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UnSognoItaliano.it
DICEMBRE 2008
Il "caso" Englaro
Se Caino è preferito ad Abele
di Salvatore Sfrecola
Continua sulla stampa l'equivoco sul
"caso Englaro". Equivoco sui concetti ed equivoco sui fatti che
segnano questa dolorosa vicenda, nella quale più d'uno si è fatto
"interprete" della volontà della sfortunata ragazza, a cominciare
dalla famiglia, cioè dal padre, la cui posizione è comprensibile solo
se si ammette l'effetto devastante del dolore per la condizione della
figlia.
Un primo equivoco riguarda la
scelta di non prolungare l'alimentazione e l'idratazione. E' una
scelta di morte, non come quella che normalmente si ricollega al
cosiddetto "accanimento terapeutico", quella pratica medica che
mantiene, spesso associata a disagi gravissimi e sofferenze, una
persona la cui morte è ormai clinicamente inevitabile. Per cui se
viene privato delle cure o dell'ausilio di apparecchiature muore
immediatamente.
Il caso di Eluana Englaro è
diverso e continua a non destare interesse.
Qui non si tratta di staccare
il respiratore o il sondino e come altro può definirsi un apparecchio
che mantiene in vita la persona con effetto di immediato decesso. Nel
caso della povera ragazza la morte giungerebbe lenta, per fame e sete.
Il suo corpo subirebbe un degrado progressivo nell'arco di molti
giorni, la si dovrebbe vedere avvizzire lentamente. Soffrirebbe o no
Eluana? Non lo sappiamo, non lo sanno il padre né i giudici che fin
qui hanno pronunciato in merito e in rito, in assenza di una legge, su
un diritto personalissimo e indisponibile, perfino dall'interessato,
come quello della vita.
Assurdo, infine, è l'aver
fondato una pronuncia su una presunta volontà di Eluana, che sarebbe
ricavabile da idee ed atteggiamenti assunti tanti anni fa quando la
ragazza era viva e sana.
Sfugge che queste affermazioni,
al di là del caso specifico introducono nella prassi giuridica, in
assenza di una legge, un pericoloso precedente dal quale possono
derivare gravissime conseguenze ai danni di persone con gravi handicap
alla cui soppressione potrebbero essere interessati, ad esempio,
coeredi. Infine, la negazione della vita apre la strada ad ulteriori
nefandezze, come insegna la storia, senza andare lontano nel tempo e
nello spazio, in particolare nella Germania Nazista e nella Russia
sovietica,
Per cui non si comprende come i
tanti difensori di Caino siano indifferenti alle sofferenze di Abele,
che, agli occhi della gente, sembrerebbe più meritevole di attenzione.
Un secondo equivoco è quello
delle sentenze ultime della Cassazione e della Corte europea dei
diritti dell'uomo, semplicisticamente indicati dalla stampa, perfino
dal paludato Corriere della Sera, come affermazioni di merito.
"Eluana, Strasburgo dà ragione a Englaro - Respinto il ricorso
delle associazioni", titola il Corriere. Per cui chi si
fermasse alla lettura del titolo ne trarrebbe l'errata conclusione che
i giudici siano entrati nel merito.
Niente di più sbagliato, perché a leggere l'articolo si comprende
subito che
la Corte europea dei diritti dell'uomo ha respinto,
dichiarandolo "irricevibile" il ricorso
presentato da
diverse associazione contro la sentenza della Corte d'appello di
Milano sul caso di Eluana,
in quanto i
«I ricorrenti - si legge nella sentenza - non hanno alcun legame
diretto» con Eluana, in un procedimento del quale "criticano il
risultato e temono le conseguenze", nonostante non li tocchi
"direttamente" perché la decisione della Corte d'appello di Milano
riguarda "solo le parti direttamente coinvolte".
Passando dal diritto positivo all'etica, appare assolutamente conforme
ai principi la presa di posizione del Cardinale Javier Lozano Barragan,
Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, il
quale ha ribadito che l’uomo non può decidere sulla vita di una
persona. Questo è un fatto oggettivo e "ammazzare una persona
innocente è qualcosa di totalmente negativo". Il Cardinale, parlando
della decisione della Corte di Strasburgo e della Circolare del
Ministro Sacconi nella quale ha affermato che non si deve eliminare
l'alimentazione, ha affermato che
"la bontà o la malignità di una azione non dipende da quello che un
uomo o una collettività decidono, ma da una realtà oggettiva, e la
realtà oggettiva è la vita".
24 dicembre 2008
Vive la difference:
a proposito della proposta francese
sull'identità di genere
di Salvatore Sfrecola
Vive la difference, si
leggeva scritto, qualche tempo addietro (non molto per la verità),
sulle magliette che le ragazze esibivano orgogliose del loro sesso.
Una scritta, appunto, all'altezza del seno. Poi sono venute le mode
delle donne filiformi, senza seno, fianchi e sedere, a soddisfare i
gusti di stilisti, forse geniali quanto a disegni, colori e tessuti,
ma visibilmente ostili alla donna che "mostrasse" quel che piace agli
uomini (ricordate "saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi
blu, ma le gambe, ma le gambe a noi piacciono di più..." eccetera) che
nel frattempo venivano indotti dalla pubblicità a sembrare meno
virili, secondo l'idem sentire, ad esempio depilandosi il
petto.
Ebbene la differenza, che da
Adamo ed Eva in giù muove l'interesse dell'un sesso per l'altro, che è
differenza non solo fisica, ma di atteggiamento, di approccio ai temi
della vita, di sensibilità, di intuito, la si vuole eliminare,
affermando l'identità di genere, nel senso che saremmo tutti uguali e
l'atteggiamento maschile o femminile, cioè l"orientamento sessuale"
sarebbe conseguenza di scelte individuali, insindacabili e meritevoli
di riconoscimento pubblico.
Ora, che la coscienza del tempo
nostro non apprezzi "pene criminali" comminate contro persone
omosessuali non può assolutamente portare, al contrario, al
riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali e alla
depenalizzazione della pedofilia, tutte premesse per aprire la strada
all'ammissione di "diritti di famiglia" alle coppie omosessuali, con
connessi diritti "all'adozione ed alla procreazione assistita", come
ha scritto l'Osservatore Romano.
A scuola ci hanno insegnato che
i generi sono due, il maschile ed il femminile, essendo il "neutro"
riservato alle cose inanimate. E tale è, in natura, la regola, tanto è
vero che nelle coppie omosessuali uno dei partner "mima" l'uomo,
l'altro la donna. Ma questa finzione non può avere un pubblico
riconoscimento con l'affermazione del "diritto" all'adozione, che è un
diritto che confligge con un altro diritto, certamente meritevole di
maggiore tutela, considerata l'età, quello del bambino adottato. Il
quale ha diritto di avere un padre ed una madre "veri", non un uomo
che faccia da madre o una donna che faccia da padre. Ne faremmo un
disadattato, un soggetto dalle idee confuse, un soggetto destinato a
portare nella società il disagio e le carenze delle quali è stato
vittima incolpevole.
Non è possibile violentare la
natura. E non deve essere consentito giocare sui sentimenti e sulla
vita dei bambini, per soddisfare l'egoismo dei grandi (si fa per
dire!).
21 dicembre 2008
Corte dei conti: indipendenza e
controlli
Senato: Approvato in parte l'"emendamento Vizzini"
di Salvatore Sfrecola
Ieri sera il Senato ha
approvato l'art. 9 del d.d.l. Brunetta, dopo aver respinto gli
emendamenti soppressivi dell'intero articolo presentati dalle
opposizioni in favore dei quali hanno parlato i senatori Casson (PD),
Pardi (IDV) e D'Alia (UDC).
L'Associazione Magistrati della Corte dei conti ne ha dato
notizia segnalando una parziale vittoria, la soppressione del comma 5
che prevedeva l'"appello" in materia di esito del controllo sulla
gestione e la "sentenza di accertamento".
Il d.d.l. Brunetta passa alla Camera dove continuerà la battaglia
dei magistrati contabili che non vogliono che il Consiglio di
Presidenza perda la connotazione di organo di autogoverno della
Magistratura per diventare una sorta di Consiglio di amministrazione,
dominato da un Presidente "organo di governo" dell'Istituto, un
autentico monstrum giuridico, un profilo incompatibile con con
una Istituzione di carattere collegiale caratterizzata dalla
inamovibilità dei suoi componenti per i quali la Costituzione prevede
particolari guarentigie.
Continua l'azione di contrasto con il disegno eversivo che ha
creato non poco imbarazzo tra Palazzo Chigi e Palazzo Madama.
L'imbarazzo è dato dal fatto che taluni si sono spesi in favore
dell'emendamento essendo stati rassicurati che quella fosse la volontà
della Corte dei conti e dei suoi magistrati. Niente di più inesatto.
L'argomento non è stato posto all'ordine del giorno delle Sezioni
Riunite, l'organo che solo può parlare per la Corte dei conti.
E' una semplice constatazione che avrebbe dovuto indurre a
superare l'imbarazzo ed a respingere al mittente la proposta.
Mi auguro che il Sottosegretario Letta, che è uomo delle
istituzioni, comprenda presto questa verità e tenga a distanza quanti
lo hanno interessato all'iniziativa.
18 dicembre 2008
La Chiesa cattolica e le leggi razziali
A proposito delle esternazioni di Fini
"Meschino opportunismo" o incapacità di giudizio?
di Senator
Fini sulle leggi razziali
"sorprende e amareggia". Le sue parole dimostrano "approssimazione
storica e meschino opportunismo politico". Questo il duro commento
dell'Osservatore Romano sul Presidente della Camera che aveva accusato
la Chiesa di non essere intervenuta. "Di certo, - rileva il giornale
vaticano - sorprende e amareggia il fatto che uno degli eredi politici
del fascismo, chiami ora in causa la Chiesa cattolica".
L'Osservatore Romano conclude oggi con queste parole un breve
articolo sulle leggi razziali del 1938, intitolato laconicamente "A
proposito delle dichiarazioni di Gianfranco Fini".
"Il fascismo scrive - il giornale - fu l'unico responsabile delle
leggi razziali del 1938 e il Presidente della Camera Gianfranco Fini,
che dell'ideologia del Ventennio è uno degli eredi, chiamando in causa
anche la Chiesa cattolica su quella vicenda storica dimostra
"approssimazione storica e meschino opportunismo politico".
Non si può non essere d'accordo. Ma forse l'Osservatore Romano fa
un complimento all'ex leader della disciolta o discogliente Alleanza
Nazionale. Per essere opportunisti si deve avere un progetto politico
che evidentemente non c'è, come dimostra la progressiva eclisse del
personaggio alla ricerca, di tanto in tanto, di qualche notorietà sui
giornali, perché parlino di lui, comunque, per un giorno o due.
Questo andamento da corsaro della politica non paga, non ha mai
pagato. Il Fini, sul quale la Chiesa aveva scommesso, come ha scritto
il nostro Direttore nel suo libro riferendo un giudizio di Arturo
Celletti di Avvenire (Un'occasione mancata, pagina 93, Nuove Idee
Editore), si è giocato la carta del leader moderato che guarda al
centro ed ai valori della civiltà cristiana, quella per la quale aveva
fatto la battaglia alla Convenzione europea. Si è tagliato i ponti
dietro le spalle non avendo davanti prospettiva alcuna nel dopo
Berlusconi, checché ne dicano i suoi ex colonnelli, uomini di provata
fede forzista.
Se la Chiesa aveva scommesso anche molti italiani di erano illusi
che il leader postfascista avesse imparato la lezione della storia e
almeno il senso dell'andamento che essa traccia. Macché! Di lui si può
dire quello che Vittorio Emanuele III diceva di Mussolini, "è un brav'uomo,
ma ha studiato poco la storia".
Volendo essere più realista del re, Fini, che ha scoperto
un'Italia laica, che peraltro, secondo le rilevazioni di Mannheimer,
prega anche quando non va a Messa (l'83 per cento), con questa nuova
trovata affonda ancora di più nel guado della politica inutile.
Intanto il Cavaliere si frega le mani. Lui quel giovanotto non l'ha
mai digerito!
17 dicembre 2008
Roma città solare: infatti quando piove si blocca
di Marco Aurelio
Anche ai miei tempi Roma si
allagava quando le piogge d'autunno imperversavano possenti. E così,
anche d'inverno, il Tevere usciva dal letto invadendo le zone centrali
intorno a quella che sarebbe stata chiamata Ripetta.
I miei antenati avevano già provveduto a creare l'isola Tiberina,
un lavorone, per le caratteristiche delle sponde in quel punto,
rocciose, quindi difficili da disgregare. Non c'erano le macchine di
oggi, ma, in compenso, la manodopera costava poco o niente.
Anche oggi gli ostacoli alla circolazione sono tanti quando
piove. Se la pioggia è tanta, come in questi giorni, alcuni disagi
sono evidentemente un fenomeno naturale, ma c'è anche la trascuratezza
dell'uomo, dell'Amministrazione capitolina. Un esempio per tutti.
Vicino ai ponti, tra la strada e l'imboccatura del ponte c'è spesso
una pozza d'acqua, evidente dimostrazione dell'insufficienza della
pendenza o della inadeguatezza dello scarico. Eppure sarebbe semplice
predisporre uno scarico supplementare, un piccolo condotto che porti
direttamente al Tevere. Sarebbe facile, viene in mente a tutti gli
automobilisti che si trovano con venti centimetri di acqua, ma non ci
pensa nessuno degli impiegati comunali competenti per materia.
Così vanno le cose a Roma.
16 dicembre 2008
Le Associazioni dei Magistrati (tutte)
protestano per il tentativo di "normalizzare"
la Corte dei conti
di Salvatore Sfrecola
Continua lo stato di
agitazione dei Magistrati della Corte dei conti che hanno trovato,
come già abbiamo scritto, la solidarietà delle Associazioni
rappresentative delle altre magistrature.
Oggetto del contendere è un emendamento «Art. 9. (Corte dei
conti) all’Atto Senato 847 sul lavoro pubblico (il c.d. d.d.l.
Brunetta) presentato dal Sen. Vizzini, Presidente della Commissione
affari costituzionali del Senato, che prevede alcune norme sul
controllo e sulla composizione del Consiglio di Presidenza, l'organo
di autogoverno dei magistrati contabili.
Si prevede che la Corte dei conti, "anche a richiesta delle
competenti commissioni parlamentari ovvero del Consiglio dei Ministri,
può effettuare controlli su gestioni pubbliche statali in corso di
svolgimento. Ove accerti gravi irregolarità gestionali ovvero gravi
deviazioni da obiettivi, procedure o tempi di attuazione stabiliti da
norme, nazionali o comunitarie, ovvero da direttive del Governo, la
Corte ne individua, in contraddittorio con l'amministrazione, le cause
e provvede, con decreto motivato del Presidente, su proposta della
competente sezione, a darne comunicazione, anche con strumenti
telematici idonei allo scopo, al Ministro competente". Sono previsti,
poi, adempimenti del Ministro (che, per la verità, non era necessario
fossero espressamente indicati rientrando nei poteri di autotutela
propri dell'amministrazione).
Si tratta di attribuzioni che la Corte può esercitare anche in
sede regionale da parte delle competenti Sezioni "previo concerto con
il Presidente della Corte".
Inoltre "avverso le deliberazioni conclusive di controlli sulla
gestione che abbiano rilevato il mancato raggiungimento degli
obiettivi stabiliti o l'inefficienza dell'attività amministrativa
svolta il Ministro competente... può... proporre ricorso ad un
apposito collegio delle sezioni riunite della Corte dei conti,
composto da undici magistrati con qualifica non inferiore a
consigliere e presieduto dal Presidente della Corte, che giudica in
via esclusiva, con sentenza di accertamento, sulla fondatezza degli
esiti istruttori e delle risultanze del controllo".
Quali i problemi? La previsione di un controllo su gestioni
pubbliche in corso di svolgimento non è una novità (in linea con
l'art. 8 della legge n. 259 del 1958 in tema di controllo sugli enti),
ma andrebbe più esattamente definito. Atipico è l'appello che si
conclude con una "sentenza" (ma forse si voleva dire deliberazione),
assurda è la qualificazione del Presidente della Corte dei conti
"organo di governo dell'Istituto", un Istituto che è una magistratura
ed ha carattere collegiale nelle sue massime espressioni.
Sa di caserma questa normativa, che rivela una scarsa
dimestichezza con l'ordinamento della Magistratura contabile e con il
diritto tout court.
Una caratteristica che si nota anche nella stesura del comma che
modifica l'ordinamento e la composizione del Consiglio di presidenza,
"quale organo di amministrazione del personale di magistratura", che
risulterebbe "composto dal Presidente della Corte, che lo presiede,
dal Presidente aggiunto, dal Procuratore generale, da quattro
rappresentanti del Parlamento nominati ai sensi dell'articolo 10,
comma 2, lettera d), della legge 13 aprile 1988, n. 117, e da quattro
magistrati eletti da tutti i magistrati della Corte" (oggi sono
dieci).
Ed adesso la perla! "Alle sedute del Consiglio possono
partecipare il Segretario generale della Corte ed il Magistrato
addetto alla Presidenza con funzioni di Capo di Gabinetto, con diritto
di voto solo qualora siano, per specifiche questioni, designati
relatori". E questo modifica la maggioranza in quanto "il Presidente
della Corte ha le funzioni di iniziativa nel sottoporre al Consiglio
di presidenza gli affari da trattare...".
In proposito il Consiglio direttivo dell'Associazione Magistrati
della Corte dei conti, ritenuto che l'"iniziativa rappresenti
l’incomprensibile tentativo di intervenire pesantemente sulle funzioni
e sull’ordinamento della Corte dei conti, in evidente contrasto con le
garanzie poste dalla Costituzione a tutela del corretto utilizzo e
della proficua gestione delle risorse finanziarie pubbliche, nonché
con i principi posti a presidio delle magistrature;
che, in particolare, venga stravolta la coerenza del sistema
costituzionale di controllo esterno della Corte dei conti, che
verrebbe ad essere asservito e subordinato ai Governi, centrale e
locali, a detrimento del corretto rapporto con il Parlamento e con le
Assemblee elettive;
che il testo introduca principi e criteri fortemente gerarchici
ed accentratori, specie attraverso l’intestazione, nel vertice
dell’Istituto, di una funzione di indirizzo politico-istituzionale
che, propria delle strutture burocratiche, viene così estesa anche al
governo delle funzioni magistratuali in maniera non compatibile con i
sopra richiamati principi costituzionali;
che sia gravemente lesivo il sostanziale annullamento del
Consiglio di presidenza quale Organo di autogoverno, con l’espressa
previsione di semplici funzioni di amministrazione del personale di
magistratura e la marginalizzazione della sua componente elettiva
(oggi maggioritaria), con l’incremento oltre ogni logica dei
componenti di diritto, tra i quali sarebbero inclusi persino
magistrati affidatari di funzioni meramente amministrative,
sostanzialmente nominati dal Presidente della Corte", indice lo stato
di agitazione segnalando "alla pubblica opinione il gravissimo vulnus
che verrebbe arrecato all’attuale assetto istituzionale".
Il documento si conclude con un "confida" che, alla luce di quel
che è accaduto dopo fa sorridere. Un'espressione di fiducia nel
Presidente della Corte dei conti perché voglia "esternare, quale
massima espressione dell’Istituto e dei suoi magistrati, assoluta
contrarietà a tale proposta e contrastare in ogni modo un simile
tentativo eversivo del sistema delle garanzie magistratuali a tutela
della finanza pubblica".
Il Presidente nel quale l'Associazione "confidava" non solo non
ha preso posizione nei sensi auspicati ma ha attaccato l'Associazione
e l'intera magistratura sostenendo che si muove in senso corporativo.
Ognuno che mastichi un po' di diritto può giudicare.
Così mi è parso utile ricordare agli smemorati un passo del
discorso pronunciato dal Ministro delle finanze, Quintino Sella,
all’atto dell’insediamento della Corte dei conti, a Torino, il 1°
ottobre 1862: “Altissime sono le attribuzioni che la legge a voi
confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della
ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della
potenza di un paese voi siete creati tutori… È vostro compito il
vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un
fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa
contrario, è vostro debito darne contezza al Parlamento. Delicatissimo
ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a
Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza,
cioè la inamovibilità”.
Che altro stile!
15 dicembre 2008
A proposito della riforma «urgente» della Magistratura
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus!
Come dire
"mala tempora currunt""
di Salvatore Sfrecola
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi.
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus.
Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?"
Laniger contra timens :
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad
meos haustus liquor."
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus:
"Equidem natus non eram!"
"Pater,
Heracle,
tuus - ille inquit - male dixit mihi!"
Atque ita correptum lacerat ingiusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis
innocentes opprimunt
(*).
Mi è venuta
in mente l'aurea favoletta di
Fedro, ricordo dei miei studi medi, scritta per quegli uomini che
opprimono gli innocenti con falsi pretesti, a proposito dei ripetuti
richiami all'esigenza di una riforma "urgente" della giustizia, da
parte di alcuni politici e del Ministro competente per materia in
quanto, come ho scritto più volte, il desiderio di intervenire
sull'ordinamento giudiziario appare piuttosto orientato da una scelta
ideologica che da esigenze sollecitate dalla lunghezza dei processi ed
in generale dal mal funzionamento dell'apparato giudiziario.
In
sostanza, all'affermazione, generalmente condivisa, che i processi
penali sono lunghi e si concludono prevalentemente con l'accertamento
dell'intervenuta prescrizione e quelli civili durano tempi
incompatibili con l'esigenza di assicurare il riconoscimento dei
diritti in tempi ragionevoli, tanto che le Corti d'appello sulla base
della cosiddetta "legge Pinto" riconoscono sostanziosi indennizzi a
quanti, essendosi rivolti ai giudici, ne ricevono le sentenze a
distanza di molti anni, una parte della classe politica e di governo
replica all'unisono: "dobbiamo separare le carriere di giudici e
pubblici ministeri".
Nessuno
spiega quale nesso vi sia tra la lunghezza dei processi (in sede
civile non c'è che in pochi casi la presenza del pubblico ministero) e
l'unicità della carriera dei magistrati. Ma tant'è! La riforma s'ha da
fare, si direbbe invertendo la frase con la quale i "bravi" di
manzoniana memoria intimavano al povero Don Abbondio di non fare il
suo dovere.
Sono da
dividere le carriere e da limitare le intercettazioni solo a mafia e
terrorismo. Niente corruzione o concussione, non illeciti finanziari.
La privacy va tutelata, come il segreto istruttorio. Non fa
nulla se tutto questo non ha a che fare con le carriere ma attiene a
comportamenti illeciti dei singoli, nei quali concorrono anche i
giornalisti, che sono tra i primi a suonare la grancassa come pensano
che vada il vento.
È
triste, veramente triste che di una riforma come quella della
giustizia e dell'ordinamento giudiziario si discuta sulla base di
emozioni e di interessi di casta, delle tante caste che affliggono
questo Paese che avrebbe bisogno di serenità nella definizione degli
assetti istituzionali, che non sono diretti a tutelare gli posizioni
di questo o di quello, ma a garantire gli interessi generali dei
cittadini i quali, nella stragrande maggioranza, non temono le
intercettazioni perché sono persone oneste che non corrompono e non si
fanno corrompere, che non evadono il fisco, che non alterano i bilanci
delle proprie imprese, che non esercitano la pedofilia.
E' lo
spirito della Bicamerale che torna ad aleggiare in Parlamento e sui
giornali, quando si giunse ad un passo dall'approvazione di riforme
che non avrebbero migliorato il funzionamento della Repubblica e delle
sue istituzioni, per assicurare ad una classe politica, nella quale è
difficile intravedere quel senso dello Stato che i cittadini
vorrebbero animasse i loro rappresentanti, mano libera nella gestione
della cosa pubblica. Dico questo in particolare con riferimento alle
norme che erano state previste per la Corte dei conti, le quali
avrebbero limitato i suoi poteri di controllo sulla legalità e
correttezza della spesa pubblica, privandola altresì della
giurisdizione sulla responsabilità per danno erariale, uno strumento
di garanzia offerto alla generalità dei cittadini contribuenti perché
chi, pubblico amministratore o dipendente, causa con il proprio
comportamento gravemente colposo un pregiudizio alla finanza pubblica
oggi è tenuto a risarcirlo. Non è un caso, quindi, se, in concomitanza
con questo attacco generalizzato e scomposto alla giustizia, anche nei
confronti della Corte dei conti è in atto un tentativo di compressione
del controllo, attraverso la proposta di una rideterminazione delle
attribuzioni, alle quali è negato il carattere collegiale e la
riduzione dei poteri dell'organo di autogoverno dei magistrati.
Detto
questo, peraltro, non possiamo trascurare che spesso le magistrature,
di fronte all'aggressione della classe politica alla loro autonomia e
indipendenza, concorrono a dare argomenti a quanti vogliono la
"normalizzazione" dell'ordinamento giudiziario e degli organi di
giustizia in generale. In sostanza a volte i magistrati si fanno male
da soli, come spesso riferisce la cronaca giudiziaria, tra inchieste
clamorose per i personaggi coinvolti, supportate da scarsità di prove
ed assoluzioni o condanne che dimostrano scarsa percezione
dell'allarme sociale che certi comportamenti destano nella
popolazione.
(*) Traduco, per quanti non hanno studiato il latino o
non lo frequentano da troppo tempo:
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano giunti
ad uno stesso ruscello.
Il lupo stava più in alto e, un po' più lontano, in basso, l'agnello.
Allora il malvagio, incitato dalla gola insaziabile, cercò una causa
di litigio.
"Perché - dice - mi hai fatto diventare torbida l'acqua che sto
bevendo?
E l'agnello, tremando:
"Coma posso - dice - fare quello che lamenti, lupo? L'acqua scorre da
te alle mie sorsate!"
Quello, respinto dalla forza della verità:
"Sei mesi fa - aggiunge - hai parlato male di me!"
Risponde l'agnello:
"Ma veramente... non ero ancora nato!"
"Per Ercole! Tuo padre - dice - ha parlato male di me!"
E così, lo afferra e lo uccide dandogli una morte ingiusta.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti
con falsi pretesti.
8 dicembre 2008
Un dibattito che non riesce ad imboccare la strada giusta
Quale riforma della
giustizia?
di Salvatore Sfrecola
Su quasi tutti i
giornali la dura contrapposizione tra le Procure della
Repubblica di Catanzaro e di Salerno sulla vicenda De
Magistris, con scambi di accuse, perquisizioni e sequestri
nelle due sedi giudiziarie, induce a parlare di necessità
improcrastinabile di riforma della giustizia. Lo ha detto per
primo il ministro all'Alfano, commentando l'iniziativa del
Capo dello Stato che ha convocato a Palazzo dei Marescialli,
sede delle Consiglio Superiore della Magistratura, i capi
delle procure e dei tribunali interessati dalla polemica.
Che vi siano esigenze
di riforma dell'ordinamento giudiziario, ma soprattutto delle
norme processuali, civili e penali,
è problema generalmente ed ampiamente condiviso. Cambia, e non
è cosa di poco conto, la finalità che s'intende perseguire,
cioè quale riforma si vuole attuare. "Sembra se ne siano
convinti un po' tutti con maggiore o minore chiarezza
nell'affermarlo, ovviamente nel rispetto dei valori
dell'autonomia, dell'efficienza e delle garanzie di una
funzione primaria così rilevante per un Paese", scrive oggi
Paolo Pombeni nel fondo che apre la prima pagina de Il
Messaggero. Sembra difficile, tuttavia, per usare l'incipit
della frase che abbiamo appena riportato, che vi sia
effettivamente un nesso tra il conflitto, sia pure esasperato,
tra due uffici giudiziari ed problemi più ampi della crisi
della giustizia che s'intende riformare. In sostanza conflitti
tra uffici giudiziari giudicanti o requirenti ci sono sempre
stati e sempre ci saranno. Li prevede il codice, sono oggetto
di approfondimento nei manuali di diritto processuale in
quanto è sempre ammessa una diversità di valutazione in ordine
a profili di competenza territoriale o per materia. Situazioni
per le quali il codice di rito individua la soluzione sempre
con rinvio alla competenza di un ufficio giurisdizionale
sovraordinato.
Il caso di cui ci
occupiamo ha certamente qualcosa di diverso, ha molto il senso
di una faida che si è sviluppata nel tempo, con la conseguenza
che, indipendentemente da chi abbia ragione o torto,
l'immagine che il cittadino ne trae è quella di una incapacità
del sistema di evitare o di superare rapidamente situazioni di
conflitto.
La preoccupazione che
dovrebbero avere quanti hanno a cuore l'efficienza delle
istituzioni, in particolare di quelle giudiziarie cui è
affidato il compito di garantire la pacifica convivenza
all'interno della comunità, è quella che la faida tra uffici
giudiziari non si trasformi in una faida tra giudici e
politici, dacché l'espressione "riforma della giustizia"
nasconde in molti il desiderio di limitare i poteri dei
giudici è soprattutto dei pubblici ministeri, cioè di coloro
ai quali l'ordinamento affida l'iniziativa in sede penale.
Questa preoccupazione,
che non nasce da un semplicistico processo alle intenzioni, ha
le sue motivazioni in dichiarazioni o iniziative che nel tempo
hanno proposto la limitazione delle intercettazioni
telefoniche, nonostante sia evidente che in alcuni reati (per
tutti i la corruzione, la concussione ed i sequestri di
persona, oltre ai fatti di terrorismo e di mafia) non sia
possibile assicurare alla giustizia i responsabili se non
attraverso un capillare, sistematico ascolto delle utenze
telefoniche. Per cui appare di dubbio significato
l'espressione dell'articolo di Pombeni, che abbiamo ricordato,
secondo la quale "siamo ancora un Paese consapevole
dell'importanza dell'equilibrio fra i poteri e soprattutto
dell'uso equilibrato che ciascuno di essi deve fare delle sue
prerogative". Il dubbio sta nel fatto che la vicenda è tutta
interna all'autorità giudiziaria ed esclude qualunque rapporto
con altri poteri dello Stato, in particolare con il Parlamento
ed il Governo. A meno che il riferimento a poteri e
prerogative non nasconda propositi di "normalizzazione" della
magistratura con la scusa della riforma, che Pombeni vorrebbe
chiamare "rimodulazione", "del modo di funzionare del nostro
sistema giudiziario". Un'espressione che tenta di spiegare
lasciando perplesso il lettore che non si fermerà alle parole.
La prima questione, scrive," riguarda l'assurda durata dei
processi". Pombeni osserva, giustamente, che tutti sono
d'accordo ma a suo giudizio la difficoltà sarebbe nel fatto
che " i giudici non vogliono controlli sulla loro produttività
e tutti tentativi di creare un doppio binario uno per le
questioni più rilevanti ed uno per quelle più banali da
affidare ad un livello più diffuso, meno formalizzato e più
efficiente di sedi di giudizio, sono falliti, con la
conseguenza di non riuscire a liberare le aule giudiziarie di
una pletora di cause di scarso rilievo". E' il problema
soprattutto della giustizia civile che si riteneva di aver
avviato a conclusione con l'istituzione del Giudice di pace.
Non è stato così l'italiano comprende di vivere in un
ordinamento che tutela i diritti e ricorre al giudice per
farli valere, anche per una multa per divieto di sosta, una
causa del valore di poche decine di euro. Si tratta dunque di
decidere se queste materie, che sono tante, devono restare
nella competenza di un giudice o andare ad intasare una camera
arbitrale o come altro potrebbe essere definito un luogo nel
quale queste controversie trovano una loro definizione.
Si tratta di una scelta
di politica giudiziaria nel settore delle controversie civili
o amministrative e comunque troverebbe un ostacolo
nell'articolo 113 della Costituzione, secondo il quale "
contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione
ordinaria o amministrativa". E' difficile qualificare una
multa un "non atto" o affermare che solo alcuni atti ricevono
la tutela giurisdizionale.
Ma Pombeni non avrebbe
dedicato un fondo del suo giornale alla questione delle multe
per violazione del codice della strada. E difatti passa ad
un'altra questione, "assai più controversa, ma che deve
trovare soluzione, riguarda il versante penale e cioè il
problema della magistratura inquirente, dei pubblici
ministeri".
Diciamo la verità. Era
questo che interessava Pombeni, perché è questo il problema
della classe politica italiana, già affrontato nella
Commissione Bicamerale, un tema che rivela un nervo scoperto,
almeno sin da Tangentopoli, una malattia del settore pubblico,
gravissima, che inchieste giornalistiche di questi giorni
riportano di attualità, con la Destra (basta leggere Il
Giornale di oggi, ma anche l'Espresso in edicola da
ieri) che accusa le giunte di sinistra di gestione disinvolta
del denaro pubblico per interessi di parte.
Il problema della
classe politica italiana viene nascosto dietro una cortina
fumogena nella quale si parla di garanzia della libertà dei
cittadini, di difesa della privacy configurata come
"diritto primario che riguarda la libertà delle persone, di
pari valore del diritto alla giustizia, e può essere messo in
discussione solo per alcuni reati gravissimi come mafia e
terrorismo". Non quindi per la corruzione che è un reato
gravissimo, al pari della mafia e del terrorismo, perché
costituisce una lesione dell'esercizio della funzione pubblica
in danno della finanza dello Stato e degli enti pubblici e, in
fin dei conti, del cittadino contribuente.
In questa impostazione
di Pombeni si ritrovano alcune esternazioni del Presidente del
Consiglio agli imprenditori che lo applaudirono
freneticamente, forse perché molta parte della corruzione
passa attraverso illeciti comportamenti di quanti forniscono
beni e servizi alle pubbliche amministrazioni.
Pombeni viene, dunque,
allo scoperto. Non vuole che le intercettazioni riguardino la
corruzione, sotto il profilo della tutela della privacy,
e condisce il suo ragionamento con riferimento ad un presunto
"abuso di intercettazioni", che andrebbe dimostrato e non
semplicemente affermato, ed alla "pratica inesistenza del
segreto istruttorio", che è verità sacrosanta della quale
forse la classe giornalistica dovrebbe fare un po' di
autocritica.
Torna, quindi, su un
tema caro a tutti coloro i quali hanno realmente a cuore la
giustizia, quello della terzietà del giudice, una garanzia
che, afferma, " in un procedimento che si è giustamente scelto
di bastare sul confronto fra difesa e accusa, non può essere
un "collega" di una delle parti in confronto". Per giungere
alla conclusione che, "evidentemente, la scelta di separare
ruoli e carriere appare fondamentale". Evidentemente anche la
cultura giuridica di Pombeni si basa sull'attenta osservazione
della fortunata serie televisiva dell'Avvocato Perry Mason,
che deve aver ispirato anche l'onorevole Berlusconi, il quale
insiste da tempo su una terminologia che rivela come non abbia
compreso quale è il ruolo del pubblico ministero. Quando parla
di avvocato della difesa e avvocato dell'accusa evidentemente
il leader di Forza Italia ha presente il processo
all'americana nel quale il procuratore distrettuale, eletto
dal popolo per soddisfare l'opinione che della giustizia ha la
maggioranza, rappresenta lo Stato e non l'ordinamento
giuridico, come nel caso del pubblico ministero italiano, per
cui colui che esercita l'azione penale appartiene all'ordine
giudiziario ed ha cultura della giurisdizione per avere
esercitato anche le funzioni di giudice. In sostanza anche il
pubblico ministero, come il giudice, deve essere indipendente.
Anzi la sua indipendenza è condizione del buon esercizio
dell'azione penale, che non deve essere mosso da ragioni di
parte o seguire mode o scelte politiche, come quelle che negli
Stati Uniti conseguono alla scelta elettorale che, ovviamente,
comporta nell'eletto un atteggiamento conforme alle scelte di
chi gli ha consentito la conquista del posto e dal quale si
attende, al termine del mandato, la conferma. Una situazione
molto lontana dalla nostra cultura giuridica della quale, con
orgoglio, dobbiamo rivendicare un più elevato livello di
civiltà.
Ho detto più volte, e
lo ripeto nuovamente, che il rimedio della separazione delle
carriere fra giudici e pubblici ministeri determinerà
conseguenze peggiori del male che si ritiene in questo modo di
eliminare. Avremmo un pubblico ministero totalmente
autoreferenziale, una sorta di super poliziotto mille miglia
lontano da quel "promotore di giustizia" che hanno immaginato
i nostri costituenti disegnandone l'indipendenza, memori di
quella disciplina che nel vecchio ordinamento prevedeva che il
Procuratore del Re operasse sotto la vigilanza del Ministro
della giustizia, in quanto rappresentante del potere esecutivo
presso l'autorità giudiziaria. In proposito vale la pena di
sottolineare che se questa sudditanza dei procuratori
all'esecutivo non c'è stata ciò è dipeso dal fatto che
l'unicità della carriera assicurava ai procuratori
l'esperienza giudicante nel corso della loro carriera. Ancora
una riprova della validità del nostro sistema, i cui difetti
sono non nella norma ma nel modo con il quale il Consiglio
Superiore della Magistratura procedere all'assegnazione dei
magistrati alle varie funzioni, a cominciare da quelli di
prima nomina. Se si usasse, come si faceva un tempo in ragione
della presenza del pretore, assegnare i magistrati prima alle
funzioni giudicanti poi a quelle requirenti noi avremmo
certamente dei pubblici ministeri più esperti, più consapevoli
delle ragioni della loro indipendenza, e quindi capaci di
gestire il difficile compito dell'esercizio dell'azione penale
con maggiore equilibrio.
Dubito molto che la
classe politica italiana intenda fare una effettiva,
approfondita riflessione su questo aspetto della giustizia
penale. Temo, invece, che, sull'onda delle opinioni e delle
emozioni che seguono ad azioni giudiziarie contro parti della
medesima classe politica, si sceglierà la strada, più breve e
più rozza, quella di separare le carriere, con danno
gravissimo alla giustizia e ai diritti veri dei cittadini i
quali hanno bisogno di un pubblico ministero che sia
indipendente ed abbia la saggezza di chi consapevolmente è
chiamato ad esercitare l'azione penale nell'interesse
dell'ordinamento, che non è un interesse di parte, neppure
dello Stato.
6 dicembre 2008
In un emendamento del Sen.
Vizzini
Attacco all'indipendenza
e alla funzionalità della
Corte dei conti
di Senator
Gli amici della Corte
dei conti, magistrati e studiosi con i quali sovente mi
soffermo a discutere della finanza pubblica e degli strumenti
per governarla e controllarne gli atti di gestione, mi hanno
segnalato un emendamento del collega Vizzini all’Atto Senato
847 sul lavoro pubblico in tema di controllo e di composizione
del Consiglio di Presidenza, l'organo di autogoverno della
Magistratura contabile, una conquista ottenuta dopo lunghe
battaglie, insieme ai colleghi del Consiglio di Stato.
Ebbene l'emendamento
Vizzini trasforma questo organismo di garanzia
dell'indipendenza dei magistrati in una sorta di consiglio di
amministrazione, riducendo il numero dei componenti togati a
quello di quanti sono eletti dal Parlamento. Ciò in quanto
prevede un rilevante trasferimento di poteri sullo status
dei magistrati al Presidente della Corte dei conti, nominato
dal Governo. In capo al Presidente della Corte, poi, vengono
accentrati poteri finora svolti in maniera autonoma dalle
singole sezioni, ivi comprese le funzioni di controllo
sull’attività del Governo. Si tratta di interventi palesemente
in contrasto con i principi costituzionali di indipendenza
delle magistrature, principi che, è bene ricordarlo, non sono
un privilegio dei magistrati ma costituiscono una garanzia per
l’eguaglianza e la libertà dei cittadini. Le associazioni
delle magistrature, infatti, in un documento del 19 novembre
"esprimono vivo allarme e preoccupazione per un disegno
complessivo volto ad una riduzione dell’autonomia e
dell’indipendenza di tutte le magistrature e alla introduzione
di un sistema di controllo politico dei magistrati".
Singolare, ma indicativa
dell'indirizzo incostituzionale che lo ispira, e qui emergono
le finalità che si intendono perseguire, l'emendamento prevede
che possa far parte del Consiglio, con diritto di voto sulle
questioni delle quali è relatore, il Magistrato addetto al
Presidente, ribattezzato "Capo di Gabinetto", un modo per
duplicare le scelte del Presidente.
Questi, definito "organo di
governo" della Corte, diviene titolare di ulteriori, esclusive
attribuzioni, condizionanti l’attività di controllo,
“dominus” assoluto, in totale dispregio dei principi
costituzionali dell’autonomia, indipendenza ed imparzialità
della magistratura e del carattere collegiale della Corte.
Una disposizione che non
merita commenti.
La norma proposta, inoltre,
reca nuove disposizioni in materia di controllo sulla gestione
– tra l’altro immediatamente precettive, pur se
inserite in un disegno di legge di delega – che per le
incertezze interpretative originate, le sovrapposizioni di
competenze e la singolarità delle soluzioni adottate
meriterebbero, quanto meno, ponderazione e valutazioni più
attente, considerato il trend positivo del controllo
sulla gestione in sede regionale, con palese soddisfazione
degli enti locali soprattutto perché la "legge La Loggia" (la
n. 131 del 2003) ha previsto una funzione consultiva
facoltativa della Corte dei conti alla quale comuni e
province, a corto di esperti nelle "materia di contabilità
pubblica". si affidano nell'attività amministrativa e di
gestione. Tra l'altro nella prospettiva federale la Corte
assume ancor più il ruolo di garante degli equilibri
finanziari degli enti territoriali nei quali si articola la
Repubblica.
Il rischio è quello di
una regressione nell'esperienza positiva dell'attuale
controllo e della consulenza.
L'Associazione
Magistrati della Corte dei conti ha protestato, ha indetto
lo stato di
agitazione ma soprattutto ha espresso l'auspicio, confidando
nella sua responsabilità di primus della Corte, che il
Presidente "vorrà esternare, quale massima espressione
dell’Istituto e dei suoi magistrati, assoluta contrarietà a
tale proposta e contrastare in ogni modo un simile tentativo
eversivo del sistema delle garanzie magistratuali a tutela
della finanza pubblica".
Dal primo piano di
viale Mazzini non sono giunti segnali. Imbarazza
questo assordante silenzio
da parte di un Presidente, al quale molti hanno affidato,
all'atto della sua nomina, le speranze di un'antica
istituzione alla vigilia di una riforma veramente epocale,
come quella del federalismo fiscale nel quale noi riteniamo
che la Corte dei conti sia destinata a volgere un ruolo
essenziale a garanzia degli interessi delle comunità locali e
dello Stato.
4 dicembre 2008
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