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LUGLIO 2011

 

La cordata

di Salvatore Sfrecola

 

     Questa mattina, nella trasmissione Omnibus, l'approfondimento delle questioni politiche di attualità del telegiornale de La7, è stato evocato il tema delle "cordate" che da sempre si sviluppano all'interno di alcune amministrazioni, anche militari. Compagni di concorso, di accademia, di ufficio, nello sviluppo della carriera continuano a mantenere nel tempo uno speciale collegamento. Identificano un "capo", chi aveva primeggiato nel concorso, nell'esame finale in accademia, chi, successivamente, ha conquistato una posizione di privilegio, nella scia di un collega più anziano con compiti di comando.

     Il Gruppo iniziale si infoltisce, diviene una "cordata", recluta nuovi colleghi, spesso al momento dell'ingresso in carriera. Ai nuovi adepti si fa intravedere il vantaggio di essere componente di un gruppo "di potere" che, naturalmente opera non per finalità ed ambizioni personali dei vari componenti della "cordata" ma dell'amministrazione e del ruolo che essa riveste nell'ordinamento.

     Essere parte della "cordata" ha vantaggi, assicurati dai primi del gruppo, nell'assegnazione dei posti di funzione, nella distribuzione degli incarichi che in alcune amministrazioni sono importanti, spesso lucrosi, sempre utili ai fini dell'ulteriore sviluppo della carriera.

     Nel tempo, la "cordata", che spesso inizialmente si collega ad altre, già consolidate e potenti, emargina i solitari, contrasta altre "cordate" perché il potere deve anche essere evidente, deve saper dimostrare a chi è fuori che non conta, non fa carriera, non ottiene incarichi.

     I componenti della "cordata" non operano solamente all'interno dell'amministrazione. Per gestire il loro potere i componenti del gruppo devono assicurarsi un efficiente collegamento, oltre che con le "cordate" al momento al potere che si preparano a scalzare, con la politica, con quella galassia, oggi sempre più difficile da scrutare, rappresentata dai partiti e dalle loro componenti.

     Per far valere nella propria amministrazione queste relazioni politiche si seguono vari sistemi, più agevoli per i funzionari civili. Un incarico di gabinetto o di ufficio legislativo, la rappresentanza dell'amministrazione in un ente controllato, sono la dimostrazione che il funzionario "conta", che la "cordata" funziona, che conviene farne parte.

     Il gruppo  nasce spontaneamente, come già ho detto, sulla base di amicizie sviluppatesi nella fase di studio  o nei primi anni di lavoro, spesso concorrono le famiglie, le mogli ed i figli, la coincidenza delle scuole frequentate  dai ragazzi, le vacanze trascorse insieme. Sono rapporti nobili. Cosa c'è di più nobile dell'amicizia, una scelta che si fonda su un idem sentire ideale o culturale o su una passione sportiva, la caccia, la pesca, la squadra di calcio?

     In principio non c'è nulla di male. Neppure nella circostanza che colui il quale raggiunge una certa posizione nell'amministrazione desideri avere con se un collega di studi o di  concorso o un commilitone di accademia. Lo conosce, ne può apprezzare le specifiche capacità e farle valere nell'interesse dell'amministrazione oltreché nell'esercizio delle proprie funzioni. Ad un collega di studi o di accademia non c'è molto da spiegare. Ti capisce al volo, sa prima che tu parli cosa vuole.

     Questo quadro positivo, tuttavia, può avere effetti negativi quando la "cordata" esclude da posti di funzione o da incarichi, la cui attribuzione è specifico interesse pubblico, quanti sono estranei al gruppo. Quando al meritevole si preferisce l'"amico" solo perché tale, indipendentemente dalla sua capacità professionale. Con una tale scelta la "cordata" non fa più coincidere il rapporto di amicizia e la colleganza con l'interesse pubblico che, invece, deve sempre prevalere.

     Accade da sempre e sempre più spesso. Guai ai solitari!

     Abbiamo parlato di amministrazioni civili e militari. La tecnica della "cordata", tuttavia, non è estranea alle magistrature, dove i Gruppi operanti nelle Associazioni di categoria riescono a garantirsi rappresentanze negli organi di autogoverno, laddove si decide l'assegnazione dei posti di funzione e  di incarichi istituzionali o l'autorizzazione ad accettarne di extraistituzionali, ad esempio l'insegnamento. In particolare le autorizzazioni spesso seguono le logiche del gruppo che può esprimere una maggioranza, cosicché seguono tempi influenzati dalla vicinanza o meno alla maggioranza.

     Questi effetti delle "cordate"  non mi piacciono, non mi sono mai piaciuti. In assoluto, tenuto conto che "i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione" (art. 98 Cost.), non della "cordata". Ugualmente i magistrati, ovviamente, ed a maggior ragione.

30 luglio 2011

 

Il Ministro “spiato”

di Senator

 

     “In caserma mi sentivo spiato”. Così Giulio Tremonti tenta di giustificare l’abbandono della foresteria della Guardia di Finanza per accettare l’ospitalità del suo ufficiale addetto, poi consigliere “politico”, quindi eletto deputato, Marco Milanese, oggi indagato per corruzione ed altro, con richiesta di arresto da parte della Procura della Repubblica di Napoli.

     La frase del ministro, cui la stampa ha riservato poca attenzione, va, invece, esaminata attentamente. In primo luogo per rilevare che la Guardia di Finanza, della cui foresteria era ospite, è un Corpo militare dello Stato posto alle dirette dipendenze del Ministro dell’economia. Per cui nella frase c’è una esplicita diffidenza rispetto a personale dipendente, cui il ministro ha tentato maldestramente di porre rimedio affermando di avere “piena fiducia” nel Corpo.

     In presenza di una “sensazione” (“mi sentivo spiato”), certamente sgradevole, il ministro avrebbe dovuto parlarne con il Comandante Generale che certamente avrebbe, anche per motivi di opportunità, prontamente provveduto, magari sostituendo il personale ausiliario della foresteria.

     Ma perché spiato? D’istinto penso che nei miei confronti qualunque sorveglianza, qualunque attenzione per riferire "a chi di dovere" non mi avrebbe minimamente turbato. Perché, invece, il Ministro se ne è preoccupato? Altrettanto d’istinto mi viene da pensare che abbia qualcosa da nascondere Ma cosa è mai possibile fare di non lecito o di trasgressivo in una foresteria della Guardia di Finanza? Evidentemente niente. Anche se il ministro avesse ricevuto una bella signora, e certamente non lo avrebbe mai fatto, quale danno gli sarebbe potuto derivare ad esempio agli occhi di chi lo avesse “spiato”? Un ricatto? Ma suvvia! Non è credibile.

     È vero che un mio amico d’infanzia, giornalista, dice sempre che nei posti di responsabilità si collocano persone che possono essere ricattate e se non lo sono all’atto della nomina si scava per cercare qualche peccatuccio o qualcosa che gli somiglia, magari lontano, per poterlo zittire al momento opportuno.

     Certo Tremonti è inviso a molti. Non solo ai cittadini tartassati direttamente o indirettamente dalle tasse e dai tagli nei quali, nel tempo si è esercitato, ma ai suoi colleghi di governo e di partito. I primi perché lesina loro risorse, i secondi perché vedono in lui un possibile, scomodo, successore di Berlusconi. Il quale potrebbe avere motivi di risentimento nei confronti del suo ministro che, al di fuori di una sua esplicita investitura, viene accreditato da ambienti vari, non solo dalla Lega, come futuro Presidente del Consiglio. Tra i due c’è freddezza da tempo ed il Cavaliere, pur lodandolo in pubblico per la fermezza nei tagli, capisce che deve distinguere la sua dalle responsabilità del Ministro “delle tasse” in vista delle elezioni del 2013 dall’esito in ogni caso incerto.

     Chi spiava, dunque, Tremonti e per conto di chi? Era spiato o si “sentiva” spiato?

     Resta, comunque, il dubbio che una persona pubblica, che dovrebbe essere trasparente come una lastra di vetro di Murano, almeno riteniamo noi che continuiamo imperterriti a credere nello Stato, se si preoccupa perché si sente spiato qualche cosa da nascondere deve pur averla.

30 luglio 2011

 

Se l’insulto è l’unico argomento di un Ministro

di Giovanni della Casa

 

     La moderna tecnologia non perdona. Così il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, recidivo nell’insultare gli interlocutori che dissentono dal suo verbo, ha usato ancora una volta l’aggettivo “cretino” nel rivolgersi a quanti lo contestavano a Viterbo, con l’aggiunta di “siete dei poveretti”, come tutti hanno potuto sentire dai telegiornali o collegandosi con YouTube, dove già si sono sentiti altri insulti, sempre rivolti a contestatori.

     Il Ministro non è educato a fare il Ministro. E questo è grave, come è grave, anzi gravissimo, che il Presidente del Consiglio non lo richiami all’ordine, non lo inviti a moderare i toni, a rispondere con l’educazione che si richiede ad un uomo pubblico, soprattutto quando quest’uomo pubblico si vanta della toga universitaria, del ruolo di educatore, non soltanto nella materia che ha insegnato, l’economia. Pensate ai grandi Maestri della storia della cultura italiana, pensate, per restare alla materia del Prof. Brunetta, ad un Luigi Einaudi che soltanto alza la voce per richiamare uno studente distratto o, all’esame, poco preparato.

     Assolutamente non immaginabile.

     Invece Brunetta dà del “cretino”, con grande facilità ai suoi interlocutori che dissentono dalle sue idee, e non solo da quando era stato lui oggetto di analogo insulto, da parte del Ministro dell’economia del quale spesso prende la scena, evidentemente sentendosi stretto nella veste di ministro per l’amministrazione e l’innovazione, che si occupa anche di prevenzione della corruzione, un fenomeno che, a suo giudizio, è enfatizzato dalla stampa che in tal modo accresce l’allarme sociale per questi fenomeni. Vuol dire che il Ministro apre i giornali, ma forse non li legge!

     Uomo dall’insulto facile, evidentemente anche perché a corto di argomenti per rispondere a chi lo critica, non me la sento di giudicarlo come Ministro. I miei amici giuristi dell’amministrazione mi dicono, tuttavia, che ha fatto poco, molto fumo, una tecnica nella quale questo governo primeggia certamente. Ha terrorizzato gli impiegati accusandoli tout court di essere degli assenteisti. Poi ha dovuto fare marcia indietro su molte complicazioni che in fin dei conti danneggiavano le persone oneste, quelle che non organizzano le assenze improvvise per malattia.

     Mi dicono che non passerà alla storia.

     Non vado oltre perché rischio di sentirmi dare del “cretino”, “Monsignor dei cretini”. Vuol dire che saremmo in due, almeno a sentire il Ministro Tremonti.

29 luglio 2011

 

Ministeri in “Padania”?

La realtà e la farsa

di Iudex

 

     Il puntuale intervento del Capo dello Stato, con la lettera al Presidente del Consiglio, resa nota ieri, ha ricondotto nei termini suoi propri la divagazione estiva dei Ministri Bossi e Calderoli promotori di una sorta di “delocalizzazione” dei ministeri loro assegnati mediante l’istituzione di "sedi distaccate di rappresentanza operativa" a Monza, nella Villa Reale.

     E proprio ad un decreto reale il regio decreto n. 33 del 1871, quasi uno storico contrappasso, si è riferito Giorgio Napolitano per ricordare che quel provvedimento “nell'istituire, all'articolo 1, Roma quale capitale d'Italia ha altresì previsto che in essa abbiano sede il Governo ed i Ministeri”. Una Capitale “costituzionalizzata”, come scrive il Presidente, “con la riforma del titolo V della nostra Carta che, con la nuova formulazione dell'articolo 114, terzo comma, ha da una parte introdotto un bilanciamento con le più ampie funzioni attribuite agli enti territoriali e dall'altra ha posto un vincolo che coinvolge tutti gli organi costituzionali, compresi ovviamente il Governo e la Presidenza del Consiglio: vincolo ribadito dalla legge n. 42 del 2009, che all'art. 24 prevede un primo ordinamento transitorio per Roma capitale diretto "a garantire il miglior assetto delle funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli Organi Costituzionali".

     Segue una sferzata al Presidente del Consiglio. Napolitano, infatti, rileva che Bossi e Calderoli, che hanno adottato i decreti in data 7 giugno 2011 con i quali hanno istituito le “sedi distaccate” di quelli che sono, rispettivamente, uffici “di un Dipartimento e di una Struttura di missione, che costituiscono parte dell'ordinamento della Presidenza del Consiglio”, evento del quale Berlusconi, nella sua veste di Presidente del Consiglio, evidentemente non era a conoscenza o del quale, più probabilmente, non aveva percepito il rilievo giuridico o, ancora, al quale non aveva potuto opporsi.

     Pertanto, aggiunge Napolitano, “poiché ai fini di una eventuale sua elasticità, il decreto legislativo n. 303 del 1999, all'articolo 7, attribuisce al Presidente del Consiglio la facoltà di adottare con DPCM le misure per il miglior esercizio delle sue funzioni istituzionali” una eventuale diversa allocazione di sedi o strutture operative, “dovrebbe più correttamente trovare collocazione normativa in un atto avente tale rango, da sottoporre alla registrazione della Corte dei Conti per i non irrilevanti profili finanziari, come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2002”.

     Di tutto questo non si è parlato. Bossi e Calderoli, evidentemente consapevoli dell’anomalia alla quale davano vita, avrebbero provveduto in proprio all’arredo. Tuttavia non è solo nelle scrivanie, seggiole e poltroncine e librerie il costo per il bilancio dello Stato dell’iniziativa leghista. Anche gli spostamenti degli stessi ministri e dei loro collaboratori da Roma ad una sede “non istituzionale” comportano costi che, in assenza di una basse normativa, non possono essere posti a carico del bilancio dello Stato.

     “La pur condivisibile intenzione di avvicinare l'amministrazione pubblica ai cittadini, pertanto, – scrive il Presidente della Repubblica - non può spingersi al punto di immaginare una "capitale diffusa" o " reticolare" disseminata sul territorio nazionale, in completa obliterazione della menzionata natura di Capitale della città di Roma, sede del Governo della Repubblica”.

     Bossi risponde che “la Costituzione non dice dove devono stare i ministeri”, una presa di posizione che certamente avrà irritato il Quirinale il quale attende una risposta “scritta”, come titola oggi il Corriere della Sera a pagina 9.

     Il fatto è che dietro l’iniziativa “imprudente” di Bossi e Calderoli – a proposito il Ministro “per la semplificazione” non vorrà mica abrogare il decreto di Re Vittorio Emanuele II che fa di Roma la Capitale e la sede dei ministeri?- , i quali  non possono fare marcia indietro e mantenendo il punto rischiano di entrare in conflitto anche con Berlusconi, c’è il malcontento della base leghista di cui è dimostrazione il risultato elettorale negativo, anche in quella che sembrava essere la fortezza del Carroccio, Novara, dalla quale proviene il Presidente della Regione Piemonte, Cota, dove ha prevalso il centrosinistra. Ma c’è anche la lotta di successione a Bossi nella quale sembra prevalere Maroni, anche se potrebbero affacciarsi altri concorrenti, come i potenti governatori del Piemonte e del Veneto.

     E’ mancata la prudenza, della quale in altre occasioni il Senatur ha saputo dare prova. Con il rischio che la farsa del trasferimento dei ministeri, diversamente non sapremmo qualificarlo, non complichi ancor più una situazione politica aggravata dal pessimo andamento dell’economia ed ancor più delle borse.

29 luglio 2011

 

La lettera del Presidente della Repubblica

al Presidente del Consiglio sul tema del decentramento

delle sedi dei Ministeri sul territorio

 

     "Mi risulta che il Ministro delle riforme per il federalismo e il Ministro per la semplificazione normativa, con decreti in data 7 giugno 2011 - peraltro non pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale - hanno provveduto a istituire proprie "sedi distaccate di rappresentanza operativa"; ho appreso altresì che analoghe iniziative verrebbero assunte a breve anche dal Ministro del turismo e dal Ministro dell'economia e delle finanze (quest'ultimo titolare di un importante Dicastero, anziché Ministro senza portafoglio come gli altri tre).

     Come ho già avuto occasione di sottolineare al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dott. Letta, la dislocazione di sedi ministeriali in ambiti del territorio diversi dalla città di Roma deve tener conto delle disposizioni contenute nel regio decreto n. 33 del 1871, ancora pienamente vigente, che nell'istituire, all'articolo 1, Roma quale capitale d'Italia ha altresì previsto che in essa abbiano sede il Governo ed i Ministeri.

     E' altresì noto che la scelta di Roma capitale è stata costituzionalizzata con la riforma del titolo V della nostra Carta che, con la nuova formulazione dell'articolo 114, terzo comma, ha da una parte introdotto un bilanciamento con le più ampie funzioni attribuite agli enti territoriali e dall'altra ha posto un vincolo che coinvolge tutti gli organi costituzionali, compresi ovviamente il Governo e la Presidenza del Consiglio: vincolo ribadito dalla legge n. 42 del 2009, che all'art. 24 prevede un primo ordinamento transitorio per Roma capitale diretto "a garantire il miglior assetto delle funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli Organi Costituzionali".

     Infine, recentemente e sia pure in un contesto non univoco, nel corso dell'esame parlamentare del d.l. n. 70 del 2011, sono stati discussi e votati diversi ordini del giorno finalizzati ad escludere ipotesi di delocalizzazione dei Ministeri pur nell'accoglimento, senza voto, di un o.d.g. (Cicchitto ed altri) di contenuto autorizzatorio.

     Quanto al contenuto dei citati decreti istitutivi devo rilevare che i Ministri emananti, Ministri senza portafoglio, hanno provveduto autonomamente ad istituire sedi distaccate, rispettivamente, di un Dipartimento e di una Struttura di missione, che costituiscono parte dell'ordinamento della Presidenza del Consiglio.

    Poiché ai fini di una eventuale sua elasticità, il decreto legislativo n. 303 del 1999, all'articolo 7, attribuisce al Presidente del Consiglio la facoltà di adottare con DPCM le misure per il miglior esercizio delle sue funzioni istituzionali, ritengo che l'autorizzazione ad una eventuale diversa allocazione di sedi o strutture operative, e non già di semplice rappresentanza, dovrebbe più correttamente trovare collocazione normativa in un atto avente tale rango, da sottoporre alla registrazione della Corte dei Conti per i non irrilevanti profili finanziari, come affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2002.

     Peraltro l'apertura di sedi di mera rappresentanza costituisce scelta organizzativa da valutarsi in una logica costi-benefici che, in ogni caso, dovrebbe improntarsi, nell'attuale situazione economico-finanziaria, al più rigido contenimento delle spese e alla massima efficienza funzionale.

     Tutt'altra fattispecie, prevista dalla stessa Costituzione e da numerose leggi attuative, è quella della esistenza, storicamente consolidata, di uffici periferici (come ad esempio i Provveditorati agli studi e le Sovraintendenze ai beni culturali e ambientali), che non può quindi confondersi in alcun modo con lo spostamento di sede dei Ministeri; spostamento non legittimato né dalla Costituzione che individua in Roma la capitale della Repubblica, né dalle leggi ordinarie, quale ad esempio l'articolo 17, comma 4-bis, della legge n. 400 del 1988, che consente di intervenire con regolamento ministeriale solo sull'individuazione degli uffici centrali e periferici e non sullo spostamento di sede dei Ministeri. Inoltre, il rapporto tra tali uffici periferici e gli enti locali va assicurato sull'intero territorio nazionale nell'ambito dei già delineati uffici territoriali di Governo.

     Va peraltro rilevato che a fronte della scelta, non avente connotati di particolare rilievo istituzionale, di aprire meri uffici di rappresentanza, non giova alla chiarezza una recente nota della Presidenza del Consiglio, che inquadra tale iniziativa nell'ambito di "intese già raggiunte sugli uffici decentrati e di rappresentanza di alcuni ministeri sia al Nord che al Sud, come già in essere per molti altri ministeri", così preludendo ad ulteriori dispersioni degli assetti organizzativi dei Ministeri tanto da consentire la prefigurazione, da parte di esponenti dello stesso Governo, di casuali localizzazioni in vari siti regionali o municipali delle amministrazioni centrali.

     E' necessario ribadire che tale evoluzione confliggerebbe con l'articolo 114 della Costituzione che dichiara Roma Capitale della Repubblica, nonché con quanto dispongono le leggi ordinarie attuative già precedentemente citate.

     La pur condivisibile intenzione di avvicinare l'amministrazione pubblica ai cittadini, pertanto, non può spingersi al punto di immaginare una "capitale diffusa" o " reticolare" disseminata sul territorio nazionale, in completa obliterazione della menzionata natura di Capitale della città di Roma, sede del Governo della Repubblica.

     Ho ritenuto doveroso, onorevole Presidente, prospettarle queste riflessioni di carattere istituzionale al fine di evitare equivoci e atti specifici che chiamano in causa la mia responsabilità quale rappresentante dell'unità nazionale e garante di princìpi e precetti sanciti dalla Costituzione".

Roma, 28 luglio 2011

 

 Berlusconi: un passo indietro o avanti?

di Senator

 

     Silvio Berlusconi è in evidente difficoltà. L’immissione di Nitto Palma e della Bernini non rafforza di certo il Governo, come alcuni commentatori si sono affrettati a scrivere oggi. Il neo Ministro della giustizia è un fedelissimo, già promotore di iniziative non gradite ai magistrati (la sua prima dichiarazione è stata nel senso che cercherà “riforme condivise”, ma si scontra subito col ddl sul processo “lungo”, un’idea degli avvocati del Cavaliere per tenerlo fuori dai processi Mills e Ruby), e la Bernini è nota soprattutto per le sue appassionate performance televisive in difesa del premier. Del quale mai ha trovato un errore nell’azione politica o di governo. Silvio forever, e a tutti i costi.  E' semplicemente un passaggio interno al partito. "Ma certo non basta a restituire vitalità - come ha scritto Stefano Folli nel suo "Il punto" di oggi su Il sole - 24 ore - e una chiara  direzione di marcia a una compagine appannata".

     Il premier, dunque, non si è rafforzato, anzi vive con ansia la crisi con la Lega (per cui era circolata nei giorni scorsi l'ipotesi di mettere alle politiche comunitarie un leghista, Rebuzzoni, uomo di Maroni),  per nulla rassicurato dalle ricorrenti pacche sulla spalla generosamente elargite da un Bossi anch’egli in difficoltà nella tenuta del partito che soffre dei minori consensi registrati nelle recenti elezioni amministrative.

     Berlusconi, dunque, pensa a mollare tutto, anche su indicazioni dei familiari, preoccupati dalla possibilità di una debacle politica annunciata per il 2013 e dalle conseguenze economiche e finanziarie per il gruppo di famiglia, in conseguenza del minore appeal politico del Presidente del Consiglio.

     In queste condizioni c’è chi lo consiglia a fare un passo indietro (Francesco Damato su Il Tempo di ieri, convinto che la sua assenza priverebbe la sinistra dell'argomento forte della sua propaganda politica) o un passo avanti (Francesco Perfetti sullo stesso giornale) con argomenti che, per un verso o per l’altro, vorrebbero comunque rafforzarlo e fargli terminare la legislatura. In particolare Perfetti, uno dei nostri massimi studiosi di storia contemporanea che non nasconde la delusione di chi ha creduto nella svolta liberale annunciata da Berlusconi nel 1994 e miseramente fallita. Il passo avanti dovrebbe garantire la ripresa dell’iniziativa con una forte revisione della compagine governativa e l’immissione di elementi di provata fede liberale e liberista per riprendere il largo in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento. Un passaggio delicato, considerato che quelle Camere eleggeranno anche il nuovo Presidente della Repubblica.

     Non so se Perfetti crede veramente alla possibilità di un “passo avanti” nelle condizioni attuali, politiche ed economiche, e nei tempi brevi che restano.

Al di là di questi generosi suggerimenti, di persone che credono nello stato e nella scelta politica dei moderati, credo che obiettivamente il Cavaliere sia sul viale del tramonto. Un po’ come accade ad attori e sportivi che, all’apice della loro carriera, quando cominciano a perdere colpi spesso non sanno se lasciare o continuare, nella speranza di qualche nuovo successo. Che può certamente venire, ma che è inevitabilmente episodico e non può restituire continuità alla carriera.

     Ecco, Berlusconi mi sembra come quell’attore o quello sportivo, non sa decidersi. Non ha individuato un delfino e non lo ha lanciato per tempo perché potesse camminare con le proprie gambe in quella novità nella continuità che si richiede al successore designato. In questo senso Angelino Alfano e il suo proclamato intento di far del PdL “il partito degli onesti”, in presenza delle vicende Papa, Milanese, ecc., sembra avere una strada tutta in salita. Considerato inoltre che gli italiani hanno scarso patriottismo di partito. Quando lo vedono in difficoltà lo mollano.

     Forse, dunque è tardi. Berlusconi avrebbe dovuto programmare la sua uscita, anche nell’ipotesi, ormai tramontata, di trasferirsi al Quirinale, lasciando il partito in mani sicure nel momento di maggior successo, sia pure solo mediatico, della sua esperienza politica.

     Non lo ha fatto ed ora si trova incalzato da difficoltà politiche non indifferenti e da azioni giudiziarie molte delle quali non riuscirà a neutralizzare.

     Triste fine di un leader che, come diceva Vittorio Emanuele III di Mussolini, evidentemente ha studiato poco la storia.

28 luglio 2011

 

Due parole d'attualità

L'etica della funzione pubblica

di Salvatore Sfrecola

 

     Si potrebbe scrivere un trattato. Non Il Principe, di Ser Nicolò Machiavelli, destinato ad istruire il detentore del potere in ordine alle regole per la gestione del governo ed anche per le relazioni con la classe dirigente ed il popolo. Lo potremmo intitolare Il pubblico dipendente, colui che, dice la Costituzione all'art. 98, è "al servizio esclusivo della Nazione", ciò che ne fa un soggetto le cui relazioni personali sono fortemente limitate dall'esigenza che l'immagine della stessa P.A. non sia lesa da comportamenti che agli occhi dei cittadini onesti siano incompatibili con il ruolo di chi ha giurato di servire lo Stato  "con disciplina ed onore", come si legge in un altro articolo della Costituzione, il 54.

     Naturalmente non si tratta di comportamenti penalmente rilevanti che hanno già la loro sanzione, il peculato, la corruzione, la concussione, l'abuso  e gli altri delitti contro la Pubblica Amministrazione. Quelli di cui sentiamo la necessità di occuparci sono quei comportamenti che non interessano immediatamente il codice penale se non sono parte di una condotta che sfocia in un reato. Intendiamo riferirci a quelle relazioni personali con persone "chiacchierate", indagate che siano o no, politici disinvolti, faccendieri, evasori fiscali, personaggi che  non stanno bene a tavola con magistrati, dirigenti dello Stato, esponenti delle Forze di Polizia.

     Attenzione, può capitare a tutti di essere invitato a colazione da un amico il quale, ad esempio, da libero professionista, ha esigenza di un ampio giro di relazioni funzionali al proprio lavoro. Ma se vi invita e voi appartenete ad una di quelle categorie che ho prima elencato i casi sono due. O non sa di aver invitato un soggetto dalla coscienza lassa o se lo sa non è un vostro amico perché vi mette in difficoltà.-

     Purtroppo le cronache di questi ultimi anni dicono che spesso alti dirigenti della P.A. si siano fatti vedere con faccendieri ed indagati non solo in occasione di cene e di ricevimenti vari, ma al mare o ai monti in vacanze spesso pagate proprio da questi personaggi i quali magari avranno assunto figli, mogli e parenti vari quando tra l'amministrazione del funzionario e l'imprenditore vi sono rapporti istituzionali che debbono essere caratterizzati dalla massima trasparenza.

     Insomma, il pubblico dipendente "al servizio esclusivo della Nazione" dev'essere come "la moglie di Cesare", che non poteva neppure essere sospettata anche se  il marito era consapevole della sua onestà.

     Un tempo per chi aspirava ad un lavoro pubblico si richiedeva il certificato di "buona condotta" morale e civile, che attestava la notorietà di comportamenti in pubblico ed nel privato improntati ad estrema correttezza. E' stato abolito nel 1984. Certo si prestava ad abusi nella valutazione delle condotte dei cittadini, ma una volta abolito non viene meno l'esigenza che l'Amministrazione valuti a fini disciplinari  comportamenti che destino disdoro e ledano l'immagine ed il prestigio dell'ente di appartenenza che, nel caso di un magistrato o di un militare, reca una lesione gravissima alla funzione pubblica rimessa a questi soggetti.

     Esistono codici etici e di comportamento ma non si fanno rispettare. In una relazione al Parlamento, in esito ad una specifica indagine, la Corte dei conti ha denunciato lacune gravissime nella gestione del potere disciplinare che lo rendono un'arma spuntata quando nell'opinione pubblica e nella consapevolezza dei dipendenti chi lede l'immagine pubblica se la cava con poco o niente.

     "Il pesce puzza dalla testa" afferma un antico proverbio popolare, per dire che se qualcosa non funziona è perché chi è in alto non è nelle condizioni morali di richiamare all'ordine chi sbaglia di punirlo.

     Leggiamo sui giornali cose che vorremmo con forza che non fossero vere. Purtroppo la moralità pubblica è scaduta, paurosamente e non si vede chi, e come, possa riportare sulla retta via chi sbaglia. Non funziona neppure l'evidente disprezzo dei tanti onesti, certamente i più, che fanno parte delle amministrazioni pubbliche.

27 luglio 2011

 

Le prospettive politiche dei cattolici italiani

 

di Salvatore Sfrecola

 

L’invito è stato esplicito ed autorevole. E ripetuto. Perfino il Santo Padre, che per il suo ruolo di pastore della Chiesa universale non può, e certamente non vuole, entrare nelle questioni interne alla politica dei singoli paesi e in primo luogo dell’Italia, nella quale insiste l’enclave vaticana, ha tuttavia richiamato i cittadini che si riferiscono ai valori della Chiesa Cattolica ad impegnarsi nel sociale, per far sentire la loro voce e concorrere, con gli ideali dei quali sono portatori, al risveglio di questa nostra Patria squassata da eventi calamitosi, economici e politici. Una crisi della quale siamo vittima insieme ad altri paesi ma che da noi determina maggiori preoccupazioni in ragione della seconda situazione di debolezza, la incertezza della leadership politica.

Del resto i cattolici nel sociale vantano una antica, illustre esperienza. Basti rileggere le belle pagine de “L’opposizione cattolica” di Giovanni Spadolini per rendersi conto che in settori diversi ma essenziali, dalle cooperative (le leghe bianche), all’istruzione, alle banche popolari, il mondo cattolico aveva, sul finire dell’800, una presenza significativa che avrebbe avuto anche una valenza politica importante nella formazione del gracile stato unitario, se questa consistente fetta dell’opinione pubblica non fosse rimasta fuori della politica nazionale dall’improvvido non expedit di Pio IX, un grande Papa sul piano dottrinale ma dalla vista corta in politica, che ha tenuto lontano dall’agone politico i cattolici proprio nella fase delicatissima della crescita dello Stato unitario, fino al Patto Gentiloni, promosso da un liberale pragmatico Giovanni Giolitti.

L’Italia, che aveva assunto una connotazione unitaria centralista, all’indomani della morte prematura di Camillo di Cavour, avrebbe certamente compensato le preoccupazioni centrifughe dei primi governi del Regno se i cattolici, presenti sul territorio e legati alle tradizioni locali, avessero potuto contribuire allo spirito nazionale del quale pure erano stati partecipi fin dai primi moti risorgimentali, da quel 1848, quando Giovanni Maria Mastai Ferretti, divenuto Papa Pio IX aveva inviato un suo contingente al comando del Generale Durando a combattere a fianco dell’esercito sardo di Re Carlo Alberto.

La storia non si fa con i se e con i ma, per cui constatiamo che alla formazione dello stato e delle sue leggi è mancato l’apporto dei cattolici che sono “ricomparsi” al Governo della Nazione dopo il 25 luglio 1943 e, poi, nel dopoguerra, quando la Democrazia Cristiana ha conquistato e tenuto fino ai primi anni ’90 gran parte del potere.

 

'ipotesi della ricostituzione di un polo politico cattolico grande abbastanza (e quindi tendenzialmente unitario?) da svolgere un ruolo di rilievo”  in considerazione dei “meriti storici del cattolicesimo politico italiano”. E se “la moderazione dei gesti e delle parole unita però a un fondo di valori forti” è “sicuramente” necessaria oggi, “l'ipotesi di ricostituzione di un grande polo politico cattolico implica, mi pare, che si chiariscano preliminarmente almeno due problemi decisivi”, uno “posizionale, che sottintende però formidabili questioni di sostanza” che inevitabilmente deve marciare verso destra, “il solo posto libero nello schieramento politico italiano”, che la DC non volle occupare nel 1993, così decretando la sua fine e l’insorgere del “fenomeno Berlusconi”, un movimento, aggiungo, che si qualifica di Centrodestra ma, in realtà, è in mano a reduci del Partito socialista, dallo stesso Berlusconi, a Frattini, a Tremonti, a Brunetta, a Sacconi, a Cicchitto, per non dire che dei più rappresentativi dello schieramento.

Per Galli della Loggia il problema del “posizionamento” del partito di ispirazione cattolica si pone ancora oggi nei medesimi termini del 1993, “come mostra il fatto che non esiste sistema politico al mondo che veda la presenza di un partito di sinistra democratica (come accade finalmente anche nell'Italia attuale) e in cui il partito cattolico (o cristiano che sia) non abbia la funzione di contrapporsi al suddetto partito: cioè stia a destra”. In realtà – aggiunge della Loggia - la collocazione centrista della Dc dipese interamente dalla particolare situazione del dopoguerra italiano, quando il solo termine destra faceva subito pensare al fascismo, e del resto esisteva un partito neofascista che si diceva per l'appunto di destra. Ma in un sistema a suffragio universale contrapporsi alla sinistra - in questo senso stare a “destra” - non implica affatto sostenere politiche antipopolari, reazionarie o classiste. Sostiene forse politiche di tal genere la cancelliera Merkel?”

Ecco il punto, che espunge dal dibattito politico un antico equivoco, quello che “stare a destra” significhi adottare misure antipopolari o classiste. Basti riflettere sulle idee di un liberale cattolico, come Luigi Einaudi, del quale si dovrebbero rileggere le lezioni di politica sociale per comprendere come quel patrimonio di idee e di esperienze, che Spadolini ricorda nel suo libro sui cattolici emarginati dalla politica di fine ‘800, consenta oggi di definire una linea liberal-cattolica, molto più di quella liberal-socialista che Damato e Cicchitto rivendicavano su Il Tempo solo qualche giorno fa.

La strada, dunque, è quella di un’ampia convergenza sulla destra del mondo cattolico e di quello autenticamente liberale, laico ma permeato dei valori che in altri tempi hanno fatto della classe dirigente politica un esempio di senso dello Stato e di personale onestà. Perché non dovremmo tornare a reclutare per funzioni di governo uomini probi, come quelli che nei primi anni dell’Italia unita ressero le sorti del Paese, risanando la sua finanza e la sua economia, uomini che avevano chiaro nella mente, senza che nessuna legge lo precisasse, il conflitto di interessi? Per cui Quintino Sella, sempre lui!, chiamato a fare il Ministro delle finanze ricordava al nonno, il Patriarca della famiglia, che, dalla data del suo giuramento “le imprese di famiglia dovranno ritirasi dagli appalti pubblici”. Una scelta normale, centocinquant'anni fa!

25 luglio 2011

 

A proposito di un editoriale di Angelo Panebianco

Divagazioni a ruota libera su Politica e Antipolitica

di Salvatore Sfrecola

 

            Mi capita di rado di non convenire sulle lucide analisi politologiche di Angelo Panebianco, ma oggi il suo editoriale sul Corriere della Sera, “Il vento forte dell'antipolitica”, che certamente farà discutere, mi lascia perplesso. Perché definire “antipolitica” la spinta proveniente dalla gente quando si ribella alla gestione del potere, alla cattiva gestione del potere da parte di coloro che in atto lo detengono mi sembra un esercizio accademico, un assist alla classe politica al potere nella speranza, non certo nella fiducia, che gli attuali governanti se ne giovino per rimanere nella stanza dei bottoni. Per recuperare credibilità o per allungare l’agonia?

            In sostanza, nel linguaggio di Panebianco, e non solo, l’“antipolitica” s’identifica nelle opinioni, dai riferimenti ideologici spesso indistinti o confusi, quando non inesistenti, e nei movimenti che ad esse si ispirano, che esprimono una critica generalizzata e spesso generica alla classe politica al governo. Opinioni e movimenti che, come insegna l’esperienza, assumono rilevanza ed un significato “politico” in prossimità di una crisi di regime, cioè della difficoltà dei partiti al governo di corrispondere alle esigenze della gente, compreso quelle dell’elettorato che ha dato la maggioranza al partito o alla coalizione che detiene il potere. “Crisi di regime” che, per essere tale, deve coinvolgere anche l’opposizione, nel senso che questa non si presenti agli occhi dell’opinione pubblica come un’alternativa credibile e in tempi brevi.

        In tali condizioni, nella società si sviluppano movimenti, spesso dalla confusa ideologia o assolutamente privi di un riferimento ideologico, che inevitabilmente trovano un capo che ne interpreta le preoccupazioni e il desiderio di cambiamento, un capo sempre dotato di carisma, grande capacità oratoria, un affabulatore che promette anche ciò che non può mantenere. Al quale la gente tuttavia crede e crederà per anni, fino a quando anche quel regime andrà in crisi per aver concluso il suo ciclo vitale.

        È accaduto più volte, dopo la prima guerra mondiale, per l’implosione del regime liberale dimostratosi incapace di affrontare la crisi economica e sociale del dopoguerra; nei primi anni ’90, dopo la crisi di Tangentopoli; sta accadendo in questa stagione nella quale la gestione del Centrodestra ha tradito le aspettative di gran parte di coloro che avevano visto nella discesa in campo del Cavaliere un rinnovamento della politica.

       Mussolini nel 1922, Berlusconi nel 1994 sono stati espressione di quell’antipolitica di cui parla Panebianco, in quanto gestori di un consenso che non si basa sui partiti tradizionali, con la loro ideologia, con i voti conquistati in sede elettorale, ma si sviluppa nell’opinione pubblica per poi “legittimarsi” nel responso delle urne. È accaduto anche in Germania, nel 1933, quando il movimento di Adolfo Hitler diventa partito e conquista il potere, un potere tragicamente illimitato.

Ecco un’altra caratteristica dell’“antipolitica”, che diventa politica per effetto della conquista del potere sulla base di un ampio consenso popolare. Non riesce ad avere la misura giusta nella gestione dello Stato. Così Mussolini, giovandosi di uno Statuto flessibile, lo aveva svuotato del carattere liberale, giungendo a prevedere che il Gran Consiglio del Fascismo si esprimesse sulla successione al trono per condizionare la Corona, così Hitler ha trasformato una democrazia in una dittatura. Ugualmente Berlusconi dimostra ogni giorno di più di essere insofferente delle regole costituzionali della separazione dei poteri e degli equilibri che il sistema assicura. Il Parlamento gli fa perdere tempo, per cui lo mortifica attraverso le mozioni di fiducia sui maxiemendamenti, la magistratura lo “assedia”.

       Torniamo all’analisi di Panebianco per spiegare i motivi delle mie riflessioni e delle mie perplessità sulla definizione “antipolitioca”.

Siamo, come molti pensano, alla vigilia di una nuova esplosione di antipolitica nel Paese? – si chiede Panebianco - Un segnale forte, per la verità, c'era già stato: la trionfale elezione di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Anche se Napoli non è certo rappresentativa dell'Italia intera, è però indubbio che in quella occasione abbiamo visto l'antipolitica in azione: con la sua condanna sommaria e generalizzata del cosiddetto ceto politico, di maggioranza e di opposizione. Luciano Violante, sul Foglio di giovedì, ha ricordato che la nostra storia è contrassegnata da periodiche esplosioni di rivolta contro la classe politica. Con intervalli all'incirca ventennali, e pur nella diversità dei contesti e delle circostanze: il fascismo, la resistenza, il sessantotto, mani pulite. È la politica che, non riuscendo a rinnovarsi e a dare al Paese una salda guida e una direzione di marcia, commette periodicamente suicidio, suscita contro se stessa forze che la travolgono”.

      È sostanzialmente l’analisi che ho fatto poco sopra. Ma perché chiamarla “antipolitica”? Perché dare al Masaniello di turno, ad un Grillo qualunque, il senso della legittimazione popolare che inevitabilmente lo fa considerare legibus solutus. Perché non ritenere la rivolta popolare espressione autentica di una politica che non deve necessariamente esprimersi attraverso forme codificate di partiti e movimenti, con i loro iscritti, le loro sedi.

     Per Panebianco “queste cicliche esplosioni non si spiegherebbero senza la presenza di alcune pre-condizioni culturali”, in particolare “quella di una società civile pura e incorrotta contrapposta a una società politica sede di ogni turpitudine”.

      E se questa è “una puerile bugia”, perché gli eletti non sono certo peggiori degli elettori, non c’è dubbio che il grado di “legittimità della politica, e delle stesse istituzioni politiche” non deriva tanto dalla intrinseca moralità dei detentori del potere quanto dalla loro capacità di corrispondere alle esigenze della gente, quanto ai servizi che lo Stato e gli enti pubblici devono rendere, dall’ordine pubblico, alla scuola, alla sanità, al lavoro. In un contesto di giustizia fiscale, intesa come strumento di politica economica prima che di reperimento dei fondi per la gestione del potere.

      Una certa dose di corruzione, ad esempio, è ritenuta dalla gente naturalmente coesistente alla gestione del potere. Nessuno si scandalizza se dal costo di un’opera pubblica derivi qualche “vantaggio” per chi l’ha decisa ed aggiudicata, ma la gente si attende che almeno l’opera sia utile e ben fatta e s’indigna quando questo non avviene, quando l’opera pubblica costa più del dovuto ed è inutile o inefficiente.

      In queste condizioni qualificare “antipolitica” la ribellione della gente delusa dal potere può essere una definizione accademica con la sua legittimazione ma è negazione della corretta interpretazione del fenomeno. L’antipolitica non è altro che la reazione all’esaurimento di una esperienza di gestione del potere che non ha saputo rinnovarsi ed essere al passo con i tempi.

      Demonizzare il fenomeno De Magistris o Pisapia non fa bene “alla politica”, cioè ai partiti, soprattutto quando chi amministra la maggioranza insiste per qualificarsi come uno che non viene dalla politica.

      Un ciclo si va chiudendo. E se “ci sono poi i margini di azione di cui comunque i politici ancora dispongono: spetta a loro farne un uso sapiente. Ad esempio, serve ormai solo ad accrescere l'impopolarità della politica evitare di aggredire la questione dei suoi costi. Quanto meno dal punto di vista simbolico – spiega Panebianco - è cruciale trasmettere al Paese l'idea che ai sacrifici che si chiedono ai cittadini corrisponda una disponibilità della politica a ridurre i propri privilegi. Sapendo, naturalmente, che (proprio perché non esiste quella società civile pura e innocente dipinta dai demagoghi dell'antipolitica), colpire i costi della politica, in certe aree del Mezzogiorno ma non solo, può significare innescare forme di ribellismo, fare inferocire clientele che dalla politica dipendono. Anche questo attiene al folklore antipolitico: «onesti cittadini» che mordono la mano da cui prendevano il cibo non appena si accorgono che le razioni si assottigliano”.

      In questa situazione Panebianco evoca “il ruolo della presidenza della Repubblica: la sua importanza, ai fini della tenuta del sistema politico, cresce in rapporto direttamente proporzionale all'indebolimento del governo. Così va oggi interpretata l'azione del presidente Napolitano: dalla richiesta all'opposizione di non contrastare una rapida approvazione della manovra economica al fine di rassicurare i mercati internazionali, al fermo richiamo ai magistrati contro i protagonismi che fomentano lo scontro con la politica. Un richiamo assai opportuno se si considera che non le inchieste giudiziarie ma il modo in cui spesso vengono condotte contribuisce a risvegliare i più bassi istinti di una parte del pubblico, a diffondere sgradevoli richieste di giustizia sommaria. In barba alla presunzione di non colpevolezza”.

      Tutto vero. Abbiamo più volte, costantemente apprezzato l’azione del Capo dello Stato, conforme al suo ruolo costituzionale in una democrazia parlamentare.

Certo, dice bene Panebianco: “un'altra cosa che forse servirebbe per disinnescare certe spinte: fare una buona riforma elettorale. I sentimenti antipolitici sono oggi alimentati anche dalla polemica contro il cosiddetto «Parlamento dei nominati», ossia contro le liste bloccate. Non è meglio tornare a un sistema maggioritario (con un turno o due turni) con collegi uninominali? Il partito di maggioranza relativa, il Pdl (che avrebbe tutto da perdere se saltasse il bipolarismo) potrebbe farne oggetto di trattativa con la Lega: appoggeremo la vostra proposta di Senato federale solo a condizione che voi appoggiate una riforma elettorale così concepita. Troverebbe per strada anche il sostegno di una parte del Partito democratico”.

      Tuttavia la sua sembra una non convita lezione di politica per salvare il salvabile, nella speranza che qualcuno capisca. Ma forse è troppo tardi. “L'anti-politica è la malattia infantile della democrazia e l'Italia, con la sua salute perennemente cagionevole, è assai portata alle ricadute. Ma c'è ancora qualche margine per lasciare i paladini dell'antipolitica a bocca asciutta”.

      Certamente, è auspicabile, ma, purtroppo, poco probabile. La storia insegna che alcune crisi sono irreversibili, che è estremamente difficile che all’interno della classe politica, in particolare della maggioranza emerga una leaderchip sicura e incontrastata che metta tutti in riga e li porti a recuperare credibilità agli occhi della gente. Può avvenire. Ma non si vede l’uomo e la squadra (Berlusconi ha accantonato tutti coloro che riteneva potessero dargli ombra) né ci sono i tempi tecnici, considerato che la crisi economica potrebbe indurre più d’uno a non assumere l’iniziativa. Né, d’altra parte, s’intravede un’opposizione credibile che possa rassicurare i cittadini delusi dal Centrodestra e far convergere su quello schieramento i voti che fin qui hanno garantito a Berlusconi il potere. Anche perché il travaso di voti non è certo né potrebbe essere sufficiente,come ha dimostrato il Governo Prodi. Gli italiani, dai tempi della Democrazia Cristiana, sono moderati, forse guardano a sinistra, come diceva De Gasperi, ma preferiscono votare a destra. Se Berlusconi continua ad approfittarne l’“antipolitica” avrà inevitabilmente il sopravvento.

24 luglio 2011

 

Cresce la figura di Maroni

Forte nel Governo e nel partito, autorevole nel Paese.

di Senator

 

     Cresce la figura di Maroni nel dibattito politico, non solo in relazione agli indubbi successi nella lotta alla criminalità organizzata, che sono ovviamente prima di tutto di Magistratura e Forze dell'Ordine, ma che indubbiamente sono propiziati da una direzione politica autorevole e coerente.

     Sempre più un autorevole punto di riferimento nella Lega il Ministro dell'interno si afferma come un leader nazionale, al di là del suo partito. E questo conferma quanto abbiamo più volte scritto a proposito della visibilità che, agli occhi dei cittadini, assume un politico che tiene con fermezza un importante incarico di governo.

     Ricordo che ne parlai anche a proposito di Gianfranco Fini che a mio giudizio aveva sbagliato a defilarsi assumendo una carica, quella di Presidente della Camera dei deputati che sarà pure la terza dello Stato ma politicamente è improduttiva, innanzitutto perché chi la ricopre deve mantenere quel tanto di indipendenza e di terzietà che è il contrario della leadership politica.

     Ricordo di aver scritto che se Fini ambiva essere il successore di Berlusconi avrebbe dovuto entrare nel governo con un ministero forte, di peso, ed indicavo l'interno, l'economia, la difesa, settori governativi che consentono ad un uomo politico di conquistarsi credibilità ed autorevolezza e di  intessere relazioni istituzionali importanti anche agli occhi del cittadino elettore.

     L'interno, ad esempio, sarebbe stato un ministero adatto ad un uomo di destra, che crede nell'ordine pubblico e nella sicurezza dei cittadini, una esigenza che poteva essere soddisfatta anche attraverso il Ministero della difesa che concorre, con l'Arma dei Carabinieri, alla sicurezza pubblica, oltre ad avere una grande visibilità internazionale, più del Ministro degli esteri, in quanto la politica della sicurezza internazionale si fa con i contingenti militari.

     Quello dell'economia, infine,  è il ministero con il quale si governa la finanza e si fa politica per i cittadini e le imprese.

     Non lo ha capito Fini, che ha preferito il buen retiro di Palazzo Montecitorio e così ha perduto la successione e il partito. Lo ha capito, invece, Maroni  che è cresciuto gradualmente (segno d'intelligenza) per affermarsi nel suo partito e nel Paese.

     L'ho scritto più volte. E' il governo, con la sua politica, che tengono presente i cittadini al momento del voto per le cose che fa  bene e per quelle che disturbano i cittadini, per l'ordine, per il fisco, per l'istruzione, per la sanità, per l'industria e i commerci. Conta poco che il partito sia efficiente e organizzato. I cittadini guardano ai ministri di riferimento, li giudicano e così decidono chi votare.

22 luglio 2011

 

Guarda oltre, Caro Direttore,

 

     non posso lasciarti un momento che succede di tutto, come nelle giornate del 16 e 17 il cui esito ho appreso solo ieri sera, di ritorno da un viaggio per motivi d’ufficio in Africa, allungato, documentalmente a mie spese, per visitare alcuni parchi naturali e le meravigliose Victoria Falls lungo il corso dello Zambesi, tra Zambia e Zimbabwe. Ti avevo invitato, ma tu avevi le elezioni e, anche se non ci fossero state, avresti certamente disertato, per timore delle zanzare.

     Bene, torno e leggo i tuoi pezzi sulle elezioni, con qualche accenno ai retroscena di quella che avevo ritenuto una vittoria possibile, considerato quanto hai fatto per la Corte da Capo di Gabinetto di Fini e la notoria, da nessuno messa in dubbio, capacità di lottare per le tue idee, senza timore alcuno.

     Hai rivendicato quell’impegno da Palazzo Chigi, per la funzione consultiva da te patrocinata, per i posti nel Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, per aver bloccato iniziative contro la Corte. Hai rivendicato questo ed altro, ma non sai che nemo propheta in patria? Che nessuno ti dirà mai grazie neppure dei tanti piaceri che hai elargito. Solo l’uno per mille ti sarà grato.

     Mi dici anche che il mio pezzo sui candidati e sulle ipotesi di voto ha provocato critiche (forse non avrei dovuto insistere, ma tu correttamente ne hai consentito la pubblicazione) di vario genere, soprattutto sui numeri (i voti) che avevo immaginato di assegnare ad uno ad uno, non per capacità divinatorie ma perché avevo avuto occasione di parlare con alcuni colleghi della tua Corte ed avevo studiato l’andamento delle elezioni precedenti e di quelle per le cariche associative.

     Conta poco il maldipancia dei candidati di fronte ad un articolo di giornale.

     Vedo, invece, che non hai potuto fare a meno di ricostruire le vicende della campagna elettorale in relazione alle quali c’erano stati segnali evidenti che tu avevi sottovalutato ma che a me avevano fatto drizzare immediatamente le antenne, come l’articolo de La Repubblica che venendo a parlare dei candidati a Giudice costituzionale ne aveva indicati solo alcuni, qualificando politicamente solo te. “Giudice di destra” era scritto, solo per danneggiarti, nonostante tu sia, in realtà, un liberale, da sempre, alla Einaudi, da quando sedevamo sui banchi del “Tasso”, il nostro ginnasio – liceo, una scuola di cultura e di educazione alla vita che abbiamo sempre nel cuore. Tempo addietro Manlio Strano, Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, alle mie congratulazioni, era nella tua Sezione, la E, attigua alla mia, mi aveva risposto “ne abbiamo fatta di strada, da via Sicilia a Piazza Colonna!”

     Repubblica non aveva detto di Schlitzer (non riesco mai a ricordare dove sta l’h, se sbaglio correggimi) che è un giudice “di sinistra”, che ama, anzi, qualificarsi “referente” di quella parte politica o di altri, ad esempio di Minerva, storico esponente di “Alternativa” o di Ristuccia che ha sempre strizzato l’occhio a sinistra.

     A quel segnale, che tu hai sottovalutato, limitandoti ad un bellissimo commento “il colore di una toga”, che è molto piaciuto a Piazza Cavour, se ne sono aggiunti altri, come quella ricorrente affermazione che il Quirinale sarebbe stato preoccupato per il numero dei candidati e per l’assenza di una candidatura “istituzionale”. Panzana evidente, non solo per la correttezza di Napolitano, come hai giustamente sottolineato, ma per la stessa intrinseca sciocchezza contenuta nell’affermazione. Degli otto candidati ben quattro erano presidenti di sezione. Uno addirittura Presidente aggiunto della Corte dei conti (se non è istituzionale lui! Così comunque l’aveva qualificato Nottola nella nota che mi hai fatto leggere). Degli altri quattro, a parte un ex Procuratore Generale (più istituzionale di lui!) c’era un Procuratore regionale e due consiglieri noti anche in dottrina, uno dei quali è risultato eletto.

     D’altra parte nove anni fa i candidati erano sei e mi sembra di ricordare ci fossero ancora Ristuccia e Schlitzer.

     Dove, dunque, la preoccupazione del Colle? Nessuna. A meno che non fosse politica, considerato che tra i possibili vincitori si parlava di te e di Miele, che certo non è di sinistra. Ma anche questa ipotesi la scarterei. E’ vero che alla Consulta verranno presto questioni rilevanti rispetto alle quali le forze politiche si sono schierate e si schiereranno su contrapposte barricate ideologiche, basti pensare alla procreazione assistita ed alle unioni omosessuali, ma continuo a rigettare decisamente l’ipotesi che il Presidente si preoccupi di come la pensi tu o Miele su questi temi.

     Invece, è possibile che qualcuno sulle pendici del Colle, qualche funzionario sia pure gallonato, abbia pensato di esercitare pressioni personali su qualche tuo collega, evocando queste presunte “preoccupazioni” attribuite in alto.

     Ho fatto un’ipotesi a chi mi è vicino in quell’ambiente, buttata lì, quasi per gioco, un nome, “e suonò alto un nitrito”!

     Un nome noto che non ripeto, anche perché conosci la persona. Lo sgambettatore, come hai scritto. Lascialo perdere, non ne vale la pena. È un pover’uomo. Anche perché stamattina con un altro collega, comune amico, che ha fatto parte con me della delegazione in Africa, mi ha ricordato che un paio di anni fa avevi ripetuto (io l’avevo sentito già più volte) che ti saresti candidato solo per disponibilità istituzionale, considerati gli schiaffoni che la Corte dei conti ha ricevuto negli ultimi anni dalla Consulta. Così che presumevi di poter offrire un contributo al dibattito sui temi della finanza, dei controlli e delle responsabilità che in Consulta non ha avuto mai tanta fortuna. Ci fu solo la 1 del 1966, del nostro amico Giovanni Cassandro, il grande storico del diritto, sull’art. 81 della Costituzione (a proposito, un liberale doc!), poi giù dalla 29 del 1995 alla 355 del 2010. Uno sfacelo.

     Certo che avresti fatto bene, ma non ti hanno voluto, punto.

Guarda oltre. Nella crisi dell’attuale maggioranza e nell’impegno al quale sono stati chiamati i cattolici a dare testimonianza nella vita civile e nelle istituzioni, certamente c’è spazio per te e per noi, con naturali, grandi soddisfazioni. C’è in vista un rinnovamento della politica lì possiamo operare.

    Chi te l'ha fatto fare a candidarti. La Consulta non è per te. Veramente volevi cucirti la bocca per nove anni? Mi ha fatto sorridere questo tuo appello alla libertà di pensiero ed alla sua manifestazione con la penna, anzi con le penne della tua invidiabile collezione.

     Ricordo che avevamo ancora i calzoni corti quando leggemmo la frase di Leo Longanesi che oggi campeggia, in alto, su questo giornale: “non manca la libertà, mancano gli uomini liberi”! Dal 1956 non è cambiato niente. Semmai le cose sono peggiorate.

     Un abbraccio forte

     Iudex

21 luglio 2011

 

Aggiunto quello della madre o libera scelta?

La questione del cognome,

una subdola negazione della famiglia

di Iudex

 

     Maria Luisa Rodotà affronta sul Corriere della Sera di oggi il tema del cognome ed apre il suo pezzo a pagina 21 con l'affermazione che "mentre nei Paesi occidentali normali, quando nasce un figlio, i genitori possono decidere se dare il cognome della madre o del padre, e gli basta andare all'anagrafe, in Italia - forse ed è pure un progresso  - si potrà aggiungere il cognome materno a quello paterno chiedendo l'autorizzazione al prefetto".

     La tesi della Rodotà sta nella prima parte, che, infatti, riprende in chiusura dell'articolo proponendo una norma conforme a quella ipotesi, "al momento della nascita di un figlio, i genitori devono recarsi all'anagrafe e decidere di comune accordo con quale dei loro due cognomi registralo".

     La cosa può apparire innocua ma invece è gravissima. Il fine è quello di spezzare il filo che lega le famiglie nella continuità delle generazioni attraverso il cognome paterno, quello che consente di risalire nel tempo agli antenati e dare un senso alla continuità della famiglia.

     Ai dissolutori della famiglia non basta, infatti, l'aggiunta del cognome della madre perché non assicura l'effetto voluto, la disaggregazione della discendenza.

     Non è tutto qui. L'eliminazione della possibilità di seguire il filo della discendenza serve anche ad un'altra finalità, aprire la strada alle unioni omosessuali che è, poi, l'obiettivo che sta dietro a molte delle "riforme" che riguardano la famiglia, la finalità di quella lobby potente che, in altri ordinamenti, ha portato alla individuazione di distinzioni "di genere" alle quali vengono attribuiti vantaggi vari. Così qualificarsi omosessuale può aprire la strada a numerosi vantaggi.

     Prima o poi quelli dei generi tradizionali, maschile e femminile, si accorgeranno di subire una discriminazione e certo perderanno la pazienza.

20 luglio 2011

 

In ricordo di Remo Gaspari

di Salvatore Sfrecola

 

     Ho incontrato Remo Gaspari per l'ultima volta poco più di un mese fa, a Borrello, in provincia di Chieti, per il matrimonio di amici. In una chiesa affollata fino all'inverosimile il parlamentare e ministro della vecchia Democrazia Cristiana, lucidissimo, riceveva l'affettuoso omaggio dei presenti. Per tutti ha avuto una parola cordiale, una battuta, un ricordo. Non mi ha stupito che si ricordasse di me, che abito a cinquanta metri dall'immobile in cui risedeva in Viale delle Milizie a Roma dato che frequentemente lo incontravo nelle sue passeggiate nel quartiere Prati-Delle Vittorie.

     Mi ha stupito, invece, che nel veloce saluto nella Chiesa di Borrello si sia ricordato di un antico episodio che ci aveva riguardato. Sul finire degli anni '80, da Ministro della funzione pubblica, l'On. Gaspari aveva ottenuto dal Demanio  dello Stato l'assegnazione per il suo Ministero del palazzetto di via del Sudario, necessario per allocarvi alcuni uffici per i quali Palazzo Vidoni non assicurava sufficienti spazi.

     Sennonché il palazzetto del Sudario era in uso alla Soprintendenza di Roma e il Direttore generale per i beni culturali nicchiava e non cedeva l'immobile, nonostante, come detto, fosse stato assegnato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L'Intendente di finanza di Roma non prendeva iniziative per rendere disponibile i locali e così il Ministro si rivolse alla Procura Generale della Corte dei conti ed il Procuratore Generale, Emidio di Giambattista, affidò a me la relativa istruttoria. Da notare che Ministro e Procuratore Generale, corregionali, mi chiamavano a giorni alterni per sapere a che punto fosse la vicenda della consegna dell'immobile alla Funzione pubblica.

     Ricordo che dissi più volte al Direttore Generale del Beni culturali che doveva lasciare libero l'immobile. Ma questi faceva orecchie di mercante, come l'Intendente di finanza finché comprese che si poteva configurare una responsabilità erariale e così ordinò alla Guardia di Finanza di eseguire lo sfratto forzoso.

     Avevo conosciuto il Ministro Gaspari alcuni anni prima, sempre alla Funzione pubblica, assistito da uno staff di prim'ordine, il Consigliere di Stato Raffaele Iannotta ed il Capo dell'Ufficio legislativo, Alfonso Quaranta, oggi Presidente della Corte costituzionale, allora Primo referendario del Consiglio di Stato. Fu un  momento forte della Funzione pubblica. Il Ministro dava impulso ai lavori e li coordinava con grande abilità.

     Del resto Gaspari è stato un uomo politico importante nel suo partito, la DC (militava tra i dorotei), e nella politica  regionale alla quale l'uomo venuto da Gissi ha contribuito ad assicurare a quelle zone importanti infrastrutture viarie e della vita civile e sociale, in particolare nel settore sanitario.

     E' stato un politico forte e, anziano, appoggiandosi su un bastone, nella Chiesa di Borrello dimostrava ancora di essere un simpatico interlocutore di giovani e meno giovani con quel suo inconfondibile accento teatino che non ha mai abbandonato nella lunga permanenza romana.

     Era anche un saggio. Vecchia scuola.

20 luglio 2011

 

L'ISIAO in liquidazione? 

di Salvatore Sfrecola

 

     L'Istituto per l'Africa e l'Oriente, una delle nostre più prestigiose istituzioni culturali, erede dell'Istituto per l'Africa (1906) e dell'Istituito per il Medio e l'Estremo Oriente   (ISMEO), fondato da Giovanni Gentile nel 1933 e per anni diretto da Giuseppe Tucci, rischia di essere sottoposto a liquidazione coatta amministrativa.

     L'iniziativa starebbe per essere assunta dal Ministero per gli affari esteri ai sensi dell’art. 15 del D.L. 98 del 6 luglio 2011, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale prevede la possibilità di liquidazione degli enti pubblici dissestati, mediante decreto del Ministro vigilante (nel caso dell'ISIAO il Ministro degli esteri), di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, “quando la situazione economica, finanziaria e patrimoniale di un ente sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello di criticità tale da non potere assicurare la sostenibilità e l’assolvimento delle funzioni indispensabili, ovvero l’ente stesso non possa fare fronte ai debiti liquidi ed esigibili nei confronti dei terzi”. Lo stesso articolo stabilisce che il commissario  nominato provveda “all’estinzione dei debiti esclusivamente nei limiti delle risorse disponibili alla data della liquidazione ovvero di quelle che si ricavano dalla liquidazione del patrimonio dell’ente”.

     Una decisione che sorprende tutti considerato che l’IsIAO ha adottato tutti i provvedimenti richiesti dal MAE. Inoltre gli esteri hanno già designato il rappresentante del Ministero nel futuro Consiglio di Amministrazione, la cui composizione è stata ridefinita secondo le modifiche statutarie indicate dallo stesso MAE. Ugualmente il Comune di Roma, anch’esso presente nel nuovo Consiglio in seguito a modifica statutaria, ha già designato il suo rappresentante. Si aggiunga che l’Assemblea Generale dell’Istituto, in vista dell’elezione dei rappresentanti dei Soci nello stesso Consiglio è già stata convocata per il 22 luglio p.v..

     Infine, l’attuale situazione patrimoniale e finanziaria dell’IsIAO non sembra assolutamente riconducibile alle condizioni espressamente stabilite dall’art. 15 della Legge n. 111 del 2011.

     Infatti, il patrimonio dell’Istituto, costituito da collezioni di preziosi reperti archeologici,  imponenti fondi librari (circa 200.000 volumi) e di manoscritti antichi, un archivio storico di documenti e fotografie relativi al periodo della presenza italiana in Africa, nonché, in deposito, raccolte di quadri di soggetto africano, come  pure, sempre in deposito, tutto il complesso di oggetti relativi al Museo africano, a suo tempo dismesso, che l’IsIAO si propone di riallestire, ha assunto progressivamente nel tempo un costante incremento di valore storico, culturale ed economico.

     L’Istituto, inoltre, nonostante tutti i problemi derivanti dalla progressiva riduzione del contributo ordinario del MAE, pari a circa un terzo di quello ammontante a oltre 3 milioni di Euro assicurato nel 2001, e quindi progressivamente ridotto negli ultimi anni fino all’attuale consistenza di 800.00 Euro, ha  fino ad oggi pienamente assolto le sue funzioni istituzionali, grazie alla rigorosa politica del suo Consiglio di Amministrazione e al fattivo contributo gratuito e  volontario dei Soci.

     Ne fanno fede, nei soli ultimi due mesi di maggio e giugno 2011, l’organizzazione della  Giornata dell’Africa, con l’intervento del Capo dello Stato, due Mostre artistiche e documentarie in collaborazione con l’Ambasciata dell’India, un Congresso internazionale in cooperazione con l’Università La Sapienza, e le Università di Bonn e di Manchester, due conferenze tenute da Docenti della Sapienza, la commemorazione, d’intesa con l’Ambasciata del Bangladesh, di un Maestro mistico bengalese ispiratore di Tagore, una Mostra fotografica sulla Tunisia romana, tuttora aperta nei locali dell’Istituto. Da sottolineare che tutto ciò non ha comportato alcun onere per l’IsIAO, che è  riuscito a reperire la copertura finanziaria per tali attività con contributi ad hoc all’esterno.

     Ne consegue che, attualmente, le difficoltà finanziarie dell’Istituto, che si ha ragione di ritenere, malgrado tutto, solo provvisorie, derivano dal ritardo nella corresponsione del contributo ordinario da parte del Ministero competente per il suo l’accreditamento.  

     Quanto al presunto “dissesto”, che avrebbe indotto il MAE all’emanazione del decreto di liquidazione coatta, esso certo non risulta dalla Relazione della Sezione Controllo Enti della Corte dei Conti, la quale, in data 20 maggio 2011, ha preso in esame le risultanze dell’operato amministrativo dell’Ente ritenute positive.

      Inoltre, il patrimonio dell’Ente risulta inalienabile, per cui il commissario liquidatore non potrebbe ricavare da esso alcuna risorsa finanziaria. Per di più, non si vede come l’eventuale liquidazione dell’IsIAO potrebbe tradursi in risparmio per lo Stato, tenuto conto che il citato art. 15 prevede l’allocamento di tutto il Personale a tempo indeterminato, a parità di  trattamento economico e di inquadramento previdenziale, nonché dei  compiti istituzionali, presso il Ministero vigilante o in altra amministrazione pubblica, o agenzia istituita allo scopo. Da notare, infine, che la sede dell’Istituto è ubicata in locali del Comune di Roma, che ha già assicurato sia la loro disponibilità al costo simbolico di un canone ricognitivo di 59 Euro l’anno, sia la cancellazione del debito pregresso per il canone di circa 150.000 Euro l’anno, non corrisposto negli ultimi tre anni: il che significa un abbattimento del debito di circa 450.000 Euro, già acquisito dall’IsIAO, che potrebbe venire rimesso in discussione con la liquidazione dell’ente.

     Il decreto del MAE, dunque, in attesa della controfirma del Ministro dell’Economia e delle Finanze, appare non solo in contrasto con tutta l’azione finora concertata dallo stesso MAE con l’IsIAO, ma anche privo di consistenti motivazioni. Esso, inoltre, non tiene in alcun conto la storica struttura associativa dell’Ente, per cui è immaginabile che via giudiziaria a tale provvedimento, che risulterebbe, in definitiva, solo nella provvisoria cessazione di  un Istituto ultracentenario, benemerito di iniziative scientifiche e culturali italiane riguardo a tutti i Paesi dell’Africa e dell’Asia, che ben difficilmente potrebbero venire gestite da Personale privo delle necessarie competenze scientifiche e professionali, ampiamente riconosciute dalle unanimi testimonianze di 11.000 individui e istituzioni nazionali ed estere, raccolte nel 2008 in uno speciale Documento presentato al Presidente della Repubblica e trasmesso al Ministro dell’Economia e delle Finanze.

     Questa politica di compressione delle attività culturali all'estero è pura follia, incapacità di comprendere l'apporto che queste attività forniscono ai rapporti tra l'Italia e paesi difficili, in contesti politici che rendono critiche le relazioni internazionali in aree delicate del mondo laddove le operazioni militari di pace troverebbero una sponda negli studi e nelle ricerche condotti dall'IsIAO. Un biglietto da visita importante che favorisce le relazioni tra le nostre comunità, considerato che la cultura avvicina e nelle popolazioni orientali le indagini archeologiche e gli studi linguistici e filosofici naturalmente inorgogliscono i locali i quali vedono tornare alla luce o conservate e adeguatamente esposte le meraviglie del passato, la gloria dell'Oriente.

     La Francia, presente nelle zone di competenza dell'IsAO spende cifre ben maggiori nei settori della cultura all'estero nella consapevolezza che quel denaro è finalizzato a creare relazioni culturali ed umane che favoriscono un clima di comprensione e collaborazione che apre la strada anche ad intese commerciali.

     L'Italia, invece, chiude l'IsIAO del quale i nostri politici non riescono a percepire il ruolo e l'importanza!

20 luglio 2011

 

Considerazioni a ruota libera

di un mancato giudice costituzionale

Le mie idee, la mia penna, i miei lettori

di Salvatore Sfrecola

 

     In prossimità del 16 luglio, giorno nel quale noi magistrati della Corte dei conti (non tutti, solo i Presidenti di sezione ed i consiglieri, non i referendari ed i primi referendari) avremmo dovuto votare per eleggere il “nostro” Giudice costituzionale, quando, da candidato, tutti mi davano in pole position, destinato ad entrare sicuramente nel ballottaggio del 17 tra i più votati, mi veniva di pensare, con qualche tristezza, che, se fossi stato realmente eletto, avrei perduto molte delle libertà di espressione che fanno parte della mia personalità da sempre: dire quel che penso, sempre e ovunque, e scrivere di tutto, non solo di diritto.

     Questo giornale, ad esempio, che si è conquistato un grosso pubblico internazionale (al suo indirizzo si collegano dalla Federazione Russa agli Stati uniti d’America, dall’Indonesia alla Francia, dalle Filippine alla Spagna, per non citare che i lettori più affezionati) non avrei più potuto dirigerlo, perché ad un Giudice costituzionale non è consentito esternare opinioni su materie e casi che potrebbero venire all’attenzione del Collegio. O, comunque, trattare argomenti “politici”, come il commento alla “manovra finanziaria” di questi giorni. Per come la vedo io, inoltre, certe frequentazioni sono da evitare, come quella di partecipare ad una festa in casa di un amico che ospita anche un politico interessato ad un giudizio iscritto a ruolo.

     La sola idea di non dire e scrivere mi rattristava, appena compensata dal prestigio dell’Istituzione nella quale avrei potuto essere inserito e dall’orgoglio di poter servire la Repubblica nel ruolo, essenziale al funzionamento di uno stato di diritto, di giudice delle leggi, che mi avrebbe anche consentito di contribuire a far emergere, nel contesto della Consulta, meglio di quanto non sia stato finora, il ruolo della Corte dei conti, controllore della legalità e dell’efficienza della Pubblica amministrazione e giudice della responsabilità per danno al pubblico erario. Che, poi, è stato il motivo autentico della mia candidatura. Non un’ambizione personale, ma disponibilità di servizio, come sanno bene coloro che mi conoscono meglio.

     Capisco che al giorno d’oggi il mio è un atteggiamento psicologico raro, ma è così. Non siamo tutti uguali. Come nella reazione al clamoroso flop all’esito dello scrutinio del primo giorno, quando ho ottenuto 22 voti, 23 con il mio, a fronte di oltre 70 persone che, guardandomi negli occhi, mi avevano promesso il voto e della quarantina che avevano garantito che avrebbero scritto il mio nome sulla scheda del ballottaggio, ove non vi fosse entrato il candidato che avevano promesso di votare per amicizia, comunità di lavoro o per averne sottoscritto la candidatura.

     Al conteggio finale sono mancati una cinquantina, più di quelli che hanno consentito ad altro candidato di entrare nel ballottaggio.

     La partita è chiusa, i colleghi hanno scelto, ed al ballottaggio abbiamo fatto convergere i voti su Aldo Carosi che senza dubbio farà la sua parte portando alla Consulta, come mi ha detto uno dei suoi maggiori supporter, “la cultura della contabilità pubblica” verso la quale, effettivamente, c’è stata negli ultimi tempi molta disattenzione.

     È chiaro che mi avrebbe fatto piacere essere eletto. Ma poi, mi chiedevo, sempre alla vigilia, non avrei più potuto “esternare” liberamente su tanti argomenti potenzialmente destinati a divenire giudizi di costituzionalità, anche su quelli coinvolgenti questioni di carattere etico-morale, come la procreazione assistita o i matrimoni omosessuali, e ancora le vicende della stretta sui bilanci pubblici, che non condivido come scelta politica, che considero illiberale, fonte di ingiustizie nel carico fiscale, mentre la “cricca” e la “casta” continuano a nuotare nei privilegi che offendono i sentimenti di giustizia della gente comune. E che ne sarebbe stato del mio libro sulla corruzione, al quale lavoro da oltre due anni? Un Giudice costituzionale non avrebbe potuto firmarlo.

     Insomma, se fossi stato eletto, sarei stato condannato al silenzio, per nove anni, l’inchiostro delle mie penne, quelle che uso per scrivere i miei appunti sulle moleskine che porto sempre con me per fissare un concetto, un’impressione, si sarebbe inevitabilmente seccato.

     Che tristezza! E i miei lettori? Quelli che il numeratore di questo giornale registra giorno dopo giorno, nel numero e nella provenienza, che avrebbero detto? È sufficiente che non scriva un giorno perché calino gli accessi. Evidentemente si giunge a consultare UnSognoItaliano anche attraverso i motori di ricerca.

     E poi avrei dovuto lasciar perdere l’impegno antico di dialogare con il colleghi nella lista dell’Associazione Magistrati, per dire la mia su iniziative organizzative ed attività dei nostri Uffici e delle nostre Sezioni, per sottolineare ciò che condivido e richiamare l’attenzione su quanto non mi sembra appropriato?

     Tacere per nove anni? Impossibile. Forse la Provvidenza che guida i nostri passi mi ha fatto opportunamente inciampare. Questo non vuol dire che non occorra individuare chi ha fatto lo sgambetto.

     Alla prossima puntata!

18 luglio 2011

 

Aldo Carosi (Corte dei conti) eletto giudice costituzionale

di Salvatore Sfrecola

 

     Aldo Carosi, viterbese, classe 1951, Consigliere della Corte dei conti, è il nuovo Giudice costituzionale di spettanza della Magistratura contabile, eletto questo pomeriggio, poco dopo le 15, dal Collegio dei giudici di viale Mazzini presieduto da Luigi Giampaolino.

     Carosi ha sbaragliato Eugenio Francesco Schlitzer, giunto con lui al ballottaggio, il "referente della sinistra", come ama qualificarsi (ma alla verifica è difficile trovare nel PD e dintorni conferme certe), "portato" da ambienti istituzionali della Corte, come dimostra la contestata attribuzione a lui, ultimo dei promossi, della presidenza della Sezione giurisdizionale della Regione Puglia, "soffiata" a Luciano Calamaro, un magistrato certamente di maggiore valore, spedito a presiedere la Sezione di Potenza.

     Per Carosi hanno votato, oltre gli amici dei Gruppi di riferimento ("Proposta costituzionale" e "Progetto") quanti, non da oggi, respingono decisamente filosofia e prassi di Eugenio Francesco Schlitzer. Fui io, da Presidente dell'Associazione Magistrati, a tenerlo fuori della Giunta esecutiva, non volendo un "alleato" che giudicavo e giudico politicamente (sul piano associativo, ovviamente) del tutto inaffidabile.

     E' da prevedere, adesso, che la vicenda dell'elezione del Giudice costituzionale non rimarrà senza conseguenze sul piano associativo, non esclusa una crisi di Giunta. La campagna elettorale, infatti, non è stata sempre corretta. Si sono sentite affermazioni gravi, come quella che il Quirinale avrebbe avuto preoccupazioni per l'eventuale elezione di Miele o Sfrecola. Naturalmente c'è sempre chi "beve" di queste balle colossali. La Presidenza della Repubblica non c'entra  assolutamente (Sfrecola, poi, ha ripetutamente lodato su questo giornale l'equilibrio e l'imparzialità di Napolitano). Ma forse qualcuno ha preso sul serio queste dicerie artatamente propalate nei corridoi di viale Mazzini. Ne abbiamo subito i danni soprattutto Miele ed io.

    Rinviamo dettagli alla prossima puntata. Intanto i magistrati della Corte dei conti inviano vivissime congratulazioni ad Aldo Carosi e gli augurano buon lavoro.

17 luglio 2011

 

Domani (domenica l'eventuale ballottaggio)

i magistrati della Corte dei conti

eleggeranno il "loro" Giudice costituzionale

Perché mi sono candidato

di Salvatore Sfrecola

 

Il 16 ed il 17 luglio i magistrati della Corte dei conti, Il Presidente della Corte, i Presidenti di Sezione, i Consigliere ed i Vice Procuratori Generali (così è composto il collegio elettorale) saranno chiamati ad eleggere il Giudice costituzionale che spetta alla Corte dei conti indicare, in sostituzione di Paolo Maddalena che cessa dall’incarico il 30 luglio.

A quel posto mi sono candidato anche io (in tutto siamo otto, ma non è prevista una candidatura formalizzata) ritenendo, certo con una buona dose di presunzione, di avere le carte in regola per concorrere. Per la mia vasta esperienza di magistrato in tutti i settori della Corte dei conti (che non tutti i candidati posseggono), dal controllo preventivo di legittimità sugli atti del Ministero del tesoro, a giudice alla Prima Sezione per le materia di contabilità pubblica (all’epoca competente nel primo grado), a Procuratore regionale dell’Umbria (otto anni), poi Vice Procuratore Generale presso la Procura del Lazio. Oggi sono il Presidente della Sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte, a Torino, lì ove è nata la Corte dei conti. Ho anche un’esperienza importante nel controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria ex art. 12 della legge n. 259 del 1958, presso l’I.R.I., l’INSEAN (l'Istituto di Studi ed Esperienze di Architettura Navale, un gioiello della ricerca italiana nel settore, inopinatamente soppresso nella precedente "manovra anticrisi", ed attualmente presso ARCUS s.p.a., la società, a totale capitale pubblico, con compiti di intervento finanziario nel settore della cultura.

Negli anni ho anche svolto funzioni di consigliere giuridico di vari ministri (politiche comunitarie, funzione pubblica, ricerca scientifica, marina mercantile, lavori pubblici, trasporti, sanità) e sono stato Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio dal 2001 al 2006. Esperienze di grande rilievo che hanno favorito e sviluppato relazioni con settori importanti delle amministrazioni pubbliche ed una naturale capacità di intessere rapporti con ambienti i più diversi, compresa l’università, dove insegno da anni Contabilità di Stato e Diritto amministrativo europeo.

Posso, con orgoglio, dire di aver sempre difeso strenuamente le mie idee e le istituzioni dello Stato, in particolare la Corte dei conti, che ho imparato a conoscere ben prima che ne entrassi a far parte come funzionario prima e magistrato poi. In questa veste ho avuto, come già detto, un ruolo importante trattando questioni di speciale rilevanza, nel controllo come nell’attività inquirente (ho sviluppato in una serie di citazioni la fattispecie del danno all'immagine ed è mia “creazione” quella del danno da disservizio). Ho accompagnato costantemente il lavoro con riflessioni di carattere scientifico su "Amministrazione e Contabilità dello Stato e degli Enti Pubblici", oggi anche on-line www.contabilita-pubblica.it, da me fondata nel 1979) e su altre riviste.

Mi candido perché, se fossi eletto, vorrei contribuire a chiudere un periodo estremamente negativo nel rapporto Corte costituzionale - Corte dei conti (come dimostrano, da ultimo, le sentenze sul danno all’immagine e sull’ammissibilità delle questioni di costituzionalità in sede di controllo), grazie all'impegno che mi è consueto e che tutti mi riconoscono nella difesa dei valori che nella Corte la Costituzione ha individuato, il buon andamento della finanza pubblica, la legalità, l'efficienza, nell'interesse della legge e del cittadino contribuente.

Presumo di averne le capacità professionali e personali. Nel Collegio della Corte costituzionale è necessario saper dialogare con tutti per instaurare rapporti che consentano un dialogo aperto e sincero sui grandi temi che vongono all'esame, deferiti dai giudici e dalle istituzioni che possono sollevare conflitti.

         In questo senso ho voluto richiamare i miei colleghi alla responsabilità della scelta. Non dobbiamo votare per cariche nell’Associazione Magistrati o per i componenti del Consiglio di Presidenza, elezioni nelle quali tradizionalmente fanno premio sulle scelte, l’essere collega di concorso, l’appartenenza ad una stessa area istituzionale, al medesimo Gruppo associativo o l’amicizia personale, valori certamente importanti (in particolare l’amicizia) che danno un senso profondo ai rapporti interpersonali ma che non rilevano quando va scelto il magistrato che meglio, a nostro giudizio, può svolgere il ruolo di Giudice costituzionale con il compito anche di rappresentare la cultura ed i valori per i quali alla Corte dei conti è affidato in Costituzione il duplice ruolo di controllore della legalità e dell’efficienza delle gestioni pubbliche, a garanzia della finanza e dei cittadini contribuenti e il risarcimento dei danni causati all’erario da condotte illecite di amministratori e dipendenti.

Per questo compito difficile non è sufficiente esser buoni giuristi. Lo siamo tutti per aver vinto un difficile concorso di accesso nella magistratura della Corte, con aggiornamento continuo su libri e riviste. Il requisito del candidato, il “carattere distintivo, la ragione decisiva di una scelta”, come è stato scritto, deve ricadere su chi ha dato dimostrazione di indipendenza personale, anche dagli ambienti e/o dal gruppo associativo di provenienza, e di coraggio nel difendere le proprie idee. Doti che, ovviamente, il candidato deve aver dimostrato di possedere in tempi non sospetti. Così come la convinta scelta della cointestazione, in capo alla Corte dei conti, delle attribuzioni di controllo e giurisdizionali.

Insomma, non deve essere un manovriero a fini di potere personale e/o di Gruppo, di quelli che si sono spesi all’occorrenza soprattutto nei conferimenti e nelle autorizzazioni di incarichi, né un “orfano” della Bicamerale, cioè chi avrebbe voluto si realizzasse quello che la Commissione aveva previsto, la sterilizzazione del controllo e l’abbandono della giurisdizione contabile. Né può essere un fan dell’"Autorità dei conti pubblici", ovvero un millantatore di relazioni politiche a fini di promesse di futuri incarichi ministeriali o in enti ed Autorità. Caratteristiche negative che, come quelle positive, tutti abbiamo potuto accertare in tempi non sospetti.

Indipendenza e coraggio nel difendere le proprie idee.

Per questo non ho voluto dare nessuna coloritura di parte alla mia candidatura, omettendo anche di chiedere ai colleghi del mio gruppo una designazione. Indipendenza e coraggio che connotano la mia storia personale di magistrato, da tutti verificabile, nell’esercizio del controllo e della giurisdizione.

Anche nell’esercizio di consulenze ministeriali, prima ricordate, ho sempre tenuto a connotare il mio impegno per l’apporto della mia cultura di magistrato della Corte dei conti. Tutti possono verificarlo.

Con questa esperienza e con l’indipendenza che tutti mi riconoscono, dentro e fuori la Corte dei conti, mi sono presentato ai colleghi, per chiedere il loro voto, nella certezza che non saranno mai delusi del mio comportamento di fedele servitore dello Stato e di giudice imparziale ed attento ai grandi principi scritti in Costituzione, quel grande Manifesto di valori, civili e ideali, che fanno grande il nostro Stato.

La competizione, ovviamente, è difficile. Ognuno "spara" le proprie cartucce con maggiore o minore correttezza (c'è chi ha suggerito all'orecchio di un giornalista che io sarei "un giudice di destra". Ho già risposto su questo giornale). Io attendo con serenità il verdetto dei Colleghi. Sono loro, innanzitutto, gli interessati a questa scelta. Per l'Istituzione Corte e per le Istituzioni dello Stato. Lamentarsi poi del fatto che non saremmo compresi dalla Corte costituzionale sarebbe inutile. Ognuno è artefice del proprio destino, le persone e le istituzioni.

15 luglio 2011

 

Politici e funzionari onesti

Non solo Quintino Sella, ovviamente,

ma l'onestà non fa notizia in questo Paese

di Salvatore Sfrecola

 

     La mia nota su Quintino Sella, un politico della prima Italia la cui serietà, come amministratore pubblico, studioso e cittadino, ricorre spesso nelle cronache, quale testimonianza di capacità e onestà, ha provocato, come in altre occasioni, commenti vari. Molti mi hanno telefonato sottolineando come quegli esempi debbano essere ricordati in tempi di gravissimo degrado della moralità pubblica (un giorno ho parlato del conflitto di interessi: Sella (una famiglia con imprese che fornivano beni e servizi allo Stato), nominato Ministro delle finanze, scrisse al nonno che dalla data del giuramento "le imprese di famiglia dovranno ritirarsi dagli appalti pubblici").

     Telefonate, battute tra gli amici (i quali, per  essere miei amici la pensano come me, ovviamente), ed  una testimonianza che pubblico volentieri, integralmente.

     "Poche parole, su Quintino Sella: il mio bisnonno fu un medico famoso, di cui  era esposto il busto nell’Ospedale degli Incurabili. E fu deputato. Mia nonna si faceva un vanto di ricordare che, quando suo padre andava a Roma in Parlamento,  pagava di tasca sua il biglietto del treno! E mio zio, che godeva di auto blu, non ha mai voluto usarla per ragioni private".

     Aggiungo una testimonianza della quale fui messo a parte da bambino e che ho sempre ricordato. Un amico di famiglia, di nobile stirpe siciliana, raccontava che il nonno, deputato al Parlamento del Regno d'Italia, ad ogni elezione, per pagare le spese, vendeva un "feudo", come allora veniva qualificato in quella regione un podere di grandi dimensioni.

     Negli anni mi è rimasto in mente questo esempio di probità e mi viene di pensare che oggi, per la campagna elettorale, nella maggior parte dei casi, non si vende niente, spesso le spese sono coperte da imprenditori amici che attendono un tornaconto, raramente ideale, spesso economico (una fornitura o un appalto pubblico). E il politico che nulla aveva venduto acquista, invece, un moderno "feudo".

     Tuttavia sono da sempre convinto che ci siano ancora politici e funzionari onesti e che siano in buon numero. Il fatto è che riescono raramente a fare la carriera che meriterebbero e, soprattutto, la loro competenza ed onestà non fa notizia!

15 luglio 2011

 

Altri tempi, altri uomini

Via 20 settembre e dintorni

di Salvatore Sfrecola

 

     In questi giorni in cui si parla spesso del Ministero dell'economia e delle finanze, per vicende varie, dalla manovra economica d'estate alle indagini della Procura della Repubblica di Napoli che vedono indagato uno stretto collaboratore del Ministro, ho pensato di ricordare ai lettori  di Un Sogno Italiano un episodio certamente edificante di tanti anni fa, protagonisti il Ministro delle finanze Quintino Sella ed il Presidente del Consiglio Giovanni Lanza.

     I due si dovevano incontrare per discutere di una vicenda che riguardava la Presidenza del Consiglio per cui avevano concordato di parlarne al Ministero delle finanze, il Palazzo di via 20 settembre, denominato, appunto, Palazzo delle finanze.

     In vista di quell'incontro Quintino Sella scrive al Presidente del Consiglio e lo invita a portare con se le candele della Presidenza perché se la riunione fosse andata in là, fino a richiedere l'uso delle candele per illuminare lo studio ministeriale, non sarebbe stato possibile usare le candele del Ministero delle finanze per una riunione che riguardava la Presidenza del Consiglio! 

     Scrupolo eccessivo, certamente. Oggi la questione non si sarebbe neppure posta, perché comunque l'uso del bene pubblico candela, presidenziale o  ministeriale, sarebbe stato comunque destinato ad un pubblico interesse.

     Questi sono gli uomini che hanno costruito l'Italia unita, a conclusione del percorso risorgimentale, invitando i cittadini a gravi sacrifici per sanare il deficit di bilancio e far fronte all'ingente debito pubblico ereditato dagli stati preunitari e causato dalle guerre d'indipendenza. Furono i protagonisti della politica "della lesina" che portò al pareggio del bilancio ed alla parità della lira con l'oro. Sono stati esempio di specchiata fedeltà alle istituzioni e di personale integrità, tanto che di molti di essi fu rilevato che, al momento del funerale mostravano le suole delle scarpe bucate.

     Esempi da ricordare in un tempo nel quale si entra in politica senza scarpe e con le classiche toppe sul sedere per diventare presto abbienti, molto abbienti.

9 luglio 2011

 

Prime riflessioni sulla manovra finanziaria

Necessità ed ipocrisie

di Senator

 

     Non è nota in tutti i dettagli ed è bene attendere di conoscere il testo della manovra per leggerlo con grande attenzione, per comprendere le interconnessioni tra varie misure, sia sotto il profilo degli effetti sulla finanza pubblica, sia per comprendere quali conseguenze avranno sull'economia del Paese, sulle famiglie e sulle imprese.

     Una prima osservazione va fatta in ordine al numero degli interessati ai tagli. E spiega perché l'iniziale denuncia dei "costi della politica" per avviare la riduzione della spesa sia stata sostanzialmente accantonata. Lo sanno gli studenti di economia politica, all'inizio degli studi universitari. Misure economiche significative, sul versante della spesa e dell'entrata, non possono riguardare pochi soggetti. Ridurre la spesa per pochi qualche migliaio di deputati, senatori e consiglieri di amministrazione o tassare ugualmente un numero esiguo di contribuenti  determina pochi risparmi e scarse entrate, comunque insufficienti ad incidere su una situazione economica e finanziaria difficile quale quella che il Governo è chiamato ad affrontare.

     E', dunque, una necessità operare sui grandi numeri, tagliare stipendi e pensioni, ridurre la spesa pubblica, mettere qualche balzello qua e là, anche sulle prestazioni sociali, dove si ritiene che la misura determini una ulteriore riduzione della spesa o nuove, significative entrate. Un tempo si faceva essenzialmente con la benzina, un consumo non comprimibile se non nelle prime ore dopo l'aumento, che determinava entrate in misura sempre superiore a quello denunciato al momento dell'adozione del classico decreto legge (si definiva "catenaccio").

     Se, dunque, difficilmente il Governo avrebbe potuto adottare misure di minore impatto quantitativo, certo sarebbe stato necessario diversificare in modo selettivo le tasche nelle quali mettere le mani, considerando anche gli effetti negativi sull'economia della contrazione del potere di acquisto delle persone "tartassate", con inevitabili effetti sul mercato interno che già soffre della recessione, con riduzione della produzione e conseguenti effetti sull'occupazione e sulle entrate tributarie che colpiscono gli scambi. Sembra che questo aspetto non sia stato considerato, che il problema dello sviluppo non sia presente al Governo,  come quello del lavoro, perché è inevitabile che se aumenta la disoccupazione lo Stato debba darsene carico con misure di sostegno alle persone e alle imprese. Queste, tra l'altro, sono state e saranno ancor più colpite dalla riduzione delle spese per beni e servizi per le pubbliche amministrazioni.

     Il tema è quello di sempre. La necessità che gli interventi, sotto il profilo della spesa e dell'entrata, debbano essere selettivi, ragionatamente selettivi in modo da realizzare il duplice effetto di ridurre la spesa inutile e di incentivare la ripresa economica.

     Ne parleremo ancora esaminando le singole misure.

3 luglio 2011

 

Il futuro del centrodestra: nel Governo o nel Partito?

di Senator

 

     C'è una varietà di commenti oggi sulle pagine dei giornali, a proposito del cambio di passo del Popolo delle Libertà e dell'esordio di Angelino Alfano, incoronato Segretario dall'assemblea plaudente come indicato da Silvio Berlusconi. Si leggono analisi storiche del berlusconismo a far data dalla discesa in campo del Cavaliere e s'immagina la ripresa dell'azione politica consegnata all'iniziativa del  Ministro della giustizia in vista delle elezioni del 2013, quando Berlusconi si ripresenterà come leader del Centrodestra e del governo. Il terreno per la vittoria lo preparerebbe Alfano rivitalizzando il PdL che vuole sia "un partito di onesti", come tutti hanno messo in risalto.

     Cominciamo da questa frase: "voglio un partito di onesti". Tra qualche ora è inevitabile che questa espressione, che ha colpito giornalisti e opinione pubblica, sia  considerata per quello che è, una banalizzazione di un concetto elementare che dovrebbe stare alla base di ogni movimento politico, l'onestà degli intenti ed una personale capacità di operare per il bene comune senza approfittare della posizione di partito. Perché l'onestà di quanti operano in un partito politico dovrebbe essere il requisito minimo  che si può pretendere per dirigenti e associati.

     Angelino Alfano è ricorso ad uno slogan, di quelli cari al Presidente del Partito,  efficace fino a quando qualcuno non riflette e conclude che il neosegretario ha detto una banalità, ha scoperto la classica acqua calda. A meno che non abbia voluto far intendere che nel partito del quale assume la direzione c'è bisogno di fare pulizia (del tipo niente concussori, niente corrotti!).

     Passando alla sostanza del discorso con il quale il Guardasigilli (non sappiamo ancora per quanto tempo) si è insediato nella carica di Segretario,  molti hanno intravisto una nuova stagione della politica del Centrodestra, nella fiducia che i cittadini possano riavvicinarsi al Partito in vista dei futuri traguardi elettorali e nella prospettiva di riconquistare quanti l'hanno abbandonato in occasione delle recenti elezioni amministrative e di quanti hanno votato contro le indicazioni del Premier nella tornata referendaria.

     Missione ardua scrivono molti. "Rendere possibile l'impossibile", è il commento dello storico Francesco Perfetti su Il Tempo di oggi, l'unico a mettere in risalto come la sorte del partito sia indissolubilmente connessa all'azione di governo. "In questa situazione - scrive Perfetti - con un governo che rema contro, Alfano si trova davvero a gestire una "mission impossibile". Infatti per un partito di governo il giudizio dell'elettore al momento del voto non si basa sulla posizione ideologica o sulle iniziative assunte ma su quanto ha fatto il governo del quale il partito è parte. Se, poi, l'identificazione tra Governo e Partito è assoluta, come accade nei regimi bipolari, è evidente che il giudizio sul governo, in caso d'insuccessi, si riversa sul Partito con inevitabile disaffezione dell'elettore che può dar luogo ad astensione dal voto o ad un cambio di partito.

     E' nella logica del sistema maggioritario, tanto è vero che Berlusconi insiste nel rimarcare che è stato eletto leader del governo in quanto sulla scheda elettorale era scritto il suo nome. Giuridicamente non è così, ma politicamente sì, per cui ogni errore del governo (ovviamente agli occhi degli elettori) si trasforma in un dato che pesa sul consenso elettorale. Berlusconi lo sa, forse lo intuisce solo, ma è un fatto che più volte ha ricordato di non aver potuto perseguire alcuni obiettivi politici programmatici perché ostacolato dalla presenza nella maggioranza di Fini e Casini.

     Quell'alibi non c'è più, su chi addosserà il Premier i suoi insuccessi e le misure impopolari che ha preso e prenderà? Scaricherà Tremonti, addebitando a lui le perduranti difficoltà economiche, la crisi dell'occupazione, dell'industria e dei commerci, l'impoverimento delle famiglie?

     Ugualmente in sede locale, il Partito non riceverà consensi per la sua azione politica ma per il successo o l'insuccesso di quanti governano in nome del PdL, con la sola differenza che essendo le giunte prevalentemente di coalizione qua e là per l'Italia sarà ancora possibile dire che la colpa per la insufficiente o cattiva gestione è degli alleati.

2 luglio 2011

 

 

 

 

 


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