Il Silvio furioso
di Senator
Pare che abbia
sferrato un pugno sul tavolo al colmo dell'indignazione.
"Ma come, deve aver pensato Berlusconi, io li porto in
Parlamento, gente modesta, senza arte né parte, solo per
votare quando lo dico io e come dico io e loro si
allontanano dall'aula di Montecitorio proprio al momento
della votazione e mandano il governo a picco".
Ira potenzialmente
funesta, avrebbe detto Omero, ma lui cantava eroi ed
eroine, non ragazzetti e ragazzette spesso dalle poche
letture, perché, a sentire Feltri, che si è assunto il
compito di portavoce, anzi portascritto del Cavaliere, il
Silvio nazionale mediterebbe misure severe, prima tra
tutte la divisione tra le carriere, stavolta non dei
Pubblici Ministeri e dei Giudici, ma dei ministri e dei
parlamentari, per impedire che, distratti dalle cure di
governo, marinino le sedute a Montecitorio e Palazzo
Madama.
Ma perché si
preoccupa e s'adira il Cavaliere? In fin dei conti chi è
causa del suo mal... . Perchè è lui che li ha scelti, uno
ad uno, una ad una, preoccupandosi se sono giovani, di
bell'aspetto, elegantemente vestiti, non che fossero anche
idonei alla bisogna. Non è stato forse lui a dire, ed a
ripetere, alla vigilia delle elezioni, che gli sarebbero
bastati trenta deputati in gamba perché gli altri
avrebbero votato allineati. Singolare modo di valutare i
propri collaboratori, disprezzandoli prima di metterli in
campo.
Per cui in campo
non ci vanno. Li punirà certamente, senza pietà. Ma
otterrà poco. Forse una cieca obbedienza, un modo di fare
che offende chi la pratica e chi se ne serve. E che non ha
mai funzionato molto bene a nessuna latitudine.
Cambiare necesse
est! Quo usque tandem... direbbe un novello
Catone, difronte ad un'Italia la cui classe dirigente ha
toccato certamente il livello più basso della sua storia.
Tirando a campare,
ha detto qualcuno, si rischia di tirare le cuoia.
31 luglio 2008
Intanto anticipa Pantalone
Se il giudice tarda a
scrivere la sentenza rischia di pagare
di Iudex
"Sulla legge Pinto
TAR Lazio batte Corte dei conti". L'articolo di Antonello
Cherchi su Il Sole 24 Ore di oggi (a pagina 28)
deve aver fatto saltare qualcuno sulla sedia. Come mai
questa "vertenza" si saranno chiesti a viale Mazzini, sede
della Corte dei conti, e perché è finita così?
In realtà il titolo
tradisce in parte il contenuto dell'articolo, come spesso
accade quando i giornali corrono dietro all'esigenza di
colpire l'attenzione dei lettori. Si è trattato, più
esattamente, di un avvertimento della Procura regionale
della Corte dei conti ai colleghi del Tribunale
Amministrativo Regionale del Lazio. Una sorta di "ultimo
avviso".
I fatti. In
occasione dell'esame dei decreti con i quali la Corte
d'appello di Roma decide sui ricorsi proposti dai
cittadini che lamentano la eccessiva durata del processo,
i magistrati della Procura regionale contabile avevano
fermato l'attenzione su alcuni provvedimenti con i quali
la Presidenza del Consiglio dei ministri era stata
condanna al
pagamento di somme per il mancato rispetto del termine
della ragionevole durata del processo da parte del
Tribunale Amministrativo del Lazio, Sede di Roma.
L'attenzione dei
magistrati contabili, come riferisce Il Sole 24 Ore,
si era soffermata, in particolare su alcuni casi nei quali
il risarcimento previsto dalla legge
n. 89 del 24 marzo 2001
(c.d. "legge Pinto") aveva riguardato procedimenti che,
secondo la Procura, potevano essere definiti molto prima.
Si trattava, infatti, di
ricorsi del 1993, aventi ad
oggetto l’accertamento del diritto all’adeguamento
triennale dell’indennità giudiziaria prevista dalla legge
n. 221/1988. Sul punto il TAR aveva sollevato questione di
legittimità costituzionale della l. 537/1993, che aveva
interpretato autenticamente la l. 221/1988. La Corte
costituzionale aveva respinto la questione per manifesta
infondatezza, restituendo nel 1996 gli atti al Tribunale.
Riassunto dalle parti il giudizio le cause sono state
decise nel 2003.
Alla Corte dei
conti è parso che il tempo fosse troppo,
considerato che, intervenuta l’interpretazione della Corte
costituzionale, la decisione poteva essere assunta in una
stessa udienza o comunque con una formula unica. Il
periodo eccedente è stato, invece, calcolato in sette
anni. Di qui l’ipotesi di danno erariale in conseguenza
del pagamento dell'indennizzo per l'eccessiva durata del
processo.
Sennonché i chiarimenti
forniti dal Presidente del TAR, Pasquale de Lise, che di
recente ha assunto le funzioni di Presidente Aggiunto del
Consiglio di Stato hanno convinto la Procura che, ancorché
siano stati irragionevolmente dilatati i tempi del
processo, il danno erariale, rappresentato dal
risarcimento ottenuto dai ricorrenti, non possa essere
addebitato ai magistrati del TAR a titolo di colpa grave.
de Lise ha, infatti, fatto presente il grave arretrato che
si trascina da anni per effetto di un carico rilevante di
ricorsi, in presenza di un numero di magistrati
assolutamente insufficiente, come inadeguato è il numero
dei collaboratori.
Nell'archiviare il
procedimento la Procura ha espresso "perplessità" sul
comportamento dei colleghi del TAR . In sostanza ha
ritenuto che vi fosse una qualche negligenza che,
tuttavia, per effetto dell'ingente carico di lavoro non
raggiunga il grado di colpa (grave) richiesto dalla legge.
Come dire, uomo avvisato...
Al romano TAR
di via Flaminia avranno anche pensato a quell'aureo detto
capitolino per il quale "alla prima si perdona, alla
seconda si condona, alla terza si bastona". Ed avranno
tirato un sospiro di sollievo. Forse c'è ancora l'ipotesi
del condono. Poi sarà meglio correre!
25 luglio 2008
Il "gestaccio" di Bossi
e i Prof. del Sud
Senso dello Stato zero
di Senator
Caro Direttore,
ricordo di aver letto nel tuo libro (Un'occasione
mancata, Editore Nuove Idee) che Gianfranco
Fini, all'epoca Vicepresidente del Consiglio, tornando da
una riunione di maggioranza tenutasi a Palazzo Chigi, se
ne uscì con un commento durissimo: "Senso dello Stato
zero".
Non so, e tu non lo
dici, a chi si riferisse il leader di AN, che' più
d'uno poteva suggerire quel commento, ma è certo che oggi
se lo merita Umberto Bossi, il sanguigno
tribuno del Nord Est, che
ha costruito la sua fortuna politica cavalcando la
protesta di lombardi e veneti verso Roma, per loro "ladrona"
eppure, come ebbe a dimostrare qualche anno fa la
Ragionerie Gen4rale dello Stato, generosa, molto generosa
se riversa su quelle terre molto più di quanto preleva con
tasse e tributi.
Non è questo,
tuttavia, il tema all'ordine del giorno, ma il "gestaccio"
del Senatur all'Inno di Mameli e la polemica con i
professori "stranieri", cioè quelli che vengono dal Sud.
Parlava in Veneto, la regione con la più alta dispersione
scolastica, dove, cioè, i giovani lasciano l'istruzione
obbligatoria prima della conclusione del ciclo di studi.
Un problema che evidentemente non lo preoccupa.
Ci ha messo molto
in imbarazzo, ancora una volta, il Ministro "delle riforme
per il federalismo", come maggioranza e singolarmente,
come cittadini eletti (so, caro Direttore, che tu
preferisci dire "nominati") in un Parlamento che
rappresenta la Nazione, dalle Alpi al Lilibeo. La frase
che ha scatenato Bossi, "che schiava di Roma Iddio la
creò" in realtà è la fotografia esatta della storia, come
ebbe a dire Camillo Benso di Cavour il 25 marzo 1861, nel
proclamare solennemente che "Roma, Roma sola deve essere
la Capitale d'Italia".
Storia a parte,
passando alla cronaca, il Senatur continua ad
essere la spina nel fianco della maggioranza e lo sarà
ancora di più quando metteremo mano al federalismo
fiscale, quando passeremo dalle parole ai fatti e dovremo
stabilire una serie di norme di garanzia che non sempre
gli piaceranno. Ricorrerà ancora alla demagogia becera di
"Roma ladrona" o si ricorderà che lo Stato e gli enti
pubblici sono i migliori clienti delle imprese del Nord
Est, molte delle quali lavorano solo per il pubblico?
21 luglio 2008
Storie di ordinaria
indifferenza
Nessuna pietà per le
piccole rom annegate nel mare di Napoli
di Salvatore Sfrecola
La foto a pagina 18
del Corriere della Sera di oggi è terrificante. Due
corpi, i corpi di due bambine rom di 13 e 15 anni,
giacciono parzialmente coperte sulla spiaggia, a pochi
metri da due bagnanti che prendono il sole, mentre un
altro conversa al cellulare.
Vendevano piccoli
oggetti sulla spiaggia lì dove il mare bagna la sabbia.
Un'onda più forte delle altre le ha prima risucchiate e
poi sbattute con violenza su un gruppo di scogli. C'è
stato, per la verità, un tentativo di soccorso di un
giovane che poi ha riportato a riva i corpi e tentato di
rianimarle. Un gesto di coraggiosa solidarietà rimasto
alle cronache anonimo. Come anonimi sono i bagnanti che,
disciolto il solito capannello intorno alle vittime, quasi
per morbosa curiosità, sono tornati a spalmarsi di crema
ed a prendere il sole.
La morte a due
passi da loro li ha lasciati indifferenti. Certo non
avrebbero potuto far nulla per le piccole rom, due bambine
di quelle che, nelle nostre famiglie, sono ancora
coccolate da genitori e parenti e che, invece, nei campi
nomadi sono addestrate all'accattonaggio o al borseggio,
con onere di riportare a casa un tot di euro se non
vogliono subire sanzioni. Queste vendevano cianfrusaglie
ai bagnanti, in riva a quel mare che le ha tradite.
Non potevano fare
più nulla i bagnati, ma è difficile accettare che la morte
lasci tanta indifferenza. Il cuore dei napoletani? Sta
solo nelle canzonette!
Neppure una
preghiera per le piccole rom. Cuori indifferenti alla
sofferenza altrui, senza carità, senza quel minimo di
carità che dovrebbe caratterizzare l'uomo. E
distinguerlo, mi viene da dire, dalle bestie. Poi mi
vengono alla mente le immagini di piccoli animali
domestici che assistono il padrone, che vegliano sulla sua
tomba. E allora l'uomo che ha perso umanità, che non sa
esercitare la carità, ha un cuore più arido di quelle che,
con un pizzico di disprezzo, continuiamo a chiamare
"bestie".
20 luglio 2008
Qualche suggerimento,
non richiesto, al Sindaco Alemanno
Napoli pulita (o quasi),
Roma zozza!
di Marco Aurelio
Sono lieto per
l'annuncio del Presidente del Consiglio! "Napoli torna in
Occidente". Alle falde del Vesuvio rimangono da smaltire
"solo" duemila tonnellate di rifiuti, di quelli tossici,
ma saranno avviati nei siti appositi anche questi, presto.
A Roma, invece, è
tutt'altra musica. La Città è sporca, maleodorante,
ovunque, ma soprattutto nelle strade del centro storico,
quelle dei turisti, quelle che sono l'immagine dell'Urbe
in tutto il mondo. Per non parlare dei cassonetti che, con
il caldo, emanano un fetore nauseabondo.
In una parola la
Città è romanamente zozza, terribilmente zozza.
Tutto questo, caro
Sindaco Alemanno, non fa onore a Roma.
Hai perduto
un'occasione, quella di una grande pulizia della Città,
pratica ed un po' anche simbolica, visto che sei stato
eletto anche perché i nostri concittadini hanno giudicato
fallimentare la precedente gestione. Fallimentare e
dispendiosa, come affermi ogni giorno rinviando alle
rilevazioni sui conti che i tuoi collaboratori ed il
Ministero dell'economia hanno condotto all'indomani
dell'insediamento della nuova Giunta.
Invece, niente
pulizia straordinaria che avrebbe dato ai romani il senso
del cambiamento che al momento hanno percepito solo con il
traffico impazzito e la sosta selvaggia, effetto
evidentemente non immaginato della sospensione del
parcheggio a pagamento.
Chi non ha mai
amministrato ed evidentemente non ha imparato neppure
facendo opposizione può fare errori che comunque con un
po' di prudenza e buon senso potevano essere evitati.
L'importante è
imparare la lezione. Per amministrare una città, in
particolare una come Roma, non servono ideologia né
demagogia (questa, in particolare, fa molto male) ma
un'attenzione ai problemi concreti della gente, primo tra
tutti il traffico che tutti desiderano sia celere, che
significa minuti di vita recuperati e vivibilità della
Città, e la pulizia delle strade e dei marciapiedi dove
hanno diritto di camminare anziani, donne e bambini senza
fare slalom tra cacche di cani i cui proprietari hanno il
dovere di raccoglierle e depositarle a loro cura.
Ricordati caro
Sindaco che l'amministrazione di Sinistra, a Bologna,
cadde, come scrissero molti giornali, sulle cacche dei
cani, cioè sulla pulizia, che è igiene e civiltà.
19 luglio 2008
Il difficile equilibrio
dei poteri
Politica e Magistratura
di Salvatore Sfrecola
Per Sergio Romano,
che oggi interviene sul Corriere della Sera con un
editoriale dal titolo rassicurante Il Vero Rimedio,
"la guerra fra politica e giustizia non è un fenomeno
esclusivamente italiano. Esiste sin dagli inizi degli anno
Novanta, anche se in forme diverse, in quasi tutte le
maggiori democrazie occidentali, dagli Stati Uniti alla
Francia, dalla Spagna alla Germania".
Sono un attento
lettore di Romano, politologo e storico, editorialista
brillante, con le cui analisi spesso concordo, anche in
materia istituzionale. Ma questa limitazione del
"conflitto" ad un periodo recente è sbagliata e può
confondere le idee di "qualche lettore" al quale
l'articolo vorrebbe fornire una chiave di lettura della
situazione attuale, della tensione che oppone il Premier e
parti della sua maggioranza alla Magistratura con una
critica al funzionamento della giustizia (penale) che non
sembra originata da una spasmodica volontà di perseguire
il bene comune, dacché, semmai, come ha osservato
Senator che oltre a fare il parlamentare frequenta le
aule di giustizia facendo onore alla toga di avvocato, il
vero problema per gli italiani è la giustizia civile,
lentissima e tale da scoraggiare il cittadino dal
ricorrere ai giudici. E da dissuadere l'imprenditore
straniero dall'operare in Italia, proprio per l'incertezza
del diritto che questa situazione determina.
Perché, dunque,
sbaglia Romano, quando limita agli anni Novanta il dies
a quo, del fenomeno? Perché, in realtà, il conflitto
tra politici e giudici è coevo all'esistenza delle
istituzioni della società civile e della giustizia.
Ovunque nel mondo, e da sempre, il potere politico non
tollera controlli di legalità. Si sente svincolato dalla
verifica che possono fare i giudici del comportamento dei
suoi esponenti. Non lo tollerava il potere assoluto, che
pur assumendo in se l'esercizio della giustizia, nel senso
che i giudici erano funzionari del sovrano, dallo stesso
nominati, qualche dispiacere a re e principi le toghe
hanno sempre dato. Non lo tollera a maggior ragione il
potere politico assistito dal consenso democratico, perché
assume che solo il popolo possa giudicarlo. Ma dimentica
che una cosa è la valutazione "politica" dell'operato
degli eletti che spetta agli elettori, altra cosa è la
valutazione, sotto il profilo del rispetto delle leggi, di
comportamenti che collidono con regole di comportamento
che la stessa classe politica ha definito in leggi e
codici, assumendo che quei comportamenti destino allarme
sociale. Per rimanere ai reati contro la Pubblica
Amministrazione, pensiamo alla concussione ed alla
corruzione, tipici reati dei gestori del potere (per chi
ne avesse voglia rinvio ad alcune recenti pubblicazioni:
C.A. Brioschi, Breve storia della corruzione dall'età
antica ai giorni nostri, Tea, Milano, 2004; P. Davigo
e G. Mannozzi, La corruzione in Italia, Laterza,
Bari, 2007; B.G. Mattarella, Le regole dell'onestà,
Il Mulino, Bologna, 2007).
Proprio di questa
mentalità è il linguaggio di chi ripete che i giudici non
hanno una legittimazione popolare, non sono eletti, sono
solo degli impiegati dello Stato con laurea in
giurisprudenza.
Qui dobbiamo fare
almeno un po' di chiarezza. E senza divagare molto tra
filosofi e politologi, in Italia e all'estero, possiamo
ricordare alcune importanti affermazioni della nostra
Costituzione: "i pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della Nazione" (art. 98, comma 1); "i giudici
sono soggetti soltanto alla legge" (art. 101, comma 2);
"La magistratura costituisce un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere" (art. 104, comma 1); "I
magistrati sono inamovibili" (art. 107, comma 1).
Bastano queste
poche norme, delle molte altre che potrebbero essere
richiamate per delineare meglio il quadro se dovessimo
scrivere un saggio e non fare qualche annotazione sul un
piccolo giornale on-line, per dimostrare che il
Costituente, che aveva presenti alcune limitazioni di
indipendenza che in precedenza avevano rivestito la
giustizia di una maglia stretta, abbia voluto affermare
come l'esercizio di pubbliche funzioni sia un servizio
"esclusivo" alla Nazione, non alla politica, che è
espressione traseunte delle scelte dei cittadini. Lo ha
affermato per i dipendenti tutti, dall'usciere (oggi si
chiama commesso) al direttore generale (oggi si chiama
dirigente di prima fascia). Ed a maggior ragione lo ha
affermato della magistratura indicando nella legge l'unico
dominus del giudice, che pure giudica "in nome del
popolo italiano", con la precisazione che la magistratura
"costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni
altro potere". Un ordine costituito da giudici di varie
giurisdizioni, come ha spiegato bene la Cassazione,
funzionari pubblici assunti sulla base di rigide prove
selettive che ne accertano la preparazione professionale
in diritto. Naturalmente in questa materia c'è spazio per
riflessioni sulla validità della tecnica del reclutamento
e sul controllo del lavoro svolto ai fini della verifica
dell'attitudine del giudice ad essere impiegato in un
determinato settore o ad assumere funzioni direttive. Nel
senso che chi è bravo a stendere una sentenza non è
necessariamente e per ciò solo idoneo a ricoprire il ruolo
di presidente di una sezione (presiedere una camera di
consiglio che porti ad una determinazione corretta in
diritto non è semplice) o di un tribunale, funzioni nelle
quali occorrono altre capacità, organizzative,
manageriali.
E' solo
un'enunciazione di problemi non facili da risolvere. Anche
la valutazione del lavoro dei giudici non è agevole. Le
sentenze non si possono solamente contare. La sentenza
sulle responsabilità per un incidente stradale non è la
stessa cosa di una pronuncia su una vicenda di corruzione.
La sentenza più breve impegna qualche ora, ma vi sono
sentenze per stendere le quali è necessario un rilevante
impegno, oltre a quello che ha preceduto l'udienza.
Qualcuno ha pensato che queste attività potessero essere
valutate da chi è abituato a fare il controllo di
efficienza di un'impresa metalmeccanica o di un'impresa di
pulizie!
Tornando al tema
dei rapporti tra politica e magistratura Romano ritiene
che uno dei motivi del contrasto tra giudici e politici
sia conseguenza della delega che questi avrebbero dato ai
giudici nella lotta a terrorismo, mafia e corruzione che
li avrebbe "implicitamente incoraggiati a uscire dal loro
ruolo tradizionale".
Questa frase, che
vorrebbe, chiarire le ragioni del conflitto non raggiunge
l'obiettivo. Perché è vero certamente che nell'equilibrio
dei poteri e, soprattutto, nella distinzione delle
attribuzioni c'è stata un po' di confusione, pericolosa,
come quando i pretori facevano tagliare gli alberi lungo
le strade ritenendo che costituissero un pericolo messo
in risalto dall'incidente mortale del quale si erano
occupati, con ciò invadendo una sfera di attribuzione
propria dell'autorità di governo. Come in materia
ambientale, dove alcuni giudici sono stati indotti a
dettare di fatto con le loro sentenze norme sulla tutela
al momento inesistenti.
Ma questo è potuto
avvenire per l'assenza dell'autorità politica,
parlamentare e di governo, per cui ne sono venute certe
invasioni di campo, peraltro spesso gradite all'opinione
pubblica. Come alcune indagini riguardanti la salute e
l'alimentazione, che hanno impegnato il Procuratore
aggiunto di Torino, Guariniello.
Tuttavia quando si
hanno invasioni di campo o fughe in avanti, secondo il
linguaggio giornalistico e le occasioni, c'è sempre la
possibilità di rientrare rapidamente nelle regole del
sistema, ammesso che siano state violate. Chi governa
impugna le sentenze, chi ha il compito di fare le leggi,
corregge quelle che ritiene sbagliate o insufficienti o ne
scrive di altre.
Il fatto è che in
Italia spesso si cercano soluzioni di compromesso. Cosa
che non va bene. Ognuno deve assumersi le proprie
responsabilità prima di tutto nel ruolo che l'ordinamento
gli assegna.
Quindi nulla di
nuovo sotto il sole. I politici sgomitano nell'intento di
perseguire loro, legittimi, obiettivi politici. Ma questo
deve avvenire nel rispetto delle leggi e delle regole
della buona amministrazione. Faccio spesso un esempio ai
politici che rivendicano il loro ruolo e la loro autonomia
di "eletti dal popolo". Se un amministratore locale
costruisce un campo di bocce invece di un campo di calcio
se la vedrà con i suoi elettori. Forse lo voteranno gli
over sessanta, che sembra prediligano le bocce, ma non
avrà il consenso dei giovani che amano il gioco del
pallone. E' una scelta politica e la valutazione è
politica. Ma se l'impresa che ha realizzato il campo di
bocce ha ottenuto l'appalto corrompendo, se l'opera non è
realizzata a regola d'arte e ad un costo superiore al
giusto qualcuno ne dovrà rispondete dinanzi al Tribunale
penale ed alla Corte dei conti.
In un ordinamento
come il nostro, con rigide norme su attribuzioni e
competenze tutto dovrebbe filare liscio e comunque vi sono
gli strumenti per rientrare sempre nella normalità.
Il conflitto che è
sullo sfondo dell'articolo di Romano dà l'impressione di
essere il prodotto di un tentativo di parti della classe
politica di avere la possibilità di attuare una disinvolta
gestione della res publica. Lo dimostra il richiamo
costante, anzi l'esaltazione dell'imprenditoria privata,
un esempio non sempre calzante, considerato che, tranne
qualche piccolo imprenditore, molte delle nostre aziende
di medie e grandi dimensioni godono di agevolazioni
pubbliche ed un buon numero di esse hanno negli enti
pubblici i principali clienti. Una situazione che
certamente favorisce legami e intrecci di interessi che a
volte possono essere illeciti.
Ho scritto più di
quanto avevo immaginato quando mi sono messo al computer.
Me ne scuso con i lettori ai quali, comunque, spero di
aver offerto qualche spunto di riflessione.
19 luglio 2008
Verso una nuova
"occasione mancata"?
Il premier cala nei
sondaggi
gli italiani non ne
condividono le "priorità"
di Senator
Caro Direttore, non
sono un mago, non ho facoltà divinatorie, ma parlo con la
gente, un po' come il Federico II che hai ricordato
qualche giorno fa. E ne percepisco il polso, sento che non
è interessata alla giustizia penale, quella che assilla il
premier. Semmai è la giustizia civile che interessa gli
italiani. Ognuno di noi, infatti, ha almeno un ricorso al
Giudice di pace per una multa sbagliata o una causa
condominiale!
Ma soprattutto
preoccupa il caro prezzi e mutui e la pressione fiscale,
che forse non aumenterà nominalmente ma certamente per
effetto dell'aumento del costo della vita.
Così non mi hanno
stupito i sondaggi
Gfk-Eurisko, con il
63% delle famiglie italiane il quale pensa che la propria
situazione finanziaria sia peggiore rispetto a un anno fa,
il livello più basso da sei anni e mezzo, con un saldo,
tra ottimisti e pessimisti, negativo anche guardando al
futuro.
Secondo quel
sondaggio, il 29% degli italiani pensa che il
comportamento degli ultimi mesi tenuto da Silvio
Berlusconi abbia migliorato l'economia del Paese, il 33%
che non l'abbia mutata e il 16% che l'abbia peggiorata.
Anche se è un risultato molto migliore di quello ottenuto
da Prodi a marzo, quando il 72% degli italiani pensava che
l'allora presidente del Consiglio avesse peggiorato le
cose il dato non è confortante.
Secondo il
sondaggio Gfk-Eurisko la "luna di miele" tra il governo e
i suoi elettori è finita: nell'aprile scorso l'indice
globale di fiducia (Ics) tra coloro che hanno votato
centrodestra era di 79 punti su una scala di 100, il
risultato più elevato degli ultimi tre anni. Ora si trova
a 52 punti, praticamente lo stesso di quanto registrato
tra gli elettori di centrosinistra (49 punti). Confermato
il maggior interesse degli italiani per i temi economici:
il 61% pensa che la priorità del governo sia questa (il
19% si concentra su lavoro e occupazione, il 17% salari e
pensioni, il 15% sull'economia generale e il sulle 10%
tasse), contro il 23% che indica l'ordine pubblico quale
massima priorità: il 13% chiede soprattutto lotta alla
criminalità, il 9% un freno all'immigrazione e solo l'1%
misure contro il terrorismo.
Anche a fare
prudenziali sconti sui sondaggi il dato deve preoccupare
perché il Paese ha bisogno di essere governato.
Ci avviamo verso
una nuova "occasione mancata", come hai titolato il tuo
ultimo libro, caro Direttore? Mi auguro di no. Noi,
consentimi per l'idem sentire de re publica, che
percepisco dalle nostre frequentazioni, siamo uomini delle
istituzioni, liberali alla Luigi Einaudi, ispirati dal
pensiero dei grandi filosofi del diritto e dello Stato
mediato dalla dottrina sociale della Chiesa. Non siamo per
questa o quella coalizione né per questo o quel partito,
anche se io milito in un partito, ma per gli uomini che
con onestà d'intenti, ovunque siedano in Parlamento,
perseguono il bene comune con rigore ed onestà.
Non siamo fuori
tempo, come potrebbe apparire. Siamo anche molti, più di
quanti le cronache giornalistiche e televisive facciano
ritenere.
E non ci arrendiamo
all'andazzo!
18 luglio 2008
Gli italiani ad un passo
dalla felicità!
Le priorità sono
l'immunità parlamentare, la separazione di P.M. e giudici,
non come arrivare alla quarta settimana del mese,
sopravvivere al carovita, alla pressione fiscale, ai mutui
impazziti, alla malasanità
di Senator
Il premier ha
stabilito la graduatoria delle priorità per gli italiani
e, quindi, anche la misura della loro soddisfazione, in
una parola della felicità. E così, nonostante quel che
scrivono i giornali sulle difficoltà delle famiglie, sul
peso della pressione fiscale, sui dati Istat che
registrano l'aumento dei prezzi soprattutto nei generi di
grande consumo, mentre il Governatore della Banca d'Italia
dimezza le previsioni della crescita per l'anno in corso
ed il prossimo, Silvio Berlusconi ridisegna la scala delle
priorità e mette al primo posto l'emergenza giustizia.
Sono l'immunità
parlamentare, all'indomani di un grosso scandalo che ha
come imputato i vertici della Regione Abruzzo, la
separazione delle carriere di Giudici e Pubblici
Ministeri, la riforma del Consiglio Superiore della
Magistratura, le priorità per gli italiani, che potranno
ancora stringere la cinghia e sperare di sopravvivere alla
quarta settimana del mese, ancora tartassati dal fisco (Tremonti
ha detto che non ci sono soldi, quindi niente
alleggerimento della pressione fiscale), angosciati dai
tassi "variabili" (all'insù, ovviamente) per i mutui di
quanti hanno comprato casa dalle società di
"intermediazione" che hanno acquisito gli immobili degli
enti pubblici per rivendere le case a prezzi doppi.
Cominciamo ad essere
preoccupati, noi della maggioranza. Ci rendiamo conto ogni
giorno di più di essere su un vulcano che brontola e
minaccia fuoco e fiamme. La gente non ne può più e la
capacità propagandistica del premier e dei suoi
"consiglieri" ha una forza di persuasione evidentemente
limitata nel tempo.
I problemi reali
per l'italiano onesto non sono l'immunità dei parlamentari
per reati commessi prima e durante il mandato
parlamentare. Perché il cittadino medio li vorrebbe al di
sopra di ogni sospetto, non coinvolti in bustarelle o
abusi vari, un po' simili a lui che non ha velleità
concussorie e mazzettare, che lavora onestamente versando
al fisco quanto è dovuto.
Alcuni di noi
stanno meditando di mettersi alla finestra, per poi
distaccarsi dal Partito delle LIbertà, che un po'
usurpa il nome glorioso di Libertà che fu bandiera del
Partito Liberale, piccola ma nobile formazione di
integerrimi servitori dello Stato. E' vero che siamo stati
"nominati" e non eletti, ma molti di noi sono convinti di
poter ugualmente tornare in Parlamento a rappresentare gli
italiani onesti. E, comunque, la libertà individuale e gli
ideali che professiamo non possono essere mercanteggiati
con la medaglietta parlamentare.
Ci consultiamo
anche per meditare sul futuro, più o meno prossimo. I
malori di Berlusconi in pubblico fanno ritenere, secondo
un prudente calcolo probabilistico, che ne abbia avuti
almeno altrettanti in privato. E poi la guerra alla
Magistratura, oltre ad essere una pessima espressione
dell'esercizio arrogante del potere esecutivo nei
confronti del giudiziario, non è certamente gradita agli
italiani, al di là delle scarsamente credibili rilevazioni
di Mannheimer. Perché, ad esempio, non si parla mai della
giustizia civile e dei suoi tempi biblici, che certamente
interessa più gli italiani dell'impunità di alcuni
mestieranti della politica?
17 luglio 2008
Eluana: una condanna a
morte
in un Paese che l'ha
abolita per Costituzione
di Paola Maria Zerman
Eluana dovrà morire, di fame e di sete, lentamente, giorno
dopo giorno! Nonostante nella Costituzione della
Repubblica Italiana sia solennemente affermato che “non è
ammessa la pena di morte” (art, 27, comma 3) i giudici
della Corte d’appello di Milano hanno stabilito che Eluana
Englaro dovrà cessare di essere alimentata. Non, si badi
bene, che debbano cessare cure per mantenerla in vita, che
debba venir meno il cosiddetto “accanimento terapeutico”.
Né si tratta di “staccare la spina”, perché non c’è
nessuna spina da staccare. Eluana, infatti, respira da
sola e per farla morire è necessario far cessare la sua
alimentazione.
Una condanna a morte, orribile, incredibile nel Paese
civilissimo, culla del diritto romano e della civiltà
cristiana. Una morte lenta, due tre settimane, si dice,
nella convinzione, tutta da dimostrare, che Eluana non
percepisca questa sua condizione di lenta agonia per
inedia e disidratazione. Un’ipocrisia senza limiti, anche
perché i giudici hanno messo in bocca, si fa per dire,
alla stessa condannata la sua sentenza, deducendo che
quella che loro hanno assunto sarebbe stata la sua
volontà, se avesse potuto esprimerla. Una “volontà”
desunta dal suo "vissuto" e dai suoi "convincimenti
etici".
Siamo di fronte ad una gravissima lesione dei diritti
della persona che vanno al di là del caso specifico, che
registra la solita esultanza di quella che è stata
chiamata “la
compagnia della pessima morte”.
I giudici si sono assunta una grossa responsabilità,
terribile! Hanno detto, in sostanza, che a colui il quale
non è in grado di mangiare e bere autonomamente è
possibile interrompere l’alimentazione, certo in presenza
di uno stato di incoscienza. Che nessuno è in condizione
di dire se temporanea o meno.
Aldo Loiodice, costituzionalista, docente
all’Università di Bari, ha detto al Foglio che la
sentenza di Milano "è abnorme, perché nega il principio
primario del diritto alla vita. Non siamo di fronte al
diritto di rifiutare le terapie e anche la nutrizione,
attraverso una volontà liberamente espressa.
In questo caso non c'è nessuna volontà, se non quella dei
tutori della Englaro. E' un fatto moralmente e
giuridicamente inaccettabile. Viene invocato il diritto a
uccidere una persona attraverso la negazione dei supporti
minimi per la sua sopravvivenza. Quello di Eluana non è un
corpo privo di valore, 'è' Eluana. E il suo tutore non può
intervenire su diritti personalissimi, che non ammettono
rappresentanza".
Secondo Eugenia Roccella, parlamentare e Sottosegretario
al Ministero del lavoro, "la decisione di porre fine a una
vita umana non richiede dunque nemmeno quelle cautele che
riguardano le normali volontà testamentarie su beni
materiali".
Monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia
accademia pro-vita, si è chiesto "come sia possibile che
il giudice si sostituisca in una decisione come questa
alla persona coinvolta, al legislatore".
Mentre sottolinea che "Eluana è ancora una ragazza in
vita. Il coma è una forma di vita e nessuno può
permettersi di porre fine a una vita personale".
Sullo sfondo, una concezione della vita dal forte sapore
economicista, che considerando troppo costosi sul piano
assistenziale questi pazienti, escluda la tutela della
loro salute, assicurata a tutti.
È bene pensare agli effetti di siffatta impostazione, che
può arrivare ad affermazioni che già hanno fatto
inorridire il mondo intero in un recente passato. Va
curato un disabile? Ed un pazzo? Per Adolfo Hitler erano
elementi da eliminare. Quando entrano nell’ordinamento
certi “principi”, la deriva è assicurata, come un fiume in
piena che non si ferma più.
Il riferimento al Nazismo ed alle sue leggi sulla razza e
sui diversi (i malati gravi, soprattutto) faranno pensare
ad un’esagerazione, ma anche in quel caso si cominciò da
affermazioni generiche, che poi sono state alla base di
successive più pesanti statuizioni.
Scardinare il principio della non disponibilità della vita
umana e del dovere, proprio di ogni società civile, di non
legittimare forme di abbandono nei confronti dei propri
cittadini, che non sono in grado di provvedere a loro
stessi, è gravissimo. Con un grave problema deontologico
per la classe medica che si trova a confrontarsi con il
dovere fondamentale del prendersi cura dei pazienti che
non sono in grado di intendere e volere.
Per non dire dei problemi giuridici posti da espressioni
di volontà sostitutive del paziente incapace di
esprimerle, affidato a tutori o giudici, quando la morte
può costituire diritti in capo ad altre persone.
Un groviglio di problemi, etici e giuridici troppo
frettolosamente risolti. Che rimangono aperti e drammatici
per tutti coloro che credono nella vita, nella sua
sacralità e nel diritto delle persone, che tali rimangono
anche in coma.
16 luglio 2008
Ancora un'occasione mancata
Parigi e non Roma al
centro del Mediterraneo
di Salvatore Sfrecola
Un tempo il mare
Mediterraneo era "nostrum", in latino, come si deve in
omaggio alla storia e alla verità, come dimostra il
paesaggio dei paesi rivieraschi ricco di memorie romane,
dalla Libia alla Tunisia. Memorie di una civiltà
altissima, che ha fatto per secoli della tolleranza, nel
rispetto delle leggi, il motivo dell'incontro di popoli
diversi, con culture diverse, civili e religiose.
Oggi l'Europa,
fragile nella sua struttura politica, che non ha convinto
gli irlandesi, come non aveva convinto nel 2006 francesi
ed olandesi in sede di ratifica del Trattato che
istituisce una Costituzione per l'Europa, ha bisogno
di aprirsi a Sud, di divenire l'interlocutore privilegiato
dei paesi del Medio Oriente per i quali spesso l'Occidente
ha soprattutto il volto arcigno dello Zio Tom, del quale
hanno imparato a diffidare.
C'è più feeling
naturale tra i figli del Mediterraneo rispetto a quelli
nati sulle sponte dell'Hudson o del Missippipi. L'Europa
ha bisogno di questa apertura, politica ed economica. Ed è
presente a Parigi, al vertice dei quaratasette Capi di
Stato e di governo, i ventisette dell'UE più venti dei
paesi rivieraschi. L'idea del Presidente Sarkozy è quella
di varare un patto di collaborazione tra tutti i paesi
presenti sulle rive della Senna, in gran parte ancora da
definire, per difficoltà obiettive, prima tra tutte la
presenza di Israele e il malessere di alcuni stati arabi.
Tanti gli argomenti
all'ordine del giorno, espliciti o sullo sfondo.
Come «i benefici economici della creazione di una Zona di
libero scambio nella regione Euromed dal 2010» o la
«volontà di promuove flussi di migrazione legali». Più
semplice accordarsi su ambiente, trasporti, energia
alternativa, educazione, commerci.
"Il Processo di
Barcellona: Unione per il Mediterraneo". Il Presidente
francese mette tutto il suo prestigio nel Summit
parigino. Insegue
da sempre il sogno di un grande palcoscenico sul quale far
confluire le discussioni politiche e le decisioni
finanziarie, di un Club Med nuovo e senza
precedenti, un nuovo Impero Romano, come qualcuno ha
detto. Sarkozy ne parla da prima di essere eletto e
adesso, alla guida semestrale dell'Europa comunitaria,
s'impegna a fondo, incurante della freddezza della
Germania o di altri paesi dell'Est, timorosi di vedere
spostare il baricentro degli interessi e dei fondi UE.
E l'Italia? Ancora
una volta la vocazione naturale del nostro Paese è
mortificata dalle distrazioni della politica. L'Italia,
che vive sul Mediterraneo e che ha da sempre un rapporto
privilegiato, soprattutto culturale, con i Paesi con i
quali la Roma repubblicana e imperiale aveva stretto
rapporti che sono durati nel tempo, se Sant'Agostino si
diceva romano e Terulliano, ad impero dissolto, parlava in
nome della civiltà di Roma.
Eppure quella Roma,
"onde Cristo è romano" a Parigi è sul margine. L’Unione,
si dice, avrà una co-presidenza biennale (Francia e Egitto
per cominciare) e un segretariato. La sede? Si parla di
Bruxelles, un compromesso.
Ci siamo
persi in chiacchiere. Abbiamo rincorso problemi
enfatizzati dai mass media per seguire le elucubrazioni
ideologiche di questo o quel leader politico. E così ci
sediamo in seconda fila ad assistere ad uno spettacolo del
quale avremmo dovuto avere la regia. Per vocazione. Se
seguissimo le vocazioni autentiche!
13 luglio 2008
Satira e volgarità
Sempre attuale
scherza coi fanti e lascia stare i santi
di
Salvatore Sfrecola
La satira stimola
l'intelletto, in politica e nella vita, smitizza chi "si
crede". Ma perché sia satira vera è necessario il tratto
garbato e tagliente, la frusta che cala veloce e
impercettibile. La satira non può essere mai volgarità
gratuita, cioè non necessaria. D'altra parte quando mai la
volgarità potrebbe essere necessaria se si vuol mettere
qualcuno alla berlina.
Gli insulti a
Papa Benedetto XVI non sono satira, non
hanno niente a che vedere con la satira. E' esibizionismo
allo stato puro, ricerca del fatto sensazionale per stare
in cronaca a tutti i costi.
Peccato! Di satira
vera in questo Paese ci sarebbe bisogno per far capire a
chi detiene il potere che i cittadini vigilano sulla
classe politica, che non è formata da intoccabili, non
all'indiana, ma come intendiamo noi, la casta, anzi le
caste che ritengono di non dover rendere conto a nessuno,
non al popolo e nemmeno alla magistratura.
Ma se si cade "così
in basso", come ha scritto oggi l’Avvenire, non si fa un
buon servizio all'intelligenza degli italiani.
Quanto al Papa, premesso che non si
comprende
cosa c’entrasse con i temi della
manifestazione, il vecchio adagio, consolidato dalla
saggezza dei secoli, ci ricorda che è bene scherzare con i
fanti e lasciar stare i santi.
9 luglio 2008
Uto Ughi esegue Schubert
in un concerto di
beneficenza per un'iniziativa
del Lions Club Roma
Amicitia in favore dei giovani
di Salvatore Sfrecola
Splendida
esecuzione ieri sera a Roma del Quartetto per archi n. 14
D.810 "La morte e la fanciulla" di Franz Schubert. Con il
Maestro Uto Ughi, Maryse Regard, violino, Raffaele
Mallozzi, viola e Gianluca Giganti, violoncello.
Nella sala Casella
di Villa Vagnuzzi, in via Flaminia 118, sede
dell'Accademia Filarmonica Romana, presente un pubblico di
amanti della musica cameristica, l'iniziativa è stata
presentata dall'Ing. Pier Mauro Tocchi, che ha presieduto
il Club Roma Amicitia, il quale ha illustrato il
Progetto Internazionale Adolescenza Lions Quest che
si propone di aiutare i giovani nei rapporti con la
scuola.
Il Quartetto n.
14, ha spiegato il Maestro Ughi prima di imbracciare il
suo splendido Stradivari, nasce da un breve Lied su una
lirica di Mathias Claudius riguardate un dialogo tra la
Morte ed una fanciulla. Il testo aveva molto impressionato
il compositore viennese perché presentava la morte come
una dolce consolatrice, rifuggendo dalle più consuete
raffigurazioni lugubri e spettrali. La musica segue il
dialogo tra la Morte che vuole ghermire la giovane e
questa che la respinge, rifiuta la stessa idea di
abbandonare la vita. Poi la Morte la rassicura ed invita
la giovane ad rifugiarsi tra le sue braccia.
La musica di
Schubert segue questo percorso, dall'iniziale agitazione
della fanciulla all'abbandono fiducioso nell'aldilà. La
musica è forte, beethoveniana come ha spiegato il Maestro
nella prima parte,
quando si sente
l'inquietudine resa mirabilmente da un incessante ritmo a
terzine che conferisce al brano una notevole dinamicità.
Poi il tratto si rasserena in un abbandono dolcissimo,
rassicurante.
Applausi
scroscianti e una richiesta di bis che il Maestro ha
soddisfatto dimostrando le sue capacità professionali con
l'esecuzione di un capriccio di Paganini, di quelli più
noti e più difficili
.
A conclusione
Alessandro Casali, Presidente del Gruppo Meeet, che
organizza le attività musicali del Maestro Ughi, ha
preannunciato una serie di concerti che si terranno dopo
le ferie per far conoscere la musica ai giovani e
richiamare l'attenzione delle politica su un tema
essenziale della cultura italiana eppure trascurato.
L'Italia, aveva ricordato il Maestro nella sua
introduzione, ha solo 15 orchestre mentre la Germania ne
ha più di 150. E' un segnale della disattenzione della
classe politica per un settore nel quale il nostro Paese
eccelle, come dimostra la presenza crescente di studenti
stranieri nel nostri conservatori.
Al termine del
concerto i presenti si sono trattenuti per un coctail di
saluto negli splendidi giardini di villa Vagnuzzi offerto
dal Club Amicitia.
9 luglio 2008
Politici, sentite la gente, imitate Federico II di Svevia
di Salvatore Sfrecola
Spesso si ha la
sensazione che i politici nostrani siano scollegati dalla
realtà di tutti i giorni, dalle esigenze e dalle
preoccupazioni della gente. Si è detto più volte,
commentando i risultati elettorali a livello nazionale e
locale. Questa o quella forza politica sembra composta da
gente che non va al mercato, non gira per la città, non
prende l'autobus o un treno, non ha bisogno di una
prenotazione ospedaliera e via dicendo delle esigenze
quotidiane della popolazione. Per cui non si accorgono che
i prezzi aumentano, che le strade sono piene di buche, che
i marciapiedi, sono ingombri di moto che impediscono la
deambulazione agli anziani, a chi ha difficoltà, alle
mamme con carrozzina, oltre ad essere maleodoranti per la
sporcizia che solo l'intervento di Giove pluvio può
eliminare (eppure nella mia infanzia ricordo autobotte che
percorrevano la città d'estate per pulire quanto meno
l'area riservata ai veicoli). C'è da chiedersi se qualcuno
della giunta comunale si sia mai accostato ad un
cassonetto. C'è da svenire per il cattivo odore. E venendo
a parlare della sanità, un tema di generale interesse,
sanno i nostri politici che certe prenotazioni di visite e
di interventi chirurgici rischiano di essere fissati
quando il paziente non c'è più? E' successo, non dico
niente di nuovo.
A questi politici
"di professione" vorrei suggerire di imitare Federico II
di Svevia, non a caso definito Stupor Mundi, il
quale, tra le altre iniziative che lo hanno reso famoso
quale sovrano saggio e preveggente, aveva l'abitudine di
sentire le opinioni della gente. Usciva dal suo palazzo,
si vestiva in modo da non essere riconosciuto e si recava
al porto ed al mercato, la famosa Vucciria, resa celebre
dallo splendido quadro di Guttuso.
Confuso tra i suoi
sudditi, parlando con tutti (Federico conosceva il greco e
l'arabo) s'informava soprattutto del gradimento del suo
governo, dell'accoglienza che il popolo riservava alle sue
iniziative. Cercava di capire anche se i suoi funzionari
erano capaci ed onesti e se veniva a sapere di qualche
dipendente corrotto, lo chiamava e platealmente lo puniva.
Dei politici
nostrani non ho mai incontrato nessuno al mercato, se non
alla vigilia delle elezioni, quando è necessario fare la
passerella per cercare consensi. Il solo Raffaele Costa,
da Ministro della sanità, si mise in coda allo sportello
delle prenotazioni ospedaliere per avere il polso della
situazione.
Lontani dalla
gente, presidenti, ministri, sindaci e assessori vivono
una realtà virtuale che non consente loro di percepire le
effettive esigenze degli amministrati, che spesso
potrebbero soddisfare con poche iniziative intelligenti.
.9 luglio 2008
Meglio ministri tecnici o politici?
di Salvatore Sfrecola
Botta e risposta
tra il Ministro dell'istruzione ed il Senatur.
Bossi aveva criticato la scelta della Gelmini alla guida
del Ministero di viale Trastevere, perché "non ha mai
insegnato". Pronta la replica: "neanche Bossi è un
eminente costituzionalista ma sono felice che sia
ministro".
Sono gli argomenti
di un dibattito permanente nella vita politica italiana,
soprattutto con riferimento ad alcuni settori. La sanità,
in particolare, ma anche l'economia, la giustizia. E'
meglio li guidi un tecnico o un politico?
Una regola valida
per tutti i ministeri e per tutti i ministri non c'è. I
ministri "tecnici" sono stati presenti prevalentemente in
governi che un tempo si chiamavano "balneari", perché
destinati a durare quanto il periodo delle vacanze estive.
Tutta brava gente, ma nessuno li ricorda perché non hanno
fatto quasi mai buona riuscita. Il tecnico, il docente
universitario o il professionista della materia sono
frenati dall'impostazione teorica propria della cultura
accademica, hanno difficoltà nel dialogare con i
funzionari, anch'essi tecnici, ma con esperienza sul
campo, non sempre riescono a farsi capire delle categorie
interessate. Il fatto è che raramente i tecnici hanno la
sensibilità politica occorrente a svolgere un ruolo
politico, quello del governo.
Negli anni scorsi
hanno fatto buona prova di se alla sanità Elio Guzzanti,
medico illustre con vasta esperienza di gestione di
strutture ospedaliere, ed Umberto Veronesi, manager della
sanità privata. La sanità, tuttavia, costituisce un
terreno dove la gestione quotidiana delle strutture ha un
peso rilevante e, più di altri settori, giustifica la
presenza di un tecnico con sensibilità sociale.
Per trovare un
tecnico con visione ampia della realtà politica ed
amministrativa, che abbia illustrato l'Italia ed il
governo, dobbiamo tornare indietro negli anni, a fine '800
e nel primo decennio del '900, per incontrare Giovanni
Giolitti, grand commis dello Stato, che ricordava
sempre quanto avesse giovato alla sua attività politica di
ministro delle finanze e dell'interno e poi Presidente del
Consiglio la lunga esperienza di Consigliere della Corte
dei conti con funzione di Segretario generale e quindi
responsabile del controllo sugli atti del governo. Poi
Gaetano Stammati, altro dirigente dello Stato (diresse le
direzioni generali delle tasse e delle partecipazioni
statali) passato a guidare il Ministero del tesoro, sua la
riforma del bilancio dello Stato del 1978, e poi i
ministeri del commercio con l'estero e dei trasporti.
Tecnici di elevata preparazione con grande sensibilità
politica. Rari casi nell'esperienza italiana,
frequentissimi nella vicina Francia, che ha avuto
ministri, primi ministri e presidenti della Repubblica
provenienti dall'Amministrazione pubblica, allievi dell'ENA,
l'Ecole Nationale d'administration.
Un ministro,
dunque, non deve essere un tecnico. Deve, invece, avere
vasta sensibilità ed esperienza politica che gli consenta,
con l'aiuto dei tecnici dell'Amministrazione e con gli
esperti ai quali ritiene di dover chiedere consigli, di
interpretare le esigenze della comunità. Del resto anche
Napoleone Bonaparte non era un giurista, ma la sua
partecipazione alla Commissione che curava la riforma del
codice civile e gli interventi che sono annotati a verbale
dimostrano che quel generale vittorioso sui campi di
battaglia di mezza Europa aveva anche una grande capacità
politica e molto equilibrio, sicché ha offerto ai giuristi
di professione un apporto significativo in una materia, la
disciplina dei rapporti privati, che interessa la gente.
Tornando alla
disputa che ha mosso queste nostre considerazioni, la
Gelmini non ha insegnato ma ha studiato e certamente si
sarà fatta un'idea di quel che va e non va nella scuola. E
magari avrà qualche amica che insegna o ha insegnato.
Forse, inoltre, ha letto di scuola e si è fatta un'idea di
come le cose vanno o non vanno in Italia e in qualche
altro paese.
Ugualmente il
Senatur, come Napoleone non è un giurista, ma con la
sua esperienza si rende conto di come guidare la
navigazione della barca della Costituzione, tenendo conto
di esigenze pratiche di funzionamento delle istituzioni e
della necessità di realizzare di un federalismo fiscale
che garantisca una equa distribuzione delle risorse dalle
Alpi al Lilibeo.
Entrambi i ministri
hanno tecnici di valore nelle loro strutture, li
sollecitino a dare il meglio di se per mettere a punto le
riforme che il Paese attende e, soprattutto, li invitino
sempre a dire come la pensano veramente per approfondire
seriamente le questioni. Non si fidino di quanti pensano
solo a compiacerli. Con il parere degli yes men
non si va lontano.
6 luglio 2008
Il falso problema della separazione delle
carriere dei giudici e dei pubblici ministeri
di Salvatore Sfrecola
Ieri sera sulla
prima rete televisiva, in una trasmissione che ho seguito
solo in parte, per cui non ho ben compreso quale ne fosse
la finalità, che aveva come protagonisti Ferruccio De
Bortoli, direttore de Il Sole 24 Ore, ed il
Professore Giovanni Sartori, condotta da un ridanciano
Fabrizio Fizzi, ad un certo punto all'illustre studioso
fiorentino trapiantato a New York è stato chiesto da Bruno
Vespa un giudizio sulla giustizia in Italia. Naturalmente
nell'intesa, che nell'interlocuzione del giornalista
interrogante era implicita, che ci fosse un ennesima
critica alla Magistratura.
Il Vespa nazionale
non è andato deluso e quel toscanaccio di Sartori si è
subito diffuso sull'"anomalia italiana" dicendosi
favorevole alla separazione delle carriere dei giudici e
dei pubblici ministeri, aggiungendo che solo in Italia le
cose vanno male. Lui che evidentemente è un esperto di
giustizia e non ha avuto nulla a ridire su quella che a me
sembra un'anomalia vera, l'elezione, negli Stati Uniti, di
giudici e Procuratori distrettuali, con tutte le
conseguenze negative di chi deve amministrare la giustizia
dovendo rispondere a chi lo ha eletto e spera che lo
rielegga.
E' triste,
veramente triste che di un problema come quello
dell'esercizio dell'azione punitiva dello Stato si senta
parlare e straparlare senza nessuna cognizione
dell'ordinamento e valutazione delle conseguenze che ne
derivano o ne deriverebbero dalla riforma proposta che,
dice Sartori, sarebbe voluta anche da ampi settori della
Magistratura. Non risulta, ma non è detto che non ci sia
qualcuno che desidera ardentemente farsi male e,
soprattutto, fare male al Popolo Italiano, in nome del
quale, come si legge nella Costituzione, le sentenze
vengono emesse.
Vediamo un po' di
riordinare le idee.
Punto primo,
in Italia la giustizia non funziona bene. I processi
civili, quelli che interessano cittadini ed imprese ed
incidono sulla qualità della vita di relazione e sulle
attività produttive e commerciali, sono troppo lunghi. E'
una situazione che tiene lontani anche gli imprenditori
stranieri, abituati, nei paesi d'origine, a tempi certi.
Punto secondo,
la giustizia penale, quella che ha il compito
essenzialmente di punite i comportamenti che destano
allarme sociale ha scarsa efficacia. Anche qui i processi
sono lunghi. I più importanti, quelli dei grandi scandali
della mafia e della corruzione si concludono spesso con
una sentenza che accerta la prescrizione. L'unica
efficacia deterrente sta nelle azioni cautelari adottate
ad iniziativa del Pubblico Ministero nella fase delle
indagini.
Non va bene. E' una
distorsione del sistema che vuole che i processi si
concludano con una sentenza del giudice, di assoluzione o
di condanna.
Qui si colloca la
questione delle relazioni tra Pubblico Ministero, che
esercita l'azione penale, nel nostro ordinamento
obbligatoria (ne parleremo altra volta), ed il giudice.
Sembra che tutto si
risolva in questo rapporto, come se l'incertezza della
giustizia penale dipenda dall'essere le due funzioni
esercitate da soggetti appartenenti ad una stessa carriera
ed assegnati all'una o all'altra funzione dal Consiglio
Superiore della Magistratura, a domanda o d'ufficio,
all'ingresso in carriera.
Alla base della
critica all'ordinamento italiano c'è il ricorrente
riferimento alla circostanza che il P.M. è "parte" del
processo, rispetto al giudice, con la conseguenza, ne
deducono alcuni, che P.M. e giudici dovrebbe appartenere
ad altro ordine, in quanto portatori di diversa
professionalità.
L'affermazione è
frutto di una serie di equivoci che già in altra occasione
ho segnalato.
E così, su una
rivista on-line, Amministrazione e Contabilità dello
Stato e degli Enti Pubblici (www.contabilita-pubblica.it),
ho affrontato il problema in termini che in parte
ripropongo, con qualche ulteriore riflessione dovuta ad
altri elementi inseriti nel dibattito.
In un primo
passaggio, a gennaio del 2007, all'indomani della sentenza
della Corte costituzionale che aveva bocciato
la legge 20 febbraio 2006, n. 46 (c.d. “Pecorella”), che
vietava l’appello ai Pubblici Ministeri in caso di
assoluzione dell’imputato, mi ero rivolto all'On. Silvio
Berlusconi che quella legge aveva sostenuto con una nota
dal titolo “Cavaliere, mi consenta un consiglio. Licenzi i
suoi consulenti in materia di giustizia”. Rivolgendomi non
ad un politico qualunque, ma all'allora capo di
un’opposizione che, secondo i sondaggi, stava recuperando
consensi, come avrebbero dimostrato le elezioni dello
scorso maggio, spiegavo le ragioni che mi convincono da
sempre che sarebbe un errore separare le carriere di
giudici e pubblici ministeri.
Ricevetti a giro di
posta una telefonata da Gianni Letta, il "Direttore", come
lo chiamano tutti, anche a Palazzo Chigi, per la sua
trascorsa direzione de Il Tempo.
"Li abbiamo
licenziati tutti!"
Un gesto di cortese
attenzione per me, una pietosa bugia. Non è stato
licenziato nessuno perché quei consulenti, che poi sono
gli avvocati del Premier, dicono quel che a lui piace
sentire e da uomo della pubblicità ritiene che gli
italiani in qualche modo lo guardino con maggiore
attenzione considerandolo un perseguitato della giustizia,
un effetto che non so quanto possa durare nel tempo.
E' una strategia
difensiva che va, ovviamente rimessa alla libera
determinazione dell'imputato e dei suoi avvocati i quali
fanno il loro mestiere, che è quello di "coltivare" il
processo. Cosa che si può fare, per la verità, in tanti
modi. I Principi del Foro d'un tempo minimizzavano
il ruolo del proprio cliente. Molti, oggi, nella civiltà
mediatica, nella quale all'esposizione dell'avvocato in TV
segue l'aumento della clientela, tende ad enfatizzare il
ruolo di colui che "difende", con la conseguenza che,
mentre l'avvocato si fa notare, l'imputato finisce nel
tritacarne della stampa e delle indagini giudiziarie.
Così, il
Cavaliere, il quale non aveva seguito il mio consiglio di
licenziare i legulei che gli danno suggerimenti in
tema di giustizia, avrebbe affermato, di lì a pochi
giorni: “non lascerò la politica finché non riuscirò ad
attuare la riforma giudiziaria con la separazione delle
carriere tra giudici e pubblico ministero”. Aggiungendo
che “dobbiamo arrivare a una situazione in cui ci sarà un
avvocato dell’accusa e uno della difesa”.
Questa
concezione delle “parti” nel processo penale, che accomuna
molti politici ad una buona parte dell’avvocatura
italiana, procede da un equivoco indotto dalla riforma
Vassalli, che già in altra occasione ho qualificato
“maldestra scimmiottatura del processo penale
"all’americana”, che è alla base delle disfunzioni che con
la separazione delle carriere si vorrebbe sanare. E che,
invece, sarebbero notevolmente aggravate.
In sostanza,
si dice, Giudici e Pubblici Ministeri svolgono nel
processo due funzioni distinte. Ergo, anche le
carriere devono essere separate.
Semplificata
così la cosa sembrerebbe improntata ad una logica
struttura del processo “di parti”. Infatti, Berlusconi
parla di “avvocato dell’accusa” e di “avvocato della
difesa”.
L’avvocato
“dell’accusa” c’è negli Stati Uniti, dove il Procuratore
Distrettuale rappresenta l’Amministrazione. È una sorta di
avvocato dello Stato. Ha un interesse, anche “politico”
(diciamo di “politica giudiziaria”) alla conclusione delle
indagini e del processo. È eletto, inevitabile conclusione
del percorso che alcuni immaginano di avviare con la
separazione delle carriere (ed infatti in ambienti della
Lega Nord è stata fatta più volte questa proposta),
e quindi si propone all’elettorato con un determinato
“programma giudiziario”, che indica quali azioni
giudiziarie intende privilegiare per essere eletto o
confermato nella carica, per soddisfare il “desiderio di
giustizia” della maggioranza della popolazione, un
imbarbarimento che ci riporta indietro nei secoli bui. Un
pericolo, soprattutto per i politici, i più esposti a
divenire oggetto privilegiato d’indagini che, stavolta,
più a ragione, definiranno “politiche”.
Ricordavo in
quella nota che, quella di indagini "politiche", è
l’accusa, mossa al Procuratore della Contea di Travis,
Ronnie Earle, da Tom DeLay, il potente capogruppo
repubblicano alla Camera di Washington, dimessosi dopo
essere stato incriminato da un Gran giurì del Texas per
violazione della legge sui finanziamenti elettorali. DeLay
era finito nell'inchiesta del Procuratore Earle (un
democratico) per il "possibile uso illegale di fondi
elettorali" e per aver accettato - nelle elezioni di medio
termine del 2002 - finanziamenti politici da alcune
corporation, violando la legge elettorale del Texas
secondo cui le donazioni delle aziende non possono essere
usati per "promuovere la vittoria o la sconfitta di
candidati", ma solo essere usati per fini amministrativi.
DeLay si è dimesso dalla Camera ed ha accusato il
procuratore Erle di averlo incriminato per motivi
politici, dicendosi vittima della “vendetta di un
democratico partigiano”.
Commentavo: "Paese
che vai, Procuratore che trovi!"
Mi chiedevo allora
se il
Cavaliere, ed
oggi il Professore Sartori preferiscano la giustizia
made in USA. Per concludere che, a mio giudizio, è
preferibile il sistema “all’italiana”, ovviamente
opportunamente, e profondamente, riveduto e corretto,
tornando ad alcune caratteristiche del nostro processo,
prima che la “riforma Vassalli” trasformasse il Pubblico
Ministero in un superpoliziotto, mestiere che non sa fare
e che non deve fare.
E' mia opinione,
infatti, che
alcune
differenze di fondo tra l’ordinamento italiano e quello
degli States siano a tutto nostro vantaggio, esprimono una
più elevata cultura giuridica, tanto che oltreoceano
stanno studiando il nostro Codice “Rocco” di procedura
penale, quello che prevedeva il Giudice Istruttore,
istituto prezioso per la giustizia e le garanzie che deve
assicurare anche all’indagato.
Negli U.S.A.,
infatti, è lo Stato, come persona giuridica, come potere
politico e amministrativo, che chiede conto al presunto
colpevole del suo comportamento. Per questo Berlusconi
parla di “avvocato dell’accusa”.
Nel
nostro sistema giudiziario l’obbligatorietà dell’azione
penale (art. 112 della Costituzione) è garanzia di
imparzialità. Per questo è rimessa all’iniziativa di un
organo pubblico e indipendente, il Pubblico Ministero, che
la esercita non nell’interesse dello Stato-persona, cioè
del potere politico-amministrativo, ma dello
Stato-ordinamento, cioè della legge.
Non è
differenza di poco conto o formale. È importante che il
Pubblico Ministero appartenga all’ordine giudiziario ed
abbia la cultura della giurisdizione, della terzietà, e
goda d’indipendenza. Nell'indipendenza del P.M. sta,
infatti, l'equilibrio nell'esercizio dell'azione penale,
un equilibrio che non può appartenere solo alla funzione
giudicante.
I
magistrati, infatti, “si distinguono fra loro soltanto per
diversità di funzioni”, precisa il terzo comma dell’art.
107 della Costituzione. Per cui, se sono distinte le
funzioni giudicanti da quelle requirenti, identica è la
formazione professionale dei magistrati che possono
passare dall’esercizio di una funzione all’altra,
ovviamente con delle regole, perché non si verifichino
situazioni di incompatibilità, non tanto giuridica (ben
disciplinate), ma psicologica e di fatto che darebbero
un’immagine negativa della giustizia agli occhi del
cittadino. Un compito delicato, un impegno spesso arduo
per il Consiglio Superiore della Magistratura.
Il
“Codice Vassalli” ha trasformato il P.M. in un
superpoliziotto. Era saggio il vecchio codice che affidava
le indagini alla polizia giudiziaria, le cui risultanze
istruttorie il Pubblico Ministero esaminava con la
serenità ed il distacco del magistrato. E poi c’era il
Giudice Istruttore.
Ebbene, riteniamo di risolvere questi problemi di
sovraesposizione dei Pubblici Ministeri facendone una
casta potentissima, distinta dai giudici? Questo ha una
logica solo nella prospettiva di un asservimento del P.M.
al potere politico, che è da sempre il desiderio di certi
politici dalla vista corta. Che pensa ad una possibile
imputazione a loro carico ma non della gran parte dei
cittadini che non chiedono privilegi ma solo giustizia.
Infine, ma non è
questione di poco conto, spero che si smetta presto di
considerare la giustizia ed il processo una questione di
schieramenti, di Destra o di Sinistra. La individuazione
dei reati può distinguere i partiti, per la loro visione
dell'uomo e della società, come accade in questi giorni
per il reato di ingresso clandestino nel territorio dello
Stato. Sono distinzioni legittime e produttive di un
approfondimento delle esigenze della comunità rispetto a
fatti che destano allarme sociale, che possono essere
affrontati in modi diversi. Ma il processo deve per tutti
accertare la verità in tempi brevi, perché lo Stato e
l'imputato hanno interesse ad una definizione rapida delle
vicende penale. Lo Stato, la comunità per l'effetto
punitivo e deterrente della pena, l'imputato perché vuole
essere assolto e restituito alla società degli uomini
onesti. Su questi profili di fondo non si devono creare
schieramenti.
5
luglio 2008
Se
noi politici pensassimo più all'Italia e agli italiani!
di Senator
Caro Direttore, mi
prudono le mani, vorrei alzare la frusta e cacciare i
mercanti dal tempio della politica. Poi mi dico che non
posso neanche io scagliare la prima pietra. E giungo a più
miti consigli. Ma qualche considerazione me la devi
consentire.
Innanzitutto, è
bene che ognuno torni a fare il proprio mestiere e che
quella leale collaborazione della quale parla
Giorgio Napolitano nella lettera al Consiglio Superiore
della Magistratura torni ad essere la regola nel rapporto
tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato.
La maggioranza
voluta dal popolo deve governare, ha il dovere, non solo
il diritto, di governare. Lo deve fare rispettando le
prerogative del Parlamento, cioè anche dell'opposizione,
dell'Amministrazione, che è "al servizio esclusivo della
nazione" e non dei partiti che occasionalmente sono al
governo, e della Magistratura, che la Costituzione ha
voluto indipendente da ogni altro potere e soggetta
soltanto alla legge.
Giorni fa ho
sentito Arditti, editorialista de Il Tempo, dire in
televisione che è un'anomalia che il Presidente del
Consiglio sia inquisito nel corso della sua gestione, che,
anzi, l'anomalia dura da quindici anni. Ritengo male
impostata la questione. In primo luogo perché, per
smentire questa tesi, è sufficiente ricordare quel che è
accaduto negli Stati Uniti al tempo della Presidenza
Clinton, quando il Capo della Casa Bianca fu inquisito.
Inoltre, se un imprenditore sceglie di fare politica, e
può ben farlo, deve attendersi che qualche marachella, di
quelle che fanno tutti gli imprenditori, possa essergli
imputata da qualche Pubblico Ministero.
La soluzione può
essere anche quella di rinviare o bloccare i processi,
come sappiamo è previsto in Francia. In ogni caso sarebbe
necessario mettere la sordina alle vicende giudiziarie del
Premier, ove naturalmente non riguardassero fatti
collegati alla politica ed alla gestione del potere.
Minimizzare, non enfatizzare lo scontro nell'illusione
che, facendone un martire della giustizia "politicizzata",
ne sia aumentata la popolarità. Così come alle vicende
boccaccesche di cui si mormora da giorni. Gli italiani
forse possono apprezzare un politico "esuberante". Ma, in
ogni caso, est modus in rebus, altrimenti si passa
all'anomalia che diventa debolezza dell'uomo, ricattabile
da chi possiede le "prove", dall'autrice "dei fatti",
prima di tutto, e da chi ha visto o ascoltato, considerato
che in questo Paese, nel quale l'arma del ricatto ha
sempre funzionato, dai tempi dei Borgia, a volte si
distruggono fascicoli e prove, ma solo dopo aver
accuratamente provveduto alla loro duplicazione.
Ritengo che troppi
politici abbiano cattivi consiglieri, anzi pessimi
consiglieri, yes men preoccupati soprattutto di
compiacere, per non perdere il "gradimento".
Gli italiani
vogliono essere governati. L'inflazione sale, la
produzione ha difficoltà, le famiglie arrancano. Non è
possibile andare avanti così.
Il Centrodestra
ha una sua maggioranza consistente, governi. L'Opposizione
faccia la sua parte con proposte e critiche e si presenti
al Paese come alternativa o, se del caso, condividendo le
scelte del Governo, facendo conoscere e pesare questa sua
"responsabile" posizione.
Lo sfascio non
serve a nessuno, prima di tutto a chi ha ambizioni
ulteriori.
Un po' di saggezza,
suvvia!
4 luglio 2008
Mettiamo ordine alle
idee
I pareri del Consiglio
Superiore della Magistratura
ed i rapporti tra
partiti, governo e Parlamento
di Senator
La vicenda del decreto
legge sulla sicurezza e dell’emendamento che sospende i
processi ha impegnato e continua ad impegnare giornali,
tra cronache e commenti degli opinionisti o presunti tali,
che discettano spesso dei massimi sistemi, di potere
politico e di magistratura, facendo molta confusione della
quale la gente non sente proprio il bisogno.
Vediamo di mettere
ordine alle idee. Cosa utile per tutti, anche se è
difficile che certi “megafoni” di questo o quel leader,
così si sono ridotti alcuni colleghi parlamentari e
giornalisti, continueranno a inserire nel dibattito
elementi di confusione solo per far piacere al
"personaggio di riferimento".
In primo luogo il
Consiglio Superiore della Magistratura è legittimato ad
esprimere pareri su questioni “concernenti l’ordinamento
giudiziario, l’amministrazione della giustizia e ogni
altro oggetto comunque attinente alle predette materie”,
facoltà attribuitagli espressamente dalla legge n. 194 del
1958, il cui esercizio si è consolidato in una costante
prassi istituzionale, come ha ricordato il Capo dello
Stato, Giorgio Napolitano, nella lettera al Vicepresidente
del C.S.M. di ieri. Sarebbe strano che gli fosse impedito,
considerato che, nell’era della concertazione e nello
spirito della mediazione del quale tanti di noi politici
si riempiono la bocca, partiti, governo e parlamento
ascoltano tutti, dall’associazione dei bocciofili ai
sindacati di maggiore peso, quando devono assumere una
decisione.
Va aggiunto che un
parere è un'opinione, sia pure autorevole, che mai
condiziona chi decide. Cioè, come ha scritto il Capo dello
Stato, “l’espressione di un parere del CSM non
interferisce – altra mia preoccupazione già espressa nel
passato – con le funzioni proprie ed esclusive del
Parlamento: anche quando, come nel caso dei decreti-legge,
per evidenti vincoli temporali, tale parere non abbia modo
di esprimersi prima che il Parlamento abbia iniziato a
discutere e deliberare”.
Se qualcuno nei
partiti, nel governo e nel Parlamento si picca di queste
opinioni fa pensare che abbia la classica “coda di
paglia”, cioè ritenga di fare in questo memento qualcosa
che, quantomeno, è criticabile.
Se, dunque, il Consiglio
Superiore della Magistratura ha la titolarità di una
funzione consultiva, non è corretto che governo e
Parlamento, che evidentemente possono dissentire sul
parere reso, contestino l’esercizio della funzione,
introducendo nel dibattito elementi di confusione che
danneggiano il dibattito democratico. Criticare si può,
delegittimare no. È un’altra cosa, un esercizio diffuso da
noi, ma non consueto alle democrazie occidentali nelle
quali il rispetto delle regole istituzionali non conosce
deroghe.
Per cui correttamente il
Capo dello Stato scrive che “non può suscitare sorpresa o
scandalo il fatto che il CSM formuli un parere – diretto
al Ministro della Giustizia – su un progetto di legge di
assai notevole incidenza su materie di diretto interesse
del CSM stesso". Aggiungendo che “in questo quadro, non
può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non
spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui,
com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre
istituzioni”.
Su questo punto, con
tutto il rispetto dovuto alla Prima Magistratura della
Repubblica, non ritengo di dover convenire. Infatti, se il
CSM è attributario di una funzione consultiva non si vede
come essa sia limitata a profili di mera legislazione
ordinaria e non possa toccare aspetti della normativa che
si intende introdurre i quali siano suscettibili di
provocare un’impasse nella sua applicazione per
effetto del contrasto, che l’organo consultivo segnala,
con disposizioni costituzionali.
L’espressione usata dal
Capo dello Stato “vaglio di costituzionalità” è
normalmente riferita all’organo giudiziario che solleva
una questione rimettendola all’esame, al “vaglio” appunto,
della Corte costituzionali quando sia questione rilevante
nel giudizio e non manifestamente infondata.
Nel parere che prospetti
una questione di costituzionalità c’è solo una
segnalazione, autorevole e prudente, che il governo e noi
parlamentari dovremmo gradire e prenderla in
considerazione per non commettere errori o scartandola ove
ritenuta infondata.
Siamo sempre nell’ottica
del parere.
Pertanto, pur
riconoscendo l’impegno del Presidente Napolitano, con
l'evidente intento di stemperare taluni profili polemici
emersi in questi giorni nel dibattito politico esasperato,
mi sembra che questa sua indicazione limitativa non sia
giuridicamente fondata.
E comunque il rilievo di
costituzionalità sta nelle ripetute censure di
ragionevolezza che si leggono nel parere.
Per la verità il parere,
facendo astrazione dal merito che in questa sede non
interessa, è rimasto nei limiti del suo ruolo
costituzionale. Infatti precisa che “pareri resi dal
Consiglio superiore… ai sensi dell’art. 10 della legge del
24 marzo 1958, n. 195, sulle proposte e sui disegni di
legge, nonché sui decreti legge in vista della loro
conversione si estendono – secondo il testo della legge e
la costante prassi consiliare – ai profili riguardanti
l’ordinamento giudiziario, l'organizzazione e il
funzionamento della giustizia, la disciplina dei diritti
fondamentali costituzionalmente previsti”.
Conseguentemente – prosegue il documento – [il parere] non
prenderà in esame le questioni concernenti altri profili,
rilevanti solo in modo indiretto sulla giurisdizione (come
quelli relativi alla definizione delle competenze della
polizia municipale e del concorso delle Forze armate nel
controllo del territorio)”.
Corrette anche le
osservazioni “di carattere generale” sulla natura delle
innovazioni che “incidono, in parte significativa, non
solo su aspetti settoriali legati a situazioni specifiche
ma sul sistema penale (sia sostanziale che
processuale) e su quello dell'ordinamento giudiziario”.
Con osservazioni critiche sull’uso dello “strumento del
decreto legge, anche per ragioni pratiche e organizzative”
per la possibilità del sovrapporsi di modifiche in sede di
conversione, con il “susseguirsi, nell’arco di pochi mesi,
di regimi diversi operanti addirittura sugli stessi
processi, con effetti gravemente negativi per la certezza
del sistema normativo e per la funzionalità del servizio
giustizia”.
Meno condivisibili le
considerazioni sulla circostanza che molti emendamenti
introdotti in sede di conversione “ – tutti di grande
rilievo e incidenti su delicati profili ordinamentali,
processuali e sostanziali – sono in gran parte estranei
all'oggetto originario del decreto legge (concernente,
come noto, «Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica»)”
La circostanza che gli
emendamenti siano stati sottratti in concreto “non solo al
confronto con la comunità dei giuristi ma anche ai
controlli preventivi di costituzionalità del Capo dello
Stato e della Commissione affari costituzionali del
Senato” mi sembra formalistica e trascuri la prassi che
non limita il potere emendativo del Parlamento in sede di
conversione dei decreti-legge.
Anche la censura all’uso
dello strumento della decretazione d’urgenza in
considerazione della “delicatezza della materia
ordinamentale” è considerazione che ha una sua validità in
relazione all’esigenza di “consentire una opportuna
consultazione preventiva con il CSM sulle materie
interessate” ma può ben trovare dei limiti quando si
tratta di questioni che attendono di essere definite da
tempo.
Devo dire, in ogni caso
che il parere contiene numerose espressioni di
condivisione del testo governativo, anche se denuncia per
quale aspetto
un ulteriore aggravio al
già difficilmente sostenibile carico della Corte di
cassazione, per altri una crescita della carcerazione
estremamente elevata,
"Il
complesso degli interventi adottati in tema di misure di
prevenzione antimafia - ad esempio, secondo il CSM - deve
essere valutato positivamente in quanto potenzia gli
strumenti preesistenti e risolve alcuni complessi problemi
applicativi".
Ci sono, poi,
osservazioni in ordine all'effetto di
norme che limiterebbero "in
maniera significativa i poteri valutativi del giudice,
introducendo così nel sistema rigidità e automatismi che
possono determinare sanzioni non adeguate rispetto al caso
concreto".
Inoltre, la vicenda della
previsione "astratta e vincolante per legge dell’ordine di
trattazione degli affari", ritenuta "incongrua essendo
laborioso e difficilmente praticabile un intervento
legislativo ogni volta in cui tale ordine debba essere
modificato, anche per ragioni contingenti". Considerato
che "la soluzione adottata pone, dunque, delicati problemi
di compatibilità con il principio di obbligatorietà
dell’azione penale, previsto dall'art. 112 Costituzione,
che opera, secondo l'orientamento del giudice delle leggi,
con riferimento non soltanto all’inizio dei procedimenti
ma anche alla loro regolare prosecuzione".
Con riferimento, infine,
è opinione del CSM che la disciplina per essa prevista
presenti "profili di grave irragionevolezza (che
possono costituire uno dei parametri di valutazione della
legittimità della norma)", in particolare per lo
spartiacque temporale tra processi che devono essere
sospesi e processi che devono proseguire, ritenuto
"casuale e arbitrario", per la scelta dei reati per i
quali va disposta la sospensione dei processi, ritenuta
""ugualmente non ragionevole, essendo tra tali reati
compresi numerosi delitti che, secondo altre previsioni
dello stesso decreto, determinano particolare allarme
sociale".
Quanto, invece, al
problema della ulteriore dilatazione dei tempi della
giustizia complessivamente intesa per il mancato rispetto
del principio della ragionevole durata del processo (art.
111 Cost.), ed alle "prevedibilmente crescenti richieste
risarcitorie ai sensi della cd legge Pinto" non condivido
questa ultima preoccupazione in quanto le Corti d'Appello
terranno fuori del calcolo i tempi decisi con legge.
Non rinvengo, invece,
preoccupazioni in tema di diritti della difesa violati
per chi desidera quanto prima una sentenza di assoluzione.
In sostanza sono gli "innocenti veri" ad essere
danneggiati dal ritardo di una pronuncia che li
restituisca "candidi" al consorzio civile, alla famiglia,
agli amici. Ma di questi nessuno si preoccupa.
Intanto continuano le
crociate degli uni contro gli altri. E l'Italia va a
rotoli!
2 luglio 2008
A proposito di decreti
legge
Abuso di potere e
controllo di legalità
di Salvatore Sfrecola
La storia dei
decreti legge è lunga almeno quanto l'esercizio del potere
governativo, tra effettivi casi "straordinari di necessità
e d'urgenza", i requisiti che secondo l'art. 77, comma 2,
della Costituzione giustificano l'esercizio della funzione
legislativa da parte del governo, e tentativi di forzare
la mano al Presidente della Repubblica ed al Parlamento.
Un tempo i decreti
legge, come i decreti legislativi, erano sottoposti al
controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti
che, ai sensi dell'art. 100, comma 2, della Costituzione,
esercita appunto quel controllo "sugli atti del governo",
tra i quali erano pacificamente annoverati i decreti
governativi a contenuto normativo. Poi fu la legge 23
agosto 1988, n. 400, che, nel disciplinare l'ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei ministri, ha eliminato
questo controllo della Corte dei conti. Il potere non fa
nulla a caso. Infatti subito dopo si aprì la stagione del
decreti legge reiterati più volte, anche per un anno e
più, con qualche piccola modifica, un modo per espropriare
il parlamento della sua funzione primigenia che è,
appunto, quella di fare le leggi. Le ragioni della
soppressione del controllo della Corte dei conti furono
spiegate da "insigni" giuristi. Il decreto legge è norma
innovativa nell'ordinamento per cui l'unico possibile
controllo è quello di costituzionalità e non è bene che
venga svolto dalla Corte dei conti in sede preventiva. La
storia insegna che c'è sempre un giurista, spesso più
d'uno, prono alla volontà del potere. Fu l'osservazione,
anche più colorita, di Vittorio Emanuele III alla lettura
del parere che Santi Romano, Presidente del Consiglio di
Stato, aveva reso in sede di applicazione della legge
istitutiva del grado di Primo Maresciallo dell'Impero che
il Re e Imperatore non avrebbe voluto condividere con il
Duce del Fascismo.
Flebili furono le
voci contrarie al mantenimento della attribuzione della
Corte dei conti che aveva il compito, di cui ha fatto uso
sempre con molta cautela, di salvaguardare diritti
fondamentali, che proprio la decretazione d'urgenza
potrebbe violare, con effetto immediato e duraturo, almeno
fino all'accoglimento di una eventuale questione di
costituzionalità. In proposito soccorre ancora una volta
la storia che dimostra come le nostre istituzioni abbiano
illustri precedenti. Mi riferisco al decreto Pelloux
(1899), quando si tentò di limitare i diritti
costituzionali di libertà e contenere la stampa con un
decreto reale. La Corte dei conti lo approvò "con
riserva", la Corte di cassazione ne dichiarò la nullità
(la vicenda di questo tentativo di un governo debole di
apparire forte è raccontata con considerazioni di
straordinaria attualità da Giuseppe Maranini in uno
straordinario volume che tutti dovrebbero leggere:
Storia del potere in Italia, 1848 - 1967, Vallecchi,
Firenze, 215). Come quando scrive: "a che serviva
imbavagliare la stampa... dare ancor più vasti poteri alla
polizia, se poi non si riusciva a ricostruire una volontà
politica coerente, espressa da un organo costituzionale
stabile, che operasse in base a una formula di
legittimazione largamente, anzi generalmente accettata?
Poteva aiutare al superamento di difficoltà momentanee, ma
la difficoltà di fondo, la crisi del regime, restava del
tutto insoluta. Questo errore funesto più volte tornerà ad
affiorare nella vita costituzionale italiana, non solo
prima del fascismo e durante il fascismo, ma anche dopo il
fascismo: l'illusione cioè di poter surrogare la
deficiente forza politica dell'esecutivo concedendogli un
largo margine di azione arbitraria".
Ma ancora una volta
la storia non insegnerà nulla ai prepotenti. Servirà solo
a consolare i liberi e i giusti, che se fossero anche
liberi e forti, come chiedeva Don Sturzo in un famoso
appello del 1919, in piena crisi politico parlamentare,
forse ci darebbero maggiori speranze per un futuro di
legalità.
2 luglio 2008
A proposito dei
"graffiti" sulle pareti della cupola del Brunelleschi
Una lezione dall'Oriente
di Salvatore Sfrecola
Da Kyoto un esempio
di civiltà e di senso civico. Nove studenti ed il loro
professore che, ospiti di Firenze, avevano imbrattato le
pareti esterne della cupola del Brunelleschi sono stati
puniti. Due settimane di sospensione e l'impegno a tornare
sul luogo del delitto e rimuovere personalmente i
graffiti. Alcuni potrebbero essere espulsi
dall'Università. Al professore è stato revocato l'incarico
di allenatore della squadra di baseball e rischia il
licenziamento. Tutto questo mentre i maggiori quotidiani
giapponesi e i telegiornali chiedono scusa all'Italia.
Così riferisce oggi
il Corriere della Sera, a pagina 23, dimostrando
con la sua cronaca quanto siamo distanti noi, che viviamo
in un meraviglioso, unico museo all'aperto, che non
sappiamo tutelare, rispetto ai giapponesi, e non solo.
Da noi i comuni
spendono milioni per ripulire monumenti e facciate e mai
che, identificato il responsabile, lo si condanni alla
civilissima pena del risarcimento del danno, secondo
l'aurea regola che chi rompe paga. Noi siamo vittime della
cultura della sanzione penale, che se va benissimo in
alcuni casi, in altri, dai danneggiamenti agli incendi
boschivi, non produce effetti perché quei due o tre mesi
di carcere con la condizionale non hanno alcuna capacità
deterrente, soprattutto non hanno la stessa del
risarcimento, che costringe il responsabile a mettere mano
al portafogli e pagare. Una condanna che fa male.
Speriamo di
imparare dal lontano Oriente!
In questa vicenda
una nota stonata sta in un piccolo riquadro del
Corriere incastonato nell'articolo di cui ho detto.
Federico Moccia commenta "atti da teppisti, ma la pena è
eccessiva". Avrebbe fatto meglio a tacere! Il solito
buonismo all'italiana che dai tempi dei tempi tollera che
regole non siano rispettate, da "le leggi son, ma chi pon
mano ad elle" alle grida manzoniane. E non c'è chi si
vergogni, almeno un po'!
Per fortuna, sempre
il Corriere, pubblica un'intervista a Gian Carlo
Calza, studioso di cultura ed arti orientali, che spiega
con quell'atto vandalico l'insegnante "ha letteralmente
disonorato il suo Paese". E' un fatto di civiltà, come ho
scritto iniziando. E pensare che c'è ancora chi, in
Italia, ritiene eccessivo che i pubblici amministratori e
dipendenti, i quali, nell'esercizio delle loro funzioni,
commettono reati che hanno una particolare risonanza
negativa nell'opinione pubblica, possano essere condannati
dalla Corte dei conti a risarcire il danno all'immagine ed
al prestigio della Pubblica Amministrazione!
1 luglio 2008