che fumi o residui di lavorazione inquinino l’ambiente ed il territorio.

Mi auguro che ci siano altri giudici in giro per l’Italia che richiamino il rispetto delle regole, come nel caso dell’inquinamento dei terreni e delle falde acquifere, situazioni nelle quali alla “disattenzione” delle amministrazioni competenti si aggiungono gli interessi della malavita che lucra ingenti somme dallo smaltimento illecito di rifiuti speciali. In sostanza, le imprese si affidano a malavitosi che smaltiscono a costi inferiori a quelli previsti dalle discariche ufficiali, ma con grandi utili e gravissimi rischi per la salute della gente.

18 agosto 2012

 

 

 

Scorte alle personalità:

legittimità e senso della misura

di Salvatore Sfrecola

 

            Era scontato che Gianfranco Fini non avrebbe mai abusato nella gestione della scorta che ne tutela la sicurezza. Non è nel suo stile, nel suo modo di intendere il servizio alle istituzioni.

            È stato, dunque, imprudente Maurizio Belpietro, Direttore di Libero, nell’accusare il Presidente della Camera, che lo ha poi querelato, di essersi portato in vacanza a Orbetello nove uomini della scorta e di avergli pagato, “con soldi nostri”, l’albergo.

            Tuttavia la polemica rovente, la quale ha coinvolto gran parte della stampa che ha ripreso la polemica di Libero, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’argomento scorte, anche per le opportune precisazioni del Ministero dell’interno che ha chiarito quanto è ovvio. Che Fini non c’entra nulla con la decisione contestata e che la scorta, con tutti i suoi spostamenti, viene gestita unicamente della Polizia. In particolare, nel comunicato del Viminale si legge che “il dispositivo di tutela del Presidente della Camera è normativamente fissato al massimo livello di rischio che impone la necessità di assicurare la protezione della personalità in tutti gli spostamenti sul territorio nazionale. La gestione, l’organizzazione e l’esecuzione del relativo servizio non rientrano nelle competenze della Presidenza della Camera ma fanno capo all’Ispettorato di P.S. presso Montecitorio”.

La polemica agostana, nella quale Libero si è lanciato a corpo morto, come aveva fatto a proposito della casa di Montecarlo, per evidente ostilità nei confronti dell’ex leader di Alleanza Nazionale, consente tuttavia qualche riflessione generale sul sistema di protezione dei nostri uomini politici e di governo. E segue di poco altra polemica che aveva investito il Presidente dei Senatori del Partito Democratico, Anna Finocchiaro, che qualcuno aveva visto in un supermercato accompagnata dagli uomini della sua scorta.

Chi vive a Roma incontra sovente auto “blu”, come comunemente si definiscono le automobili del potere, anche se ormai, e da tempo, il colore varia dal nero al grigio metallizzato, sfrecciare con lampeggiante e sirena, spesso seguite o precedute, o seguite e precedute, da altre auto di scorta.

Il cittadino spesso s’indigna, soprattutto quando, sbirciando dietro i vetri, che tuttavia in molti casi sono oscurati, individua personaggi secondari della scena politica.

In sostanza nessuno nega che la sicurezza di personalità del Governo o della politica debba essere gestita dallo Stato secondo criteri discrezionalmente definiti dalla competente Autorità di pubblica sicurezza. Ma poiché la discrezionalità non è, come qualcuno riteneva un tempo, scelta libera, al limite dell’arbitrio, incondizionata ed esclusa da qualsiasi riscontro sotto il profilo dell’eccesso di potere, è possibile fare qualche riflessione generale considerato il variegato profilo della sicurezza che il Ministero dell’interno ha richiamato in relazione al dispositivo di protezione del Presidente della Camera, come di altre alte cariche dello Stato.

In una prospettiva generale sembra evidente che il primo indice di sicurezza debba riguardare quanti rischiano fisicamente per il tipo di lavoro svolto o per minacce delle quali siano stati oggetto, purché ne sia valutata l’attendibilità.

In questo senso viene innanzitutto da pensare ai magistrati che, in funzioni requirenti o giudicanti, hanno a che fare con la criminalità organizzata che può attentare alla loro vita e minacciare quella dei familiari. A loro è sempre assicurata una protezione che, invece, spesso non è data a quanti, sempre nelle magistrature, sono chiamati a decidere su questioni civili o amministrative di rilevante interesse economico, spesso illecito, che potrebbe e spesso muove pesante intimidazioni.

Venendo, poi, ai politici, si è detto spesso che la sirena, il lampeggiante sull’autovettura, le scorte, costituiscono uno status simbol che soddisfa, dunque, non un’esigenza obiettiva ma segue, ratione officii si direbbe, la carica ricoperta quasi pedissequamente. Ora non è dubbio che una personalità abbia esigenza di essere tutelata, non solo in relazione alla possibilità di un’aggressione, obiettivamente rara, ma anche in rapporto all’eventualità che sia importunata da passanti o da postulanti. Tuttavia, il numero degli agenti assegnati ad alcuni sembrano obiettivamente troppi rispetto a queste eventualità. Per i personaggi più noti sembra siano più che sufficienti uno o due agenti, come avviene nella maggior parte dei paesi esteri. Ad esempio non si mai visto il primo ministro inglese circondato da numerosi agenti, come il Premier Monti che i telegiornali continuano a mandare in onda circondato da agenti nel breve percorso da Montecitorio a Palazzo Chigi. Invece assistiamo a volte a numerose presenze che infastidiscono il cittadino il quale inevitabilmente ricorda a se stesso ed a chi gli è vicino che quegli agenti costano alla comunità.

C’è, poi, il capitolo vacanze e shopping. In questo caso dimostrare il “senso della misura” spetta alla personalità che ha il dovere di essere parco, di scegliere una località nella quale riposarsi continuando ad essere tutelato nel modo meno appariscente. E qui viene acconcia un’osservazione. Alcuni di questi nostri politici, che nella vita sociale sono autentici parvenu, spesso anche, consentitemi una considerazione che parrà un po’ classista, di modeste origini familiari ritengono la vacanza ulteriore occasione di esibizione per comparire sui rotocalchi del gossip con mogli e figli o con la compagna o il compagno del momento, fedeli al motto, “parlate di me purché parliate”, convinti, forse a ragione, che la pubblicità negativa sul momento premia nel tempo.

La misura, dunque, il “senso della misura” che deve guidare le autorità competenti ad assicurare la tutela della personalità e la stessa personalità. Non è estraneo alle dimensioni delle scorte anche l’“orgoglio” della forza di polizia incaricata della tutela, che vuole esibire la propria capacità operativa e la soddisfazione di essere incaricata dello specifico compito.

Ricordo alcuni anni fa a Perugia, in occasione di un convegno di studi organizzato dalla Regione Umbria, un Ministro delle finanze (allora l’economia era affidata a distinti Ministri del tesoro, delle finanze e del bilancio) giungere sul posto con un’autovettura preceduta da due auto e seguita da altrettante. Certamente alla scorta del Ministro si erano aggiunte auto del comando locale, in omaggio al vertice dell’Amministrazione e ad esibizione di efficienza. I commenti dei presenti furono le consuete lamentazioni sui costi delle scorte. Chi conosce la salacia degli umbri potrà immaginare senza far ricorso alla fantasia.

Senso della misura, dunque, perché la personalità soggetta a tutela ha il diritto di andare in vacanza e di fare shopping nelle vie principali delle località turistiche o nei supermercati, ma lo faccia con discrezione. Basta una presenza discreta accanto con collegamento radio, mai per portare la busta delle compere.

15 agosto 2012

 

 

 

 

Riconsiderare la spesa pubblica

Cultura liberale per liberare risorse

di Salvatore Sfrecola

 

Mario Monti, scrivono i giornali, avrebbe invitato i suoi ministri, tra un tuffo in mare ed un a passeggiata tra i boschi a meditare sulle esigenze delle crescita in un Paese che, ormai è evidente a tutti, è in grave recessione. Stagna la domanda interna, si contrae l’occupazione. Il classico cane che si morde la coda. La gente non compra perché  non ha risorse, la minore domanda si riversa sulla produzione, la minore produzione comporta la riduzione della manodopera.

              Crescita con riduzione del debito, ovviamente. Un teorema difficile sul quale si esercitano Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di oggi ("Riduzione del debito e crescita - I compromessi che non servono”) con un editoriale che dà per scontato che si stia affrontando seriamente la questione che è al centro della discussione politica, la riduzione della spesa pubblica.

“Aver cominciato a discutere di come ridurre il debito pubblico è un passo avanti importante. Se questo tema divenisse il fulcro della campagna elettorale, finalmente ci staremmo chiedendo chi meglio difenderà gli interessi dei nostri figli”. Un po’ ingenui i due. In campagna elettorale troveremo formulazioni pressoché identiche, come è sempre stato. I partiti si giudicano non dalle promesse che fanno prema del voto, ma dalle politiche dei governi che esprimono.

           Convinti che le discussioni su come ridurre il debito siano anche piene di “tranelli insidiosi” i Nostri ricordano che quel che conta “non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito e il reddito nazionale (il Pil)”, per sottolineare come, “se l'economia non ricomincia a crescere quel rapporto non scenderà mai abbastanza”. Con invito a diffidare da chi propone “fantasiose ricette finanziarie per ridurre il debito sostenendo che tutto il resto è secondario”. E da chi “invoca imposte patrimoniali: i contribuenti onesti di imposte ne pagano già troppe”.

Pertanto la indicazione essenziale è nel senso che la crescita impone la riduzione della spesa pubblica, “altrimenti la pressione fiscale rimarrà elevatissima. Meno spesa e più crescita”.

            È il leit motiv di questa stagione, la “parola d’ordine” è tagliare la spesa pubblica. Sulla quale, peraltro, nessuno sembra soffermarsi a ragionare, a considerare se quella spesa ha come suo effetto una parte della produzione di beni e servizi. Con la conseguenza che non basta dire tagliamo la spesa se non si aggiunge un aggettivo che sento poco negli editoriali e nelle dichiarazioni di politici ed esperti. Questo aggettivo è “improduttiva”, ovvero "inutile".

            Dobbiamo considerare, infatti, che il complesso che possiamo chiamare “spesa pubblica”, cioè le somme che spendono lo Stato, le Regioni, Le Province ed i Comuni e gli altri enti e società a capitale pubblico, per far funzionare gli apparati e per rendere i servizi loro assegnati (si pensi alle aziende sanitarie locali o all’ANAS, che costruisce e mantiene in esercizio le strade statali), costituiscono un intervento nell’economia che muove una parte significativa del PIL.

            In sostanza il pubblico nel suo complesso è il più grande operatore economico del Paese. Molte imprese producono solo per lo Stato e gli enti pubblici, per cui una riduzione della spesa determinerebbe una limitazione delle produzioni e dell’occupazione.

            Questo non vuol dire, ovviamente, che la spesa non possa o debba essere ridotta. Ma quale spesa? Quella aggettivata “improduttiva” o “inutile” che grava sui cittadini in forma di imposte senza rendere un servizio che quelle imposte possa far considerare “giuste”, che, per usare una frase dell’allora Ministro delle’economia, Padoa Schioppa, sia “bello” pagare. Come avviene in alcuni paesi del Nord Europa dove ad una elevata pressione fiscale fa riscontro un sistema di servizi di altrettanta elevata qualità.

            Questa dovrebbe essere l’analisi necessaria per una efficace e strutturale politica della riduzione della spesa pubblica (non uso spending review perché mi disturba il ricorso ad espressioni di altre lingue che a volte si ha l’impressione vengano usate un po’ per un qualche snobismo, un po’ per cattiva educazione, quasi non si volesse far giungere il concetto autentico alle persone culturalmente più modeste).

            Il Governo “di tecnici” è ricorso ad un tecnico, l’ex Commissario Parmalat, Bondi, che a sua volta è ricorso ai tecnici dei ministeri, per cercare di capire dove tagliare come se degli sprechi di cui si parla non avessero abbondantemente scritto negli anni, aggiornando costantemente i dati, Ragioneria Generale dello Stato e Corte dei conti.

            De “Le risorse da liberare”, ha scritto ieri Piero Ostellino sul Corriere della Sera, aggiungendo, da liberale, che, oltre alla riduzione della spesa pubblica, occorre semplificare, cosa che il Governo non ha fatto con il timido provvedimento che pure parta di semplificazione, perché l’invasività della burocrazia si è dimostrata nel tempo un peso insopportabile per le imprese, fin dalla loro costituzione che richiede spesso anni prima che l’attività d’impresa inizi a realizzare le produzioni per le quali è stata costituita.

            Occorre semplificare gli adempimenti burocratici richiesti. E qui si vedrà la “virtude” dei dirigenti delle amministrazioni che fin qui sembrano aver puntato più a creare pastoie, lacci e lacciuoli che a dare prova di quell’efficienza che le migliori burocrazie dei paesi occidentali portano a loro vanto.

            Ricordo quel che mi riferì alcuni anni fa un mio amico avvocato, consulente di un imprenditore che intendeva iniziare un’attività in Canada. Lo accompagnò in quel Paese dove non solo l’imprenditore, che intendeva aprire una fabbrica di pneumatici, ebbe dallo stato il terreno e l’esenzione fiscale per un certo numero di anni, ma gli fu affiancato un funzionario il quale aveva il compito di predisporre tutti gli adempimenti necessari per avviare l’impresa.

            In Canada, non sulla Luna.

            Perché non si potrebbe fare in Italia? Forse verrebbero meno certe rendite di posizione di amministratori e funzionari che gestiscono scelte politiche e adempimenti burocratici che portati per le lunghe suggeriscono il ricorso ad indebite scorciatoie.

            Partiamo dalla semplificazione, Professor Monti, ma che sia autentica, non quella specie di simulacro che non fa onore ad una delle prime economie del mondo. Nonostante tutto!

12 agosto 2012

 

 

 

 

Il costo della casta

 

Ci ha scritto Gaspare Serra sottoponendo all’attenzione dei nostri lettori una accurata analisi sui costi, a suo ed a nostro dire,  “esorbitanti”- del tanto pletorico quanto ipertrofico apparato politico-istituzionale del nostro Paese.

Ne ha già scritto sul suo blog http://gaspareserra.blogspot.it/2012/07/dove-ce-casta-ce-italia.html) inaugurando, con questo articolo, la serie “Pillole di spending review”, una raccolta di saggi, dossier ed inchieste, tutti in pubblicazione sul blog “Panta Rei”: http://gaspareserra.blogspot.it) aventi come denominatore comune la denuncia dei più insopportabili “sprechi” di denaro pubblico e dei più odiosi “privilegi” di cui beneficiano le varie “Caste” (non solo politiche) che continuano a prosperare in Italia.

Questo primo pezzo di Gaspare Serra riguarda “il costo della Repubblica”.

Lo riportiamo integralmente, ritenendo che sia un contributo di conoscenza importante. Il taglio è spesso quello della domanda.

Quanto costano i “Palazzi” del Potere?

Quanto costa agli Italiani mantenere un tanto pletorico quanto ipertrofico apparato politico-istituzionale?

Che la (Casta) politica italiana sia la più costosa d’Europa (probabilmente tra le più dispendiose al mondo!) è un fatto notorio

L’Italia, rispetto agli altri paesi europei, spende in media il 30% in più per i costi della politica.

Per l’esattezza (dati Uil):

-                      ogni contribuente destina al mantenimento della macchina della repubblica circa “646 euro” l’anno;

-                      e i costi della politica italiana (diretti e indiretti) ammontano a circa “24,7 miliardi” di euro (cifra, per intendersi, pari al 2% del Pil nazionale e ad oltre il 12% dell’intero gettito Irpef!).

Più in dettaglio (secondo quanto emerge dai rapporti sui costi della politica presentati da Uil e Confindustria):

-                      gli organi dello Stato centrale (Presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Corte Costituzionale, Presidenza del Consiglio e Ministeri) costano ai cittadini “3,2 miliardi” di euro l’anno (in media, 82 euro per ogni contribuente!);

-                      le quattro più alte Istituzioni dello Stato (quirinale, senato, camera e consulta) pesano sulle tasche degli italiani per “2,2 miliardi” di euro;

-                      il solo funzionamento della presidenza del consiglio (dati 2011) comporta spese per “477 milioni”;

-                      i costi per il funzionamento dei Ministeri (dati 2011) ammontano a “226 milioni”;

-                      per gli Organi di regioni, province e comuni (Giunte e Consigli) si spendono “3,3 miliardi” (ossia 85 euro per contribuente!);

-                      ed Organi quali la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, il Cnel, il CSM ed il Consiglio giustizia amministrativa della Regione Sicilia pesano sul bilancio dello stato per “529 milioni” di euro.

Spulciando i conti delle due Camere, poi, si scopre che:

-                      dal 2001 al 2011, il bilancio della Camera dei deputati è salito da 749 milioni di euro ad oltre “1 miliardo e 70 milioni”;

-                      mentre il bilancio del Senato della Repubblica è passato da 349 milioni nel 2001 a “603 milioni” nel 2011.

Secondo la Banca d’Italia, in barba a ogni crisi, DAL 2001 AL 2010 la spesa per la pubblica amministrazione è passata (in rapporto al pil) dal 48,1% al 51,2%.

“Questo è il normale costo di ogni democrazia”, si sostiene…

Ma quanto è “normale” il fatto che in Francia l’Eliseo e il Parlamento costano “900 milioni” di euro l’anno (meno che la meta’ delle pari istituzioni italiane) e in Spagna soli “700 milioni”?

Come spiegare il fatto che in Spagna il Congresso dei deputati costa soltanto “100 milioni” (meno di un decimo di Montecitorio)???

Come dar conto del dato “impressionante” per il quale (fonte la Stampa, 30/01/2012) il Parlamento italiano costa più della somma degli altri quattro grandi parlamenti nazionali d’Europa (la Bundestaq, la Assemblée Nationale, la House of Commons e il Congreso de Los Deputados), i cui costi di funzionamento solo complessivamente ammontano a 3,18 miliardi di euro l’anno?!

Come giustificare il fatto che (sempre secondo la Stampa) ogni cittadino italiano spende “27,15 euro” l’anno solo per mantenere la Camera dei deputati, mentre:

-                      un francese 8,11 euro per la Assemblée Nationale (tre volte meno che in Italia);

-                      un inglese 4,18 euro per la House of Commons (quasi sette volte meno);

-                      ed uno spagnolo 2,14 euro per il Congreso de Los Deputados (dieci volte meno)???

Cosa giustifica simili “sproporzioni”?

Delle due l’una:

a-                  o l’Italia vanta la classe dirigente “migliore” al mondo, che conseguentemente merita anche un trattamento “unico” al mondo (il che, non fosse per altro, si contraddice con la constatazione d’avere l’unica classe politica, al pari di quella greca, al contempo “commissariata” da un tecnico, “sfiduciata” dall’Europa e “screditata” da ogni agenzia di rating!);

b-                  oppure siamo di fronte alla più grande “truffa” orchestrata ai danni di un’intera Nazione! Per quanto altro tempo tale odioso “spread” (tra il costo della politica italiana e d’oltralpe) sarà tollerabile???

La democrazia ha certamente un costo, tanto fisiologico quanto irrinunciabile…

Ma la politica italiana ha raggiunto costi che definire “patologici” è dir poco!

Il debito pubblico italiano ormai si attesta sui “2.000 miliardi” di euro, i conti dello Stato hanno più buchi di una gruviera (il pareggio di bilancio nel 2013 è solo un’ipotesi…), la finanza pubblica rischia il collasso (il debito pubblico ha superato quota 123% sul Pil, mentre molti enti locali rischiano il dissesto finanziario), la “stagflazione” è dietro l’angolo (una fase di pesante recessione coniugata ad una perdurante inflazione…).

In questo scenario l’aumento delle tasse per “far cassa” non è più una strada percorribile (la pressione fiscale italiana “effettiva” o legale, secondo gli ultimi dati della Confcommercio del luglio 2012, si attesta al 55%, facendo registrare un record mondiale!).

Prima di trovarsi costretti a metter mano al welfare ed alla spesa sociale, ovvero a tagli sulla “viva carne” delle persone (dai licenziamenti nel pubblico impiego alla cancellazione delle tredicesime…), è dunque un “dovere morale” per la classe politica mostrare un “sussulto di dignità”: provvedere da subito ad un taglio netto della spesa pubblica “parassitaria”!

In Italia è proprio la politica il principale terreno fertile per “sprechi e privilegi”.

Per tutto questo tagliare i costi della politica e la spesa pubblica improduttiva non è più un’opportunità bensì una necessità per il Paese!

La crisi economica e finanziaria non ha cause esclusivamente endogene, essendo legata a filo stretto alla capacità di autoriformarsi dell’Europa ed alle strategie occulte della speculazione internazionale.

Ma sull’Italia pesa, diversamente o più che in altri paesi, anche l’insopportabile fardello di una classe dirigente inadeguata, di una politica “gattopardesca” sempre più obesa ed ingorda (praticamente un’“oligarchia insaziabile”!).

Ogni singolo cittadino può ben poco contro lo strapotere di caste consolidate, di lobby coalizzate, di poteri forti ben radicati…

Ma un popolo che non sente il bisogno di “indignarsi” di fronte a insostenibili “sprechi” e insopportabili “privilegi”, che non mostra alcun moto di ribellione dinanzi all’autoreferenzialità, all’affarismo ed al professionismo politico di un’intera classe dirigente, E’ semplicemente un popolo senza dignità!

 

 

P.S. è indicata la fonte dei dati e il commento, per quanto duro, è condivisibile. Ho lasciato il riferimento al costo delle magistrature, amministrativa e contabile pur ritenendo che quello sia un costo fisiologico per la comunità. Le magistrature amministrativa e contabile hanno il compito di assicurare il buon andamento dell’amministrazione. Se non ci riescono o non ci riescono integralmente vuol dire che le loro forze sono insufficienti rispetto alle dimensioni dell’illegalità, dell’illiceità e degli sprechi.

Ho eliminato una frase che accusava la casta di costituire “una vera e propria “Associazione politica a delinquere”!” Le responsabilità penali sono personali e non possono essere attribuite all’intera classe politica. Certamente l’indicazione era atecnica, ma ho voluto fare questa precisazione per mantenere la critica nei termini di una duro ma sereno confronto.

Salvatore Sfrecola

12 agosto 2012

 

 

 

I cristiani ed il rispetto per la natura, animali compresi

di Salvatore Sfrecola

 

Leggo da anni, sempre con molto interesse, Corrispondenza Romana, l’Agenzia settimanale diretta dal Prof. Roberto de Mattei, al quale mi lega un’antica, autentica amicizia, fondata sull’idem sentire di valori civili e religiosi. Naturalmente questo non mi ha impedito, di tanto in tanto, di avere motivi dissenso, mai, peraltro, tali da segnalarli o da scrivere in proposito.

Oggi, invece, non posso fare a meno di intervenire su un pezzo del La subdola propaganda estiva dell’animalismo”, , che mi ha lasciato sconcertato ed indignato non poco.

E mi è venuto di pensare cosa ne avrebbe detto San Francesco d’Assisi, il cristiano che, più di ogni altro, ha esaltato la grandezza di Dio attraverso quel mirabile complesso di beni straordinari che noi chiamiamo Creazione, i mari, le montagne, la flora straordinaria che li orna e quella miriade di esseri viventi che fanno vivere la natura. Immaginiamo come sarebbe squallida la natura, anche bellissima della flora, se non fosse abitata da uccelli, bipedi, quadrupedi, se i mari non fossero animati dai pesci.

“Laudato sie, mì Signore cum tucte le Tue creature”. Un Cantico, appunto il Cantico delle Creature, intonato da Francesco, per celebrare la natura, nella sua pienezza, espressione del suo amore per Gesù Cristo.

E mi sono chiesto quali sarebbero state le reazioni di quello straordinario cristiano, se avesse potuto leggere la sconsiderata prosa del Nostro, il quale esordisce affermando che l’estate “è il periodo migliore per la propaganda animalista e ciò per due ragioni fondamentali: la prima, riguarda l’aumento del (deprecabile) fenomeno dell’abbandono degli animali domestici che costituisce un formidabile pretesto per seminare odio nei confronti del genere umano; la seconda, concerne l’acutizzarsi del sentimento della solitudine che colpisce le persone prive di rapporti sociali e/o famigliari stabili e soddisfacenti, in un periodo dove il piacere dell’agognato riposo estivo si coniuga con la ricerca della compagnia ed il rafforzamento dei legami affettivi”.

Cominciamo col rilevare una contraddizione tra il fenomeno dell’abbandono degli animali domestici, giustamente definito “deprecabile”, e la presunta occasione, che ne deriverebbe, “per seminare odio nei confronti del genere umano”.

Se l’abbandono è “deprecabile” perché effetto di una incapacità di comprendere non solo le sofferenze dell’animale che nel frattempo ha maturato affezione nei confronti dei padroni, che spesso sono i bambini o gli anziani, in tal modo incidendo sui sentimenti maturati da questi nei confronti dell’animale, non si comprende perché sottolineare un comportamento definito appunto in negativo possa essere motivo di odio nei confronti del genere umano, espressione generica che, tra l’altro, trascura di considerare il valore civile di quanti, invece, portano con se il cane o il gatto o i pesciolini rossi dell’acquario o li affidano ad amici od a “pensioni” specializzate.

Lo scritto del De Matteo non meriterebbe di essere preso in considerazione, tanto il livore nei confronti degli animali e dei sentimenti che ad essi legano gli uomini è incomprensibile, se non avesse trovato ospitalità sulla prestigiosa Agenzia di Roberto de Mattei, che da anni costituisce un punto di riferimento del pensiero cattolico ispirato alla tradizione, con riflessioni importanti e notizie dal mondo, che probabilmente la stampa non avrebbe diffuso, e con iniziative, collegate alla Fondazione Lepanto ed all’Associazione Famiglia Domani, di grande interesse sotto il profilo della difesa dei valori più sacri, come quelli della vita.

Non si comprende, in particolare, come il De Matteo, che constata come si viva “in una società dove il sentimento religioso è sempre più ai margini del vivere individuale e sociale e dove l’uomo, di conseguenza, sperimenta con sempre minor frequenza la vicinanza e l’amore di Dio”, per sottolineare come “la qualità del legame affettivo con l’altro rappresenta una delle poche cose che danno valore all’esistenza”, ritenga che la campagna contro il “deprecabile” abbandono degli animali domestici sia espressione “dell’ideologia animalista… in vista di una sua maggiore presa sul cittadino medio”.

E qui si manifesta una evidente carenza di capacità di enunciare i valori del messaggio cristiano da parte di chi ha dato spazio agli ambientalisti di tutti i colori trascurando di esaltare, come dovrebbe fare chiunque crede che Dio effettivamente è l’Autore della natura. Chi se non i cristiani avrebbero dovuto difendere la natura, contro gli inquinatori e quanti la offendono, offendendo l’intento creatore di Dio che ha messo a disposizione degli uomini questo meraviglioso giardino perché se ne servisse, ma non violasse le caratteristiche naturali, che non le distruggesse. Così gli animali aiutano l’uomo a vivere ma non possono essere degradati rispetto al ruolo che il Creatore ha destinato per loro, e non è ammissibile che i piccoli, mansueti beagle siano torturati nei laboratori per dubbia utilità scientifica perché qualche “ricercatore” vuol verificare quali reazioni abbia il cuore o il cervello dell’animale mentre gli viene amputata una zampa, per capire se e quanto soffre, avendogli preventivamente reciso le corde vocali per evitare di essere disturbato dai latrati.

Questo è mancato rispetto della natura.

E quanto agli animali “domestici”, forse De Matteo trascura il valore che cani e gatti hanno per i bambini, per i malati, per gli anziani, ai quali spesso restituiscono una ragione di vita e l’occasione di un sorriso. Forse De Matteo, imprenditore in un’impresa di autoricambi, non sa che l’ippoterapia ha restituito a tanti disabili la ragione della loro esistenza e forse qualcuno ha trovato nell’aiuto di questi animali la conferma della grandezza di Dio.

Niente da fare, per il Nostro è subdolo far “leva su sentimenti ed affetti” per scoraggiare il “deprecabile” abbandono. E condanna la pubblicità che vorrebbe “incoraggiare le persone sole o segnate da esperienze fallimentari (non a caso l’espressione della donna non è gaia e spensierata come nella maggior parte delle immagini pubblicitarie) a riversare il loro affetto sull’animale domestico”, sostenendo che si vorrebbe “far passare il concetto che il rapporto con l’animale non rappresenti semplicemente il riempitivo di una vita priva di soddisfazioni ma, al contrario, costituisca addirittura il naturale completamento dell’esistenza!”.

Sarebbe una ideologia antiumana.

Et de hoc satis! Si vada a rileggere San Francesco o Sant’Antonio, vada a compulsare alcuni recenti scritti di Papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che hanno voluto esaltare Dio nel Creato, nella natura meravigliosa che ne conferma la grandezza.

Spaziamo via ecologisti e ambientalisti da strapazzo, che nella difesa dell’ambiente spesso hanno trovato motivo di un impegno remunerativo. I cristiani si devo riappropriare dei valori propri del Creato, perché mai più, come accade oggi a Taranto, i lavoratori dell’ILVA siano chiamati a scegliere se lavorare o morire di cancro, o morire piano piano lavorando.

Infine voglio ricordare alcuni passi dal "Catechismo della chiesa cattolica" sul rispetto dell'integrità della Creazione

2415 Il settimo comandamento esige il rispetto dell'integrità della creazione. Gli animali, come anche le piante e gli esseri inanimati, sono naturalmente destinati al bene comune dell'umanità passata, presente e futura.

290 L'uso delle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo non può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all'uomo non è assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni future; esige un religioso rispetto dell'integrità della creazione.

2416 Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua provvida cura.

292 Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria.

293 Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali.

2417 Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine.

294 È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contribuiscono a curare o salvare vite umane.

2418 È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita.

Insomma, per rispettare la natura e per amare gli animali non c’è bisogno di evocare la vita eterna o il Paradiso. Sono animali, ma hanno una loro sensibilità e va rispettata. Soprattutto va rispettato chi li ama e trae giovamento dalla loro presenza.

11 agosto 2012

 

 

 

 

Prima di vendere il patrimonio pubblico confiscare i beni personali di quanti, nella classe politica e di governo, hanno concorso a portarci sull’orlo dell’abisso

di Senator

 

È ormai sulla bocca di tutti e viene ripetuto con incredibile sicumera.  Dobbiamo vendere parti importanti del patrimonio dello Stato per rientrare dal debito che ormai raggiunge i duemila miliardi di euro. Palazzi storici, caserme, scuole, terreni non per fare cassa, si dice, ma per eliminare partite di debito, quel debito che autoalimenta attraverso le spese per interessi, sempre maggiori e sempre più preoccupanti con lo spread che richiede tassi più appetibili per gli investitori.

Della questione sembra si occupi oggi anche il Consiglio dei ministri per definire, così abbiamo letto sui giornali, una prima tranche di beni da alienare.

Ho affrontato l’argomento più volte invitando alla cautela. Innanzitutto perché non è poi così semplice vendere un immobile storico o una caserma. Ci sono problemi urbanistici, di destinazione d’uso e oneri di adeguamento strutturale e degli impianti in relazione alle normative di sicurezza che non sono facilmente superabili. Problemi che sono destinati ad incidere sul prezzo, abbattendolo spesso di molto. Poi chi ha il denaro per comprare questi beni? Investitori esteri? La malavita? Certo sarebbe il colmo che una caserma dei Carabinieri divenisse un albergo a cinque stelle si proprietà di una impresa “in odore” di mafia!

Vendere comunque si può e, in altra occasione questo giornale ha scritto che in alcune circostanze “si deve”, ma ad alcune condizioni.

Prima di tutto una cosa è “vendere”, altra è “svendere”, come insegna l’esperienza delle privatizzazioni fin qui eseguite che, attraverso le “società veicolo”, hanno fatto ingrassare alcuni imprenditori i quali hanno lucrato sulla differenza tra quanto versato agli enti pubblici e quanto richiesto ai nuovi acquirenti, con effetti negativi sul piano sociale.

È accaduto, infatti, che inquilini di enti previdenziali che hanno messo in vendita parte del patrimonio si sono trovati a sostenere rate di mutuo in misura doppia rispetto al canone di affitto che pagavano. Sarebbe stata possibile una rata di mutuo di poco superiore al vecchio canone sulla base di una cessione diretta degli immobili da parte degli enti proprietari assistita da un prestito agevolato di una banca o di un pool di banche che si fosse assunto il compito con garanzia dello Stato. È quanto aveva immaginato, all’inizio degli anni ’90, il Ministro dei lavori pubblici, Giovanni Prandini, in un piano che poi non ebbe seguito per uno dei tanti cambi di governo che avevano caratterizzato la Prima Repubblica.

Ugualmente è possibile alienare agli inquilini le case degli Istituti delle Case Popolari, adesso ATER, un complesso di immobili che sono sempre costati agli enti proprietari più di quanto rendevano, per la diffusa morosità a fronte di oneri di gestione necessitati da esigenze di sicurezza degli inquilini. Sarebbe stata già un vantaggio per gli enti la cessione gratuita. Ma è certo che l’operazione non andrà facilmente in porto perché sarà difficile obbligare gli inquilini ad acquistare, abituati dall'accondiscendenza dei politici locali a pagare canoni irrisori, quando non evasi. Senza tener conto che molti abitanti delle case popolari hanno da tempo perduto i requisiti per disporre di un tale vantaggio. E nessuno ha chiesto loro conto di questa condizione.

Vendere è, dunque, più facile a dirsi che a farsi.

Né va trascurato che la riduzione del patrimonio, anche se l’Italia è, tra gli stati, uno dei maggiori proprietari di beni immobili, determina una riduzione delle garanzie che possono essere offerte per prestiti a livello interno ed internazionale. Come una famiglia, se vende immobili non avrà, poi, con cosa garantire eventuali, successive richieste di mutuo.

Saremmo, dunque, privi di garanzie per un Paese che non riesce ad esprimere una classe dirigente, politica e di governo, degna della sua storia. Una classe politica la quale consente che un gran numero di uffici pubblici siano in affitto in presenza di un patrimonio immobiliare immenso, in parte utilizzabile proprio per esigenze degli uffici pubblici, come una caserma, ad esempio, spesso al centro delle città dove gli uffici amministrativi o giudiziari potrebbero essere facilmente allocati, risparmiando milioni di euro di affitti passivi, spesso pagati a privati. Un problema grave, che va avanti da anni, che nessuno si impegna a risolvere.

Un esempio per tutti. A Torino la Corte dei conti, il Tribunale Amministrativo Regionale e l’Avvocatura distrettuale dello Stato occupano locali privati mentre in città ci sono immobili demaniali di incerta destinazione, tra cui la Caserma de Sonnaz, che potrebbe assicurare alla Città, al Foro e agli utenti un polo giudiziario rilevante al centro.

Nulla si smuove.

Torniamo all’ipotesi di alienazione dei beni appartenenti al patrimonio pubblico, ai “gioielli di famiglia”, come si dice a proposito di quelli che possono essere più appetibili per eventuali investitori.

Si tratta di beni che sono stati accumulati dallo Stato e dagli enti locali nei secoli, grazie al sacrificio di milioni di italiani che, nel corso del tempo, hanno pagato imposte, svolto lavori obbligatori, subito espropri e requisizioni, somme somministrate al principe, come scrive Giovanni Botero, “per sostegno della sua grandezza e per mantenimento della Repubblica” (Della ragion di Stato, 1589).

Vanno venduti, se necessario, al loro valore di mercato, anche se questo, in presenza di una offerta consistente tenderà a collocarsi su valori bassi.

Va, dunque, presa una misura preliminare. L’interdizione dagli uffici pubblici e la confisca dei beni per quanti hanno amministrato l’Italia negli ultimi anni, amministratori e super manager pubblici, per coloro, cioè, che hanno portato al fallimento enti e società pubbliche, senza prevedere e prevenire, con una politica di sprechi, di tolleranza dell’evasione fiscale e della corruzione, una situazione che, correttamente e tempestivamente individuata avrebbe consentito di adottare le misure idonee ad evitare la frenata brusca sull’orlo del precipizio, cui sta provvedendo il Presidente Monti con grande difficoltà e con richiesta di ulteriori, pesanti sacrifici che, inutile dirlo, graveranno sui “soliti noti”, i lavoratori dipendenti ed i piccoli proprietari di immobili.

Vedremo cosa partorirà il Consiglio dei ministri. Poi torneremo sul tema.

10 agosto 2012

 

 

 

Fiamme dolose avvolgono l’Italia

Chi incendia paghi!

di Salvatore Sfrecola

 

Molti gli incendi, prevalentemente di natura dolosa. Fermato vicino Roma un piromane. Così le televisioni questa mattina nei servizi sugli incendi che avvolgono l’Italia da nord a sud in questa estate quanto mai torrida.

Così, come sempre, la maggior parte degli incendi è di natura dolosa, come può confermare qualunque vigile del fuoco o agente della forestale. A volte è l’imprudenza, che spesso ha punito anche il responsabile, come nel caso delle stoppie bruciate nella convinzione che l’anno successivo il campo renda di più, quando un’improvvisa deviazione del vento ha investito il contadino con il cerino in mano.

Ricordo qualche anno fa, in Umbria, dalle parti di Terni, un incendio di 25 ettari di bosco provocato da una nonnina impegnata nella preparazione delle bottiglie di salsa di pomodoro. Lo faceva all’ombra degli alberi in un pentolone alimentato da fascine. È bastata una scintilla perché il fuoco attaccasse i primi alberi e si estendesse in un baleno, complice il vento, all’intera boscaglia. 25 ettari andati in fumo!

Incendi, dunque, per un mozzicone di sigaretta gettata ai margini di una strada sulle sterpaglie riarse, ma anche per interessi, anche se la legislazione limita il cambio di destinazione dei terreni percorsi dal fuoco (ma per quanto tempo? Ed è sempre possibile una deroga), perché è bello vedere le fiamme che si sviluppano, come testimoniano alcuni di coloro che sono stati identificati, folli tante volte sorpresi con i cerini in mano, dei quali la stampa riferisce che sono stati "assicurati alla giustizia".

Ma con quali conseguenze? Il codice penale prevede per l’incendio boschivo la pena da quattro a dieci anni (art. 423-bis, comma 1) che scende ad una pena da uno a cinque anni (comma 2) se il fatto è dovuto a colpa. La pena è aumentata della metà “se dall’incendio deriva un danno grave, esteso e persistente all’ambiente” (comma 3).

Sembrano pene gravi e dissuasive ma tali non si sono rivelate, come dimostra il fatto che di anno in anno gli incendi si ripetono, spesso ad opera delle stesse persone. Prevalgono considerazioni sullo stato di salute mentale dei responsabili (in effetti solo un malato di mente può dar fuoco ad un bosco) e le norme che consentono la libertà anticipata. Insomma, come in altri casi di cui le cronache sono piene, la minaccia della sanzione penale non ha quegli effetti dissuasivi che si legge sui libri di scuola.

Cosa fare, dunque?

Occorre tornare ad una regola fondamentale antica e, purtroppo, spesso trascurata. Chi provoca un danno deve risarcirlo. Al di là del danno al patrimonio boschivo e all’ambiente, infatti, lo Stato subisce un danno consistente nell’impiego di uomini e mezzi per lo spegnimento dell’incendio. Migliaia, centinaia di migliaia di euro per ogni incendio per le autobotti dei vigili del fuoco, per gli elicotteri e gli aerei chiamati a gettare acqua sui roghi. E poi per tutto il personale impiegato, Carabinieri, Guardie forestali, personale della Protezione civile al quale vanno corrisposte indennità per il lavoro straordinario.

Se all’inizio dell’estate, oltre alle consuete informazioni radio-televisive su chi va allertato in caso di avvistamento di incendi, fosse anche ricordato che i piromani saranno chiamati a risarcire il danno provocato sono certo che molti si asterrebbero da certe imprese. Soprattutto se la stampa desse notizia che Tizio o Caio ha dovuto risarcire effettivamente. E nessuno pensi di cavarsela sostenendo di essere nullatenente, perché qualche bene di famiglia è sempre disponibile per risarcire l’erario, anche in quelle contadine tra le quali spesso alligna l’autore dell’incendio, sia esso dovuto a dolo o a colpa (come nel caso della nonnina intenta a fare le bottiglie di salsa di pomodoro per figli e nipoti). E se in qualche famiglia c’è un figlio scemo che si diverte a vagare per i boschi con una scatola di fiammiferi – come mi è stato detto una volta quasi a giustificazione dell’impunità - la minaccia del risarcimento convincerà i genitori a tenerlo sotto chiave, almeno fino alle prime piogge.

Per completare queste riflessioni, che nascono anche dall’esperienza, negli anni scorsi, di magistrato della Corte dei conti con funzioni di Procuratore in una regione spesso colpita dagli incendi, l’Umbria, quel che stupisce è la difficoltà per molti amministratori e funzionari pubblici, anche a livello governativo, anche solo di immaginare di percorrere la strada del risarcimento. Ricordo che mi sentii ripetere che la costituzione di parte civile nel processo non avrebbe prodotto molto, non riuscendo i miei interlocutori, ai massimi livelli delle decisioni amministrative e di difesa erariale, a percepire l’effetto deterrente del risarcimento del danno, al di là dell'effettivo recupero dell'intero pregiudizio subito.

Ricordo l’ostilità a considerare le mie sollecitazioni ad intervenire nei processi, quasi il fastidio delle mie parole e delle mie note istruttorie, considerato che non potevo agire sul privato incendiario, ma solo sulla mancata difesa degli interessi erariali. Ma neppure il timore di una mia azione ha avuto l’effetto di sollecitare determinazioni coerenti con l’esigenza di recuperare, almeno in parte, le somme spese per spegnere gli incendi.

Ricordo in quegli anni che il Procuratore della Repubblica di Perugia, Nicola Miriano, all’epoca impegnato in una serie di importanti processi a carico di magistrati romani accusati di corruzione, era solito ripetere, nel corso dei nostri colloqui, che l’azione del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti era molto più efficace della sua perché, diceva, “tu metti le mani delle tasche dei responsabili che in prigione stanno poco o niente”.

In una stanza della Procura regionale del Lazio della Corte dei conti, a Roma, in viale Mazzini, un funzionario ha affisso un cartello con scritto “chi sbaglia paga”, come dire, nel nostro caso “chi incendia paga”. Speriamo!

9 agosto 2012

 

 

 

Con 120 miliardi annui di evasione fiscale!

Fisco maldestro e distratto

di Salvatore Sfrecola

 

Il dato, lo abbiamo ricordato più volte, è certo e certificato, di provenienza Agenzia delle Entrate. 120 miliardi annui di evasione fiscale sono un dato che ridicolizza il nostro Paese. Altro che spread, il guaio è in quel dato, terribile, che dimostra incapacità di immaginare un sistema fiscale equanime, perché l’evasione impone al fisco continue correzioni, cioè aggravi, che pagano sempre i “soliti noti”, come si usa dire, essenzialmente i lavoratori dipendenti.

Ne ho parlato più volte, da anni. Il meccanismo che evita la fuga dall’obbligo fiscale è uno solo, come accade nei paesi più civili, la contrapposizione degli interessi tra chi paga e chi riscuote, in modo da far emergere il reddito di chi riscuote.

Un esempio noto a tutti. L’idraulico, ma potrebbe essere il tappezziere, l’imbianchino e via dicendo, artigiani i quali fanno il solito discorso tot, senza fattura, in contanti, tot più iva con fattura. La risposta è sempre la stessa, “senza fattura”. Nessuna esitazione. Il cliente di quegli artigiani, lavoratori “in nero”, per i quali la prestazione il più delle volte viene effettuata nelle ore libere dal lavoro principale, offre una alternativa alla quale non si può che dare una sola risposta. Infatti la convenienza è troppo evidente. Si consideri che spesso la prestazione in nero comporta l’acquisto di materiali, anche esso in nero, in una catena perversa che fa perdere al fisco somme ingenti.

Certo c’è chi non rinuncia alla fattura. Ma è certo di pochi, perché il fisco non aiuta gli onesti i quali di quella fattura non sanno cosa farne, non possono dedurre le somme corrisposte all’artigiano, come, invece, avviene nella maggior parte dei regimi fiscali dei più organizzati ordinamenti occidentali.

È una questione sulla quale il fisco non intende ragioni. Ne ho parlato già nel 1992 in un convegno della CIDA e mi sentii rispondere da alcuni superispettori del fisco intervenuti nel dibattito che la scelta di operare deduzioni avrebbe fatto scendere il gettito.

È una risposta a dir poco approssimativa, che non tiene conto dell’esperienza di altri regimi fiscali e della flessibilità della normativa in materia tributaria che consente, attraverso alcune cautele, di evitare ogni effetto negativo che comunque non è ipotizzabile in presenza dell’emersione di un reddito altrimenti occultato.

Il problema è che per avviare un sistema di deduzioni, conseguenza di una generalizzata emissione di scontrini e fatture deducibili, occorre che il cliente dell’artigiano abbia un interesse evidente e concreto alla richiesta del documento fiscale. In atto questa convenienza non c’è. Anzi c’è la convenienza opposta, quella ad evitare scontrino o fattura per pagare meno.

Altro aspetto che denuncia la incapacità del fisco è quello relativo al contenzioso tributario. È vero che con le ultime manovre economiche estive il legislatore si è proposto di costringere il contribuente a pagare o patteggiare, rendendo estremamente difficoltoso e costoso il ricorso alla giustizia tributaria, peraltro gestita da giudici non professionali, a tempo parziale e poco remunerati, gestiti (anche economicamente) dal Ministero dell’economia e delle finanze, che è la parte avversa.

Il processo andrebbe ulteriormente snellito, ad evitare che le decisioni arrivino troppo tardi, quando il contribuente è defunto o la società fallita, e reso più oneroso per i ricorrenti temerari.

C’è molto da fare e presto. Ne va dell’immagine del Paese a livello europeo, mentre all’interno il livello della pressione fiscale è insopportabile, limita la capacità delle persone di favorire la tenuta del mercato interno e sviluppa quel sentimento di ribellione che, unitamente alle difficoltà economiche ed alla crescita della disoccupazione, costituiscono elementi di una miscela pericolosa che mina la pace sociale e l’ordine pubblico.

8 agosto 2012

 

 

 

In margine alle polemiche sulle dichiarazioni di Monti al "Der Spiegel" sui rapporti tra Governo e Parlamento

Repubblica parlamentare? Certamente sì

di Salvatore Sfrecola

 

Capita anche ai più esperti tra gli uomini di governo e gli imprenditori che alcune frasi contenute in una dichiarazione, in un discorso o in un’intervista suscitino polemiche, perché equivocate. Naturalmente sta all’autore della dichiarazione, consapevole di questo rischio e del fatto che le sue parole possano comunque essere strumentalizzate, ponderare attentamente le espressioni alle quali affida le proprie opinioni.

È accaduto così, che l’intervista rilasciata dal Presidente del Consiglio Mario Monti al settimanale tedesco "Der Spiegel" abbia suscitato alcune reazioni, in Germania e non solo, sui rapporti Governi - Parlamenti in merito alle vicende recenti dell’Europa che il Premier ha ritenuto dovute ad equivoci sui quali è intervenuto con una nota ufficiale che si legge nel sito del Governo, www.governo.it.

Premette Monti di essere “convinto che la legittimazione democratica parlamentare sia fondamentale nel processo d’integrazione europea”, aggiungendo che “proprio a questo fine nel trattato di Lisbona è stato opportunamente rafforzato sia il ruolo dei Parlamenti nazionali, sia quello del Parlamento europeo”.

Precisa, quindi, di “non aver inteso in alcun modo auspicare una limitazione del controllo parlamentare sui governi che, anzi, penso vada rafforzato tanto sul piano nazionale che su quello europeo”.

Premesso, in particolare, che, suo giudizio “l’autonomia del parlamento nei confronti dell’esecutivo non è affatto in questione, nell’ovvio rispetto, peraltro, di quanto previsto dagli ordinamenti costituzionali di ciascuno Stato europeo, precisa di aver “unicamente voluto sottolineare la necessità al fine di compiere passi avanti nell’integrazione europea che si mantenga un costante e sistematico dialogo fra governo e parlamento. Infatti, nel corso dei negoziati tra governi a livello di Unione europea, può rivelarsi necessaria una certa flessibilità per giungere ad un accordo, da esercitarsi sempre nel solco di scelte condivise con il proprio parlamento”.

“In questa ottica – conclude la nota di Palazzo Chigi -, ritengo che ogni governo abbia il dovere di spiegarsi e interagire in modo dinamico, trasparente ed efficace con il Parlamento, in maniera da individuare soluzioni, ove opportuno anche innovative e coraggiose, verso un comune obiettivo europeo”.

La spiegazione della frase, oggetto delle polemiche, secondo la quale i governi non dovrebbero “lasciarsi completamente imbrigliare dalla decisioni del Parlamento”, senza preservare un loro spazio di manovra, lascia inevitabilmente spazio a dubbi interpretativi, considerato che il rapporto Governo – Parlamento è sempre al centro del dibattito dei costituzionalisti e dei politici. È argomento quotidiano, affrontato in vario modo a seconda della cultura giuridica e della concezione della democrazia che anima gli interlocutori.

In questa ottica si colloca la proposta di riforma costituzionale di stampo presidenzialista o semipresidenzialista votata nei giorni scorsi dal Senato, figlia di una cultura antiparlamentare che serpeggia in tutti i partiti, specie in quelli di governo, ampiamente condivisa da chi ricopre cariche ministeriali.

Se “il Parlamento mi fa perdere tempo”, di berlusconiana memoria, è una delle più recenti esternazioni di questa concezione, non c’è dubbio che molti hanno manifestato insofferenza rispetto alle iniziative delle Camere che facevano le pulci a provvedimenti governativi assunti con le forme del decreto legge, per cui i maxiemendamenti blindati, di fatto limitativi delle prerogative parlamentari.

Mettiamo qualche puntino sulle molteplici “i” di questo dibattito.

Esistono stati nei quali il Parlamento ha un ruolo centrale, rappresenta la volontà popolare, è il titolare della funzione legislativa primaria, condiziona la vita dei governi che rimangono in carica fino a quando gode della fiducia delle Camere.

Il governo, a sua volta, è espressione della maggioranza parlamentare e ne realizza l’indirizzo politico uscito dalle urne. Nei casi di straordinaria necessità ed urgenza la funzione legislativa è assunta dal Governo con provvedimenti, i decreti-legge, che devono essere convertiti in legge dalle Camere entro sessanta giorni.

Questo quadro “idilliaco”, formale, nella realtà non sempre funziona come dovrebbe. Nel senso che le maggioranze, anche se forti, come nel caso della presente legislatura che ha dato al Popolo della libertà numeri mai visti prima, possono non sostenere il governo con un atteggiamento coerente per motivi i più vari, l’eterogeneità della maggioranza, l’insufficiente esperienza politica dei parlamentari, la scarsa capacità di direzione dei responsabili dei gruppi che sostengono il governo.

D’altro canto è possibile anche che sia il governo a mostrare inadeguatezza rispetto alle esigenze di gestione del potere per cui la maggioranza non si senta di seguirne pedissequamente le iniziative o, per contro, ritenga di trovarsi costretta a scelte che non condivide, a votare emendamenti governativi blindati.

È un’analisi, quest’ultima che si attaglia a questo momento storico.

Come uscirne? Attribuendo al governo poteri in modo che non si lasci “imbrigliare dalla decisioni del Parlamento”, per usare le parole del Presidente Monti? Avviare una svolta presidenzialista o semipresidenzialista? Con un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo che di fatto domini l’esecutivo, come avviene in Francia? Come auspica il PdL nella formula votata dal Senato la scorsa settimana?

In questo caso, come in Francia, occorrono contrappesi, ad esempio un controllo preventivo della Corte costituzionale sugli atti normativi del Governo. E se diventasse Presidente della Repubblica una personalità che ha in uggia non solo il Parlamento, ma la Magistratura nelle sue varie articolazioni e proprio la Corte costituzionale?

A mio parere è bene tenersi l’attuale sistema parlamentare, sia pure rivisitato sotto il profilo del bicameralismo perfetto che nessuno difende più, lasciamo al Presidente della Repubblica, eletto o meno dal popolo, il ruolo di garante della legalità costituzionale e degli equilibri politici e facciamo funzionare meglio il Parlamento nel senso che i partiti si impegnino a portare a Montecitorio e a Palazzo Madama persone con esperienza politica e amministrativa, com’era un tempo. Diamo forza ai Gruppi parlamentari ed autorità a chi li dirige e poi se c’è da battagliare sugli emendamenti vorrà dire che, invece di lavorare un paio di giorni la settimana, gli eletti dal popolo si impegneranno di più, magari facendo qualche nottata per contribuire ad una legislazione più meditata secondo la volontà degli elettori.

Infine non può mancare un consiglio al Prof. Monti. Stia attento nelle dichiarazioni, ne mediti gli effetti, anche quelli enfatizzati da quanti sono interessati ad equivocare, come in Germania alla vigilia di una campagna elettorale difficile, o in Italia, come  dimostrano le reazioni ad un'altra intervista, questa volta al World Street Journal. Quello spread ad oltre 1200 punti, ritenuto nel contesto dell'intervista come riferito all'ipotesi che fosse rimasto in carica Berlusconi, è stato smentito, il riferimento era altro, ma l'"incidente" c'è stato lo stesso. Anche se vero o equivocato molti sono convinti che con Berlusconi la crisi sarebbe stata più grave.

7 agosto 2012

 

 

 

La storia virtuale

E se Gianfranco Fini. . . . . ?

di Salvatore Sfrecola

 

“È stato detto – esordisce Robert Cowley nella sua introduzione a “La storia fatta con i se” – che “e se?” (o la storia virtuale o alternativa o parallela, per usare i termini in voga nei circoli accademici) è la domanda segreta preferita dagli storici. La storia virtuale ha un valore che va al di là del “futile gioco di società” (per citare lo storico inglese E. H. Carr)”. Per il quale (Sei lezioni sulla storia, Einaudi 1961, 104) è un atteggiamento “più emotivo che razionale”, che ha indubbiamente un suo fascino perché inevitabilmente, dinanzi ad un fatto storico, siamo istintivamente tentati dal pensare “se fosse andata diversamente?”. Se la rivoluzione francese o quella russa fossero fallite? Se Napoleone avesse vinto a Waterloo? Se nella guerra di secessione avesse vinto l’esercito del Sud?

E via fantasticando di storia, grande storia, in un esercizio che sa di un gioco di società, applicabile sicuramente anche alla cronaca, agli avvenimenti ancora in corso o recenti dei quali si può facilmente immaginare anche un diverso esito, anche perché “a volte ritornano”, si è detto di alcuni personaggi della politica sconfitti nelle urne e poi resuscitati da un nuovo voto o da un accordo di partito o tra i partiti.

Così mi vien fatto di riflettere, all’inizio di questa campagna elettorale, della quale l’unica cosa incerta è la durata in relazione alla data possibile delle elezioni (novembre o maggio, tertium non datur!) del ruolo di Gianfranco Fini, oggi alla testa di una compagine modesta e di modeste dimensioni con la quale vorrebbe, sembra, svolgere un ruolo nei futuri assetti della politica italiana dei quali ho già scritto in un libro che ancora conserva una sorprendete attualità nel titolo e nel contenuto “Un’occasione mancata”(Nuove Idee, Roma, 2006), che mi aveva suggerito lo stesso Fini. Un’analisi convalidata dagli eventi successivi che nel periodo 2001 – 2006 trovano la loro genesi. Nella incapacità di Silvio Berlusconi e della sua squadra di governo di corrispondere alle esigenze della comunità nazionale sul piano economico e sociale. Ciò che spetta ad un governo fare in primo luogo, senza negare che possa elargire piaceri anche a qualche amico.

Ma poiché est modus in rebus, quel governo avrebbe dovuto fare almeno alcune delle cose che aveva promesso, diminuire le tasse ed aumentare l’occupazione. Magari solo un po’ meno tasse e qualche posto di lavoro in più, se non il milione solennemente promesso agli italiani in diretta televisiva nello studio di Bruno Vespa.

Ho scritto di Fini “risorsa della Repubblica”, ma ho anche individuato qualche insufficienza della sua azione politica, qualche incoerenza, valutazione che, sembra, non abbia gradito. Dubito che abbia letto il libro, mentre sono certo che alcuni dei suoi ne abbiano fornito una versione sbagliata. Gli stessi ai quali stava in uggia Domenico Fisichella, Gustavo Selva o Pietro Mitolo, uomini di cultura e di fede, fastidiosi intellettuali.

Se Fini avesse letto il libro, non solo confrontandolo con gli altri che parlano di lui, dalla lettura dei quali non esce mai bene, considerato la disponibilità a comprendere anche gli errori che ha guidato la mia penna (ma, come molti politici, evidentemente preferisci le piaggerie ai richiami seri), avrebbe apprezzato l’equilibrata valutazione della sua linea politica con le sue luci e le sue ombre e ne avrebbe tratto elementi per la sua azione futura che certamente (ecco il “se”) gli avrebbe dato la possibilità di succedere a Berlusconi alla guida del Centrodestra.

Gli avrebbe dato la possibilità, non la certezza, perché il rapporto tra i due non è stato mai improntato a sincera amicizia, al di là di espressioni di convenienza, come dimostra qualche sporadica investitura, subito revocata per non dispiacere ai big di Forza Italia. Perché Berlusconi non solo non avrebbe mollato la presa ma, una volta costituito il Partito della Libertà, non avrebbe potuto giustificare alla maggioranza interna di ex forzisti il passaggio dello scettro ad un postmissino, sia pure decorato della vicepresidenza del Consiglio, poi della gestione della Farnesina (un ministero politicamente improduttivo) e della Camera dei deputati. Altra vetrina politicamente improduttiva se non accompagnata da una forza politica che Fini non aveva ed alla quale anzi ha rinunciato abbandonando il Partito. Fini ha pensato evidentemente che il distacco dal partito ed una posizione istituzionale quantomeno “visibile” se non politicamente produttiva gli avrebbe dato quel prestigio del quale in passato si era giovato Giuliano Amato, anche grazie a ben note simpatie di oltre oceano. Magari guardando al Quirinale. Se lo ha fatto vuol dire che medita poco sulle vicende politiche.

Come poteva evolvere il ruolo di Gianfranco Fini “risorsa della Repubblica”, accreditato in Europa per il ruolo svolto nel corso della Convenzione europea nella quale, in rappresentanza del Governo italiano, aveva fortemente sponsorizzato la richiesta di inserire nel Preambolo della Costituzione europea un riferimento alle “Radici cristiane” del vecchio continente, in termini di notevole capacità persuasiva, grazie alla consulenza del Prof. Roberto de Mattei, storico cattolico ben screditato oltre Tevere? E poi successivamente, all’opposizione e di nuovo nella maggioranza uscita dalle urne del 2008?

Qui l’esercitazione nel gioco “di società” nel quale ci siamo impegnati è anche semplice ed ha alcuni punti fermi, ben spiegati nel mio libro. In primo luogo il discorso di Fini, Vicepresidente del Consiglio, al Primo Congresso dell’alta dirigenza statale organizzato da Franco Frattini, Ministro della funzione pubblica, al Palazzo del Congressi. Un discorso che avevo scritto mettendo dentro tutto quanto poteva dare agli alti dirigenti dello Stato il senso dell’attenzione del Governo per il loro ruolo in vista della realizzazione del programma della maggioranza. Fu un grande successo. Ricordo quanto mi dissero importanti dirigenti dello Stato, il nerbo dell’amministrazione: “finalmente abbiamo un punto di riferimento”.

Per un attimo ho pensato che la maggioranza, attraverso un suo autorevole esponente, avesse capito che la prima esigenza di chi vuole governare è quella di disporre di un’amministrazione capace di realizzare il programma di governo, con leggi, procedure e funzionari “al servizio esclusivo della Nazione”, come recita l’articolo 98 della Costituzione. Come accade nelle grandi democrazie occidentali, eredi di grandi imperi, dove le burocrazie hanno dato costantemente certezze all’azione dei governi, in Francia, in Spagna, nel Regno Unito, in Germania.

Invece non se ne è fatto niente di niente, con la conseguenza che, sul finire della legislatura ed alla vigilia delle elezioni del 2006, Fini mi disse che la burocrazia “ci si è rivoltata contro”. Chissà mai perché, considerato che nel 2001 la burocrazia, soprattutto statale era passata in massa sotto le bandiere di Forza Italia e di Alleanza Nazionale dopo che le leggi Bassanini (il Ministro della funzione pubblica della Sinistra) avevano creato non pochi problemi le cui conseguenze sono ancora percepite negativamente. Basti pensare all’abolizione del Segretario comunale di carriera che da un lato dà mano libera ai sindaci, dall’altro li espone alle conseguenze di verifiche della legalità dei provvedimenti del tutto insufficienti, essendo oggi rimesse ad un funzionario soggetto a spoil system, pertanto non indipendente.

L’esordio del Governo Berlusconi, atteso dai dipendenti pubblici, è stato ben presto giudicato negativamente, in primo luogo dai funzionari di Palazzo Chigi. Più volte ho sentito nei corridoi e negli ascensori lamentele perché non era cambiato niente.

Se Fini avesse dedicato maggiore attenzione alla pubblica amministrazione avrebbe avuto costantemente il polso della situazione e concrete possibilità di far funzionare l’apparato, almeno nei ministeri assegnati ad AN. Ricordo che gli suggerii di chiedere la delega della Funzione Pubblica quando Frattini fu trasferito agli affari esteri. Niente, non la chiese, forse non l’avrebbe avuta. Ma non la chiese.

Altri momenti da valutare sotto il profilo del “se” avesse operato diversamente riguardano il referendum sulla legge 40 e il tema della famiglia, argomenti cari ai cattolici che avrebbero potuto rendere maggiormente affidabile il leader di AN.

Sul referendum è noto che Fini manifestò un dissenso rispetto alla posizione di chi chiedeva un “no” alla abrogazione delle norme sulla procreazione assistita. Per quale motivo Fini votò “si” non si è mai compreso a fondo. Almeno non l’ho compreso io, considerato che il leader di un partito politico, a stragrande maggioranza di cattolici convinti (basta vedere le presenze dei “colonnelli” alle cerimonie religiose in San Pietro o a quelle officiate dall’Opus Dei), avrebbe dovuto, quanto meno soprassedere ad una presa di posizione pubblica. “Parigi val bene una Messa!” avrebbe detto l’ugonotto Enrico IV costretto a convertirsi al cattolicesimo per ottenere il trono di Francia.

Nel caso del referendum era in gioco molto meno di un trono ma la credibilità di Fini agli occhi della Chiesa. Così inizia una deriva laicista dell’ex leader di AN che lo porterà a mandare a monte i risultati della Commissione per la famiglia nella quale avevo chiamato i massimi esponenti delle associazioni cattoliche (Binetti compresa) per un risultato – un disegno di legge sullo Statuto dei diritti della famiglia – molto serio e comunque da spendere in sede elettorale in quella competizione persa per 24mila voti. C’è da ritenere che quell’iniziativa, ben pubblicizzata, avrebbe potuto fare la differenza.

Deriva laicista, ho detto, perché non solo Fini non ha presentato il disegno di legge ma ha anche negato la possibilità all’On. Buttiglione di farsene promotore, come l’attuale presidente dell’UDC mi ha rivelato, deriva laicista convalidata dal ruolo attribuito in Futuro e Libertà a Benedetto Della Vedova, ex esponente radicale, lanciato spesso nelle trasmissioni televisive a rappresentare il partito.

La Chiesa aveva scommesso su Fini, è il titolo di un capitolo del mio libro ed è una frase pronunciata da un giornalista di Avvenire, Arturo Celletti, dinanzi all’editore Lucarini in una riunione nella quale si parlò dell’ipotesi di fare un libro sul leader di AN. Credibile che la Chiesa avesse scommesso su Fini, il leader di un partito nazionale, di ispirazione cattolica, una solida presenza sul territorio, una garanzia superiore a quella che avrebbe potuto assicurare, agli occhi dell’elettorato cattolico, il Cavaliere del burlesque.

Con due mosse Fini si è giocato tutto, la possibilità di succedere a Berlusconi attraverso la cura del partito ed una forte presenza nel governo. Invece ha scelto ancora una vetrina, dopo gli esteri la Camera, a parole la terza carica dello Stato, nella realtà un ruolo politicamente emarginato se chi siede sullo scranno più alto di Palazzo Montecitorio non ha una forte posizione politica. Che Fini, infatti, non ha avuto, al punto da essere stato, di fatto, cacciato, o essere stato costretto ad andarsene, secondo una versione più edulcorata e quindi esposto a campagne mediatiche che ne hanno inevitabilmente consumato l’immagine.

Con più concretezza, se avesse creato uno staff politico e di consulenti all’altezza delle ambizioni che andava manifestando, oggi il futuro di Fini sarebbe diverso.

Ma si sa la presunzione non porta lontano. D’altra parte è in buona compagnia, in questo, almeno, con Berlusconi.

Anche in politica è sempre possibile il miracolo. Ma se non avverrà, la “risorsa della Repubblica” è da considerare sprecata, colposamente sprecata.

6 agosto 2012

 

Incredibile Cicchitto.

Accusa Casini di consegnare il Paese alla Sinistra, non il Centrodestra che ha tradito l’elettorato e portato l’Italia sull’orlo del baratro!

di Senator

 

Per Fabrizio Cicchitto, Presidente dei deputati del Popolo della Libertà, "Casini con il suo “correrò da solo ma poi possibile un'alleanza con il Pd” sta consegnando il Paese alla sinistra". Lo ha affermato in una una intervista a Repubblica aggiungendo che "Casini e l'Udc avevano, e l'avrebbero tuttora, l'occasione di dar vita con il Pdl a una grande aggregazione moderata-riformista collegata lungo la linea del Ppe". Invece "scelgono una via diversa, del tutto tatticistica, quella di andare apparentemente da soli alle elezioni, ma con la preferenza per una successiva alleanza di governo con il Pd". Poi l'auspicio: "Speriamo che Casini ci ripensi".

Incredibile, veramente incredibile, che uno dei massimi esponenti del partito che, autodefinendosi di centrodestra, ha portato l’Italia allo sfascio, così dando spazio, in un’Italia sicuramente moderata, all’opposizione di sinistra, possa accusare di contribuire al successo di un’eventuale coalizione targata Partito Democratico un partito, l’UDC che ha annunciato di correre da sola, come aveva fatto nelle elezioni del 2008, nelle quali il partito di Berlusconi aveva avuto uno straordinario successo. Quel partito che, nonostante la più grande maggioranza di tutti i tempi, non ha saputo governare e realizzare nemmeno una delle tante riforme promesse in campagna elettorale.

Ci vuole un’incredibile faccia tosta ed una servile dedizione al Cavaliere fare di queste affermazioni, già sentite nei giorni scorsi da Angelino Alfano, Segretario virtuale del PdL che non ha trovato di meglio che proporre, per cercare di uscire dalla crisi, cercare perché se non cambia politica non c’è speranza, di vendere il patrimonio dello Stato, delle Regioni, delle province e dei comuni. In sostanza, il partito responsabile del dissesto propone la vendita dei gioielli di famiglia.

Non lo farebbe neppure una famiglia normale che finché ha un patrimonio sa di poter avere un prestito, magari a strozzo, ma venduto quello, non avrebbe altra risorsa che andare sotto i ponti.

Forse Alfano non sa che la proprietà di quei beni, che sono la gloria del Paese, immobili e partecipazioni azionarie in importanti imprese di prestigio internazionale, è stata possibile grazie al sacrificio di generazioni di italiani nel corso dei secoli, italiani  i quali, pagando le imposte o chiamati a lavori obbligatori hanno consentito a Re, Papi e Principi di costruire palazzi, caserme, scuole e, nel tempo, di iniziare attività produttive pubbliche in settori nei quali l’investimento privato non era adeguatamente remunerativo.

Deus insanit eos qui vult perdere!” è stato detto più volte e mai come in questo caso è vero. Il PdL porta alla rovina il centrodestra e lo spirito democratico liberale che naturalmente lo anima. Quando il vessillo dei moderati è in mano ad un pool di socialisti, reduci del partito annientato da tangentopoli non c’è da essere allegri. Solo la speranza può ancora far sorridere la maggioranza degli italiani, quella che si materializzi all’orizzonte un leader capace di mobilitare il popolo dei moderati su un programma di riforme vere con un progetto di crescita e benessere economico e sociale, quello che si può realizzare, basta volerlo, con il concorso degli italiani che fin qui hanno dimostrato disponibilità ai sacrifici, nonostante ne percepissero l’intrinseca ingiustizia. Perché con 120 miliardi di evasione l’anno, 60 miliardi di corruzione e 80 di sprechi a pagare sono stati e sono sempre i soliti a quali non si può chiedere ulteriore pazienza avendone già dimostrata tanta.

5 agosto 2012

 

Idee confuse e miopia politica.

Lo spread è a livelli altissimi, i disoccupati sono quasi tre milioni, la recessione minaccia altri posti di lavoro ma per il Segretario del PD, Bersani, una delle priorità è la disciplina delle coppie gay!

di Senator

 

Nei giorni scorsi lo spread ha sfiorato i 500 punti, nel frattempo l’ISTAT fa sapere che i disoccupati sfiorano i tre milioni, che potranno crescere ancora in conseguenza della recessione, il Ministro Severino è corsa al Carcere romano di Regina Coeli per rendersi conto di persona di quel sovraffollamento degli istituti penitenziari che certamente concorre a determinare un disagio forte, al punto di indurre detenuti ed agenti di custodia al suicidio. Potremmo elencare altri motivi di disagio sotto gli occhi di tutti, come quelli testimoniati dalle persone anziane che frugano nei cassonetti alla ricerca di qualche foglia di insalata scartata perché non integra, ma potremmo anche tornare a denunciare la grave situazione della sanità in molte realtà locali dove l’appuntamento per una TAC viene fissato a mesi di distanza, spesso quando il paziente non ne ha più bisogno perché passato a miglior vita. Perché gli sprechi di primariati inutili, costi fuori mercato e apparecchiature rimaste inutilizzate non consentono di curare chi ha bisogno.

Queste ed altre sono le emergenze dalle Alpi al Lilibeo per cui stupisce l’enfasi con la quale il Segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani, impegna la sua formazione politica, che, si dice, potrebbe vincere le prossime elezioni, nella disciplina delle coppie gay.

In contemporanea le televisioni, dalle inserzioni pubblicitarie (i gay sembra siano grandi consumatori di prodotti di bellezza) ai servizi di approfondimento ed agli spettacoli cinematografici narrano di amori omosessuali e La7 ne fa uno speciale, condotto da Enrico Mentana, che manda in onda, tra altre, la testimonianza di chi, interpellato dalla madre su quali fossero i rapporti con l’altro o l’altra, dice “mamma, facciamo quello che tu fai con papà”.

Intendiamoci bene. Non mi incammino in un discorso moralista che non mi interessa, ma vorrei richiamare alcuni punti di riferimento di carattere giuridico dei quali i partiti dovrebbero tener conto nella veste di legislatori.

Nulla quaestio sulla necessità di una disciplina di diritti e doveri che integri il codice civile per le coppie di fatto eterosessuali. Si tratta di situazioni che corrispondono a scelte personali, sempre rispettabili. Si convive in attesa del matrimonio o di un nuovo matrimonio o si convive perché si è scelto di non formalizzare il rapporto. Se si vuole dare forma giuridica al rapporto tra un uomo ed una donna, se si rivendicano conseguenti diritti è necessario, tuttavia, che si accetti anche l’assunzione di alcuni doveri che la Costituzione delinea per la famiglia, quanto alla “uguaglianza morale e giuridica” (art. 29, comma 2), reciproca assistenza, al “dovere e diritto” di “mantenere, istruire ed educare i figli” (art. 30, comma 1). Insieme vanno considerati i diritti alle “misure economiche”per le “famiglie numerose” (art. 31, comma 1).

Diritti e doveri sono due facce della stessa medaglia. E se in Italia si vorranno dare certezze a coppie che decidono di vivere insieme senza formalizzare il rapporto nelle ordinarie del matrimonio, civile o religioso, il loro riconoscimento non potrà non tenere conto dei diritti e dei doveri che la Costituzione prescrive per le coppie unite da matrimonio per non creare una disuguaglianza che sarebbe lesiva dei principi costituzionali.

Diversa è la questione delle coppie omosessuali.

Anche per esse potranno essere stabiliti, a seguito di un riconoscimento dai precisi ambiti giuridici, diritti e doveri, esclusi evidentemente quelli connessi con la genitorialità che è prerogativa delle coppie fertili che possono geneticamente procreare, che è fine sociale direttamente funzionale allo sviluppo della società.

Vanno escluse, dunque, adozioni da parte di coppie dello stesso sesso nel rispetto dei bambini i quali hanno diritto ad una figura maschile e ad una femminile. L’adozione, infatti, non è un diritto che può essere fatto valere nell’interesse esclusivo degli adottandi, ma nell’interessi comune di chi adotta e di chi è adottato. La versione egoistica dell’adozione che fa prevalere esclusivamente l’interesse degli adottandi, non è ammissibile.

2 agosto 2012

 

Il taccuino del Direttore

 

Idee confuse sul da farsi (colte nel dibattito di Omnibus, ieri)

L’On.le Lorenzin è una garbata Signora con un bel sorriso, ora che ha tolto l’apparecchio ortodonzico che esibiva coraggiosamente fino a quale tempo fa. È una parlamentare del Partito della Libertà, del partito, cioè, che ha governato per la maggior parte del tempo dal 1994, ma, chiamata a partecipare ieri alla quotidiana puntata di Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, si è esibita in considerazioni sul tema delle imposte che farebbero ritenere che la sorridente Signora abbia negli ultimi anni soggiornato lontano dal Bel Paese, se non addirittura su Marte.

Infatti, venendo a parlare delle operazioni di verifica della Guardia di Finanza in alcune località turistiche, richiamate dal conduttore sulla scorta di notizie di giornale, sentendo che era stato accertato circa il 38% di evasione dell’obbligo di emettere lo scontrino fiscale, l’On.le Lorenzin l’ha mandata in caciara, come si dice a Roma, inserendo argomenti, tutti certamente validi, dal carico eccessivo del fisco, alle difficoltà delle imprese in un contesto fortemente recessivo, omettendo,tuttavia, di dire da dove partirebbe una riforma del fisco targata PdL, considerato che il quadro delineato non è recente e, in ogni caso, era presente al Cavaliere sotto le cu insegne milita, tanto che ripetutamente ne ha fatto oggetto di promesse miracolistiche, del tipo diminuirò le tasse, soprattutto sulla famiglia, creerò oltre un milione di posti di lavoro.

Naturalmente in sede elettorale, unitamente all’avversione degli italiani per la sinistra, le promesse del Presidente-imprenditore hanno funzionato e qualcuno dice che potrebbero assicurare ad un PdL disfatto ancora un discreto consenso, non per governare, ovviamente, ma per assicurare al medesimo imprenditore una posizione politica, quale leader della opposizione, idonea a garantirgli tranquillità per le sue aziende, che è poi la ragione della sua “discesa in campo"

1° agosto 2012

 

 

 

 

 


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