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GENNAIO 2011

 

Berlusconi visto da Ruby

La solitudine del potere

di Gianni Torre

 

     Una frase, in particolare, mi ha colpito nell’intervista a Ruby mandata in onda ieri sera nel corso del telegiornale de La7 diretto da Enrico Mentana. Quella in cui la giovane, riferendosi a Berlusconi, lo definisce “uomo solo”. Un’impressione evidentemente percepita partecipando alle serate di Arcore nella villa del premier. C’è della tenerezza tutta femminile nell’atteggiamento della ragazza che istintivamente comprende che quell’uomo, potente e ricco di beni materiali, non sente intorno a se quell’affetto del quale chiunque, uomo o donna, ricco o povero, ha bisogno, un sorriso che esprima, attraverso uno sguardo, un sentimento di condivisione della vita e delle sue preoccupazioni. Che per un uomo che ha responsabilità di governo e di gestione del proprio ingente patrimonio non sono poche.

     È la solitudine dei potenti. Per i quali è arduo comprendere se chi si avvicina loro ha sentimenti di amicizia o solo interessi, anche nobili, come possono essere quelli della politica, pur in chi persegue obiettivi di bene comune. In questi casi il rapporto è condizionato da aspettative di collaborazione o di successione. In sostanza, nessuno che detenga potere politico o finanziario può facilmente essere certo che colui chi si proclama amico non sia, in realtà, una persona interessata, un “amico” a tempo, insomma.

     Naturalmente non sono rari i casi di amicizie sincere, nate da esperienze comuni di studio o di lavoro, consolidate nel tempo ed a prova di ogni avversità.

     La storia ne conosce tanti.

     In ogni caso, e nella maggior parte dei casi, i potenti sono spesso soli con le loro preoccupazioni in una vita che diventa ancora più solitaria quando, spenta la luce dello studio non hanno la possibilità di rifugiarsi in quel calore umano fatto delle tante piccole cose che ci fanno sentire amati. Il sorriso di una donna, la risata di un bimbo. Sensazioni che nel tempo cambiano, si completano e si arricchiscono quando, ad esempio, intervengono generi, nuore e nipoti.

     Queste relazioni interpersonali, caratterizzate dalla gratuità, restituiscono al potente ed ai suoi affanni la dimensione umana che lo riconsegna alle realtà di tutti i giorni, che gli fa percepire i problemi economici della famiglia, le esigenze di studio e di lavoro, le ansie dei primi amori dei figli e dei nipoti. Una realtà la cui conoscenza serve a governare uno stato come un’impresa.

     In mancanza di questi riferimenti personali, di questi affetti, il potente rischia l’isolamento psicologico, la mancata percezione della realtà sociale, non ha un momento di stacco dall’impegno gravoso della sua funzione. Se non ha la possibilità di abbandonarsi tra le braccia di una donna, di ascoltare le confidenze dei figli e dei nipoti, se non si sente amato per quello che è, indipendentemente da potere e ricchezze, il potente va in depressione, si sente solo e cerca di compensare questo suo stato spesso con farmaci o ricercando “distrazioni” che in qualche modo abbiano l’effetto di fargli dimenticare questa sua condizione. È un po’ l’effetto delle droghe che prefigurano paradisi “artificiali”, per non sentire la solitudine.

     Non è dubbio che Silvio Berlusconi si trovi nella condizione del potente solo. Circondato, come lui peraltro ha evidentemente voluto, di yes men di laudatores convinti così di acquisire meriti ed ottenere lauti incarichi, con pochi amici veramente fidati, da Gianni Letta e Felice Confalonieri, rotto il rapporto con Veronica Lario, non preso da figli e nipoti, il premier annega la sua solitudine nelle grandi feste che organizza con ampio concorso di donne giovani e belle e di altri, pronti a lodarlo qualunque cosa faccia o dica, cantando e raccontando barzellette, ubriacandosi di questa “allegria” artificiale ed artificiosa che ricorda tanto le cene medievali nelle quali, ad altri potenti, i giullari di corte strappavano un sorriso forzato sulla base di battute idiote, come ci hanno insegnato gli storici ed il cinema americano.

     La storia ci dice di altri potenti che hanno ammortizzato le preoccupazioni del potere nelle braccia calde della famiglia o anche solo di una donna che ne ha compreso le speranze e le angosce. Così restituendo al potente la forza, le ambizioni, in sostanza con un ruolo pubblico importante.

     Le parole di Ruby, teneramente pietose, hanno messo a nudo il lato fragile del potente. Lo considerino le opposizioni che oggi cavalcano lo scandalo. Gli italiani potrebbero dimenticare per un momento che il Cavaliere è inadempiente per la maggior parte delle promesse fatte in campagna elettorale e continuamente reiterate, ed avere un po’ di umana compassione per il potente che non riesce a distrarsi altro che annegando la sua angosciosa solitudine tra chiassose compagnie. E votarlo ancora.

15 gennaio 2011

 

L’immagine e la realtà

Battisti: se “non ci siamo fatti capire”

di Senator

 

     Continua a tenere banco il Capo dello Stato, protagonista assoluto di questo inizio del 2011, richiamando prima il rispetto della bandiera nazionale “il Tricolore italiano”, come ha ricordato il direttore citando la Costituzione, e ieri intervenendo sulla vicenda della mancata estradizione di Cesare Battisti. “alla nostra politica è mancato qualcosa. Non siamo riusciti a far comprendere la gravità del terrorismo”.

     L’intervento del Presidente della Repubblica ha innescato riflessioni e polemiche che sono andate probabilmente al di là delle intenzioni di Napolitano per toccare il tema dell’immagine dell’Italia all’estero. Si è detto, infatti, che nella decisione del Presidente brasiliano Lula avrebbe avuto una notevole influenza l’idea che lui ed altri si sarebbero fatta del nostro Paese anche in conseguenza di quel che dicono e fanno molti nostri politici.

     In sostanza è facile percepire che il Presidente di un Brasile nel quale molti in passato hanno imbracciato le armi per combattere le dittature che l’hanno governato in anni non lontani, possa non aver percepito la differenza tra l’esperienza sudamericana e il terrorismo che ha insanguinato l’Italia negli anni ’80, quando gli estremisti di destra e di sinistra uccidevano esponenti di governi democratici, giornalisti, magistrati. Inoltre, a chiedere l’estradizione è un Paese la cui magistratura italiana, quella, cioè, che ha pronunciato le sentenze di condanna di Battiti, viene sistematicamente denigrata dal Presidente del Consiglio fin dalla sua discesa in politica (1994), con toni forti, spesso in forma di insulto.

     Ce n’è abbastanza perché la stampa estera, che naturalmente è portata a prendere per buone le espressioni politiche di chi ricopre un ruolo istituzionale, non essendo abituata ad esponenti di un potere dello Stato che insultano i rappresentanti degli altri poteri (ricordiamoci che il Cavaliere ne ha avute anche per il Parlamento, quanto meno perché gli farebbe perdere tempo e per la Corte costituzionale), ritenga che effettivamente in questo Paese la magistratura non è affidabile. Con la conseguenza di rendere dubbia la fondatezza della sentenza che ha condannato un terrorista che forse agli occhi di alcuni brasiliani può apparire come un rivoluzionario.

     È dunque un problema di immagine complessiva del Paese, quello che traspare dalle parole del Capo dello Stato, un’immagine della quale pochi sembrano preoccuparsi quando parlano per esigenze della propria parte, senza alcuna remora, in Italia e all’estero, soprattutto all’estero, un luogo nel quale un tempo i politici della Prima Repubblica si guardavano bene dal parlare delle beghe interne e delle polemiche politiche e personali.

     Certe divagazioni in particolare del Presidente del Consiglio che all’estero, ovviamente, appare più come capo dell’esecutivo che come leader di un partito danneggiano gravemente l’Italia, con conseguenze non solo politiche ma anche economiche. È evidente, infatti, che un imprenditore il quale sente il Presidente del Consiglio denigrare la magistratura si guarderà bene dall’investire in un Paese dal diritto incerto e dai giudici inaffidabili.

     Che poi, nella specie, con riferimento ai tempi della giustizia civile, ci siano effettivamente dei gravi problemi, il Capo del governo dovrebbe darsene carico perché se la giustizia civile arranca le colpe possono ben essere distribuite tra leggi inadeguate, procedure antiche, servizi inefficienti. Problemi che se fossero risolti consentirebbero di accertare se effettivamente anche i giudici hanno le loro responsabilità e in quale misura.

     Naturalmente l’immagine dell’Italia è deteriorata anche su altri fronti, basti pensare ai crolli di Pompei per un Paese che vanta la più grande parte del patrimonio storico artistico dell’umanità, la fonte prima del nostro turismo, la nostra prima industria, quella che darebbe, in un momento di crisi economica, tanti posti di lavoro e valuta pregiata.

     C’è da ricostruire un immagine all’interno del Paese ed all’esterno sulla base di una politica che sia veramente tesa al bene comune.

     Napolitano ha toccato, con il caso Battisti, un punto fondamentale del modo di fare politica, non sulla base del confronto delle idee, ma dei dossier e del gossip mentre l'economia ristagna, la disoccupazione giovanile è un problema sociale dalle conseguenze imprevedibili, mentre sotto gli occhi di tutti si sprecano risorse e si trascurano opportunità (il riferimento è ancora una volta alla politica del turismo).

9 gennaio 2011

 

Il titolo sbagliato di un grande giornale

"Napolitano difende il Tricolore"!

di Salvatore Sfrecola

 

     Ci sono titoli che valgono più di un articolo, che spesso è costruito proprio sul titolo, destinato a colpire l'attenzione del lettore. Tanto che fare i titoli è una responsabilità  che spesso è del direttore o del redattore capo. Il titolo vale per le parole che lo compongono, per il corpo usato, per le colonne e per la posizione che occupa nella pagina.

     Il titolo, in ogni caso, deve essere coerente allo scritto che presenta.

     Non è stato così, oggi, il titolo che in prima pagina dà conto del discorso che ha fatto il Presidente della Repubblica a Reggio Emilia, in apertura delle celebrazioni dell'unità d'Italia, "Napolitano difende il Tricolore".

     Detto così è di una banalità sconcertante. Come dire "il governo garantirà l'ordine pubblico". Ricordo in proposito, ero un ragazzo, il commento di Marino Bon di Valsassina, docente di dottrina dello Stato ed oratore facondo, a quella dichiarazione del Ministro dell'interno. Perché, commentava con la sua consueta arguzia, "cosa dovrebbe fare il Governo se non garantire l'ordine pubblico"?

     Così è banale scrivere che il Capo dello Stato "difende il Tricolore" se non si spiega, cosa che il giornale fa nel sottotitolo e nel corpo dell'articolo, che, in realtà, il Capo dello Stato aveva voluto, proprio in occasione della prima manifestazione celebrativa dell'unità d'Italia, dare un avviso alla Lega: "chi è al governo lo deve rispettare" (il Tricolore). Tanto che Bossi ha replicato "festa solo dopo il varo del federalismo".

     Il titolo "sbagliato" consente, dunque, qualche ulteriore riflessione sulla bandiera, l'unità del Paese ed il quadro politico istituzionale, temi sui quali è certo saranno in molti nei prossimi mesi ad esercitarsi.

     Per cui vorrei mettere qualche puntino sulle "i" per cercare di tenere il dibattito nei suoi confini naturali.

     In primo luogo la bandiera "della Repubblica", come si esprime l'art. 12 della Costituzione "è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".

     Prima osservazione. La bandiera "della Repubblica è il tricolore italiano". Un vessillo, dunque, che preesiste alla forma istituzionale conseguente al referendum del 2 giugno 1946. La Repubblica non ha cambiato bandiera. Ha escluso implicitamente dalla banda centrale, bianca, lo stemma della Casa Savoia, con una operazione inversa a quella che aveva fatto Re Carlo Alberto nel proclama del 23 marzo 1848 quando, rivolgendosi alle popolazioni del Lombardo Veneto per annunciare la prima guerra d'indipendenza affermava che "(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana".

     Il Tricolore Italiano, dunque, preesiste al Regno d'Italia e sopravvive nella Repubblica. E' la bandiera d'Italia. Non va, dunque, confusa con un determinato assetto istituzionale. Lo ha inalberato la Monarchia costituzionale dei Re sabaudi, ha sventolato durante la Prima Guerra Mondiale, ultima dell'indipendenza nazionale (per l'acquisizione di Trento e Trieste), è stato su tutti i campi di battaglia dal 1940 al 1945, è stata la bandiera dei partigiani antifascisti e della Repubblica Sociale Italiana, che, ovviamente, aveva sostituito allo stemma degli odiati Savoia i simboli del fascismo, l'aquila e il fascio. Oggi è la bandiera della Repubblica.

     E' stata ed è, in ogni caso, la bandiera della Nazione. Identifica lo Stato al di là delle situazioni istituzionali. Immaginiamo quanto sia estranea alle beghe di partito, Destra, Sinistra, Centro, nelle loro variabili, compresa la Lega Nord.

     Intendo dire che il Tricolore non può essere messo in mezzo perché alcuni vogliono il centralismo governativo, altri richiedono un ampio decentramento o l'autonomia di regioni e province ed un federalismo variamente configurato.

     Dobbiamo cominciare a ragionare in termini di neutralità dello Stato e della Nazione rispetto all'assetto istituzionale e amministrativo. E' un problema di cultura e di capacità di identificare il valore di ciò che unisce un popolo che è arricchito dalla varietà delle storie e delle tradizioni di un territorio.

     Per me romano, con alle spalle una storia politica e civile unica al mondo il fatto che l'Italia comprenda aree geografiche e culture straordinarie come la toscana, la veneziana, la napoletana, la siciliana, per semplificare e senza togliere niente al Piemonte, alla Liguria, alle Marche, alla Romagna e all'Abruzzo, significa che la mia Italia è un territorio straordinario, luogo di culture che hanno dato un apporto alla Nazione intera che non ha di altri esempi al mondo. Forse solo la Spagna, perché la Francia è Parigi, come in altre realtà nelle quali la vita politica, economica e culturale si è incentrata nei secoli nella capitale.

     Sbaglia, dunque, Bossi e quanti lo seguono in questa esercitazione di incultura a prendere di petto il Tricolore per criticare "Roma Ladrona". Perché se vogliamo essere sinceri, sempre da romano, la Capitale potrebbe essere trasferita altrove, magari con una operazione alla "Brasilia" ed all'ombra del Cupolone si potrebbe vivere di turismo culturale e religioso. Ma l'Italia è Roma più Venezia, più Torino, più Napoli e così via, città e storie delle quali ognuno può giustamente essere orgoglioso.

     La bandiera, dunque, "il Tricolore italiano"  è il simbolo di tutte le storie e delle culture del Bel Paese. Bossi e la Lega hanno cavalcato il malessere di aree del Paese che si sono sentite tradite dalla politica "romana", dove peraltro, siedono in abbondanza, con posizioni di potere significative, "nordici" importanti, dal milanese Presidente del Consiglio al  sondriese Ministro dell'economia, che hanno fatto molto per quelle regioni (basti leggere "Chi paga la devolution?").

     Adesso che è al Governo con posizioni di responsabilità ed un peso politico superiore a quello elettorale la Lega può legare, mi si perdoni il bisticcio, la sua presenza ad una più incisiva riforma istituzionale in senso federalista.  Lasci stare il Tricolore, che non è di destro né di sinistra, e lasci il segno di un impegno politico che ha molti meriti perché l'anno celebrativo dell'unità d'Italia sia da ricordare anche per una moderna riforma federale. Levando in alto il vessillo della Patria, quella che continuiamo ad ancorare al concetto di "terra dei padri".

8 gennaio 2011

 

Una bandiera, una Nazione

L’occasione mancata di Bossi

di Salvatore Sfrecola

 

     Mentre prendono avvio le manifestazioni per i centocinquant’anni dello Stato unitario, a Reggio Emilia, dove il 7 gennaio 1797 per la prima volta sventolò il tricolore, vessillo della Repubblica Cispadana, scoppia la polemica tra il Capo dello Stato e il leader della Lega che non gradisce il richiamo al rispetto dell’unità e della bandiera soprattutto per chi svolge funzioni pubbliche.

     Un’occasione mancata, perché Bossi avrebbe molto più opportunamente colto l’occasione delle celebrazioni unitarie per affermare che il federalismo è la conclusione più logica del Risorgimento nazionale. Come, del resto, sarebbe stato se le preoccupazioni per alcuni movimenti centrifughi non avessero fatto prevalere istanze centralistiche. Se fossero state seguite le indicazioni di Marco Minghetti e se Papa Pio IX non avesse tenuto i cattolici fuori dalla vita politica italiana per decenni, in pratica fino al Patto Gentiloni, quei cattolici che avevano un forte radicamento sul territorio che avrebbero negli anni successivi ampliato e consolidato  con un reticolo di iniziative sociali ed economici, dalle leghe bianche alle banche popolari, come ricorda Giovanni Spadolini nel suo celebre "L'opposizione cattolica".

     D’altra parte non sarebbe stato difficile immaginare un Regno con ampio decentramento politico e amministrativo nel rispetto della storia e della cultura delle province venute a formare lo Stato unitario.

     Bossi avrebbe dovuto cogliere questa tradizione, riprendere le aspettative dei più illuminati liberali del nostro Risorgimento per cavalcare le istanze federaliste. Non lo ha fatto non perché sia ignorante, ma perché fin dal suo inizio l’esperienza leghista si è andata presentando come antiunitaria, a volte addirittura, separatista. Una tendenza che si è rafforzata sulla base di una diffusa ostilità al governo centrale ritenuto un sanguisuga che prende più di quello che da.

     Non è vero, come ha dimostrato anni fa la Ragioneria Generale dello Stato che, bilanci alla mano, ha snocciolato una serie di dati sulla base dei quali le regioni del nord prendono più di quello che danno. Una realtà difficile da far comprendere in ambienti culturali dove più elevata è la dispersione scolastica, cioè l’abbandono degli studi per andare a lavorare prima di aver completato la scuola dell’obbligo.

     Avrebbe fatto bene al “Popolo padano” un’iniziativa della Lega in favore dell’unità da interpretare e completare con gli istituti del federalismo. Non avrebbe avuto opposizioni e tante remore sarebbero state abbandonate. Ma il leader leghista non ha avuto il coraggio di riconvertire lo spirito dei suoi elettori da decenni educati a pensare con ostilità allo Stato nazionale. E probabilmente il federalismo, più ampiamente condiviso, avrebbe portato maggiori risultati. Mentre adesso il federalismo rischia di non passare e, in ogni caso, promette più di quanto potrà mantenere. Proprio per l’approssimazione che caratterizza l’impostazione leghista, un po’ semplicistica (ci teniamo le tasse che maturano nel territorio). Molto semplicistica, se si pensa che, in applicazione dell’art. 119 Cost., non ci si è posti il problema di chi debba controllare i conti delle regioni e dire allo Stato, in attuazione degli interventi di riequilibrio, se chi chiede per esigenze straordinarie è effettivamente meritevole di erogazioni a carico dei fondi speciali e non espone esigenze solo perché ha sperperato.

     Chi darà la certezza della corretta tenuta dei conti se dell’istituzione che storicamente è chiamata a svolgere questo ruolo, la Corte dei conti, nei provvedimenti sul federalismo è del tutto ignorata?

     Ripensi Bossi, un politico che ha dimostrato più volte di avere molto buon senso, a questo federalismo un po’ becero e si faccia promotore di una nuova primavera dello Stato unitario che sia rispettoso della storia e delle tradizioni delle nostre contrade e valorizzi l’economia e la capacità imprenditoriale laddove meglio viene manifestata.

     Lasci stare quegli atteggiamenti da guascone che gli hanno fatto rispondere al Presidente Napolitano che lui avrebbe partecipato alle celebrazioni unitarie solo dopo aver conquistato il federalismo. Riprenda l’iniziativa e si faccia promotore di un nuovo Risorgimento su basi federali. Troverà molti consensi.

7 gennaio 2011

 

La tattica e la strategia

Berlusconi - Tremonti: l'ottimismo e la realtà

di Salvatore Sfrecola

 

     La crisi economica ''non è finita, adesso diciamo che tutto va bene, ma siamo    sicuri?''. Quanto invece alla speculazione, ''siamo tornati al punto di partenza'' perché alcuni Paesi, non l'Italia, ''hanno salvato le banche e con esse anche la speculazione''.

     A Parigi, parlando alla Conferenza 'Nuovo mondo, nuovo capitalismo', per iniziativa del Ministero delle Finanze francese, il Ministro dell'Economia e delle finanze, Giulio Tremonti, richiama l'attenzione degli intervenuti sulla necessità di mantenere alta la guardia. Ed una un'espressione che ha molto colpito la fantasia dei giornalisti: ''siamo come in un videogame: abbattiamo un mostro e ci rilassiamo, e invece poi ne spunta un altro, più forte del primo''. Per cui l'invito all'Europa a muoversi come un blocco unico, come gli altri, gli Stati Uniti, la Cina, l'India, ''in una logica più unita e più federale''. In proposito ha citato anche un famoso discorso del 1946 di Winston Churchill, uno dei padri dell'Europa,  davanti alla macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, Tremonti conclude: ''Che l'Europa risorga!''.

      Ottimo, certamente, anche se il Ministro ha dimenticato un grande italiano, Luigi Einaudi, che,  già alla fine del 1800, aveva indicato una prospettiva federale, con visione lungimirante della politica e dell'economia.

     Secondo l'Italia dei Valori 'finalmente anche Tremonti si è accorto che la crisi in Italia non è finita. La situazione del Paese è disastrosa''. Per Adolfo Urso, di Futuro e Libertà,  ''l'allarme lanciato da Tremonti smentisce la fiction del premier''.

     Ecco, dunque, che parte della politica e parte della stampa oggi mettono in risalto quella che può apparire una divergenza forte tra il Presidente del Consiglio ed il suo Ministro dell'economia. Anche prendendo lo spunto da cene recenti nelle quali Giulio Tremonti insieme ad Umberto Bossi, con i loro collaboratori e consulenti, hanno fatto pensare a riflessioni di carattere strategico in vista di elezioni anticipate che da alcuni atteggiamenti dei protagonisti della vita politica sembrano previste anche se formalmente ritenute un danno per il Paese.

     E' difficile dire oggi se effettivamente tra Berlusconi e Tremonti vi è un contrasto originato da una evidente diversità di prospettive politiche cresciute negli ultimi anni.

      Detto questo, non va trascurato che, in una certa misura, è fisiologico che un Presidente del Consiglio sparga ottimismo anche quando il Ministro dell'economia richiama i problemi e la necessità di risolverli con misure rigide.

     In economia, i profili psicologici delle scelte del governi e delle persone, sono essenziali. Nel senso che un Presidente del Consiglio che desse l'impressione di temere gli effetti della situazione economica determinerebbe effetti molto vicini al panico.

     Come sempre ci vuole equilibrio. L'ottimismo non può essere un irresponsabile peana alla fiducia. I governi devono dire quel pezzo di verità che faccia comprendere agli italiani che si devono fare dei sacrifici ma che il Governo affronta i problemi nei modi giusti, che sono quelli che producono un effetto percepibile dai cittadini in tempi brevi, in tema di occupazione, fisco e servizi, dall'istruzione alla sanità.

     E' questo il punto fondamentale. Se gli italiani non percepiscono gli effetti positivi delle misure governative è evidente che i sacrifici richiesti pesano di più fino a diventare insopportabili, con evidenti conseguenze di carattere politico, determinando quel malessere che in politica, quando particolarmente diffuso, può diventare incontrollabile.

7 gennaio 2011

 

Volgarità e ignoranza

La bestemmia in TV

di Salvatore Sfrecola

 

     Ovunque sia pronunciata, la bestemmia è un insulto, prima che alla divinità che si vorrebbe offendere, all’intelligenza di chi vi ricorre dimostrando di non aver argomenti per protestare, per rafforzare le proprie ragioni. Anche se usata come intercalare, come in alcune aree del Paese, tanto da perdere agli occhi di taluni il significato offensivo che gli è proprio, la bestemmia è sempre sgradevole per il rispetto che si deve a divinità nelle quali credono cristiani, ebrei, musulmani, buddisti.

     È difficile comprendere la psicologia di chi bestemmia ed è facile concludere che ci troviamo di fronte ad espressioni di ignoranza profonda e di incapacità di ergersi al di sopra della mera materialità della vita.

     Oggi su Avvenire il direttore, Marco Tarquinio, ha risposto ad una lettrice, che gli ha scritto denunciando il “degrado che si sta avendo in televisione”. Il riferimento è, in particolare, ad un canale televisivo (Canale 5) che trasmette le vicende del “Grande Fratello” dove, scrive la lettrice, “non solo chi ha bestemmiato è stato lasciato all’interno della casa stessa, ma chi ha bestemmiato nella scorsa edizione è stato fatto entrare nella puntata di lunedì! Che cos’è? “Più bestemmi più vieni premiato”?”.

     Per Tarquinio la risposta possibile è solo quella di “rifiutare certi prodotti tv… l’arma più forte di cui disponiamo, ma so anch’io che non è sempre sufficiente”.

“Ci sono ideatori di spettacoli – prosegue il direttore di Avvenire - che pur di “fare ascolti” e tenere accesi i riflettori programmano – ma mi verrebbe da dire premeditano – incidenti–esca. Il caso del bestemmiatore è emblematico”.

     Naturalmente il riferimento del giornale è essenzialmente ai cristiani, decine di milioni di persone che soffrono e vengono uccise per la propria fede, spesso condannati a morte per “blasfemia” solo perché non rinunciano alla loro fede.

     Naturalmente condivido le osservazioni di Tarquinio, ma ugualmente riterrei blasfemo e idiota l’offesa a qualunque divinità che va comunque rispettata se non altro per il riguardo che si deve a coloro che vi credono.

     L’uso della bestemmia per fare audience, da parte di chi organizza spettacoli, come dal politico che vuol apparire disinvolto, magari perché parla con militari, significa, in fin dei conti, disprezzare l’interlocutore ritenendo che sia sollecitato dalla battuta blasfema o che la soldataglia, come si sarebbe detto un tempo, sia naturalmente volgare.

     Inoltre attenzione che il disprezzo per la divinità non generi forme di ostilità e di intolleranza da ben più gravi conseguenze.

6 gennaio 2011

 

Aria di elezioni

Fattore “C” (come comunisti)

di Senator

 

     Al giro di boa del 14 dicembre, il governo, al quale è stata confermata la fiducia delle Camere, nondimeno dovrà fare i conti con la quotidianità parlamentare che richiede ben altri numeri, considerato, ad esempio, che non potrà essere sempre assicurata la presenza in aula e in commissione dei ministri e dei sottosegretari. Tanto che è stata anche avanzata l’ipotesi di far dimettere dal Parlamento i membri del governo per sostituirli con i primi dei non eletti.

     C’è, poi, il pressing della Lega che ha stabilito tempi brevi per la definizione dei provvedimenti del federalismo fiscale, una materia sulla quale c’è dibattito tra i partiti, non tanto sul principio quanto sulla sua realizzazione. Con la conseguenza che quei tempi potrebbero non essere rispettati e portare la Lega ad abbandonare la maggioranza e chiedere le elezioni anticipate, anche in considerazione delle eccellenti prospettive elettorali che i sondaggi indicano per il partito di Bossi, non solo al Nord m anche al centro. Valga per tutti l’esempio di Poggio Moiano, un piccolo comune in Provincia di Rieti, dove nelle ultime elezioni la Lega ha ottenuto ben il 18 per cento dei voti.

     C’è, dunque, aria di elezioni, da tempo, come dimostrano le continue uscite pubbliche di Silvio Berlusconi, il suo volto tirato, che non nasconde più le preoccupazioni di una difficile stagione parlamentare di una maggioranza dai numeri incerti, ogni giorno condizionati dai motivi più vari, ideologici e personali (l’incertezza della rielezione).

     Così ogni partito rispolvera gli argomenti più cari al proprio elettorato che per Berlusconi sono la demonizzazione della Sinistra, in particolare comunista. Come ha fatto ieri sera, intervenendo, a Kalispera la trasmissione condotta da Alfonso Signorini il direttore di Chi (del Gruppo Mondadori controllata dalla famiglia del premier). “I comunisti ci sono, esistono eccome” ha detto il Presidente del Consiglio, non sono cambiati e “utilizzano i magistrati a loro vicini, perché mi considerano un ostacolo da eliminare, per arrivare al potere”.

     L’argomento è da sempre caro al Cavaliere, convinto del fatto che l’elettorato italiano – come conferma l’andamento delle elezioni ormai da anni – non è disponibile a dare un forte potere alla Sinistra, ad un coacervo di ideologie che vanno dai cattolici “di sinistra” alla Rosy Bindi ai comunisti duri e puri di Niki Vendola, passando per i “governativi” alla Pierluigi Bersani e Romano Prodi. Un assemblaggio di storie personali e di aspettative di leadership che non hanno consentito all’opposizione di presentarsi agli occhi degli italiani come una reale alternativa alla maggioranza di Centrodestra, anch’essa composita, come del resto è nella storia italiana. Basti pensare alla Democrazia Cristiana che dava spazio a posizioni molto differenziate, dalla già citata Rosy Bindi ad Arnaldo Forlani a Rocco Buttiglione, per semplificare.

     Gli italiani non vogliono la sinistra al governo per cui Berlusconi calca la mano e commenta una foto di D'Alema in vacanza a St. Moritz con una battuta beffarda: “Non è un cachemire che può cambiare il cervello e il cuore della gente. I nostri post-comunisti fanno finta di avere abitato su Marte e dicono anche di non essere mai stati comunisti, ma non hanno mai fatto i conti con il loro passato e con gli orrori di una ideologia spaventosa. Ricordiamo sempre che è stata l'ideologia più disumana e criminale della storia dell'uomo che ha prodotto solo miseria e disperazione e più di 100 milioni di morti”.

     È il tradizionale “uso politico” della storia, per cui le colpe dei padri ricadono sui figli. A giudizio del premier i comunisti lo considerano “un ostacolo da eliminare assolutamente per arrivare al potere”.

     C’è da credere che l’argomento sarà ripreso ancora, per essere il leit motiv di buona parte della campagna elettorale che appare ogni giorno più inevitabile e che proprio le iniziative del premier confermano.

     È il fattore “C” (come comunisti) che condiziona da anni la vita politica italiana, un tempo dando tutto il potere alla Democrazia Cristiana che veniva votata anche per il timore del comunismo, oggi consentendo ad una maggioranza composita, guidata da un abile imprenditore, di mantenere il potere zigzagando tra il perseguimento di interessi generali e personali di singoli e di gruppi di potere.

     Indro Montanelli invitava a votare Democrazia Cristiana “turandosi il naso”. Non c’è dubbio che ripeterebbe oggi la stessa frase invitando a votare Centrodestra. Vorremmo tanto, invece, che all’interno dell’attuale maggioranza ci fosse un dinamismo virtuoso di ricambio della classe dirigente ai vari livelli di governo per consentire agli italiani che intendono votare a destra di scegliere convinti, non solo perché non c’è alternativa. Che è un po’ la mortificazione della politica!

6 gennaio 2011

 

Dopo il messaggio di fine anno del Capo dello Stato

Se i partiti non colgono le aspettative dei giovani

di Salvatore Sfrecola

 

     Unanime l’apprezzamento del mondo politico al messaggio di fine anno dal Capo dello Stato dedicato “soprattutto ai più giovani … che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cercano un'occupazione, cercano una strada … perché i problemi che essi sentono e si pongono per il futuro – ha precisato Giorgio Napolitano - sono gli stessi che si pongono per il futuro dell'Italia".

     All’apprezzamento della politica, tuttavia, non ha fatto seguito altrettanta condivisione degli interessati, dei giovani, appunto, che, intervistati dal telegiornale de La7, come ha spiegato Enrico Mentana, hanno dimostrato di non conoscere le parole che il Presidente ha dedicato loro. Colpa del campione, dell’orario in cui ha parlato il Presidente, in una serata nella quale tutti si preparavano al veglione? Io stesso ho seguito le parole del Presidente mentre mi mettevo la cravatta e trasferivo nella giacca dell’abito da sera portafoglio, penna e biglietti da visita.

     Mentana è un professionista serio e se presenta nel corso del suo telegiornale, che si va imponendo per obiettività e completezza nel panorama piuttosto servile di gran parte dell’informazione, testimonianze di giovani che dimostrano di essere disinteressati al discorso di Napolitano vuol dire che il dato è significativo, verificato e verificabile.

     Un dato che richiede qualche riflessione, non semplicistica. Perché se i giovani sono, come giustamente ricorda il Presidente e come è evidente a tutti, “il futuro dell’Italia”, il loro disinteresse per il discorso del Capo dello Stato è, in realtà, un disinteresse per la politica. E poiché dalla politica vengono le scelte per il presente e per il futuro di una Nazione i giovani che la ignorano vuol dire che non pensano al loro futuro o non ritengono che la politica se ne occupi in modo adeguato, cioè in modo da interessarli e coinvolgerli, come naturali interlocutori di Governo e Parlamento.

     Sono veramente assenti i giovani dal dibattito sulle scelte che li riguardano, che attengono al loro futuro, come ci dice La7? Come al solito è sbagliato generalizzare. È certamente vero che tra i giovani vi sia un diffuso disinteresse per la politica. È accaduto in altri tempi ed è sempre stato sintomo pericoloso, motivo di estremizzazione dello scontro politico, perché ai molti che si astengono dal partecipare si contrappone una minoranza agguerrita che necessariamente assume una posizione radicale. Se ne è avuta una prova nelle manifestazioni del 14 dicembre, nelle assemblee studentesche e nelle manifestazioni di piazza.

Per comprendere il fenomeno va detto anche che il disinteresse dei giovani è un prodotto della politica di questi partiti nei quali essi non vengono allevati al dibattito e all’approfondimento dei temi di interesse per le nuove e future generazioni. Si preparano solo coloro che saranno acquisisti per cooptazione, giovani omologati, già vecchi, stereotipi di quelli ai quali si affiancheranno.

     È un grande male che i politici fanno a se stessi ed ai loro figli, spegnere lo spirito innovativo, la tensione al cambiamento propria dell’età.

     In queste condizioni, "investire sui giovani per un futuro degno del nostro grande patrimonio storico", come ha detto Napolitano, è certamente un invito necessario ed attuale e giusto. Ma è molto probabile che rimarrà un monito inascoltato.

     I partiti che hanno eliminato il voto di preferenza non vogliono discutere. Preferiscono un giovanilismo a parole che porta nelle istituzioni giovani impreparati, senza nessuna esperienza ma allineati e acritici. Solo a guardarli i giovani si allontanano dalla politica, li sentono estranei, lontani dai loro interessi, dalle tensioni che vivono, soprattutto in materia di lavoro e famiglia perché non ne vivono i problemi.

     Giusta, dunque, la preoccupazione del Capo dello Stato, già espressa in occasione del saluto con le Alte magistrature dello Stato, "per il malessere diffuso tra i giovani e per un distacco ormai allarmante tra la politica, tra le stesse istituzioni democratiche e la società, le forze sociali, in modo particolare le giovani generazioni".

     Napolitano ha sottolineato "l'esigenza di uno spirito di condivisione - da parte delle forze politiche e sociali - delle sfide che l'Italia è chiamata ad affrontare; e l'esigenza di un salto di qualità della politica, essendone in giuoco la dignità, la moralità, la capacità di offrire un riferimento e una guida". Ma - ha aggiunto - a questo riguardo "voi che mi ascoltate non siete semplici spettatori, perché la politica siete anche voi, in quanto potete animarla e rinnovarla con le vostre sollecitazioni e i vostri comportamenti, partendo dalle situazioni che concretamente vivete, dai problemi che vi premono".

     Anche se il 2010 è stato dominato da condizioni di persistente crisi e incertezza dell'economia, il Presidente della Repubblica ha esortato a non farsi "paralizzare da quest'ansia": "E' possibile - ha affermato - un impegno comune senza precedenti per fronteggiare le sfide e cogliere le opportunità di questo grande tornante storico”. La sfida della pace e della globalizzazione.

     Il Capo dello Stato si è detto convinto che "quando i giovani denunciano un vuoto e sollecitano risposte sanno bene di non poter chiedere un futuro di certezze, magari garantite dallo Stato, ma di aver piuttosto diritto a un futuro di possibilità reali, di opportunità cui accedere nell'eguaglianza dei punti di partenza secondo lo spirito della nostra Costituzione”.

     Riusciranno i partiti a far propria la giusta preoccupazione del Capo dello Stato? Oppure, ancora una volta,  anche nel 2011 questa sfida non sarà colta?

4 gennaio 2011

 

 

 

 

 

 


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