NOVEMBRE 2018
Il M5S propone meno parlamentari e vincolo di mandato.
Bene ridurre deputati e senatori,
ma il vincolo è contro la democrazia
di Salvatore Sfrecola
Il cambio di casacca dei parlamentari è generalmente
condannato dall’opinione pubblica la quale ritiene poco
“onorevole” che una persona eletta in un partito si
trasferisca in un altro gruppo parlamentare. Nella
scorsa legislatura la transumanza ha riguardato molte
decine di parlamentari. Alcuni hanno cambiato partito
più volte. E così si sono levate voci in Parlamento e
sui giornali per introdurre il vincolo di mandato. Da
ultimo, in un’intervista a La Verità se ne è
fatto portavoce il Sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio con delega agli affari regionali e alle
autonomie, Stefano Buffagni,
unitamente al “taglio del numero dei parlamentari”.
Cominciamo dai numeri dei componenti le Camere. Che
deputati (630) e senatori (315) siano troppi in un paese
di 60 milioni di abitanti è opinione ampiamente
condivisa. Si pensi solo che negli Stati Uniti, con una
popolazione di oltre 300 milioni di abitanti, i senatori
sono 100, due per ogni stato, indipendentemente dalla
popolazione, ed i componenti della Camera dei
rappresentanti 435. La proposta di revisione
costituzionale voluta da Matteo Renzi e Maria
Elena-Boschi prevedeva che i senatori fossero 100,
ma non più eletti dal popolo, mentre lasciava lo stesso
numero di deputati, probabilmente ad evitare che
votassero contro nel corso delle votazioni sul disegno
di legge di revisione della Costituzione. Era un
evidente elemento di squilibrio, aggravato dal fatto che
cessava di fatto il sistema bicamerale ingiustamente
ritenuto causa della lentezza del processo legislativo
quando è noto, statistiche alla mano, che le leggi
vengono approvate con la velocità che è impressa dalle
decisioni politiche. Anche un giorno tra Camera e
Senato, quando è stato necessario.
Naturalmente Renzi aveva
presentato all’opinione pubblica in negativo il nostro
bicameralismo raccontando che perfino Barack Obama
aveva lodato la proposta italiana. L’ex Sindaco di
Firenze probabilmente era convinto che gli italiani non
sapessero che negli USA il Senato ha un ruolo molto
importante nella democrazia parlamentare in un
ordinamento costituzionale nel quale il bicameralismo è
“perfetto”, cioè paritario, nel senso che le due camere
hanno gli stessi poteri. Forse ad
Obama non era stata spiegata bene la nostra riforma
o forse era carente il traduttore.
La cosa non ha destato interesse più di tanto perché gli
italiani, subissati dagli slogan del “rottamatore”,
avevano già sospettato i pericoli di una riforma che
incentrava troppi poteri nel Presidente del consiglio e
così hanno votato in massa “NO” dando lo sfratto
all’allora inquilino di Palazzo Chigi.
L’ipotesi di introdurre il vincolo di mandato, cioè il
divieto di cambiare gruppo parlamentare, è espressamente
escluso dalla nostra Costituzione. Secondo l’art. 67,
infatti, “ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato”, una formula che riproduce sostanzialmente
l’art. 41 dello Statuto Albertino secondo il quale “i
deputati
rappresentano la Nazione in generale, e non le sole
provincie in cui furono eletti. Nessun mandato
imperativo può loro darsi dagli Elettori”.
L’ipotesi, tuttavia, torna ad affacciarsi nel dibattito
politico, non solo ad iniziativa del M5S perché la
condividono anche quanti ritengono indecorosa l’immagine
della transumanza dei parlamentari da un gruppo
all’altro. Naturalmente chi si fa promotore del vincolo
di mandato non è mosso dalla difesa della fedeltà
all’elettorato, perché oggi non c’è il voto di
preferenza. Chi vuole evitare cambi di schieramento lo
fa essenzialmente perché i partiti mantengano il
controllo politico degli eletti. Che ha indubbiamente
una sua giustificazione nel fatto che colui che viene
eletto lo deve esclusivamente al vertice del suo partito
il quale lo ha collocato in una posizione, in lista o in
un collegio, che, secondo gli orientamenti
dell’elettorato, garantivano la conquista del seggio. In
sostanza il ragionamento è questo: ti ha fatto eleggere
il partito, non puoi passare in un altro schieramento
politico.
La scelta del mandato imperativo, tuttavia, fa
intravedere una mentalità antiparlamentare. Ci sono
state nell’ambito del M5S plurime affermazioni sulla
inutilità del Parlamento, sul possibile superamento
della democrazia parlamentare. Abbiamo sentito in tal
senso le voci di Davide Casaleggio e di Luigi
Di Maio. Del resto i grillini sono dei fan della
cosiddetta “democrazia diretta” che non prevede
rappresentanti perché, secondo il filosofo svizzero
Jean-Jacques Rousseau, la
sovranità consiste nella “volontà generale, e la volontà
generale non si rappresenta”. E Rousseau è l’ispiratore
del Movimento al punto che a lui è intestata la
piattaforma informatica attraverso la quale gli iscritti
propongono, discutono e decidono, in un “populismo
digitale” (dal titolo del libro Alessandro Dal Lago)
che attua una partecipazione popolare attraverso
Internet, quasi un’Agorà telematica, che sostituisce le
piazze di Atene e Sparta nelle quali 400 anni avanti
Cristo i cittadini discutevano e decidevano sulla vita
della polis. E comunque erano pochi gli aventi
diritto i “liberi e uguali” e pochi partecipavano.
Ma poiché la democrazia in un grande paese non può
essere “diretta”, e dei rappresentanti ci devono pur
essere, ecco che essi devono essere indissolubilmente
legati al partito che li ha fatti eleggere. Il tratto
distintivo di questa scelta ricorda lo schema giuridico
del mandato che aveva caratterizzato nel medioevo le
prime assemblee parlamentari nelle quali chi portava al
sovrano le esigenze dei rappresentati era vincolato ad
istruzioni dettagliate sulle singole questioni in
discussione (cahiers de doléance).
Con la conseguenza che il rappresentante che non
adempiva diligentemente il suo mandato poteva essere
revocato.
Tutt’altra cosa la rappresentanza politica nelle
democrazie liberali nelle quali non è possibile definire
a priori l’ambito di attività del rappresentante il
quale agisce con assoluta autonomia, tenuto solamente ad
interpretare “l’interesse reale del paese”, come spiega
James Madison nel Federalist.
Come nella Costituzione francese del 1791 la quale
prevedeva che i rappresentanti non sarebbero stati tali
per un dipartimento particolare ma per l’intera nazione.
È un orientamento condiviso a destra e a sinistra nel
corso degli anni nei quali si forma il costituzionalismo
liberale. Già nel 1774, Edmund Burke, il celebre
pensatore conservatore cui è dedicato un bel volume di
Russell Kirk appena pubblicato (Il
pensiero conservatore da Burke a Eliot, a cura di
Francesco Giubilei), aveva affermato con chiarezza, in
un discorso agli elettori di Bristol, che “il Parlamento
non è un congresso di ambasciatori di interessi
diversi... è invece un’assemblea deliberativa di una
nazione con un solo interesse, quello della comunità”,
dove a guidare le decisione dovrebbe essere “il bene
comune che nasce dalla ragione generale”.
Ce n’è abbastanza per contrastare con decisione
l’iniziativa del M5S, una scelta esiziale per la
democrazia parlamentare nella quale il vincolo deve
essere morale e fondato su un collegamento virtuoso tra
eletto ed elettore, come avviene nei moderni ordinamenti
liberali. Per comprenderne le ragioni basta fare un
salto a Londra, nel Regno Unito, che già
Charles-Louis de Secondat barone de la Brède e di
Montesquieu aveva preso come esempio per il suo
Esprit des Lois, lo spirito delle leggi, che non è
solamente, come comunemente si ritiene, il trattato
sulla separazione dei poteri. Lì sta l’approfondimento
dei diritti politici, in un paese che, non a caso si
ritiene la culla della democrazia parlamentare, dove il
candidato nel collegio uninominale che gli è assegnato
instaura un rapporto diretto con l’elettorato. Va porta
a porta per cercare di convincere gli elettori. Bussa ad
ogni porta, anche a quella di chi sa che non lo voterà,
perché i suoi elettori non apprezzerebbero un candidato
incapace di confrontarsi con l’elettorato avverso. Anni
addietro, trovandomi a parlare con un mio amico
candidato per il partito liberale a Londra mi sentii
dire che la sua forza politica si esprimeva nel
radicamento sul territorio, per cui il partito non lo
avrebbe mai spostato dal suo collegio perché altrimenti,
presentandosi autonomamente, sarebbe stato comunque
eletto.
Al contrario, in Italia i partiti non hanno mai voluto
che i parlamentari avessero un legame forte con gli
elettori, per cui abbiamo casi di deputati e senatori
eletti in liste e collegi lontani dal luogo di residenza
individuati di volta in volta secondo gli interessi del
partito. Insomma sono le segreterie a scegliere
candidato, lista o collegio. Perché non abbiano
autonomia e autorevolezza. Quella di cui godono a Londra
i componenti della Camera dei comuni dove la forza dei
partiti è data dall’autorevolezza dei parlamentari
eletti e non dai capi dei partiti. Lo sa bene Theresa
May, Primo ministro di Sua Maestà e leader dei
conservatori, preoccupata per gli umori dei parlamentari
del suo partito tra i quali serpeggia lo scontento per
una Brexit decisa frettolosamente sulla base di un
referendum consultivo che di poco ha superato il 50% dei
voti espressi e per l’accordo siglato a Bruxelles.
Come diceva già Winston Churchill, d’altronde, “La
democrazia rappresentativa è probabilmente il peggiore
dei sistemi politici. A esclusione di tutti gli altri”.
(da www.italianioggi.com)
Quale democrazia? Diretta o rappresentativa? Da Atene ai
nostri giorni passando per la Magna Charta
di Salvatore Sfrecola
“Che la democrazia sia un’invenzione greca è opinione
piuttosto radicata”, scrive Luciano Canfora richiamando
la bozza della Costituzione europea (diffusa il 28
maggio 2003) nella quale al preambolo è anteposta una
citazione che Tucidide attribuisce a Pericle (430 a.C.):
“la nostra Costituzione è chiamata democrazia
perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma
del popolo intero”. A Canfora non sembra una traduzione
corretta delle parole dello storico ateniese (La
democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, 2004)
ma ci consente di entrare in tema, nell’Agorà, la piazza
nella quale i cittadini venivano chiamati a discutere ed
a votare nell’interesse della polis. Era il luogo
della “democrazia diretta”, ad Atene innanzitutto, ma
anche a Sparta dove anzi, secondo Isocrate, v’era “il
massimo di democrazia”, anche se nella comunità a
decidere erano in pochi, i combattenti e i possidenti,
perché la cittadinanza è un bene prezioso che si concede
con parsimonia.
Anche a Roma la democrazia diretta ebbe vita breve. I
comizi centuriati, nati a fini di reclutamento
dell’esercito, si aprono presto alla partecipazione di
tutti i cittadini sulla base della loro capacità
patrimoniale divenendo così un organismo di carattere
politico che acclamava (suffragium) le proposte
del magistrato munito di imperium. Insomma, la
presenza “di tutti” è ovunque teorica.
Il principio della rappresentanza politica si afferma
nel Medioevo, con le istituzioni parlamentari nel 12º
secolo, organismi assembleari che coadiuvano il re
nell’esercizio del potere o attuano un patto fra i
cittadini contribuenti e il sovrano in base al quale
l’assemblea autorizza il prelievo fiscale e le spese
della Corte e pretende di verificare come quelle somme
sono state utilizzate. È la Magna
Charta libertatum del 1215 che fa dell’Inghilterra
il riferimento delle libertà civili, un’esperienza alla
quale attingerà Charles-Louis de Secondat, barone de la
Brède e di Montesquieu per il suo Esprit des Lois,
noto soprattutto per la teoria della separazione dei
poteri dello Stato. Ma in realtà profonda analisi degli
istituti che attuano la libertà politica.
La democrazia diretta torna con l’illuminista ginevrino
J.-J. Rousseau (1712-1778), per il quale la sovranità
consiste nella “volontà generale, e la volontà generale
non si rappresenta”. Parole che infiammano gli animi
nella Parigi rivoluzionaria dove i giacobini a furor di
popolo linciano aristocratici ed ecclesiastici. E fu
l’atto finale della democrazia diretta, rapidamente
sostituita dalla democrazia rappresentativa, ovvero
dalla Convenzione, un nome che nel 2002 indicherà
l’assemblea incaricata di dare una costituzione
all’Unione europea.
Democrazia diretta anche nelle colonie inglesi
d’America, comunità, spesso piccole, coese e piuttosto
omogenee, dal punto di vista religioso e sociale. Si
riunivano nelle chiese e nelle piazze dove decidevano,
direttamente. Erano i cosiddetti town meeting.
Ancora democrazia diretta a la Comune di Parigi
(marzo-maggio 1871), breve e tragico esperimento di
autogoverno, nel corso del quale venne anche introdotto
il principio della revoca (rappel, recall)
degli eletti.
La richiesta di democrazia diretta è ricomparsa con i
movimenti del Sessantotto, in concomitanza con la crisi
dei partiti incapaci di comprendere il senso delle nuove
domande politiche. Non più soltanto ordine e sicurezza e
stabilità dei prezzi, ma anche opportunità di
autorealizzazione.
Democrazia diretta sperimenta il Movimento 5 Stelle,
che adotta una piattaforma informatica. Si chiama
Rousseau e raccoglie proposte dalla base e verifica la
convergenza del gradimento degli iscritti. È il
“populismo digitale” (come titola il suo libro
Alessandro Dal Lago) che attua una partecipazione
popolare attraverso Internet, una sorta di agorà
telematica nella quale i cittadini, con un minimo di
digital divide, vale a dire di diseguaglianza fra
categorie – giovani e anziani, istruiti e no, che hanno
accesso e possibilità differenziate –, hanno
l’opportunità di comunicare fra loro, per esempio con i
blog, Facebook e Twitter e decidere in tempo
reale. Si forma così un’opinione pubblica non facile da
interpretare che essenzialmente si manifesta come
rigetto dell’iniziativa dei partiti tradizionali che,
infatti, subiscono una serie ripetuta di sconfitte
elettorali mentre emergono personalità le quali
convogliano l’attenzione dell’elettorato fideisticamente,
come il noto pifferaio di Hamelin. “Senza una
rappresentanza funzionale, senza partiti governanti,
senza elettori partecipanti. Una democrazia senza. Al
centro della scena politica resistono solo i leader,
ultimo perno di comunicazione, mobilitazione e
decisione. Avamposto sempre più isolato della frontiera
pubblica occidentale. Ma può la democrazia sopravvivere
solo come protesi e baluardo della leadership?” si
chiede Mauro Calise (La democrazia del
leaders, Laterza, 2016).
Democrazia diretta digitale? Un’ipotesi nella delega al
Ministro per i rapporti con il parlamento, Riccardo
Fraccaro, esponente di spicco del M5S. Una sorta
di paradosso, se si tiene conto del fatto che la moderna
democrazia e l’ordinamento costituzionale dello Stato
italiano sono costituiti in regime parlamentare.
Contestualmente dovrebbe cambiare il rapporto tra eletto
ed elettore sancito dall’articolo 67 della Costituzione,
a mente del quale “ogni membro del Parlamento
rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato”.
L’impostazione che vorrebbe introdurre il vincolo
imperativo rappresenta dunque un orientamento
incostituzionale ma ne va spiegata l’origine. Presentato
come espressione della volontà di impedire il
trasformismo che ha caratterizzato molti momenti della
storia parlamentare italiana, in realtà questa proposta
è conseguenza della circostanza che da tempo è venuto
meno il voto di preferenza che stabiliva un rapporto
forte fra l’eletto e i suoi elettori. Oggi in realtà
l’elezione avviene sulla base dei consensi ottenuti
dalla lista ed è assicurata dalla posizione che nella
lista è assegnata dal capo del partito, con la
conseguenza che l’eletto è dipendente dal vertice
politico e non più dal consenso popolare, sicché il
cambio di casacca, non consegue ad una scelta del
parlamentare che ritiene in tal modo di essere in linea
con la volontà del suo elettorato ma ad interessi
personali.
Nel contesto “rivoluzionario” promosso dal M5S c’è anche
la proposta di modificare la Costituzione con
l’introduzione dell’istituto del referendum
“propositivo” che ha una funzione indubbiamente
importante ma che si trasforma facilmente in un’idea di
marketing politico, in un’arma propagandistica di
distrazione “di popolo”.
La democrazia diretta di stampo 5 Stelle,
inoltre, spazza via tutto quel sistema che si basa sulla
presenza di corpi intermedi cui invece la Costituzione e
la cultura politica liberale annettono un ruolo
essenziale nella formazione delle idee della politica. È
evidente, dunque, il limite di queste proposte che
definiscono un corpo parlamentare sulla base di una
limitatissima indicazione attraverso la rete, mentre le
teorie che portano questi eletti in Parlamento fanno
perno assai spesso su un sentimento poco nobile, quello
dell’invidia che i populisti aizzano e agitano a fini
elettorali.
Il 9 di agosto la piattaforma Rousseau, strumento
digitale di democrazia diretta, ha raggiunto i 100mila
iscritti. Un traguardo importante per un sistema chiuso
attraverso cui si votano leggi, si scelgono candidati e
vengono coordinate le attività del partito. Per i Cinque
Stelle la democrazia diretta è il futuro. È arrivato il
momento di dire addio alla casta e dare il benvenuto a
una nuova classe politica che si dimezzi gli stipendi,
rinunci ai vitalizi e lavori per raggiungere un fine
ultimo: mettere in soffitta quelle stesse istituzioni
per cui lavora.
Di più, qualche settimana fa, il guru pentastellato
Davide Casaleggio
ha detto
che “in futuro il Parlamento non servirà più”. Nulla di
nuovo: la messa in discussione dell’istituzione per
eccellenza della democrazia rappresentativa è un cavallo
di battaglia del partito, sin dalla sua nascita.
Se in passato la democrazia diretta era considerata una
sorta di utopia perché non esistevano i mezzi per
metterla in atto nel concreto, oggi la diffusione
capillare di internet consentirebbe di superare ogni
dubbio. La piattaforma Rousseau, sul blog del M5S è
definita “un sistema straordinario”. Sul quale,
peraltro, il Garante della Privacy, ha avuto da ridire
avendo giudicato insufficienti i sistemi di sicurezza.
Chi auspica l’abolizione del principio di rappresentanza
crede di farlo in nome del bene dei cittadini per
esorcizzare la dittatura della maggioranza. Forse per
attuare una democrazia plebiscitaria? Di male in peggio.
Come diceva già Winston Churchill, d’altronde, “La
democrazia rappresentativa è probabilmente il peggiore
dei sistemi politici. A esclusione di tutti gli altri”.
(scritto per Opinioni Nuove)
Per guardare al futuro con fiducia l’Italia ha bisogno
di un grande piano di investimenti
di Salvatore Sfrecola
Sembra che finalmente emerga, a livello di governo, la
consapevolezza di un’esigenza, che sarebbe stato
necessario prendere in considerazione prima: quella che
l’Italia ha urgente bisogno di un grande piano di
investimenti pubblici e privati capaci di mettere in
moto l’economia, assicurando anche occupazione, per
contrastare evidenti sintomi recessivi che cominciano a
preoccupare. Lo si capisce dalle reazioni che i due
vicepresidenti del consiglio, Matteo Salvini e
Luigi di Maio hanno avuto dopo gli
incontri di Giuseppe Conte
nell’ambito del Consiglio europeo. “Non è questione di
decimali”, ha detto per primo Salvini, cogliendo
al volo il vento che tira a Bruxelles. Infatti, non
attende che il premier rientri a Roma e corregge
il tiro. Nessuna barricata sui decimali, su quel 2,4 che
indica il deficit previsto dalla legge di bilancio che
potrebbe scendere a 2,2 o, forse, anche al 2,1. E Di
Maio subito si allinea, pur consapevole che meno
deficit significa minori possibilità di realizzare
qualche parte del programma dell’esecutivo, cioè del
“contratto” che lega le due forze di governo. O di
realizzarlo in tempi diversi.
In sostanza sembra cominci ad emergere, ciò che doveva
essere chiaro da tempo, che il problema della spesa
pubblica non è tanto quello della sua dimensione, e
conseguentemente dell’eventuale deficit, quanto della
sua qualità, cioè della sua capacità di perseguire
efficacemente quella crescita economica e sociale che la
gente si attende. In tal modo realizzando le condizioni
per l’aumento della produzione nei vari settori con
conseguente incremento dell’occupazione che, è evidente,
non può conseguire alla corresponsione del “reddito di
cittadinanza”. Dovrebbe infatti essere chiaro a tutti
che mettere un po’ di euro in tasca ad italiani in gravi
condizioni economiche, se costituisce indubbiamente una
misura necessaria di giustizia sociale, non è scelta
idonea a dare ai consumi quell’impulso che, secondo la
narrazione del Movimento Cinque Stelle dovrebbe
assicurare un aumento della produzione cui consegua un
incremento dell’occupazione.
È evidente, infatti, che per persone in difficili
condizioni economiche l’eventuale reddito di
cittadinanza sarebbe prevalentemente destinato al
pagamento di canoni di locazione, bollette di utenze e
di altri consumi in misura certamente insufficiente a
realizzare un significativo incremento della produzione
di beni e servizi. L’aumento della produzione, nel
settore manifatturiero come in quello dell’industria
agro alimentare, quelli che più possono essere
interessati dalle spese dei percettori del reddito di
cittadinanza, deve essere, infatti, significativo per
indurre le imprese a nuove assunzioni, al di là
dell’adozione di nuove metodologie tecnologie lavorative
suggerite dall’ammodernamento tecnologico, che, come
l’esperienza insegna, il più delle volte riducono e non
aumentano i posti di lavoro.
Non è dunque questa la strada per aumentare il benessere
degli italiani in un contesto di contenimento delle
spinte recessive che si notano nel panorama europeo e
che cominciano a preoccupare i governi del continente.
La strada è quella classica di un grande investimento
pubblico, esigenza che non è da inventare perché
l’Italia ha effettivamente urgente bisogno di interventi
sul sistema delle infrastrutture, ovunque da manutenere,
come dimostra il crollo del ponte di Genova, da
ricostruire e da estendere in aree del Paese che da
sempre soffrono della mancanza di collegamenti adeguati,
viari, ferroviari, portuali e aeroportuali, con connessi
sistemi di trasferimento delle merci rapidamente da un
mezzo all’altro. Inoltre, come dimostrano le recenti
alluvioni, l’Italia soffre di gravi carenze nell’assetto
idrogeologico del territorio, trascurato da troppo
tempo, come assolutamente abbandonato è il tema
dell’adeguamento del sistema di distribuzione dell’acqua
affidato ad acquedotti che perdono, secondo la più
ottimistica delle valutazioni, oltre il 50% della loro
portata. Per non dire della distribuzione delle acque a
fini irrigui che penalizza nei mesi estivi le produzioni
agricole che in tante aree del Paese, al Sud come al
Nord, costituiscono una importante parte della economia.
C’era ancora un’altra esigenza, che in parte è anche
un’emergenza. Lo Stato italiano fra tutti è il più
grande proprietario di immobili eppure uffici pubblici,
caserme, scuole, sono spesso in affitto con oneri
rilevanti per lo Stato il quale trascura di
ristrutturare ed adeguare, anche dal punto di vista
degli impianti tecnologici, immobili prestigiosi,
prevalentemente al centro delle città, che potrebbero
essere utilizzati per le esigenze delle pubbliche
amministrazioni. Per le scuole, poi, c’è un problema di
sicurezza grave e impellente che sappiamo non essere
stato soddisfatto nonostante i proclami di Matteo
Renzi, con ulteriori richieste di adeguatezza delle
strutture alle moderne esigenze didattiche, in mancanza
spesso di aule destinate a esercitazioni scientifiche e
informatiche e di palestre.
Non ci vuole molto per comprendere che, dal panorama che
abbiamo sinteticamente delineato, emerge l’esigenza di
un impegno straordinario dello Stato, compatibile con le
regole dell’Unione europea, da affrontare anche il
deficit, capace di mobilitare risorse private, quel
risparmio delle famiglie che spesso viene evocato per
dire che l’Italia è solida, e che potrebbero essere
convogliate con opportune iniziative nella esecuzione di
grandi interventi pubblici.
Va detto anche che scontiamo gli effetti di una
dissennata privatizzazione di imprese pubbliche statali
che in molti settori erano il fiore all’occhiello
dell’Italia della quale attestavano nel mondo capacità
progettuale ed esecutiva che ha portato imprese
italiane, cito per tutte la Italstat,
a realizzare nel mondo imponenti opere pubbliche.
È una sfida per il governo e per la sua maggioranza, da
affrontare subito, con determinazione, evitando il
balbettio di una politica sterile, incapace di
restituire slancio all’economia, che, al momento, si
barcamena tra misure assistenziali e ardite ipotesi di
rapine a carico di alcune categorie di lavoratori e di
pensionati.
Riuscirà il governo giallo-verde ad immaginare una
politica di investimenti nell’interesse dell’Italia e
degli italiani? Altrimenti è da immaginare un periodo di
grandi difficoltà e di grandi tensioni sociali,
difficili da contenere perché alimentate da ingiustizie
troppo a lungo subite da vasti settori della classe
media.
(da www.italianioggi.com)
Tolleranza zero per chi occupa
Bloccare le scuole è un crimine
di Salvatore Sfrecola
Sono sei le scuole occupate a Roma, tra cui il
prestigioso ginnasio-liceo Torquato Tasso, la migliore
scuola classica della capitale secondo la classifica
stilata dalla Fondazione Agnelli. Occupazione per motivi
politici, come si legge in un documento diffuso dagli
studenti, in dissenso “riguardo alle politiche
economiche e sociali”. Ed aggiungono che la dignità del
lavoratore, sulla quale si fonda la Repubblica Italiana
è “svilita o addirittura cancellata da una forma di
sussistenza sociale quale il reddito di cittadinanza”.
Pertanto gli occupanti si dichiarano “contro la
demagogia del governo gialloverde che continuamente
strumentalizza e demolisce la solidarietà umana,
trasformando in criminali coloro che cercano di dare
dignità a tutti”.
Un taglio politico inequivoco, a tutto campo, con
riferimento alla politica economica e sociale,
genericamente richiamata, ma anche al reddito di
cittadinanza, scelta portata avanti dal Movimento 5
Stelle, ritenuto, non senza ragioni, misura
assistenziale.
Possono gli studenti fare politica? Evidentemente sì. È
un diritto fondamentale dei cittadini, incomprimibile in
una democrazia e va tutelato. E messo a confronto con un
altro diritto fondamentale, quello di partecipare alle
lezioni che lo Stato, con rilevante dispendio di risorse
economiche, predispone per i giovani nell’ottica della
loro crescita civile e professionale. La scuola,
infatti, è il luogo dove s’impara ad essere cittadini e
ad acquisire le conoscenze che daranno loro una
preparazione per la vita. “Dalla scuola alla vita” è
stato il titolo di un bel libro, coordinato da Paola
Maria Zerman, che qualche anno fa, con il concorso
di personalità di varie esperienze di studio e di
lavoro, ha indicato ai giovani il valore etico del
lavoro nei vari settori professionali.
Luogo del sapere, servizio ai cittadino, la scuota deve
mantenere la sua autonomia rispetto al dibattito della
politica e deve essere posta nelle condizioni di rendere
con continuità il servizio istruzione. Con la
conseguenza che se gli studenti possono manifestare
liberamente le loro idee politiche non hanno il diritto
di interrompere il servizio impedendo a chi ne vuole
fruire di assistere alle lezioni. Infatti, a collocarla
nel contesto giuridico suo proprio, l’occupazione degli
istituti scolastici, con interruzione del servizio,
costituisce un illecito dai molteplici profili, penali e
di danno erariale, perché impedisce l’esercizio di una
funzione pubblica.
È evidente che gli studenti possono marinare la
scuola, come si diceva un tempo, anche a costo di
subire conseguenze sul piano disciplinare ove l’assenza
ingiustificata si protraesse per un certo periodo
rispetto alla durata legale dell’anno scolastico, con
conseguenze anche sull’esito finale.
L’occupazione, come intuitivo, è contraria a regole
elementari. Al di là dei danni che essa può provocare,
come l’esperienza insegna, all’edificio scolastico ed ai
suoi arredi, e con l’utilizzazione impropria di
strutture informatiche e con aggravio dei costi delle
utenze, la stessa occupazione costituisce quello che si
definisce un “pregiudizio erariale”, cioè un danno al
bilancio pubblico, considerato che lo Stato pagherebbe
docenti che non hanno effettuato la loro prestazione
Chi ne è responsabile sul piano giuridico? Innanzitutto
le famiglie degli occupanti alle quali i Presidi
dovranno chiedere i danni. Non farlo fa gravare su di
essi una diversa responsabilità, anch’essa di natura
“erariale”, di competenza della Corte dei conti. Infatti
non pretendere il risarcimento di un danno ingiusto
costituisce un comportamento illecito per un pubblico
funzionario. Una responsabilità che si aggiunge a quella
per l’interruzione del servizio scuola nel quale saranno
coinvolti anche i responsabili delle Forze di Polizia
(il Questore). I Presidi, per non aver messo in atto
tutte le misure per impedire l’occupazione dei locali,
il secondo per non essere intervenuto a liberarli per
consentire la prosecuzione dei corsi. Senza arrivare al
caso del Preside che a Roma, qualche anno fa, di fronte
ad un’assemblea studentesca decisa a proclamare lo
“sciopero” e ad occupare i locali, ha consegnato agli
studenti le chiavi del portone d’ingresso e se ne è
andato a casa.
E qui s’innesca anche una responsabilità del governo, di
“natura politica”, insindacabile in sede giudiziaria, in
quanto l’autorità politica potrebbe decidere di non
intervenire per motivi di ordine pubblico.
Ma una cosa è certa. Se si attivasse la regola
elementare della responsabilità civile per danno, per
cui “chi rompe paga”, e una volta tanto i genitori degli
studenti fossero chiamati a risarcire i danni provocati
dai loro figli “esuberanti”, probabilmente le
occupazioni non si farebbero più e gli studenti
potrebbero manifestare i loro legittimi orientamenti
politici al di fuori dell’orario delle lezioni, magari
nell’aula magna degli istituti (quelli che ne hanno
una).
(da La Verità, 24 novembre 2018)
1915 – 1918: Profilo della Grande Guerra degli italiani
Da Caporetto a Caporetto
Per iniziativa della Rivista trimestrale di cultura e
politica “Nuove Sintesi”, diretta dal Prof. Michele
D’Elia, con la collaborazione dell’Istituto Zaccaria si
terrà a Milano, sabato 24 novembre 2018, nell’Aula Magna
dell’Istituto, in Via della Commenda, 5, a partire dalla
ore 15.00, il Convegno nazionale di studi storici “1915
– 1918 profilo della grande guerra degli italiani - Da
Caporetto a Caporetto”.
È il convegno conclusivo di un ciclo di incontri
organizzati dal Prof. D’Elia che hanno seguito gli
eventi politici, diplomatici e militari della guerra,
dal 1915 al 1918. D’Elia, già Presidente del prestigioso
liceo scientifico statale “Vittorio Veneto”,
un’esperienza politica importante nel Partito Liberale
Italiano, che ha rappresentato quale Presidente della
Provincia e Assessore alla Cultura, è una personalità di
spicco nel panorama politico culturale milanese,
organizzatore di convegni e congressi su problematiche
storico-politiche che trovano accoglienza in nuove
“Nuove Sintesi”, la rivista trimestrale che ha fondato e
dirige.
Quanto al programma del Convegno, dopo la sua
presentazione ed i saluti istituzionali, i partecipanti
ascolteranno relazioni di:
Michele D’Elia, Direttore di Nuove Sintesi, Milano,
“Il Convegno di Peschiera, 8 novembre 1917 ed il suo
verbale ignorato”;
Gianluca Pastori, Università Cattolica, Milano,
“L’Italia, la politica della nazionalità e il Congresso
di Roma sulle nazionalità oppresse,8 – 10 aprile 1918”;
Massimo de Leonardis, Università Cattolica, Milano,
“La posizione diplomatica dell’Italia all’inizio
della Conferenza della pace”;
Giorgio Guaiti, giornalista e scrittore, Milano,
“La stampa italiana e la Vittoria”;
Ilaria De Palma, Conservatore delle Civiche Raccolte
Storiche, Milano, “Il Museo del Risorgimento in via
Borgonuovo, 23. Un tesoro sconosciuto”;
Salvatore Sfrecola, Presidente dell’Associazione
Italiana Giuristi di Amministrazione, Roma, “I costi
della guerra e per effetto della guerra”;
Salvatore Paolo Genovese, Docente di Disegno e Storia
dell’Arte, Liceo Sc. St. “Vittorio Veneto”, Milano, “Claudio
Maria Cumetti, medico U.N.U.C.I., Milano”;
Paolo Lorenzetti, Segretario provinciale del M.F.E.,
Milano, “Tematiche delle arti figurative alla fine
della Grande Guerra”;
Claudio Maria Cumetti, medico U.N.U.C.I. Milano,
“La febbre spagnola”;
Paolo Lorenzetti, Segretario proivinciale del M.F.E.
Milano, “Società delle Nazioni o Federazione Europea?”
Roberto Cipriani, Emerito di Sociologia, Università
Roma 3, “La guerra secondo Vilfredo Pareto”.
I lavori del Convegno saranno coordinati da Paola
Manara, Direzione Cultura del Comune di Milano, Area
Biblioteche, e Paolo Foschini, giornalista del
Corriere della Sera
Completa il convegno la mostra del Maestro Ferdinando
Carcupino, pittore, illustratore e soldato sul tema “La
guerra dei nostri Padri”.
Gli incendi delle discariche che arroventano il clima
nel Governo
di Salvatore Sfrecola
Divampano incendi nelle discariche, in Campania, nella
terra “dei fuochi”. Ma non solo, perché anche al Nord
sono stati denunciati incendi provocati dalla malavita
organizzata. E s’infiamma anche la polemica politica
all’interno della maggioranza, tra
Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il primo
suggerisce inceneritori in ogni provincia, richiamando
l’esperienza, a suo dire positiva, in Lombardia e
altrove in Europa, il secondo propende per riduzione,
riuso, recupero, riciclo dei rifiuti, tutta un’altra
filosofia. E poiché il tema non è tra gli obiettivi del
“contratto di Governo” il leader dei 5Stelle
sospetta che il collega Vicepresidente del Consiglio si
muova per un secondo fine e lo accusa di atteggiamento
“provocatorio”. Insomma Salvini sarebbe alla
ricerca di consensi in un’area tradizionalmente lontana
dalla Lega, ma dove il Centrodestra con Forza Italia
ha sempre riscosso vasti consensi nell’elettorato
moderato al quale il leader del Carroccio oggi guarda
con particolare interesse.
Salvini
evoca preoccupazioni di ordine sanitario e in qualche
modo entra in un terreno caro al Presidente della
Regione Campania,
Vincenzo
De Luca,
che non perde occasione per mostrare il volto arcigno
del tutore della legalità e dell’efficienza
amministrativa, quella nella quale, tuttavia, si
intravedono crepe pesanti, proprio a causa
dell’abbandono incontrollato di rifiuti, non solo
urbani, ma soprattutto industriali, spesso “speciali”,
particolarmente pericolosi, che inquinano terra ed
acque, creando difficoltà non indifferenti per le
attività imprenditoriali in un contesto agricolo che si
vorrebbe fosse il fiore all’occhiello della Campania.
Qualcuno ricorderà la pubblicità di un pomodoro del
quale si specificava l’origine, lontana dalla Campania.
Sul tema è intervenuto anche il Presidente dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, che
di malavita organizzata in quelle terre molto s’intende
per avere, nell’esercizio delle funzioni di Sostituto
Procuratore della Repubblica, perseguito clan
camorristici particolarmente titolati. “Chi ha
l’autorità di governo – ha detto Cantone in
un’intervista a Fiorenza Sarzanini del
Corriere della Sera - deve proporre soluzioni il più
possibile condivise” anche perché “la criminalità
organizzata non ha mai smesso di occuparsi di questo
settore”.
Stupisce, tuttavia, come il Ministro dell’interno, il
quale giustamente si preoccupa della salute dei
cittadini, consapevole che lo smaltimento dei rifiuti è
un affare ricco per i clan, non abbia posto il problema
della assoluta inadeguatezza dei controlli nel percorso
che i rifiuti fanno dall’industria che li produce al
luogo dello smaltimento, che evidentemente non è quello
“legale”, come dimostrano gli incendi la cui funzione è
proprio quella di occultare le prove della provenienza
dei rifiuti.
Di Maio
in risposta a Salvini ha voluto sottolineare che
i rifiuti che si smaltiscono illegalmente in Campania
provengono da tutta Italia, in gran parte dal Nord
industriale. Illegalmente, per risparmiare sui costi,
nella certezza dell’impunità favorita dall’inadeguatezza
dei controlli, insomma dall’inefficienza della
burocrazia. Infatti, non è problema di norme ma di una
appropriata iniziativa, essendo evidente che non è
difficile sapere quanti sono i rifiuti che produce una
determinata impresa in relazione al ciclo delle
lavorazioni. Non è pertanto arduo quantificarne
l’ammontare dei rifiuti e chiedere alle imprese di
documentare dove li abbiano smaltiti. Perché questo
controllo non viene svolto? È questa la domanda che
devono farsi le autorità del Governo. E ad essa va data
immediata risposta per evitare sospetti di compiacenze,
della Lega nei confronti delle imprese del Nord, dei
M5S, ancor più grave, nei confronti delle malavita.
(da Italiani Oggi, 19 novembre 2018)
Unione Monarchica Italiana
19 novembre 2018 - ore 18.00
Conversazione
del Prof. Avv. Salvatore Sfrecola
1919-1922: vinta la guerra l’Italia affronta una
difficile crisi politica, economica e sociale
Via Riccardo Grazioli Lante, 15/A
TEL. 06-3720337
Gli immobili dello Stato tra (s)vendita e
valorizzazione.
di Salvatore Sfrecola
L’idea di vendere parte dei patrimonio immobiliare dello
Stato per fare cassa e ridurre il debito pubblico è
ricorrente nei governi in difficoltà di bilancio,
pressati dall’opinione pubblica e dall’Unione Europea. E
così, in risposta alla richiesta di chiarimenti
proveniente da Bruxelles in ordine al progetto di legge
di bilancio 2019, il governo di Giuseppe Conte si
ripromette di alienare parte degli immobili pubblici,
una operazione dalla quale ritiene di ricavare 18
miliardi. Non è chiaro come questa cifra sia stata
determinata, considerato che non è stato mai facile
vendere beni immobili non necessari per le esigenze
dell’Amministrazione, come l’esperienza insegna. In
passato programmi analoghi sono stati un flop,
come la vendita degli immobili degli enti pubblici dalla
quale hanno guadagnato esclusivamente le società di
intermediazione facendo gravare sugli inquilini,
divenuti proprietari, mutui pesanti, molto più dei
canoni di locazione che in precedenza pagavano. Con la
conseguenza che il settore pubblico ha incassato meno
del previsto e non è stata realizzata quella iniziativa
di carattere sociale imporrante dovuta alla
trasformazione degli inquilini in proprietari senza
particolari oneri a carico degli stessi.
Si ripropone oggi l’iniziativa senza considerare, sempre
sulla base dell’esperienza che dovrebbe guidare i
governi come guida alle persone, che gli immobili, che
si vorrebbe alienare, spesso prestigiosi ed al centro
delle città, sono caserme ed uffici dismessi che possono
certamente interessare il mercato, ma a condizione che i
piani regolatori consentano una diversa destinazione, ad
esempio ad albergo, uffici privati o centri commerciali.
Molti di quegli immobili inoltre hanno vincoli di
carattere storico artistico che ne limitano
l’utilizzazione, così influendo sul loro valore di
mercato che, in ogni caso, sconta rilevanti costi di
risanamento (ad esempio dall’amianto) e di
ristrutturazione. Questo vale anche per i molti palazzi
di grande pregio che possono ben interessare banche,
compagnie di assicurazione, enti culturali, uffici
diplomatici i quali hanno spesso l’esigenza di disporre
di immobili di rappresentanza.
Saggezza politica vorrebbe che il governo considerassi
l’esigenza di alienazione degli immobili non più utili a
fini istituzionali nell’ambito di un più ampio contesto
che consideri come oggi molti uffici pubblici sono in
affitto con oneri rilevanti per lo Stato del quale
offrono un’immagine negativa, tenuto conto che, tra
tutti gli stati, ha il più grande patrimonio
immobiliare. Chi osserva questa situazione vorrebbe che
lo Stato, come farebbe una famiglia, si preoccupasse
innanzitutto di utilizzare i beni che possiede, se del
caso ristrutturandoli. Diversamente li alienerebbe per
acquisirne di nuovi, idonei alle proprie esigenze.
Appare, infatti, singolare che moltissimi uffici della
pubblica amministrazione, tribunali, ordinari,
amministrativi e contabili, Stazioni dei Carabinieri,
Commissariati di P.S. e comandi militari vari sono in
affitto, prevalentemente da privati, banche, compagnie
di assicurazione, con costi altissimi, per canoni e
manutenzioni. Al punto che di recente è stata prevista
(art. 3 del DL n. 95 del 2012) la sospensione
dell’aggiornamento Istat del canone dovuto dalle
Amministrazioni per gli anni 2012/2014, e la riduzione
del 15 per cento del canone di locazione per gli
immobili in uso istituzionale, (a decorrere dal 1°
gennaio 2012 per le locazioni passive già stipulate, e
con decorrenza immediata per i contratti di locazione
passiva di nuova stipulazione o rinnovati) e più
stringenti condizioni per i rinnovi, la verifica da
parte dell’Agenzia del demanio della possibilità di
utilizzo di immobili di proprietà di Enti pubblici non
territoriali in locazione passiva da parte delle
Amministrazioni statali.
Sarebbe dunque opportuno e utile, ai fini della crescita
dell’economia e dell’occupazione, che lo Stato italiano
accompagnasse una intelligente vendita degli immobili
non più utilizzabili, assicurando la loro appetibilità
sul mercato con correzione di norme che ne limitano la
utilizzazione da parte di un privato, ad un grande piano
di ristrutturazione e di adattamento degli immobili che,
invece, possono essere utili al fine della allocazione
di uffici pubblici. In questo modo le istituzioni civili
e militari avrebbero “casa propria”, con risparmi
notevoli per il bilancio dello Stato.
L’occasione di un grande piano di investimenti nel
settore immobiliare pubblico consentirebbe la
valorizzazione di immobili importanti che darebbero
anche agli occhi del cittadino l’immagine di uno Stato,
qual era un tempo, che si presenta anche con strutture
immobiliari adeguate all’importanza delle istituzioni,
le quali, ovunque nel mondo, sono ospitate da immobili
storici o di grande prestigio che ne sottolineano
l’importanza, come tribunali e istituzioni culturali.
Dubito molto che l’occasione sarà colta, che
effettivamente questo Stato che non riesce neppure ad
immaginare un grande programma di opere pubbliche,
stradali, ferroviarie, di gestione e controllo del
territorio dal punto di vista idrogeologico, che
condivide le doglianze dei cittadini in ordine
all’abbandono dei fiumi, degli acquedotti, dei boschi,
con la conseguenza che tutti abbiamo sotto gli occhi,
delle esondazioni che provocano danni immensi, della
perdita della portata delle strutture che distribuiscono
l’acqua, elemento fondamentale della vita della
comunità, che favoriscono in estate gli incendi con
perdita di rilevanti contesti forestali, riesca a
mettere in campo una grande operazione di gestione e
ristrutturazione del patrimonio immobiliare che neppure
nelle scuole è stato portato a termine, anche sotto il
profilo della sicurezza.
Proprio a proposito degli istituti di istruzione di ogni
ordine e grado, anche qui l’esperienza dimostra il grave
degrado del settore. Chiunque di noi sa bene che,
rispetto alle strutture scolastiche nelle quali ha
studiato, quelle dei propri figli e nipoti sono spesso
l’espressione della incapacità di immaginare degli
immobili adeguati all’esigenza. Faccio un esempio. Io ho
studiato in un liceo famoso di Roma, il Torquato Tasso,
scuola dell’800, costruita subito dopo il trasferimento
a Roma della capitale d’Italia, che dispone, oltre ad
aule ampie e luminose, di una ricca biblioteca, di un
teatro dove si tenevano iniziative culturali importanti,
di due aule dedicate l’una alle scienze l’altra alla
fisica, entrambe a forma di anfiteatro, ricche di
apparecchiature e di reperti necessari per illustrare
agli studenti i programmi delle rispettive discipline,
anche con esperimenti capaci di stimolare l’attenzione e
la curiosità degli studenti. Il liceo Tasso dispone
anche di una grande palestra chiusa e aperta mentre le
scuole dove hanno studiato le mie figlie non disponevano
di un locale per le lezioni di educazione fisica.
Per concludere, l’Italia dovrebbe immaginare un impegno
finanziario massiccio per queste attività di
ristrutturazione del patrimonio immobiliare pubblico,
compreso quello scolastico, per l’adozione di interventi
sul sistema idraulico forestale, un programma che
metterebbe in campo risorse rilevanti che sarebbero
certamente assistite dall’Unione Europea e che comunque
creerebbe le condizioni per un impegno consistente di un
numero notevole di imprese con effetti positivi sullo
sviluppo e, quindi, sull’occupazione. Assicurando a
tanti giovani ben più di un “reddito di cittadinanza”,
un vero e proprio lavoro.
15 novembre 2018
CIRCOLO DI CULTURA E DI EDUCAZIONE POLITICA
REX
“il più antico Circolo Culturale della Capitale”
71° CICLO di CONFERENZE 2018-2019
***
Il 22 luglio 1968, cinquanta anni or sono
ci lasciava Giovannino Guareschi,
il cui ricordo sarà il tema che tratterà
Domenica 18 Novembre, ore 10.30
Il Professore Pier Franco Quaglieni
“GIOVANNINO GUARESCHI, UN GRANDE PATRIOTA,
UN GRANDE SCRITTORE”
***
Sala Roma presso “Associazione Piemontesi a Roma”,
via Aldrovandi 16 (ingresso con le scale), o 16/B
(ingresso con ascensore)
raggiungibile con le linee tramviarie “3” e “19” ed
autobus, “ 910” ,” 223” e “ 53”
***
Ingresso libero
La parola Patria va di moda a Parigi, non a Roma
di Salvatore Sfrecola
Immagino che più d’uno, tra quanti hanno visto i
telegiornali che davano conto delle manifestazioni
organizzate a Parigi per celebrare i 100 anni della
vittoria nella prima guerra mondiale, si sia chiesto
perché una analoga iniziativa non ha assunto il governo
italiano considerato che quella celebrazione è stata
l’occasione di un importante summit internazionale,
presenti, tra gli altri, il presidente degli Stati Uniti
Donald Trump, il presidente della federazione
russa Vladimir Putin, ed il
cancelliere tedesco Angela Merkel.
Più un’altra settantina di capi di Stato e di governo
convenuti per rendere onore all’orgoglio francese ma
anche per sottolineare un ruolo internazionale della
Francia in Europa e nel mondo che il presidente
Emmanuel Macron è impegnato a valorizzare.
I maligni diranno che il Presidente francese, in forte
calo di consensi, con questa iniziativa è andato alla
ricerca di una visibilità che possa in qualche modo
contenere l’espansione della destra che sui temi della
patria è impegnata con il leader del Front National,
Marie Le Pen, ritenuta dai sondaggisti in forte
espansione. Ma al di là dei problemi interni della
Francia, quel che emerge dall’osservazione dei fatti
della politica internazionale è l’incapacità del nostro
governo di assumere un ruolo adeguato all’Italia, in
particolare nel Mediterraneo che da sempre la classe
dirigente più avvertita ritiene essenziale per il nostro
Paese, per la sua economia e per il ruolo politico che
possiamo ritagliarci anche in rapporto all’Europa della
quale l’Italia per la sua collocazione geografica, è la
naturale porta aperta sul medio e l’estremo oriente.
Infatti, mentre a Parigi squilli di tromba e rullar di
tamburi ricordano la conclusione della Grande Guerra,
l’Italia è impegnata con i governanti della Libia in una
difficile trattativa che vorrebbe definire le modalità
di un contenimento delle migrazioni che passano
attraverso quella sponda dell’Africa e contestualmente
affermare la sua presenza sul piano dello sfruttamento
degli ingenti giacimenti di petrolio sui quali anche la
Francia ha messo gli occhi da tempo, come dimostra
l’improvvido intervento militare contro il regime di
Gheddafi. Del resto Francia e Italia si sono più volte
presentate concorrenti nel Mediterraneo, tanto che
coloro i quali hanno un po’ di dimestichezza con la
storia ricorderanno che la conquista della Libia nel
1911 fece seguito all’occupazione francese della
Tunisia, una regione con la quale l’Italia ed in
particolare le imprese ittiche siciliane avevano da
tempo un ricco interscambio commerciale.
Le considerazioni sulle celebrazioni francesi della
Grande Guerra che hanno portato a Parigi oltre 70 leader
della politica mondiale, non possono farci trascurare
che, a fronte di una orgogliosa rivendicazione del ruolo
avuto dalle armate francesi nel corso di cruente
battaglie con l’esercito tedesco, costate centinaia di
migliaia di vittime, sta una commemorazione di
routine tra Roma e Trieste da parte del governo
italiano che non ha avuto il coraggio e l’intelligenza
di richiamare i valori della Patria e dell’identità
nazionale, per ricordare agli italiani che i loro nonni
e i bisnonni hanno combattuto, per la prima volta da una
stessa parte, contro il “nemico storico”, per dirla con
Luigi Einaudi, quell’Austria-Ungheria
che nel corso dell’Ottocento aveva in ogni modo
ostacolato il processo unitario nazionale sostenendo con
le baionette governi illiberali, assolutamente sordi
alle richieste di riforme costituzionali provenienti
dalla parte più moderna delle società degli Stati
preunitari.
Quel che si nota nei discorsi ufficiali è il timido
riferimento agli eventi, ancor meno alle motivazioni
culturali e ideali che avevano mosso generazioni di
italiani a rivendicare Trento e Trieste per ricondurre
l’Italia politica nei limiti dei suoi confini geografici
e per riportare in ambito nazionale quelle aree
dell’Istria e della Dalmazia nelle quali Venezia nei
secoli aveva portato civiltà e prosperità. Nel timore
che il richiamo alla Patria, alla sua identità, ai suoi
valori di civiltà che poggiano le loro radici nella
filosofia della Grecia e nel diritto di Roma possano
essere occasioni di rivendicazioni nazionalistiche,
definite anche sovraniste, si è fatto di tutto per non
nominare il re Vittorio Emanuele III, il suo ruolo
essenziale a Peschiera l’8 novembre 1918 a difesa della
dignità e del valore del soldato italiano dopo
Caporetto. E poiché non era possibile ignorare che la
Regina d’Italia aveva trasformato il Quirinale in un
ospedale militare nel quale aveva ospitato feriti e
mutilati si è detto “la regina di allora”, con
inconcepibile distacco, nel timore evidente che
sottolineare il ruolo di Elena, Sovrana “della carità”,
come l’avrebbe definita il Papa Pio XI nel
conferirle il 15 aprile 1937 la “Rosa d’oro della
Cristianità”, sia un riconoscimento del ruolo della
monarchia in quel determinato momento storico. Ecco,
quello che manca ai governanti di oggi è il senso della
storia, l’incapacità di collocare nel tempo gli eventi,
e di riconoscere a uomini e istituzioni il ruolo che
hanno avuto in quella circostanza. Evidente
dimostrazione della fragilità dell’attuale dirigenza
politica e istituzionale che non è capace di
confrontarsi con la storia del Paese perché, a fronte di
quegli uomini che fecero l’Italia e la resero grande,
oggi annaspano tra modeste proposte di governo, incapaci
di delineare un quadro di crescita economica e sociale
quale questo Paese merita proprio per la sua storia che,
con alterne vicende, è stata grande in momenti
significativi e che vorrebbe tornare ad esserlo perché
gli italiani sentono che possono essere competitivi in
Europa e nel mondo per il loro genio, per la fantasia,
per gli studi.
Ci vogliono modesti, come modesti sono i nostri
governanti, modestissimi, di scarsa cultura, privi
assolutamente di esperienza, eppure pronti a discettare
dei massimi sistemi della politica e
dell’amministrazione. Ne è dimostrazione la politica
dell’istruzione che sta erodendo gravemente una
tradizione che faceva degli studi nelle nostre scuole
una base sicura per ulteriori impegni di ricerca e
professionali. Si continua nello smantellamento dei
programmi, che necessitavano certamente di integrazioni,
tuttavia mantenendo quella struttura della quale la
cultura letteraria, storica, filosofica, artistica si
univa alla conoscenza delle discipline scientifiche per
assicurare ai nostri studenti quella preparazione che ha
loro assicurato nel tempo prospettive professionali di
tutto riguardo in Italia e all’estero.
Smantellati gli studi classici, scompare dall’orizzonte
dei nostri giovani la storia politica, militare,
letteraria, artistica che è espressione della nostra
identità nazionale che intendiamo rivendicare, non per
un vacuo sciovinismo al modo di altri, ma perché nella
consapevolezza di noi stessi sta la forza per gestire il
presente e di immaginare il futuro. E così spariscono
dall’orizzonte degli italiani i personaggi che hanno
fatto la storia di questo Paese. E mentre sulle rive
della Senna il Presidente socialista, o presunto tale,
enfatizza il ricordo di un’impresa patriottica come
avrebbe fatto la destra erede di Charles Maurras,
in quella Francia dove non è consentito parlare male di
Napoleone, nonostante abbia disseminato di
cadaveri le pianure di mezza Europa, in Italia il
ricordo della storia unitaria, dal Risorgimento ai
nostri giorni, volutamente ignorata nelle scuole, si
attenua quasi ad annullarsi nella toponomastica. Sicché
Camillo Benso, Conte di Cavour,
il più grande statista europeo, secondo il Cancelliere
austriaco Clemente Lotario di Metternich, per
molti adulti e gran parte dei giovani è nulla più di una
targa a lato di una strada o di una piazza al centro
della loro città.
Contro l’ignavia che regna sovrana nei Palazzi del
Potere noi vogliamo dire alto e forte che ci sono care
le parole Vittoria e Patria, quella per la quale avevano
combattuto milioni di italiani tra nevi e pietraie, dal
Monte Grappa al Sabotino, al Carso, fino al Piave. E sul
mare Adriatico.
Il centenario di Vittorio Veneto è, dunque, ancora
un’occasione perduta, per i partiti di governo, che
avrebbero potuto fare di più per ricordare ai giovani
soprattutto il senso dei sacrifici di nonni e bisnonni,
che combatterono per un’Italia più forte e s’impegnarono
nel dopoguerra per ricostruirla, e per quelli di
opposizione che non provano neppure a parlare di Patria
e di identità degli italiani, un valore che ovunque è
comune a tutti, che non è possibile tingere di un
qualche colore partitico.
13 novembre 2018
Pensioni “d’oro”, tra demagogia e realtà
di Salvatore Sfrecola
L’idea dei 5Stelle, ormai evidente, è quella che a
pagare i buchi della previdenza, dovuti ad errori di
anni, debbano essere ancora una volta i pensionati
titolari di assegni elevati corrispondenti a contributi
effettivamente versati. Lo dimostra il fatto che è stata
abbandonata l’idea di rideterminare le pensioni secondo
l’ammontare dei contributi. Avrebbe reso pochi
centesimi. Ed allora ecco spuntare dal cilindro l’idea
di un nuovo “contributo di solidarietà” da porre a
carico di coloro che ad esigenze di solidarietà già
hanno più volte risposto, a cominciare da quando hanno
versato contributi oltre i quarant’anni utili a
pensione.
Si fa demagogia di basso conio. Ma tant’è, “pensioni
d’oro” suona bene e in una società nella quale ha sempre
giocato un ruolo l’invidia è politicamente utile dare in
pasto ai diseredati, prodotto della politica
dell’austerità e della malapolitica degli anni scorsi,
alcune categorie, soprattutto di pubblici dipendenti,
incuranti che prelevare ad libitum da questi trattamenti
più elevati costituirebbe negazione di principi
giuridici fondamentali. Ha ricordato di recente
Corrado Calabrò, giurista
insigne tra i più illustri magistrati del Consiglio di
Stato, che in primo luogo viene violato il principio
della nostra Costituzione sancito nell’articolo 1 per il
quale la Repubblica è “fondata sul lavoro” sicché l’idea
di imporre un pesante contributo sulla retribuzione
differita, costituita dai contributi di chi ha lavorato
per diversi decenni, contraddice apertamente quel
principio. Il lavoro diventa un disvalore a vantaggio
del non lavoro.
Va considerato, infatti, che in tal modo si colpiscono
cittadini i quali hanno avuto accesso ad importanti
istituzioni dello Stato dopo aver superato concorsi
difficili ed aver svolto attività lavorativa con
elevate, pubbliche responsabilità per decenni, nel corso
dei quali parte della retribuzione è stata accantonata
per essere erogata dopo il collocamento a riposo. Sia
sulla parte pagata in servizio che su quella corrisposta
dopo questi cittadini hanno pagato imposte elevate
spesso arrivate al dimezzamento di quanto percepito. “È
stato così – ricorda Calabrò - anche nel periodo in cui
vigeva il sistema retributivo, che valorizzava lo
stipendio percepito negli ultimi anni nella convinzione
che il passaggio dalla condizione economica del
lavoratore a quella del pensionato non avrebbe dovuto
far precipitare la condizione di vita. Anche con il
sistema contributivo, in cui sono esclusivamente i
nostri contributi - vale a dire i nostri versamenti al
sistema pensionistico - a costituire l’accantonamento”.
Questo sistema equilibrato, che si basa su diritti
maturati, è stato scardinato dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 173 del 2016 la quale ha ritenuto che
il diritto sulle somme accantonate andasse contemperato
e bilanciato con altri principi; in particolare con
quello di solidarietà. Quello e quello solo sarebbe
suscettibile di decurtazione tra i diritti patrimoniali,
compresi quelli più indicativi di una situazione di
agiatezza. La sentenza è evidentemente “politica”,
costituisce una palese arrampicata sugli specchi, specie
quando confonde i conti della previdenza con quelli
dello Stato, al cui bilancio affluiscono le somme
prelevate, negando che si tratti di una norma
sostanzialmente tributaria.
Un po’ di storia fa comprendere meglio di cosa si
tratta. Negli anni ’50, quando il sistema pensionistico
venne rifondato, la gestione era in attivo, perché, a
fronte dell’afflusso di contributi, le pensioni erogate
erano poche. Vi era, anzi, un eccesso di liquidità che
poté essere utilizzato dal Governo per il piano INA
Casa, un grande progetto sociale che si era intestato
Amintore Fanfani, uno dei “cavalli di razza” della
politica nella Prima Repubblica.
La storia continua con le cosiddette baby pensioni,
quelle che potevano ottenere i pubblici dipendenti al
compimento di 15 anni, sei mesi e un giorno di servizio.
Pensioni modeste, ovviamente, in ragione dei pochi
contributi versati ma destinate ad essere erogate per
molto tempo. Se ne avvalsero soprattutto le donne che
desideravano dedicarsi alla famiglia. Certo un valore
sociale il riconoscimento della donna mogli e madre, che
lo Stato avrebbe dovuto sostenere a carico della
fiscalità generale, non della previdenza.
All’epoca i pubblici dipendenti andavano in pensione a
65 anni: e questo temperava gli effetti del sistema
retributivo, allora vigente, sotto due aspetti: perché
all’anzianità erano generalmente correlati i contributi
versati e perché quanto più tardi si va in pensione
tanto meno numerosi sono gli anni in cui la pensione
viene erogata, in relazione alle aspettative di vita.
Lo squilibrio del sistema previdenziale continuava ad
accentuarsi, anche perché aggravato dalle prestazioni
assistenziali, cioè dalle pensioni d’invalidità che
vengono corrisposte a carico della previdenza. Anche
questa è un’esigenza sociale importante, ma andava
distinta dalla previdenza per non alterare i conti del
sistema pensionistico vero e proprio basato sul rapporto
tra contributi versdati ed assegni corrisposti.
Negli anni 90’ si rese così indispensabile intervenire,
trasformando il sistema da retributivo in contributivo e
fissando una soglia per il diritto alla corresponsione
della pensione, determinata dalla somma degli anni di
contribuzione e degli anni di età. Per il personale in
servizio il passaggio al contributivo era differito in
relazione agli anni di servizio prestati (più o meno di
18), salvaguardando così quanto capitalizzato fino a
quella data col sistema retributivo in base al principio
della retribuzione differita. Secondo i calcoli
attuariali la cifra soglia avrebbe dovuto essere
fissata, all’epoca, a 100. Lega Nord si oppose e la CGIL
minacciò lo sciopero generale. Ci fermammo così a 95, ma
con l’impegno a passare entro 3 anni a livello 100 e di
adeguare poi questo livello alle accresciute aspettative
di durata della vita. All’elaborazione del provvedimento
aveva collaborato il prof. Alberto Brambilla, esperto
vicino alla Lega Nord la quale, tuttavia, contestò il
provvedimento fino al punto di far venire meno la
fiducia al Governo di Silvio Berlusconi.
I maligni dicono che la Lega propende per l’anticipo
dell’età pensionabile perché molti lavoratori
dipendenti, al Nord, anelano a mettersi in proprio in
un’età ancora giovanile che consenta loro di svolgere
proficuamente un’attività di piccoli imprenditori,
negozianti, agricoltori, artigiani, avendo già
assicurato un reddito sufficiente con la pensione. I
soliti maligni alludono anche al fatto che da quelle
parti, con quelle possibilità di lavoro, è facile
eludere le imposte. Si chiama “lavoro nero”.
Per effetto della modifica della legge Fornero prevista
dal provvedimento approvato nelle scorse settimane dal
Consiglio dei Ministri, il costo di questo beneficio per
il bilancio dello Stato è di 7 - 8 miliardi all’anno ed
è considerato dall’UE il principale fattore di
squilibrio strutturale, insieme al debito pubblico.
Non è vero, quindi, che il finanziamento del sistema
previdenziale non sia intercomunicante con la fiscalità
generale, come affermato nella sentenza Morelli n.
173/2016 della Corte Costituzionale. Il contributo di
solidarietà è un surrogato del finanziamento a carico
del bilancio dello Stato, come già accennato.
Un surrogato ancora più iniquo quando mira a sovvenire
misure di elargizione sconsiderate che pongono un
fardello molto gravoso sulle spalle dei nostri figli e
nipoti e squinternano i conti dell’INPS (oltre 130
miliardi secondo il presidente dell’INPS Boeri).
Nessun intervento una tantum di pretesa solidarietà
potrà rimettere in sesto quei conti, dove già tutte le
gestioni sono in deficit.
Tutte meno una, quella dei magistrati, perché versano
contributi per più anni in quanto vanno in pensione ad
età più avanzata. Una condizione che l’Avvocatura
Generale dello Stato ha definito nella sua memoria
dinanzi alla Consulta “beneficio”. Lavorare più a lungo
è forse un beneficio? E se sì, lo è anche per gli
avvocati dello Stato che hanno gli stessi limiti di età
dei magistrati.
Insomma, l’accantonamento costituito con la retribuzione
differita sarebbe liberamente espropriabile, sia pure in
una certa misura a quanto pare liberamente definibile
dalla Consulta (è vera giustizia?), ciò che, come detto,
costituisce negazione del principio costituzionale che
valorizza il lavoro. Negazione implicita nella volontà
di attuare un “reddito di cittadinanza” espressione
intrinsecamente equivoca che qualifica reddito non la
retribuzione di un lavoro ma un assegno assistenziale.
Che è certamente giusto corrispondere a chi ha bisogno,
ma non a carico di una determinata categoria privata
delle aspettative sulle quali legittimamente faceva
conto in un patto con lo Stato: “tu paghi i contributi
ed in relazione a quelli che hai versato io ti riconosco
una determinata pensione”. Queste iniziative si pagano a
carico della fiscalità generale, del bilancio dello
Stato.
Ricordo a me stesso, come dicono gli avvocati quando si
rivolgono con garbo ai giudici per ricordare loro ciò
che dovrebbero sapere, che quando si comincia a
manomettere alcune regole che risalgono nei secoli come
principi di diritto si sa da dove si comincia, non dove
si va a finire, perché di sentenza in sentenza è facile
dimenticare che l’unicuique suum è regola di civiltà e
di pacifica convivenza.
9 novembre 2018
Corrado Augias riscopre l’importanza dell’identità
Di Salvatore Sfrecola
Non accade sovente che io condivida quel che scrive su
Repubblica Corrado Augias. Lo trovo supponente,
tuttologo, politicamente schierato su posizioni
politiche che non condivido, intollerante.
Stavolta, però, rispondendo ad un lettore, il quale
lamentava che si ricorda troppo spesso “Caporetto e non
Vittorio Veneto, la miopia di alcuni generali e non la
resistenza della leva del 99 sul Piave”, il Nostro ha un
risveglio non dico patriottico ma più consapevole della
nostra identità. Il lettore, Alessandro Insolia, segnala
anche che nel 2014 i parigini Champs Elysées
“erano tappezzati di pannelli con episodi della guerra,
niente di simile in Italia”. In sostanza, è la tesi del
lettore, “è mancato da parte delle amministrazioni
locali qualcosa che parlasse alle persone: sembra che
abbiano lasciato al caso il culto della memoria”.
Nella sua risposta Augias si dice parzialmente d’accordo
e sottolinea come in Italia “non si tratta solo di
memoria corta, c’è di peggio, più esattamente c’è quel
vizio nazionale che Carlo Emilio Gadda definiva “la
porca rogna dell’autodenigrazione” per cui si abbonda in
piagnistei sulle nostre debolezze mentre restano pochi e
rari i giudizi equilibrati sui tanti aspetti positivi
della nostra convivenza”. E della nostra storia
politica, culturale, artistica e anche militare.
Infatti, scrive Augias “La Francia non ha una storia
militare più brillante della nostra. Ha però molta più
stima di sé stessa, addirittura troppa secondo alcuni,
un eccesso opposto a quello italiano. Almeno per il 4
novembre, si potrebbe cercare di riequilibrare”.
Mi tocca essere d’accordo con Augias, anzi forse, senza
saperlo, è lui ad essere d’accordo con me, considerato
che, con molta obiettività, da sempre cerco di
soffermarmi su difetti e virtù degli italiani e
soprattutto sulla storia che ci propone personalità di
altissimo profilo sulle quali si dovrebbe indurre i
giovani a riflettere per farne esempi da seguire.
Mi auguro che il 4 novembre 2018 costituisca una svolta
e che gli italiani assumano consapevolezza della
identità nazionale che, se “debole”, come ha scritto
Eugenio Scalfari domenica, lo è anche perché dal
dopoguerra, con l’intento di cancellare il ricordo
dell’enfasi patriottica usata dal regime fascista, si è
voluto contemporaneamente non solo ridimensionare certi
eccessi ma addirittura cancellare la memoria di quel
processo unitario che si era sviluppato nel corso
dell’800 per iniziativa delle migliori menti e dei cuori
più generosi ovunque in Italia e che il 4 novembre 1918
ha trovato la sua conclusione con la liberazione di
Trento e di Trieste.
Il fatto è che negare la storia e l’identità di un
popolo, da parte di forze politiche che alla storia
unitaria non hanno concorso, regge fino ad un certo
punto perché inevitabilmente il sentimento compresso
cova nelle menti e nei cuori e, se non valorizzato nei
suoi termini reali e concreti, rischia di esplodere,
così come nel primo dopoguerra certo nazionalismo aveva
rivendicato il valore della italianità e della vittoria
e, trovandosi contrastato da chi quei valori non
condivideva ma anzi vilipendeva, è esploso e si è
alleato al fascismo, nonostante l’evidente matrice di
sinistra di questo movimento.
A differenza di Peppone, sindaco comunista ma ex
combattente, al quale Giovanni Guareschi fa dire, nel
crescente entusiasmo indotto dalle note della Canzone
del Piave, viva l’Italia Viva il Re, Augias è un freddo
ma condivide che si debba riconoscere il valore dei
“ragazzi del ’99 (dunque diciottenni) schierati sul
Piave che ressero l’urto e rovesciarono le sorti del
conflitto”. Va bene comunque.
6 novembre 2018
Aimone di Savoia Aosta da Mosca a Roma per ricordare la
Grande Guerra
di Salvatore Sfrecola
Per celebrare la vittoria nella Grande Guerra 1915-1918,
la prima nella quale gli italiani “da secoli calpesti,
derisi”, secondo le parole dell’Inno di Mameli, non si
sono combattuti tra loro, ma hanno lottato fianco a
fianco sotto la guida del re Vittorio Emanuele III
per unificare l’Italia liberando Trento e Trieste
dal “nemico storico”, come ha scritto Luigi Einaudi,
l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.)
organizza per sabato 3 novembre alle 11, a Roma, nella
Sala Umberto di via della Mercede, un incontro con
Aimone di Savoia Aosta, Duca delle Puglie.
Il Principe-manager, Amministratore delegato di Pirelli
in Russia, figlio di Amedeo è il
Pronipote di Emanuele Filiberto, il leggendario
Comandante della “invitta” Terza Armata, come di legge
nel Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918, dato
dal Comando Supremo a firma di Armando Diaz, il
Capo di Stato Maggiore subentrato a Luigi Cadorna
dopo la rotta di Caporetto.
Quel giorno si concludeva la guerra dei nostri nonni e,
per i più giovani, dei bisnonni. Al termine di una
guerra durata ben quarantuno mesi nella quale si sono
sacrificate generazioni di italiani, al fronte, sul
Carso, tra le montagne innevate, sul mare. Combattenti
nelle trincee, operai nelle fabbriche, contadini nelle
campagne, tutti hanno concorso all’impegno di un intero
popolo.
“Italiani, Cittadini e Soldati! Siate un esercito solo”,
è stato l’incipit del proclama del Re Vittorio
Emanuele dopo il Convegno di Peschiera, dove impose
ai capi politici e militari di Francia e Inghilterra la
difesa sul Piave, garantendo che l’esercito italiano
avrebbe resistito, nonostante i dubbi dei generali
alleati.
E dal Piave partì la grande offensiva che nell’ottobre
1918 diede una spallata definitiva all’esercito
austriaco costringendolo alla fuga, realizzando quella
che lo stesso Diaz definì “una Caporetto alla
rovescia”. “Annientato – come si legge nel Bollettino
della Vittoria -: esso ha subito perdite gravissime
nell’accanita resistenza dei primi giorni e
nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di
materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi
magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre
mani circa trecento mila prigionieri con interi stati
maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di
quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalgono in disordine e senza speranza le valli, che
avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Nella Sala Umberto parleranno Vittorio Sgarbi,
Giuseppe Basini, liberale, deputato della Lega,
Salvatore Sfrecola, Andrea Ungari, professore
di storia contemporanea, autore de “La Guerra del Re”,
con le conclusioni dell’Avv. Alessandro Sacchi,
Presidente dell’U.M.I., autore, insieme ad Adriano Monti
Bozzetti Colella, di “Conversazione sulla Monarchia”.
L’Unione Monarchica, si legge nel sito
www.unionemonarchicaitaliana.it richiamando
un intervento di Re Umberto II del 1956 “è
istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici,
senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella
concordia discors che è una delle ragioni d'essere della
Monarchia e condizione di ogni progresso politico e
sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta
alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la
difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la
mia casa rappresenta”.
“A Roma ci sarà un’altra Italia – ci dice Sacchi
-, quella dei sacrifici e dei risultati, un modello cui
tendere perché i giovani crescano nella consapevolezza
della nostra identità nazionale, importante sempre,
essenziale nel contesto europeo. E perché, come i loro
nonni e bisnonni, s’impegnino negli studi e nelle
professioni, per partecipare alla vita politica, negli
ultimi anni troppo spesso rappresentata da persone
modeste, prive finanche dei requisiti minimi per vincere
un concorso pubblico di basso livello. Eppure pieni di
vanagloria”.
“Mi auguro anche – prosegue Sacchi – che continui
l’attenzione per la Patria e per la sua storia che i
giovani sentono più di quanto ritengono gli adulti. Loro
sono la nostra speranza ed è logico che ricerchino nelle
nostre tradizioni, nell’esempio dei nostri progenitori
lo spunto e la volontà di impegnarsi negli studi, nelle
professioni, nella politica che deve tornare ad essere
il luogo nel quale si confrontano i migliori, per
competenza e onestà per perseguire il bene comune”.
Insomma i monarchici dell’U.M.I. puntano ad un
rinnovamento della vita pubblica sulla base di valori
che tradizionalmente appartengono alle democrazie
costituzionali segnalando come, non a caso, i paesi dove
più solida è la democrazia sono monarchie, dal Regno
Unito alla Danimarca, dalla Svezia alla Spagna, dalla
Norvegia al Belgio, all’Olanda.
1 novembre 2018