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UnSognoItaliano.it

 

 

MARZO 2011

 

 

L'Italia e la crisi libica

Il pericolo ambiguità

di Historicus

 

     Frattini, Ministro degli esteri italiano, preannuncia un piano italo-tedesco, da presentare martedì a Londra in occasione della riunione del Gruppo di contatto sulla crisi libica, dopo che la NATO ha assunto la guida delle operazioni militari, come, del resto, aveva chiesto l'Italia e, prima, gli Stati Uniti.

     Certamente impegnare la Cancelliera tedesca Angela Merkel può significare una maggiore presenza europea nella crisi, considerato il ruolo che la Germania da sempre riveste in Europa.

     Tuttavia l'operazione non è priva di rischi. In primo luogo perché è prevedibile che la Germania non accetti una iniziativa che possa portare ad una rottura con Francia e Regno Unito che da sempre hanno una presenza politica ed economica nel Mediterraneo, Londra nel Medio oriente e Parigi nell'Africa del Nord.

     Ricordiamo come sono andate le cose in Libia e nel Mediterranei quando nel 1911 l'Italia conquistò quell'area geografica, che non era uno stato ma un territorio dell'Impero ottomano abitato da varie tribù spesso in guerra tra loro, come dimostra la rivolta della Cireneaica di questi giorni.

     Nel 1911 Parigi diede via libera all'iniziativa di Roma in quanto la Francia aveva occupato la Tunisia, considerata più interessante dal punto di vista economico. Probabilmente quel via libera alla conquista della Libia, uno scatolone di sabbia, come si disse, non ci sarebbe stata se la Francia avesse avuto la consapevolezza della presenza del petrolio, al momento non nota, né successivamente valutata, neppure al tempo del Fascismo perché, forse, avrebbe potuto indurre Mussolini a rimanere neutrale, ricco della potenza energetica che la Germania di Hitler cercava verso Est.

     In quell'occasione, alla vigilia della seconda guerra mondiale non abbiamo considerato che un Paese con 8 milioni di chilometri di coste, con interessi al di là del mare non avrebbe dovuto entrare in guerra, a parte altre, ben note, considerazioni, con potenze marittime, come Francia e Regno Unito con rilevante forza militare marittima e grandi interessi economici, come ha dimostrato negli anni '50  la crisi di Suez.

     Rischiamo, in sostanza, di rimanere isolati, di perdere quei collegamenti con il mondo del nord Africa e con il Medio oriente che dal tempo di Roma costituiscono una costante nella politica estera italiana, a meno di ritenere di poter soppiantare Francia e Regno Unito in quelle aree.

     Occorre realismo, molto realismo. Forse qualcuno avrà letto sui giornali dei giorni scorsi che in Libia erano presenti "agenti" inglesi e francesi, segnali di un interesse che sta dietro i missili lanciati dagli aerei della coalizione per contenere la controffensiva di Gheddafi verso Misurata e Bengasi che sembra, appunto, si sia arrestata.

     Pensiamo veramente di assumere un ruolo nel Mediterraneo "contro" Francia e Regno Unito? Solo perché Berlusconi, frenato dalla sua "amicizia" con il colonnello libico, ha reagito in ritardo e con qualche ambiguità all'iniziativa militare di Parigi.

     La ripicca, insegna la storia, spesso. è foriera di errori, perché mossa da un sentimento irrazionale e guidata dall'ira o dall'invidia.

     Ho parlato di presenza tradizionale franco-inglese nel Mediterraneo. Faccio solo un esempio. La Francia è presente nel Medio oriente con missioni culturali di vario genere, l'Italia, che vanta in proposito una tradizione con l'Istituto per l'Africa e l'Oriente (ISIAO), erede dell'Istituto Italiano per l'Africa, fondato nel 1906, e dell'Istituto di Studi per il Medio e l'Estremo Oriente (ISMEO), fondato da Giovanni Gentile, lesina risorse, anzi c'è chi medita di commissariarlo, nonostante la prestigiosa presidenza del Prof. Gherardo Gnoli, forse per un miserevole tentativo di trovare un posto ad un diplomatico pensionato, ma nella manica di Frattini o dei suoi collaboratori, o forse per sopprimerlo o accorparlo con altra istituzione, togliendogli l'autonomia che dell'Istituto è la forza. Magari tutto questo accade perché negli anni passati dell'ISIAO si occupò Gianfranco Fini che oggi i berluscones tengono in gran dispitto

     Sa queste cose Berlusconi, le sa Tremonti  che sembra sempre più un ragioniere alla ricerca della "quadra"  anziché un Ministro dell'economia, in senso proprio, capace di valutare gli effetti politici e di presenza in aree difficili del mondo a noi più vicino di un prestigioso istituto culturale che "costa" poche centinaia di migliaia di euro?

     Con queste premesse, se l'analisi è corretta, come penso che sia, sulla base dei precedenti e della realtà geopolitica, l'iniziativa italo-tedesca, alla quale annette tanta importanza il Ministro Frattini, è certamente rischiosa e potrebbe trasformarsi in un boomerang per i nostri legittimi interessi nel Mediterraneo che non abbiamo saputo ben tutelare da quando, dopo la seconda guerra mondiale, non si è pensato di trasformare l'antico rapporto con Libia ed Albania e con la Somalia, su un altro scacchiere, da coloniale in culturale ed economico, magari facendone la nostra sponda turistica in barba alle Maldive, alle Seychelles e alle Mauritius.

     Un tema sul quale sarà utile tornare.

27 marzo 2011

 

L'Occidente alla campagna di Libia

Incapaci in campo

di Caius Julius Caesar

 

    Al sesto giorno dall'entrata in guerra dell'Occidente per difendere i ribelli di Misurata e Bengasi minacciati di strage dal Colonnello Gheddafi emergono i limiti della strategia e della tattica della coalizione.

     Del tutto incapaci le forze in campo se, nonostante gli intensi bombardamenti dal cielo e dal mare, le truppe del Rais continuano ad avanzare verso le città tenute dagli insorti.

     Incapaci perché un'operazione del genere si deve esaurire nello spazio di 24 - 36 ore mettendo l'avversario in condizione di non offendere più.

     Le aviazioni dei paesi aderenti alla coalizione avrebbero dovuto eliminare, fin dalle prime incursioni, non solo le postazioni antiaeree, tecnologiche e missilistiche, ma arrestare l'avanzata delle truppe di terra con mitragliamenti e bombardamenti mirati delle colonne mobili, eliminando mezzi blindati e artiglierie varie, in modo che non fosse più possibile alle unità fedeli a Gheddafi avanzare e colpire gli insorti, che è lo scopo essenziale della missione autorizzata dall'O.N.U..

     Si tratta di un'operazione non semplice, ma che l'elevata tecnologia delle forze aeree alleate avrebbe consentito di portare a termine rapidamente. Conosciamo i limiti dell'uso del mezzo aereo contro truppe di terra, come ha ampiamente dimostrato in tempi recenti la vicenda di Dunkerque, quando la testardaggine del Ferlmaresciallo Herman Goering, comandante della Lutfwaffe,  in cerca di una clamorosa vittoria, si trasformò in una sonora batosta, che consentì alle truppe britanniche in fuga di passare in Inghilterra pressoché indenni, quando avrebbero subito una sicura sconfitta se fossero state aggredite dai reparti terrestri della Wehrmacht.

     La fanteria, si diceva un tempo, è la regina delle battaglie, nel senso che, quando prevalgono  le operazioni a terra è là che si deve contrastare il nemico.

     La coalizione non vuole combattere sul terreno e questo significa che non è chiara la strategia di Washington, Londra e Parigi, che quei governi non hanno deciso come si deve condurre questa guerra che, sia pure umanitaria, è sempre una guerra e come tale va combattuta. Non parliamo di Roma perché le dichiarazioni del premier, secondo le quali i nostri aerei "non hanno sparato e non spareranno" costituiscono  l'ennesima prova  dell'ambiguità che contraddistingue la nostra azione politica anche in questo caso. Una operazione che, poiché dura più delle 24 - 36 ore di cui ho detto, attesta dell'incapacità di azione delle superpotenze occidentali. L'operazione doveva concludersi rapidamente per raggiungere l'obiettivo prefissato e per evitare contraccolpi politici impliciti in conseguenza delle difficoltà in campo. Di più, la resistenza del leader libico è destinata a farne un piccolo Davide (absit iniuria verbis, considerato che trattavasi di un ebreo) dinanzi al gigante Golia e, in fin dei conti, un campione dell'Islam agli occhi dei fanatici che lo appoggiano in buona fede o perché lo temono, mettendo in difficoltà anche i paesi arabi che si sono schierati al fianco degli occidentali. Infatti, cominciano i primi distinguo e le prese di distanza che non fanno presagire niente di buono.

      Ha detto Edward N. Luttwak, il noto esperto di economia, politica e strategia militare,  qualche tempo fa, nel corso di una trasmissione televisiva nella quale si parlava dell'esercito romano, che quell'armata era concepita "per non combattere", nel senso che doveva, con la sua sola presenza, dissuadere quanti avevano intenzione di attaccare Roma. Quella forza dissuasiva, tuttavia, era conseguenza della potenza militare sperimentata in tante battaglie. Non è così per gli eserciti della coalizione, abituati a lunghe guerre logoranti che subiscono la controffensiva della guerriglia e del terrorismo, come dimostrano le esperienze irakene ed afghane.

     La campagna di Libia doveva essere brevissima e lasciare attonito non solo lo sconfitto ma anche chi lo aveva aiutato con simpatia o timore. L'Occidente avrebbe dimostrato tutta la sua forza, avrebbe convinto anche gli incerti ad aderire all'operazione umanitaria per salvare i "ribelli" di Bengasi.

     Questa coalizione, invece, a differenza dell'esercito romano, non fa paura, mostra tutta la sua debolezza, fa intravedere tempi lunghi nel corso dei quali si può sviluppare un'azione diplomatica destinata inevitabilmente a dividere le nazioni in campo ed a dimostrare all'attenta diplomazia mediorientale che l'Occidente e l'Europa non sono in condizione di parlare con una sola voce e di esprimere una volontà politica ed un'azione militare capaci di portare avanti un programma neppure se avallato dall'O.N.U. e diretto ad un'operazione umanitaria. Con la conseguenza che l'insuccesso sul campo è destinato a trasformarsi in una sconfitta diplomatica. Un segnale di debolezza che sarà subito colto e condizionerà i futuri rapporti con i paesi arabi ed africani. Una debolezza conclamata, foriera di ulteriori cedimenti e conseguenti sconfitte.

23 marzo 2011

 

Per la Lega che non festeggia l'Italia

Un'occasione perduta

di Salvatore Sfrecola

 

     L'assenza dei leghisti alle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia, con esclusione di Bossi, Maroni e Calderoli, rimasto ostinatamente inerte quando gli altri applaudivano, e di un paio di sottosegretari,   ha suscitato critiche anche nella maggioranza. Tuttavia il comportamento degli uomini dal fazzoletto verde (a proposito, ieri il Presidente Napolitano sfoggiava una sgargiante cravatta blu Savoia,  più che indurre alla polemica, suscita commiserazione per una forza politica che, per altri aspetti, dimostra spesso equilibrio e avvedutezza e si va caratterizzando per una gestione pubblica corretta, tanto da essere motivo di certezza per la maggioranza. Infatti la Lega, con l'atteggiamento ostile alle celebrazioni dei 150 anni dell'unità d'Italia ha certamente perduto un'occasione storica, laddove   avrebbero potuto far valere gli effetti della sua azione in favore dell'assetto federale dello Stato presentandolo come conclusione del processo unitario.

     Perché, come ho già scritto, l'Italia del Risorgimento è stata il mirabile risultato della convergente azione politica di uomini  provenienti dalle più lontane aree del Paese, con alle spalle culture e tradizioni diverse, tutti convinti che le intuizioni di filosofi e poeti fin dal più profondo medioevo erano scritte nel destino di questa terra, opera meravigliosa della Divina Provvidenza, come avrebbe detto Vittorio Emanuele II il 18 febbraio 1861 nel discorso per l'inaugurazione del Parlamento italiano riunito a Torino, a Palazzo Carignano.

     L'occasione perduta della Lega dimostra i limiti di una classe dirigente che riesce ad interpretare le esigenze di efficienza degli apparati politici ed amministrativi di una parte significativa del Paese, ma che non sa guardare nel profondo della storia politica e nell'identità italiana e si ferma a considerare, come ha detto l'europarlamentare Borghezio, lo squilibrio Nord - Sud senza nessun desiderio di contribuire a sanarlo se non altro perché certa politica meridionalista, insufficiente a far decollare l'economia di quelle regioni, è conseguenza dell'impegno finanziario dello Stato "centralista"  in favore delle imprese del Nord, in una visione industriale che, fin dall'indomani dell'unità, ha privilegiato quelle aree del Paese a scapito dell'economia meridionale, prevalentemente agricola. Una politica che ha consentito ad industriali del Nord di acquisire agevolazioni finanziarie e fiscali per l'avvio di iniziative imprenditoriali nelle aree meridionali mai decollate, mentre gli impianti assistiti dalla generosità di "Roma ladrona" tornavano al Nord.

     Né ha considerato che l'ingente debito pubblico che costituisce un fardello insopportabile è per buona parte dovuto alla politica industriale in favore del Nord.

     Federalismo fiscale, benissimo. Ma perché non sperimentiamo la via del federalismo debitorio? Invece lo Stato centralista cede rilevanti beni che avrebbero dovuto garantire il debito pubblico ad enti locali che spesso non sono in condizione di valorizzarli né di gestirli proficuamente e, molto probabilmente, con un abile giuoco di aste andate deserte saranno svenduti a privati amici degli amici. Dappertutto, ovviamente, in qualche caso anche alla criminalità organizzata che già si starà fregando le mani in attesa di lucrosi affari.

     Mi ha deluso la Lega. Un bel gesto "patriottico"£ le avrebbe consentito di estendere la propria influenza lungo lo stivale. Ma forse non vuole. Teme di crescere e di doversi assumere maggiori responsabilità. Per cui è meglio coltivare l'orticello sotto casa che guardare oltre la siepe!

18 marzo 2011

 

Auguri Italia! Non solo per oggi!

di Salvatore Sfrecola

 

     I centocinquant’anni dell’unità d’Italia si celebrano nella data, il 17 marzo, in cui fu promulgata la legge 4671 del Regno di Sardegna con la quale (Articolo unico) “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d'Italia”, legge che diventò poi la numero 1 della Raccolta Ufficiale delle Leggi del Regno d’Italia.

     Il Parlamento italiano si era riunito per la prima volta a Torino nella sede di Palazzo Carignano, Il 18 febbraio.

     In quella occasione il Re aveva pronunciato un discorso applauditissimo, del quale voglio ricordare l’incipit. “Libera e unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti – sono le parole di Vittorio Emanuele II – l’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi si appartiene di darle istituti comuni e stabile assetto. Nell’attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi, vegliare perché l’unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata.

     L’opinione delle genti civili ci è propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principi che vanno prevalendo nei consigli d’Europa. L’Italia diventerà pur essa una guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale”.

     C’è tutto, ci sono tutti i problemi dell’Italia di oggi nel discorso del Re, probabilmente ispirato dal Conte di Cavour, quello straordinario uomo di stato, “statista europeo”, come ha scritto Francesco Perfetti su Il Tempo.

     Il riferimento all’attribuzione di “maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi” perché “l’unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata” dà conto di una reale, diffusa preoccupazione, quella delle forze centrifughe presenti in tutte le realtà locali, sentimenti a volte autentici, a volte sollecitati da interessi particolari da forze politiche e stati esteri interessati ad ostacolare il decollo del nuovo stato sul piano europeo e internazionale.

     Il riferimento alle “libertà amministrative”, cioè all’amministrazione, la forza dei governi, lo strumento della politica dei governi.

     Nei suoi centocinquant’anni l’amministrazione dello Stato ha svolto un’opera straordinaria. Ha unificato l’Italia, l’ha fornita di grandi infrastrutture, l’ha ricostruita dopo le due guerre mondiali. Oggi ci chiediamo se si poteva fare di più in relazione alle esigenze, via via crescenti, delle comunità locali. La risposta è che sì, che l’articolazione territoriale delle responsabilità avrebbe potuto tenere in maggior conto che a “fare l’Italia”, per dirla con Massimo d’Azeglio, erano stati italiani provenienti dalle più diverse realtà storiche, politiche ed istituzionali, eredi di grandi esperienze statuali, di culture, di arte, tradizioni, che sono la ricchezza del nostro Paese, sicché si poteva dar seguito, sia pure con prudenza, alle ipotesi di decentramento, che allora parvero troppo ardite e financo pericolose per la fragile unità appena conquistata. Penso soprattutto a Marco Minghetti ed alla sua proposta di consorzi di province, per rispettare e valorizzare le tradizioni locali, le identità regionali, i vecchi patriottismi municipali. Ci sono voluti anni perché si prendesse atto che l’Italia è culturalmente policentrica, non vive, come altre grandi nazioni europee, all’ombra di una Capitale, sia pure erede della più grande civiltà giuridica e politica di tutti i tempi, e che valorizzare le realtà locali non divide ma potenzia la Repubblica e sottolinea il valore della sua unità e indivisibilità, solennemente affermata nell’art. 5 della Costituzione.

     È solo con la riforma costituzionale del 2001 che si avvia concretamente un nuovo assetto istituzionale, con la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e regioni.

     Il federalismo si atteggia, dunque, come processo che investe, a partire dalle comunità locali, con le loro tradizioni e la loro storia, le capacità di autonoma gestione delle risorse, attraverso entrate tributarie proprie, autonome e di partecipazione al gettito fiscale nazionale, compensato, per le realtà con minore capacità fiscale, da meccanismi perequativi nazionali.

     Lo ha ripetuto più volte il Capo dello Stato nel suo discorso di oggi pomeriggio dinanzi al Parlamento riunito in seduta comune, nel quale ha richiamato i valori indiscussi dell’unità e del processo ideale e politico che ha consentito di realizzarla, senza nascondere le insufficienze che, sia pure giustificate nell’immediatezza dai timori di cui si è detto, dovevano essere successivamente superate per dare al Paese, proveniente da storie diverse, uno sviluppo economico e sociale omogeneo, mentre oggi il meridione continua ad essere l’area debole della società e dell’economia, tanto da suggerire all’On. Borghezio, intervenuto su Omnibus de La7 a parlare di due Italie.

     Sulla base di queste realtà, come ha detto il Presidente Napolitano, l’evento che oggi ricordiamo non può essere meramente celebrativo, ma costituire un’opportunità straordinaria per riflettere a tutto campo sull’assetto istituzionale del nostro Stato, sulla cultura politica che ispira i comportamenti dei partiti e dei governi, per verificare se l’azione di chi decide le politiche pubbliche è capace di interpretare la volontà della gente, ragionando da statista, cioè, come diceva De Gasperi, guardando alle future generazioni e non alle prossime elezioni.

     Vedremo se l’entusiasmo di questi giorni è autentica espressione di amore per la Patria, che vuol dire non acritica adesione ai suoi valori ma impegno concreto per completare l’impresa eroica e ideale del Risorgimento con la risoluzione dei problemi di ordine economico e sociale che ancora attanagliano molte aree del Paese. Per farne una realtà omogenea adeguata alla storia di una grande Nazione.

17 marzo 2011

 

Tirato in ballo a sproposito da Bordin

 

Montesquieu o della democrazia (separazione dei poteri)

 

di Salvatore Sfrecola

 

     Intervenuto ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento della mattina de La7, Massimo Bordin, già direttore di Radio radicale e autorevole “voce” di quell’emittente e del Partito, si è esibito in divagazioni varie sulla riforma costituzionale della giustizia e, venuto a parlare della separazione o distinzione dei poteri, ha citato Montesquieu, che di quella teoria è notoriamente il padre, per concludere che il suo scritto risale a prima della Rivoluzione francese e, pertanto, non tiene conto dell’evoluzione della costituzionale della Francia del 1789.

     Sennonché nella fretta, e fidando sulla scarsa conoscenza del politologo francese da parte degli altri interlocutori, ha gettato là la sua opinione trascurando quel che sanno tutti gli studenti dei licei italiani, che proprio la teoria di Montesquieu è stata alla base dell’assetto costituzionale francese e del costituzionalismo moderno. Ed ancora oggi rappresenta il riferimento di ogni stato di diritto che si fonda proprio sulla distinzione tra chi fa le leggi (il potere legislativo, cioè le Camere del Parlamento), chi le applica (il potere esecutivo, cioè il governo) e chi controlla come sono applicate (il potere giudiziario, cioè la magistratura).

     La Francia della monarchia assoluta non disconosceva i tre poteri, ma essi confluivano nella stessa persona del sovrano il quale emanava le leggi, le applicava attraverso i suoi ministri, e ne controllava l’applicazione attraverso i suoi giudici.

     Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu, (La Brède, 18 gennaio 1689 Parigi, 10 febbraio 1755), filosofo, giurista, storico e pensatore politico francese è considerato il fondatore della teoria politica della separazione dei poteri che trova espressione massima nella sua opera più importante, Lo spirito delle leggi (L'esprit des lois), frutto di quattordici anni di lavoro. Trentadue libri, un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Un’autentica enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento.

     Nel libro XI de Lo spirito delle leggi, Montesquieu, partendo dalla considerazione che il "potere assoluto corrompe assolutamente", analizza i tre generi di poteri che vi sono in ogni Stato e giunge alla conclusione che condizione oggettiva per l'esercizio della libertà del cittadino, è che i tre poteri restino nettamente separati.

     Montesquieu elabora la sua teoria sulla base della conoscenza diretta del popolo e della costituzione inglese, maturata durante diciotto mesi trascorsi in Inghilterra così modificando un suo precedente orientamento di diffidenza nei confronti di quel Paese e del suo governo.

     Dall’Inghilterra Montesquieu con la sua conoscenza del regime aristocratico il rispetto per il potere monarchico, il culto per la libertà politica che non trovava nella sua Francia.

     Tornato in patria riflette sull’esperienza inglese ed elabora la teoria che compare nella stesura finale dell’opera pubblica tata a Ginevra nel novembre 1748.

     La libertà politica è garantita secondo Montequieu dalla separazione dei tre poteri sovrani, una teoria che è diventata il carattere differenziale dei governi costituzionali, poi variamente definita sulla base di distinzioni di funzioni, tenendo sempre presene, però, che ognuna delle funzioni sovrane è di competenza di una specifica istituzione, anche se ognuna di essere esercita anche altre funzioni attraverso forme di controllo che definiscono un bilanciamento di poteri, un equilibrio che si attua anche attraverso un comportamento di leale collaborazione.

     I poteri sovrani tollerano, tuttavia, dei controlli, il Parlamento quello del corpo elettorale, il Governo, da parte del Parlamento, considerato che il Governo resta in carica finché gode della fiducia delle Camere. Quanto al potere giudiziario il controllo viene esercitato dal Consiglio Superore della Magistratura e dal Parlamento attraverso le leggi che organizzano il lavoro degli uffici giudiziari e la normazione primaria concernente fatti e comportamenti, che può essere modificata quando il potere politico non condivida le scelte interpretative ed applicative dei magistrati.

     Una conclusione è d’obbligo. La giustizia rappresenta il più rilevante presidio delle libertà individuali. Tutto si può modificare, costituzione compresa, ma è necessario avere l’onestà intellettuale di dire che si vuole uno stato diverso, che, ad esempio, si vuol far prevalere il potere politici, al punto che sia esso a stabilire quali reati e come vanno perseguiti dai giudici tra quelli previsti dal codice penale.

     I cittadini devono sapere qual è la finalità di una riforma. Non deve essere loro propinata la favoletta che si pensa a loro ed ai loro diritti. Perché non è così. Lo vedremo esaminando norma per norma su questo giornale.

13 marzo 2011

 

La "riforma" costituzionale della Giustizia - 1

I veri obiettivi nelle dichiarazioni e nei comportamenti che dal 1994 caratterizzano le iniziative dell'attuale maggioranza

Cominciando dalla coda: "a pensar male..."

di Salvatore Sfrecola

 

     La riforma costituzionale della Giustizia che si presenta al dibattito politico e, nei prossimo giorni, all'attenzione delle competenti Commissioni parlamentari non è una novità. Sono idee che Silvio Berlusconi e i suoi portano avanti da anni e che il Consiglio dei Ministri ha approvato solo il 10 marzo scorso per esigenze di strategia politica, in vista delle elezioni, siano a breve o alla scadenza normale, nel 2013, e per la concomitante vicenda processuale del premier imputato di concussione e prostituzione minorile dinanzi al Tribunale di Milano.

     In sostanza gettando sul tavolo del dibattito politico, giornalistico, dell'Accademia e del Foro il Cavaliere compie l'ennesima opera di distrazione dai problemi della gente, in particolare dalla crisi economica ed occupazionale. C'è da essere certi, infatti, che i giornali e le trasmissioni televisive di approfondimento saranno occupate per mesi da dibattiti vivaci su separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, obbligatorietà o meno dell'azione penale  e su tutte le altre leggi che dovranno dare attuazione alla riforma.

     Il fatto stesso che la proposta sia presentata a due anni dalla fine della legislatura, con buona probabilità che il Parlamento non faccia in tempo ad approvarla dimostra che la finalità prima non è quella di varare definitivamente la riforma, che poteva ben essere presentata all'inizio della legislatura, visto che se ne parla dal 1994 (e per molti versi era contenuta nel progetto di Licio Gelli all'inizio degli anni '80, il cosiddetto "Piano di rinascita democratica"), ma di provocare un dibattito dagli esiti incerti ma produttivo di sicuri vantaggi elettorale, sia o non approvato il progetto.

     Berlusconi, infatti, potrà dire agli elettori che la sua riforma, fatta per i cittadini, è giunta in porto, come aveva promesso, o è fallita per l'opposizione della Sinistra e dei Magistrati, così additandoli come responsabili della cattiva gestione del servizio giustizia, una realtà sulla quale, con diverse motivazioni, sono tutti d'accordo.

     Al di là di questa strumentalità della proposta di riforma occorre affrontare alcuni profili del progetto, cercando di comprendere cosa vogliono  veramente il premier, senza dietrologie, perché le ragioni della riforma sono state ingenuamente o malaccortamente dette in varie occasioni negli ani scorsi per cui, nonostante l'impegno del Ministro Alfano sappiamo che il Pubblico Ministero si chiamerà "Avvocato dell'accusa", dovrà dare del "Lei" ai giudici e chiedere loro "con il cappello in mano" quel che serve all'esercizio della funzione.

     Ma, direte, non c'è scritto questo nell'art. 5 della proposta di riforma che anzi afferma solennemente che, modificando l'attuale art. 104 della Costituzione, "I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri".

    Ha cambiato idea il premier? Assolutamente no. Le frasi che ho prima ricordato, quelle sul "Lei" ed il cappello "in mano" le ha pronunciate ancora una volta proprio in occasione della  presentazione del disegno di legge, nella conferenza stampa seguita al Consiglio dei Ministri del 10 marzo.

     Dobbiamo, dunque, ritenere che il Governo scriva una cosa diversa da quella che dicono il Presidente del Consiglio ed i suoi uomini? Non di certo. Sta il fatto che se il Cavaliere dice alcune cose a commento i un testo che sembra dire altro vuol dire che la sua volontà effettiva è quella che viene dalle sue parole, non quella scritta nella proposta.

     Non è una novità. E così spiego perché nel titolo ho richiamato il Senatore Giulio Andreotti, cito a memoria ed a senso, "a pensar male si fa certamente peccato ma il s'indovina" quasi sempre"

    E' una frase che torna spesso in mente quando si osservano le vicende della politica. I comportamenti degli uomini che vi si dedicano sono spesso diversi da quanto avevano in precedenza affermato. A volte non sono loro stessi a far cosa diversa da quella preannunciata ma affidano ad un compagno di partito l'iniziativa di contraddire quanto avevano promesso in un gioco delle parti neppure troppo scoperto.

     La frase del Senatore Andreotti mi è tornata in mente quando ho letto l'art. 17 dello schema di disegno di legge costituzionale sulla riforma della Giustizia approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 marzo scorso "i principi contenuti nella presente legge costituzionale non si applicano ai procedimenti penali in corso alla data della sua entrata in vigore". Una disposizione "di chiusura", come si usa dire, tradizionale nelle riforme che incidono su situazioni controverse, una norma ossessivamente richiamata dal Ministro Alfano e dai rappresentanti della maggioranza intervenuti in questi giorni nel dibattito per dimostrare la "neutralità"   del premier, imputato in più procedimenti, rispetto alle vicende della riforma da lui fortemente voluta.

     Mi si dirà perché non mi fido della promessa contenuta nell'art. 17, perché, in sostanza, faccio un processo alle intenzioni immaginando, perché questa è la sostanza del dubbio, che al momento opportuno la maggioranza parlamentare farà saltare questa limitazione.

     Non è un processo alle intenzioni ma una considerazione che nasce dall'esperienza, dall'osservazione di quanto è avvenuto in Parlamento ripetutamente negli ultimo tempi.

     E' sotto gli occhi di tutti coloro che hanno dimestichezza con le iniziative del governo e parlamentari che assai spesso il testo predisposto dal Governo viene radicalmente modificato in Parlamento dalla stessa maggioranza, nel senso che la disciplina recata da certe disposizioni, in relazione alle quali si determina una reazione delle categorie interessate, viene presentato in un testo tutto sommato accettabile o che appare il "meno peggio", poi la maggioranza parlamentare, la stessa che sorregge il governo, propone emendamenti peggiorativi rispetto alla normativa temuta e il governo pone la fiducia sul classico maxiemendamento che viene approvato con le modifiche. E' un poi' quel che è accaduto per il decreto milleproroghe irritando giustamente il Capo dello Stato che vede stravolto il provvedimento d'urgenza che aveva autorizzato.

     E' una degenerazione del rapporto Governo Parlamento. Infatti a quest'ultimo, è impedito di approfondire la normativa in esame. Le Camera diventano un'appendice dell'Esecutivo con l'effetto definito della "dittatura della maggioranza".

     Accadrà anche per la riforma costituzionale? E' possibile che, con i tempi stretti della procedura di revisione costituzionale, la discussione sia strozzata e qualche emendamento presentato dalla maggioranza stravolga il testo. Così Berlusconi potrà dire ancora una volta, come quando vengono presentati disegni di legge che a lui giovano "non ne sapevo niente, non l'ho autorizzato".

     Qualche riflessione iniziale, dunque, per approfondire poi le parti essenziali del testo, come la questione dell'Avvocato dell'accusa,  che è idea ufficialmente offerta all'uditorio in occasione del suo insediamento, quale Avvocato generale dello Stato, da Luigi Mazzella, ora Giudice della Corte costituzionale designato  dal Pdl (almeno lui non sarà "comunista"!). Ebbene Mazzella disse in quell'occasione che la funzione di Pubblico Ministero l'avrebbe potuta svolgere l'Avvocatura Generale (ecco gli "Avvocati dell'accusa"), una riforma alla Pery Mason, considerato che l'indipendenza dell'Avvocatura non esiste. E' giustamente un organo che dipende funzionalmente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri per l'ovvia ragione che difende lo Stato amministrazione in giudizio. Altra cosa è il ruolo del Pubblico Ministero che difende la legge, l'ordinamento, indipendentemente da come veda la cosa l'Amministrazione competente, ad esempio in caso di concussione o corruzione. Una ruolo diverso, che  si vuole scardinare. E ancora una volta "pensando male" si indovina che l'idea di fondo è quella di renderlo dipendente dall'Esecutivo. D'altra parte forse che il Procuratore del Re non era il rappresentante del potere esecutivo presso l'Autorità giudiziaria?.

     E' la tattica del carciofo sfogliato lentamente per non creare eccessive reazioni, mettendo la gente di fronte al fatto compiuto.

     Non è, questa, una riforma liberale!

12 marzo 2011

 

Tagliare, riqualificando la spesa

Napolitano: spesa pubblica, no ai tagli "col machete"

di Salvatore Sfrecola

 

     ''Anche in questa fase di tagli della spesa pubblica, di rigore in seguito all'accumulo di un grande stock di debito pubblico, ritengo che questi tagli non possano essere fatti con il machete. Non si possono mettere sullo stesso piano tutte le spese''. Ancora una volta il Presidente della Repubblica interviene con equilibrio su un tema di grande rilievo, quello della spesa pubblica oggetto negli ultimi anni di ripetuti “tagli”, quasi sempre c.d. “lineari”, cioè percentuali per tutti i destinatari.

     Nelle parole rivolte dal Capo dello Stato ai fisici del Cern di Ginevra sta la filosofia di fondo della buona gestione. La spesa pubblica va contenuta in limiti fisiologici rispetto alla situazione economica, all’ammontare del debito, tenuto conto dell’esigenza di non aumentarlo ma di non deprimere l’economia, tenuto conto della circostanza che le pubbliche amministrazioni sono, globalmente considerate, il più grande operatore economico del Paese. Le forniture di beni e servizi richiesti da Stato, regioni, enti locali e società pubbliche, funzionali al perseguimento delle finalità pubbliche costituiscono un rilevante apporto all’economia, assicurano ampi settori occupazionali, quindi il reddito delle famiglie che si trasformano in consumi e in risparmio.

     La ''boccata d'aria fresca'' che i tanti ricercatori italiani che, con l'istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) sono protagonisti di uno dei momenti piu' promettenti della ricerca internazionale. Hanno trovato nelle parole del Presidente Napolitano, al termine della visita al Cern, valgono per tutti i settori alimentati da denaro pubblico.

     Le parole del Presidente valgono per l’intero settore pubblico che oggi vive una condizione difficile. Giustissimi i tagli destinati a colpire i tanti sprechi, ma si tenga conto della varietà delle condizioni, delle esigenze effettive dei servizi resi dalle pubbliche amministrazioni. In sostanza, se i tagli “con il machete”, come ha detto il Capo dello Stato privano le amministrazioni della capacità di operare il danno è enorme per la comunità. Amministrazioni invecchiate con il turn over selvaggio, spesso prive di risorse essenziali, non sono un buon servizio per i cittadini e le imprese. I ritardi nei pagamenti da parte delle amministrazioni e degli enti spesso mettono in crisi i fornitori. Gli effetti sono evidenti e noti, indebitamento delle imprese, riduzione dei posti di lavoro, danni alle famiglie.

     Il contenimento della spesa pubblica è saggia decisione dei governi. Se punta soprattutto alla sua riqualificazione, ma se i tagli deprimono le amministrazioni e, in fondo, l’economia, non va bene. Ed è questo il messaggio che Giorgio Napolitano ha voluto inviare alla politica, traendo lo spunto dall’incontro con i fisici del Cern, un settore, quello della ricerca le cui esigenze, più di altre, sono facilmente percepibili dalla gente.

5 marzo 2011

 

 

 

 

 

 

 


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