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MAGGIO 2017

 

Laura Bianchini. Una vita per la scuola

del Prof. Avv. Pietrangelo Jaricci

Sostando dinanzi alle vetrine della libreria della quale sono cliente, aggiornate meglio di un catalogo delle novità, il mio sguardo si è posato sul volume di Grazia Gotti “21 donne all’Assemblea”, edito di recente da Bompiani.

Sono sobbalzato ben ricordando che ventuno erano le rappresentanti femminili elette nell’Assemblea costituente e, tra queste, ero certo che non poteva non essere presente anche la mia indimenticabile Professoressa di storia e filosofia degli anni del liceo: Laura Bianchini. Infatti, alla pagina 91 e seguenti si parla diffusamente di Lei, con commossa partecipazione, della sua vita virtuosa, del suo impegno politico e della sua attività di docente.

Quanti ricordi si affollano nella mente e quanta emozione nel mio cuore!

Sembra ieri che la classe I^ del liceo classico Virgilio – Sezione Monteverde era in ansiosa attesa dell’insegnante di storia e filosofia, già deputata al Parlamento e – si mormorava – docente dotata di notevole carisma.

Fu un incontro molto sereno con la nostra classe, ma subito ci si rese conto che questa insegnante avrebbe lasciato un segno indelebile in tutti noi, come si verificò puntualmente.

Conoscevamo poco o nulla di Lei. Ci avevano soltanto riferito della sua origine settentrionale e che era stata eletta in Parlamento nella I^ legislatura nelle liste della Democrazia cristiana. Ricordo ancora che venne presentata alla classe personalmente dal Preside, un privilegio che veniva forse riservato a pochi insegnanti. L’evento acuì la nostra curiosità e ci indusse ad accoglierla con la dovuta deferenza, ma instaurando di lì a poco un rapporto di affettuosa solidarietà.

Fin dall’inizio le sue lezioni furono magistrali e l’intera classe ne rimase avvinta. Nel primo anno di corso dedicò un prolungato numero di ore al pensiero e alle opere di Platone che considerava punto di partenza e di arrivo di ogni ricerca filosofica.

Nel frattempo io, con altri pochi compagni di classe, lavoravamo all’ambizioso progetto di pubblicare un giornale della Sezione Monteverde del liceo classico Virgilio.

Per doveroso atto di rispetto, volli parlarne al Preside che, pur con qualche riserva, concesse il suo benestare a patto che la pubblicazione, prima di essere gratuitamente diffusa tra gli alunni, dovesse essere sottoposta al suo visto.

Vide così la luce, tra la fine del 1953 e l’inizio dell’anno seguente, “Lo Zibaldino”, “foglio interno della Sezione Monteverde”, che in breve tempo divenne la nostra bandiera.

La Prof. Bianchini rimase entusiasta del progetto ed ebbe parole di affettuoso incoraggiamento. Le feci però presente che, trattandosi di un foglio interno della Sezione Monteverde, il compito di revisore poteva essere demandato direttamente a Lei. Dopo qualche giorno pervenne una comunicazione del Preside che investiva la Prof. Bianchini del “potere di visto”.

Tale inaspettata decisione accrebbe la nostra familiarità con la Prof. Bianchini che si mostrò sempre prodiga di consigli e suggerimenti preziosi, contribuendo così ad elevare i contenuti de “Lo Zibaldino” ed a favorire la sua diffusione anche tra le classi della confinante scuola media Manzoni.

Per la preparazione del nostro “foglio” venivo convocato in Via della Chiesa Nuova, presso l’abitazione delle sorelle Portoghesi, dove la Prof. Bianchini alloggiava con altri parlamentari della Democrazia cristiana aderenti alla “Comunità del Porcellino”.

In quelle occasioni si parlava di tutto e si confidavano a Lei propositi e speranze.

Prima ancora di superare gli esami di maturità Le avevo parlato della mia intenzione di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza, come fecero il mio bisnonno e mio nonno paterni, entrambi Notai, e dopo di loro mio padre, Avvocato. Una volta conseguita la laurea, avrei tentato il concorso in magistratura.

Dopo una breve pausa di riflessione, la Prof. Bianchini non sembrò particolarmente entusiasta di quest’ultima mia aspirazione: “sceglieresti forse”, mi disse, “la meno adatta delle professioni perché mal si concilierebbe con la tua autonomia intellettuale, con il tuo rifiuto di ogni sorta di compromesso e con il tuo temperamento refrattario a ricevere disposizioni dall’alto”.

Queste parole mi colpirono profondamente ed hanno influito in modo determinante su tutte le mie scelte future.

Quando era tra noi, non amava rievocare gli anni passati, anche se spesso traspariva dalle sue parole un sentimento di delusione per la politica in generale.

Ma l’insegnamento era la sua vera vocazione e ogni lezione costituiva un messaggio culturale per noi giovani da non disperdere, ma da custodire nelle nostre menti e nei nostri cuori.

Mia carissima ed indimenticabile Professoressa!

Il Tuo ricordo rimarrà perennemente vivo in me ed ancora adesso Ti vedo fare lezione seduta sul leggìo del secondo banco della fila mediana della nostra classe sicuramente per instaurare un rapporto più diretto ed intenso con noi alunni ai quali hai dato, con appassionata fermezza, tutta Te stessa per renderci migliori, come studiosi e come cittadini.

Questa mia non è nostalgia, ma accorato, struggente rimpianto di una persona che mai potrà essere dimenticata.

Desidero chiudere questo breve, ma sentito ricordo, facendo mie le parole di Grazia Gotti: Laura Bianchini, tornata nelle aule scolastiche, “insegnerà per vent’anni al liceo classico Virgilio di Roma, continuando lì la sua opera di sensibilizzazione delle coscienze. Oltre che di storia e filosofia, parla ai suoi studenti, che frequentano la sua casa anche di pomeriggio, delle cose che la appassionano. Lo fa ogni giorno, con fede e tenacia, consapevole della sua opera di semina delle menti, che prima o poi darà i suoi frutti”.

31 maggio 2017

Le elezioni e lo spettro della legge di bilancio

di Salvatore Sfrecola

Intervenendo a Tagadà de La7, sollecitato dalla conduttrice Tiziana Panella, Gianfranco Pasquino, politologo tra i più accreditati nelle analisi politiche attuali, ha detto che, a suo giudizio, si voterà a marzo 2018, il 9, per l’esattezza, perché la individuazione dei collegi uninominali è opera complessa in quanto, secondo come se ne definisce l’ambito territoriale, cambiano le possibilità di vittoria dei singoli candidati.

È certamente vero, ma il professore non ha considerato, come invece aveva fatto poco prima di lui nella stessa trasmissione Marco Damilano, vice direttore de L’Espresso, una variabile che, in qualche misura, preoccupa tutti i partiti, la manovra finanziaria di fine anno. Sembra, infatti, ormai certo, dati alla mano, che per far quadrare i conti la legge di bilancio, ex legge finanziaria, ex legge di stabilità, debba necessariamente prevedere misure severe sotto il profilo fiscale e non solo. Per cui, soprattutto il Partito Democratico, che ritiene di essere ancora chiamato a governare, sia pure in coalizione, teme che l’esito della scadenza elettorale sia condizionato dall’effetto di una legge di bilancio lacrime e sangue, con più tasse, meno servizi, rinvio nella definizione del contratti di lavoro nel pubblico impiego, e, forse, sforbiciate alle pensioni. Un salasso per gli italiani che potrebbe rivelarsi una autentica debacle per i partiti che la voteranno, soprattutto quelli che sostengono il governo, in primo luogo quello del Presidente del Consiglio e del loquace segretario del partito che, si è visto, piace poco agli italiani che di slogan e slide hanno piene le tasche.

Bocciato dalla Consulta per la legge elettorale che, diceva Matteo Renzi, ci invidiano tutti, tanto che l’avrebbero copiata, massacrato il 4 dicembre 2016 dagli italiani che, anche senza leggere la riforma costituzionale, gli hanno votato contro per profonda disistima nei suoi confronti, il giovanotto di Rignano sull’Arno dimostra ogni giorno di più di non aver imparato la lezione. Anzi, continua a riversare a piene mani sui telespettatori e sui giornali che lo sostengono per evidenti interessi economici improbabili messaggi programmatici enunciati in Italia e altrove, dove spesso si è esibito in un inglese esilarante, poco dignitoso per un Presidente del Consiglio e segretario del partito più numeroso in Parlamento, anche se per effetto di un premio di maggioranza previsto da una legge elettorale non in linea con la Costituzione. E vuole votare subito. E forse ci riuscirà, ma gli italiani sanno che questa accelerazione serve solo ad evitare l’effetto politico negativo di una dura manovra finanziaria. E siccome non sono “grulli”, per usare una espressione cara al linguaggio del giovanotto, gli italiani al momento del voto se lo ricorderanno. Il PD è il partito che ha governato negli ultimi anni, l’intera legislatura, portando l’Italia verso il disastro economico, unico tra Francia, Germania e Spagna che non ha avuto incrementi del PIL, segno che i mali nostri non vengono dall’Europa, come si vorrebbe far intendere, ma dall’insipienza dei governanti.

30 maggio 2017

Occidente ed Islam

Integrazione, la tragedia degli equivoci

di Salvatore Sfrecola

Integrazione è la parola più ricorrente quando si parla di come affrontare i problemi posti dai migranti che sbarcano sulle nostre coste. E, ancora, in occasione dei tragici eventi terroristici che hanno insanguinando l’Europa e non solo. Integrazione, che dovrebbe garantire una pacifica convivenza tra cittadini e immigrati. Per concludere che gli episodi di violenza che la cronaca ci propone con sempre maggiore frequenza, siano i casi di accoltellamento, come quello recente alla stazione di Milano, siano i più gravi attentati di Parigi, Berlino, Londra o Manchester, sarebbero un po’ colpa degli stati europei, nel senso che non sarebbero stati capaci di favorire l’integrazione. Questa, come si legge nel Vocabolario della lingua italiana Treccani (vol. II, 910), si realizza attraverso l’“assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in una organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapp. a segregazione)… integrazione dei lavoratori stranieri, degli immigrati nella (o alla, con la popolazione locale”. Insomma, integrazione significa condivisione, da parte dei migranti, di valori che sono propri della comunità che accoglie, valori che normalmente sono individuati nella carta costituzionale dello stato, tra i principi fondamentali, i diritti di libertà ed i doveri di solidarietà, la pari dignità sociale, l’uguaglianza davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come si legge nell’art. 3 della nostra Costituzione. Valori civili, etici, giuridici che coloro i quali entrano in un paese devono necessariamente rispettare. Ovunque avviene così.

Nell’antica Roma, che nasce – è bene ricordare – con il riconoscimento da parte di Romolo del diritto di asilo, erano bene accette persone provenienti da ogni angolo del mondo allora conosciuto, senza distinzione di razza e di fede. Si richiedeva “esclusivamente” il rispetto delle leggi e la condivisione della missione storica di Roma, cioè della identità romana (G. Valditara, l’immigrazione ai tempi dell’antica Roma: una questione di attualità, Rubettino, 2014). Tanto che nella storia del regno prima, della repubblica e, infine, dell’impero, giungono ai vertice delle magistrature personalità che avevano avuto i natali lontano e spesso fuori d’Italia, come Livio Andronico, uno schiavo manomesso di lingua e cultura greca, Nevio, campano, come Petronio. Orazio, il grande poeta, era figlio di uno schiavo liberato, Livio veniva da Padova. Nel II secolo dopo Cristo gli imperatori sono quasi tutti nati fuori Roma e lontano dall’Italia.

Dionigi di Alicarnasso scrive che coloro che sono degni di essere cittadini romani sono i benvenuti ed ottengono la residenza e la cittadinanza.

Anche per le comunità o gruppi valeva la stessa regola. Per cui leggiamo in Livio, padovano, come si è ricordato, che loda la scelta di rispedire a casa un’intera comunità i cui membri si erano comportati in dispregio delle regole di Roma. La quale praticava sul serio l’accoglienza, anche con riferimento alle divinità dei gruppi etnici presenti, come gli egizi ai quali avevano consentito la costruzione dei templi di Iside e Osiride.

Il rispetto delle regole è la pretesa minima. Vieni a casa mia devi rispettare le mie leggi e le mie abitudini. Sei ospite ti devi comportare con rispetto e buona educazione. Non sei cristiano? Non devi oltraggiare la statua della Madonna o murare una sua edicola, come io rispetto la tua moschea e mai mi permetterei di entrarvi con le scarpe.

L’autorità pubblica non si fa rispettare nelle nostre città, tra l’altro con danno grave all’immagine di un paese la cui economia trae notevoli risorse dal turismo intorno al quale ruota un indotto di proporzioni gigantesche. Si pensi solo all’artigianato e alle produzioni enogastronomiche. Infatti la scelta di una vacanza in Italia non è evidentemente legata alla presenza del sole o del mare e neppure alle bellezze paesaggistiche che pure sono la meraviglia del “bel Paese”, così chiamato proprio per il suo clima. Sole, mare e monti si trovano anche altrove in Europa. Quel che rende unica l’Italia è il suo straordinario patrimonio storico artistico assolutamente ineguagliabile e noto in tutto il mondo. L’Italia, infatti, è anche il paese della cultura e, in genere, dell’arte, della letteratura e della poesia. Per non dire degli storici, dei filosofi e dei giuristi. E della musica, come dimostra l’alta affluenza di stranieri nei nostri conservatori, per studiare e perfezionarsi. È noto che le nostre orchestre, le nostre compagnie teatrali, i nostri cantanti girano il mondo ed i direttori d’orchestra che salgono sul podio dei maggiori teatri in tutti i continenti sono spesso italiani.

È evidente che disagio sociale indotto dalle migliaia di migranti privi di lavoro genera insicurezza, la quale nuoce al turismo in misura rilevante, anche perché c’è sempre la televisione o il giornale da qualche parte del mondo, soprattutto nei paesi nostri concorrenti, che s’impegna a segnalare episodi piccoli e grandi che gettano discredito sull’Italia, dipinta come il paese delle mafie, della cattiva gestione dei servizi, degli scioperi, dei ristoratori o dei baristi dai conti salati. Per non dire della ricorrente lamentela, giustificatissima, della mancanza di servizi per i turisti, a cominciare dai bagni e proprio a Roma, che li aveva inventati (i vespasiani dall’imperatore che ne promosse la diffusione), per cui migliaia di turisti che giornalmente visitano la città, devono passare per un bar, per un ristorante per poter accedere a una toilette. E il più delle volte si sentono dire che non sono praticabili perché in corso di ristrutturazione.

E veniamo alla ricorrente affermazione che sarebbe nostra la colpa del disagio dei migranti, perché non sappiamo integrarli, ogni volta che l’azione terroristica a Parigi come Nizza, a Bruxelles, a Berlino, a Manchester è stata posta in essere da cittadini di fede islamica di seconda o di terza generazione con regolare passaporto. E qui occorre un approfondimento serio. Stupisce, infatti, o forse non stupisce, che i soloni del politicamente corretto, i quali imperversano su giornali e in televisione per insegnare la verità al volgo, i soliti Severgnini o Friedman non capiscono ciò che sta accadendo e perché. È evidente, infatti, che un cittadino di seconda o terza generazione che massacra con bombe o accoltella per strada suoi coetanei che avrà o avrebbe potuto incontrare per strada o al bar è un esaltato criminale. Evidente manca un adeguato approfondimento che non si fa per non apparire fuori dal coro del politicamente corretto. Infatti è facile constatare che mentre i padri sono venuti in Occidente per esigenze economiche o per sfuggire alle guerre e, pur mantenendo il giusto legame con la cultura della terra di origine, si sono in qualche modo dovuti adattare alle usanze europee, anche per trovare una occupazione, i figli, che dovrebbero sentirsi francesi, belgi, inglesi o tedeschi (un attentatore “belga” era addirittura un funzionario pubblico) soffrono dell’isolamento nel quale queste comunità si sono collocate mantenendo usi e costumi del paese di origine non condivisi nella società che li ospita. Come la condizione della donna, che pretendono di tenere fuori dei rapporti di lavoro, in piscine separate, in luoghi di divertimento separati, e conservano abitudini tribali, come l’infibulazione, con loro tribunali che decidono sulle questioni di famiglia al di fuori delle regole dello Stato. In questi contesti i giovani maturano rabbia verso i paesi che li ospitano per cui non si sentono come i loro coetanei. E covano una rabbia che ha molte origini ma al fondo nasce dalla incapacità di queste persone di integrarsi, di accettare le regole e le usanze delle comunità che li ospitano. Qualcuno ricorderà la ragazze musulmane che non hanno partecipato al momento di silenzio per i morti di Parigi. In questo contesto la religione, che ingloba regole di vita quotidiana, è uno strumento di ribellione. Richiama alla purezza dei costumi descritta dal Corano, laddove gli occidentali sono corrotti, perché consentono alle loro donne di andare a capo scoperto, di mostrare i capelli che notoriamente sono un elemento di attrazione per i maschi, che scoprono le gambe con le gonne corte, che spesso hanno le spalle nude e scollature che, non di rado, fanno intravedere o immaginare quelle rotondità che da sempre a noi maschi occidentali piacciono tanto, perché scandiscono la differenza tra i sessi.

E se i vari Severgnini e gli altri che in televisione parlano di integrazione culturale e religiosa, di dialogo interculturale ed interreligioso, non comprendono queste cose è evidente che c’è un vizio di fondo, una sottovalutazione di fatti che vengono da lontano. La storia, infatti, ci dice che l’aggressività del mondo musulmano nei confronti dell’Occidente inizia con il settimo secolo d.C., quando con la violenza sono state convertite le popolazioni delle regioni costiere del Mediterraneo che erano cristiane. Poi sono state occupate la Spagna e la Grecia e le truppe ottomane sono arrivate sotto le mura di Vienna, la capitale austriaca nel cuore dell’Europa, sconfitte in due battaglie a lungo dall’esito incerto. Se avesse perduto l’esercito imperiale avrebbe perduto l’Occidente, per sempre.

A chi insiste nel prevedere conseguenze positive nel dialogo interculturale interreligioso va detto senza mezzi termini che dialogo esige un piano di parità, un confronto che presuppone dei dialoganti consapevolezza della propria cultura e della propria identità. E se certamente i musulmani hanno consapevolezza della loro identità culturale ed hanno una straordinaria capacità di aggregazione sotto il profilo religioso e delle usanze che sono strettamente legate al proprio credo, gli occidentali, quelli che dovrebbero dialogare con loro, non hanno la consapevolezza della identità di europei, hanno rifiutato il riferimento alle radici cristiane nella bozza di Costituzione europea preparato dalla Convenzione che nei primi anni 2000 ha discusso a lungo su come restituire slancio all’Europa anche ricordando le glorie della storia, la cultura che fa di un francese un francese, di un italiano un italiano, che hanno una storia comune, che dalle sponde del mar Egeo e dalle rive del Tevere si è dipanata lungo i secoli nel Continente. Se non c’è consapevolezza della propria identità il dialogo porta necessariamente alla sottomissione è squilibrato e non giova al mantenimento della pace.

Ed a proposito di confronto religioso e di rispetto della identità del paese che ospita, sembra sia stato trascurato un segnale significativo di una mentalità separatista e aggressiva, quando a Roma fu costruita la grande moschea. Si voleva che avesse un minareto più alto della cupola di San Pietro. Una sfida evidente nella capitale della Cristianità. Considerato che nei paesi arabi non è consentito costruire una chiesa cristiana e curarne la manutenzione. Ed essere cristiano significa non poter raggiungere alcune posizioni elevate nelle istituzioni civili e militari, come in Turchia.

28 maggio 2017

Considerazioni nel giorno della Marcia per la vita

I figli sono un investimento della società

(un esempio dai Regni d’Europa)

di Salvatore Sfrecola

Straordinaria la vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera di giovedì 18 maggio. Sotto il titolo “due chiacchiere in famiglia” sono rappresentati Agnese Renzi, Matteo e il padre Tiziano. Dice Agnese “ho letto che i governanti europei, da Theresa May a Macron, dalla Merckel a Gentiloni sono tutti senza figli”. E Matteo, “il problema non sono i figli, sono i padri”.

La vignetta, sulla scia delle ultime vicende dell’indagine CONSIP e della telefonata, intercettata, tra Matteo e Tiziano Renzi ricostruita nel libro di Marco Lillo “Di padre in figlio”, in edicola con Il Fatto Quotidiano, si presta anche a qualche ulteriore riflessione, di carattere generale, nel giorno in cui a Roma si tiene la Marcia per la Vita, una manifestazione in favore della famiglia, indipendentemente dalle idee politiche e dalla fede dei partecipanti, cattolici o cristiani di altra confessione. Perché i valori della famiglia, pur essendo nel dna di alcuni partiti, in realtà non sono di destra o di sinistra, in un tempo nel quale troppo spesso prevalgono individualismo ed egoismo che non prevedono un investimento in figli.

In questo contesto la vignetta di Giannelli sembra segnalare una verità che è sotto gli occhi di tutti, quella di politici dediti esclusivamente alla politica, al punto da trascurare la vita privata, la famiglia laddove, per definizione, magistralmente ripresa dalla nostra Costituzione, nascono figli che è dovere dei genitori “mantenere, istruire ed educare” (art. 30, comma 1), cioè i futuri cittadini e professionisti. Conseguentemente “la Repubblica agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 32 comma 1). Le misure e le provvidenze sono fiscali (come nel caso del cosiddetto “quoziente familiare”, adottato, ad esempio, in Francia per cui il reddito a fini tributari si divide per i numero dei componenti della famiglia) o di altro genere, soprattutto in servizi, dalla gratuità degli studi, delle cure mediche, delle attività sportive, come avviene, ad esempio in Danimarca.

Così si fa negli stati nei quali i figli sono considerati un investimento. Così avviene in alcuni paesi europei più avanzati. Che, non a caso, sono dei regni, dove i sovrani hanno figli, sovente numerosi, dal Regno Unito alla Svezia, Danimarca, Belgio e Spagna, nei quali le famiglie regnanti sono di esempio per i cittadini. Laddove i giovani principi studiano nelle scuole pubbliche, frequentano le università statali, approfittano, con i loro coetanei “borghesi”, delle opportunità dell’Erasmus. La famiglia reale è solo la prima delle famiglie, indipendentemente da idee politiche e credo religioso.

Stati diversi con governi diversi che, da destra o da sinistra, condividono questa filosofia, che ha cominciato ad invertire la decrescita della popolazione.

Governanti senza figli. Fatti loro, si può dire. Ma sono fatti nostri se queste persone non percepiscono i problemi e le esigenze attuali della società. Questa inadeguata percezione personale inevitabilmente oscura un grave problema sociale. Chi non ha figli difficilmente ne percepisce il ruolo di speranza per il futuro della famiglia e della società. Attenzione per la famiglia ed i figli significa anche avere la capacità di una adeguata percezione dei problemi di una società che è fatta di famiglie nelle quali ci sono consumatori e di risparmiatori, lavoratori e aspiranti lavoratori. Figli o non figli, i nostri governanti si sono dimostrati fin qui incapaci del ruolo che pure hanno perseguito con determinazione, quello di governare l’Italia. Un dato per tutti. Il PIL di Germania, Francia, Italia e Spagna dal 1999 al 2006 parla chiaro. Dall’introduzione della moneta unica solamente l’Italia non è riuscita a creare ricchezza. E questo non dipende assolutamente dall’Europa, ma da noi, dai nostri governanti incapaci di perseguire obiettivi di crescita sostenibili. Senza figli, ma soprattutto senza idee.

20 maggio 2017

Accademie e Conservatori di musica, un’eccellenza italiana.

Ma il futuro è a rischio tra insensibilità politica e interessi sindacali

di Salvatore Sfrecola

Un’eccellenza italiana è a rischio sopravvivenza per una banale questione di “comparti di contrattazione”. Le Accademie ed i Conservatori di musica (Istituti di Alta Formazione Musicale – AFAM), che rappresentano una delle più rilevanti specificità culturali italiane, un’attrattiva forte non solamente per i nostri studenti ma per i tanti che da ogni lato del globo vengono da noi a studiare o a perfezionarsi, sono stati, tramite un accordo sindacale presso l’ARAN, improvvidamente “retrocessi” nel comparto del personale della Scuola “di ogni ordine e grado”. In sostanza dal luglio 2016 i docenti di Accademie e Conservatori sono stati inglobati nel mare magnum del personale delle scuole materne, elementari, secondarie ed artistiche, nonostante si tratti di istituzioni culturali che, sulla base della legge di riforma n. 508/99, anche se attuata solamente in parte, rilasciano titoli accademici di I e II livello, insomma lauree, come accade ovunque nel mondo. E, pertanto, per Costituzione, devono ricadere contrattualmente nel sistema pubblicistico che regola l’Università.

In prospettiva, dunque, sarà difficile mantenere alto il prestigio di queste istituzioni, dal momento che al corpo insegnante e agli studenti sarà sempre più evidente che le loro scuole non sono più considerate un’eccellenza, che l’Italia non è più il Paese dei grandi pittori, scultori o musicisti ai quali si ispirano gli artisti ovunque nel mondo. Per rimediare, per uscire dal comparto scuola, tornando ad una disciplina autonoma, quella si basa sul dettato costituzionale dell’art. 33 (“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie [e per sentenza della Corte Costituzionale i Conservatori di Musica] hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”), la Commissione Affari Costituzionali del Senato, nella seduta del 3 maggio 2017, chiamata a rilasciare un parere sul decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico del pubblico impiego (il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) ha indirizzato al Governo la raccomandazione di “valutare la possibilità di rivedere l’inquadramento del personale AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale), prevedendo uno stato giuridico formalmente più consono con la loro professionalità e in analogia con la disciplina prevista per i professori universitari”. Così confermando l’indirizzo già espresso dal Senato in sede di conversione del D.l.vo n. 150/2009, quando aveva segnalato l’esigenza di tenere fuori, dalla riorganizzazione dei comparti e delle aree di contrattazione, per la sua specificità, il comparto AFAM. Ed, infatti, l’art. 40 del D.l.vo n. 165/2001, non fa nessun cenno al comparto AFAM. Inoltre proprio il decreto 150/2009 statuisce che la contrattazione non può derogare a norme di legge se non espressamente previsto. Fermi, dunque, gli ambiti di specificità funzionale ed ordinamentale dell’AFAM, la mancata abrogazione della legge 508/99 riguardante l’istituzione del Comparto AFAM (art. 2 comma 6) e l’affidamento alla contrattazione della definizione dei nuovi comparti di contrattazione e delle corrispondenti aree dirigenziali, in assenza di disposizioni legislative derogatorie, quel comparto deve restare fuori dalla riorganizzazione contrattuale attualmente in atto. Questa, dunque, la conclusione necessaria messa nel nulla dalla decisione del luglio scorso che ha “retrocesso” Accademie e Conservatori.

Conseguentemente numerose forze politiche e l’Unione degli Artisti - UNAMS (unico sindacato che non ha voluto firmare l’accordo del luglio scorso presso l’ARAN) hanno chiesto al Ministro Madia, cui spetta predisporre il decreto da portare all’approvazione del  Consiglio dei ministri, di inserire nell’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 un comma 2-bis il quale preveda che “Il rapporto di lavoro e le carriere del personale docente delle istituzioni dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica, di cui all’art. 33 Cost., sono regolati in analogia con la normativa vigente per i professori universitari”. Con la precisazione, necessaria per tranquillizzare la Ragioneria Generale dello Stato, che “il relativo trattamento economico, che in prima applicazione non comporta nuovi o maggiori oneri per lo Stato, è determinato con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’istruzione dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, anche in riferimento a quanto previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 2011, n. 232”.

Poi si dovrà provvedere, con norma a parte, ad inserire il settore delle Accademie e dei Conservatori nel Consiglio Universitario Nazionale (CUN) in due aree distinte, con competenza nella formulazione di pareri e proposte nelle materie già affidate al CNAM (Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale), previsto dalla legge 508/1999, con funzione consultiva su numerosi aspetti della vita delle istituzioni (dai regolamenti didattici degli istituti al reclutamento del personale docente, alla programmazione dellofferta formativa nei settori artistico, musicale e coreutico, etc.).

Siamo, dunque, ad una svolta decisiva, necessaria per attuare integralmente, a distanza di quasi venti anni, la riforma della legge 508/1999 e rilanciare un settore dell’arte che costituisce una tipicità italiana, ovunque nel mondo riconosciuta e ammirata. È cronaca di pochi mesi fa l’episodio della giovanissima cinese, morta, investita da un treno, mentre inseguiva dei delinquenti che le avevano rubato la borsetta con i documenti, compreso il permesso di soggiorno. Studiava arte a Roma, iscritta all’Accademia.

Chi verrà più in scuole declassate mentre sarebbe interesse dell’Italia valorizzarne ancor più il ruolo?

Oggi il provvedimento del Ministro Marianna Madia, di revisione del decreto legislativo n. 165 del 2001, sull’ordinamento del pubblico impiego è all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri. Sarà accolta la raccomandazione del Senato? Se lo augurano tutti coloro che hanno a cuore Conservatori ed Accademie, scuole di eccellenza dimenticate, come spesso accade in Italia, con la politica intrappolata tra conflitti di interesse e corruzione.

19 maggio 2017

Enti pubblici, riforme all’anno zero

Incarichi decisi dallo spoil system

di Salvatore Sfrecola

Nelle imprese si chiama “area quadri”, nelle pubbliche amministrazioni era la “carriera direttiva. In ogni caso la struttura portante delle organizzazioni amministrative e finanziarie, costituita dai funzionari che adottano gli atti di gestione delle risorse pubbliche e che emanano i provvedimenti richiesti dai cittadini e dalle imprese, nel rispetto dei principi della economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza. Serve conoscenza delle leggi, dei regolamenti e delle circolari che, insieme, delineano le attribuzioni delle amministrazioni ed il loro modus operandi nel caso concreto, per riconoscere diritti dei privati e tutelare interessi pubblici. Vi provvedono uomini e donne “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della Costituzione, ai quali è richiesta una preparazione professionale elevata, universitaria, accertata sulla base di concorsi pubblici selettivi, difficili, anche perché sempre più rari e per pochi posti. Infatti, a partire dalla fine degli anni ’90 le politiche di assunzione sono state sempre più piegate a soddisfare finalità di equilibri di bilancio, trascurando le esigenze organizzative delle pubbliche amministrazioni, cioè la stessa funzionalità degli apparati. È il cosiddetto blocco del turn over che ha determinato un pericoloso invecchiamento dell’amministrazione, inutilmente denunciato da più parti, dagli studiosi come dalle associazioni dei cittadini. Così oggi l’età media dei dipendenti pubblici sfiora ovunque i 50 anni. Nessuno in Europa ha dipendenti anziani come i nostri. Nel Regno Unito il 25% del personale ha meno di 30 anni, in Germania il 30%. Anche per la dirigenza l’età media è superiore ai 50 anni. In Francia e nel Regno Unito supera di poco i 45.

A risentirne è soprattutto il corpo dei funzionari che mandano avanti gli uffici, che attuano le direttive amministrative, che redigono i provvedimenti. Un tempo, come già detto, erano i funzionari della carriera direttiva, dalla quale si traevano i dirigenti. Una aspettativa di carriera che costituiva un incentivo al continuo aggiornamento, al quale provvedevano innanzitutto i colleghi più anziani ma anche le amministrazioni, d’intesa con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, attraverso l’organizzazione di corsi e seminari, per approfondire leggi, per tenere ferma l’attenzione sulla giurisprudenza amministrativa (TAR Consiglio di Stato) e sugli orientamenti della Corte dei conti nell’esercizio delle sue funzioni di controllo. Poi quest’area è stata affollata da inserimenti effettuati sulla base di selezioni inadeguate, “percorsi formativi”, riconoscimenti di servizi pregressi ed analoghe iniziative di matrice sindacale che hanno trasferito indiscriminatamente, non di rado senza titolo di studio (a volte equivocando su laurea breve e magistrale), stuoli di impiegati nelle qualifiche superiori, distinte non più per funzioni ma per lettere e numeri (C1, C2, C3), spesso non avendone l’attitudine e l’esperienza. Un’operazione fallimentare che, tra l’altro, per assicurare un migliore trattamento economico ad invarianza di spesa sono stati trasferiti alle qualifiche superiori tagliando i posti alla base. Ho commentato: “i padri hanno tolto il lavoro ai figli”.

L’amministrazione ne soffre e ne soffrono gli addetti che si vedono accomunati nei giudizi di disvalore, generalizzati e ingiusti, della politica, di certi mezzi di informazione, dei cittadini. Che ad ogni prova di inefficienza, crolli un ponte o ritardi un’opera di manutenzione danno subito colpa alla burocrazia e alle sue regole. Di qui le ricorrenti proposte di riforma, per restituire alle amministrazioni quell’efficienza che è funzionale al perseguimento delle politiche pubbliche, cioè del programma di governo, ed alla soddisfazione degli interessi dei cittadini e delle imprese.

Vi mise mano il Ministro della funzione pubblica Franco Frattini nel 2002, con la legge n. 145 del 15 luglio, che ha previsto, ad integrazione del decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001, l’istituzione della “vice dirigenza” (art. 17-bis). L’errore è stato quello di rinviare la definizione di questo comparto alla contrattazione collettiva. Non se ne è fatto niente. I sindacati, in particolare la CGIL, hanno immediatamente mostrato ostilità per il progetto, così privando le pubbliche amministrazioni di quell’area responsabile che ovunque, negli stati moderni e più efficienti, manda avanti il lavoro, fatta di tecnici, del diritto, dell’economia e di tutte le altre specializzazioni che occorrono per gestire le attribuzioni dei singoli ministeri, dai medici agli ingegneri, passando per gli statistici ed i geologi.

Infine la norma è stata abrogata. Non tutti, però, sono rimasti a guardare. Così le agenzie fiscali, dopo aver proceduto alla copertura provvisoria di vacanze nelle posizioni dirigenziali mediante la stipula di contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti, reiteratamente prorogati, censurate dalla Corte costituzionale (che ha parlato di aggiramento della legge), hanno inventato le posizioni organizzative vicarie, che avrebbero più correttamente dovuto confluire nell’area quadri, e, secondo la logica della spartizione politica, le hanno attribuite liberamente sulla base delle indicazioni provenienti dall’autorità politica. Un pasticciaccio, nonostante le ripetute pronunce della Corte costituzionale.

Un tema tremendamente serio, dunque, quello dell’“area quadri”, che non è certo in condizione di affrontare il Ministro dell’innovazione e della pubblica amministrazione, Marianna Madia, dagli scarsi studi e nessun esperienza. Un tema che va affrontato con determinazione, anche per riportare l’attenzione sui funzionari che sono alla base dell’attività degli uffici, oggi costretti ad operare in strutture amministrative disarticolate a seguito della dilatazione irrazionale delle qualifiche dirigenziali, un tempo in numero limitato, rette da funzionari che sono rimasti un esempio di grandissima professionalità nella storia della Pubblica Amministrazione. Inoltre lo spoil system selvaggio, che ha accentuato la soggezione del dirigente al datore di lavoro pubblico attenuando le garanzie di status, a cominciare dalla stabilità del ruolo, fa ricadere sul corpo dei funzionari intermedi gran parte dei gravosi compiti di istruttoria e decisione delle amministrazioni pubbliche. Per cui l’esigenza di un intervento urgente che definisca e valorizzi un’area quadri capace di assicurare maggiore efficienza agli apparati, e di evitare la riprovevole proliferazione dell’affidamento fiduciario di incarichi e funzioni dirigenziali, che ha generato un consistente aggravio per le casse dell’erario e l’attribuzione di compiti delicati a soggetti beneficiari di una inammissibile contiguità con il potere politico, in violazione del principio della separazione tra politica e gestione.

Sembra giusto, dunque, riconoscere ai futuri Quadri del pubblico impiego le medesime prerogative che la Contrattazione Collettiva di Comparto attribuisce, ad esempio, nelle aree professionali delle imprese finanziarie e creditizie, oltre alle funzioni vicarie della dirigenza che appartengono naturalmente ai funzionari più anziani, i “vice dirigenti” della riforma Frattini. Quadri direttivi che siano stabilmente incaricati di svolgere, in via continuativa e prevalente, mansioni che comportino elevate responsabilità funzionali ed adeguata preparazione professionale e che abbiano maturato una significativa esperienza nei rispettivi settori, accertata capacità nella direzione e nel coordinamento di altri dipendenti appartenenti alla medesima categoria o a quella inferiore.

Sembra tanto? È, invece, il minimo che si possa pretendere per una organizzazione pubblica nella quale l’apparato costituisca un’opportunità per chi governa e per gli amministrati e non un peso.

(Pubblicato da La Verità, 9 maggio 2017, pagina 16)

 

 

 

 

 


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