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UnSognoItaliano.it

 

 

FEBBRAIO 2017

 

Nel 25° di “Mani pulite”

Guardie e ladri: l’eterno gioco di grandi e piccini

di Salvatore Sfrecola

 

Giovanissimo, tra i giochi più in voga c’era quello denominato “guardie e ladri”. Molti dei miei coetanei preferivano “fare” i ladri, non ovviamente per una inclinazione al crimine. I ladri erano, più che altro, ribelli avventurosi, come quelli che avevamo imparato ad ammirare dalle letture dei libri di Emilio Salgari, tra pirati e corsari, tutti impegnati a vendicare torti subiti, come Sandokan, “la tigre della Malesia”, o “il corsaro nero”, il nobile Conte di Ventimiglia. Non emergeva, dunque, la contrarietà alla legge. Della cui autorità, comunque, si sentivano investite “le guardie” tra le quali, manco a dirlo, io mi schieravo senza tentennamenti, sempre. E così è continuato nel tempo, fino ad indossare la toga del magistrato della Corte dei conti, per individuare e punire, da Pubblico Ministero o da Giudice, chi avesse danneggiato lo Stato o qualche ente pubblico, con sprechi o corruzione.

Sento dire che i bambini non giocano più a guardie e ladri. Mentre i grandi non giocano, fanno sul serio. Così alcuni rubano “e non si vergognano”, come sostiene Piercamillo Davigo, in qualche modo ribadendo che quel “non” dimostra una evoluzione in peggio del malaffare. Divenuto Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il Sostituto Procuratore della Repubblica che sotto la guida di Francesco Saverio Borrelli aveva fatto parte del pool “Mani pulite” della Procura di Milano, insieme a Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro, continua la sua battaglia, esponendo con cartesiana logica e con l’eloquenza dei precedenti le ragioni degli illeciti che quotidianamente vengono segnalati dalla stampa.

E qui va fatta qualche precisazione, che non sarà gradita a quanti hanno visto in Tangentopoli, più che la vicenda giudiziaria dei finanziamenti illeciti alla politica e della corruzione, una sorta di colpo di stato (qualcuno si è azzardato a definirlo così) contro i partiti che, fino ad allora, avevano occupato la scena, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il Partito Comunista Italiano, in varia misura coinvolti nel sistema delle tangenti. E così è passata, e persiste in alcuni, la vulgata che la magistratura sia stata in qualche misura “usata” dai “poteri forti” interni ed internazionali (la Massoneria, la C.I.A. le centrali economiche internazionali e chi più ne ha più ne metta) per provocare la fine della prima repubblica.

Ora non è dubbio che, proprio dagli interrogatori, prima, e dai processi, poi, ampiamente richiamati dalla stampa e dalle televisioni (Radio Radicale, ad esempio, trasmetteva per ore le udienze) è emerso che effettivamente i “costi della politica”, sempre più elevati per far fronte alle spese per pubblicazioni, convegni, scuole di partito e quant’altro fosse ritenuto utile per affermare la propria presenza sul territorio e nell’economia ampiamente condizionata dalla politica, i tesorieri dei partiti ricevevano ingenti “donativi” a fronte di favori vari, con assegnazione di appalti, soprattutto, e di forniture di beni e servizi destinati agli enti pubblici. “Così fanno tutti”, sono le parole di Bettino Craxi, ex Presidente del Consiglio e Segretario del Partito socialista in un drammatico discorso alla Camera dei deputati il 3 luglio 1992 tra il silenzio ostile di tutto l’emiciclo nel quale sedevano quei “tutti” che erano abituati a ricevere e gestire mazzette. “Il finanziamento illegale dei partiti in Italia – sono le sue parole – è un fatto vero e largamente noto”. Aggiungendo che “all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e al sistema politico fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia bisogna dire che tutti sanno: buona parte del finanziamento pubblico è irregolare o illegale”. Con la conseguenza che “nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra”.

Poi si accertò che quelle somme messe a disposizione da appaltatori e boiardi di Stato non finivano solamente sui conti dei tesorieri di DC, PCI e PSI, perché spesso andavano direttamente ai responsabili delle correnti che se ne servivano per comprare tessere o per organizzare in vario modo, anche con giornali e riviste, il potere dei gruppi e dei loro esponenti all’interno dei partiti.

Sembra quasi che l’azione dei magistrati sia stata “contro” i partiti. In realtà i fatti sono veri, le imputazioni e le responsabilità effettive e confessate. E quanto alla lunghezza dei processi, spesso provocata degli imputati alla ricerca della prescrizione, non risulta che qualcuno vi abbia rinunciato per pretendere che i giudici si pronunciassero nel merito, per rivendicare la propria innocenza.

“Così fanno tutti” e, naturalmente, “tutti sanno”. L’accusa di Craxi conferma che la prassi era quella e certo alcuni drammi che hanno accompagnato le inchieste (mi riferisco ai cosiddetti “suicidi eccellenti”) sono conseguenza della generalizzata certezza dell’impunità. Che, venuta meno anche per effetto del mutato clima politico a seguito della caduta dell’impero sovietico, non poteva che provocare traumi profondi nelle persone che, pur essendo collettori di tangenti per i partiti, si sentivano coperti da una prassi e forse addirittura “onesti”, quando non rimaneva attaccato alle loro mani qualche pacchetto di banconote di grosso taglio.

Questo clima buonista, che periodicamente emerge nel dibattito politico, risuona nelle rievocazioni di “mani pulite” di cui hanno scritto Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio (“Mani pulite 25 anni dopo”, in libreria da alcuni giorni). Parole di comprensione, pur in assenza di pentimenti. Per cui qualcuno si pone l’obiettivo di “riabilitare” Craxi, cui certamente va riconosciuta la dignità della confessione, sia pure, edulcorata da quel “tutti sanno”. E il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, apre un dibattito sulla possibilità di intitolare una strada o una piazza della “capitale morale” a Craxi. Sarebbe un gravissimo errore e una inammissibile ingiustizia nei confronti delle tante persone perbene che giorno dopo giorno, con impegno e personale sacrificio, operano al servizio delle istituzioni, dello Stato e della politica, o rispettano le regole della concorrenza nel mercato degli appalti di lavori o forniture.

Sarebbe innanzitutto una ingiustizia nei confronti dei giovani i quali devono essere educati al rispetto delle leggi, nella convinzione che l’amministrazione pubblica sia effettivamente quella “casa di vetro” della quale si parla spesso con un’enfasi che vorremmo rispondesse alla realtà. In un sistema di trasparenza “totale”, come è regola di alcuni paesi che ci precedono, e di molto, nella graduatoria che annualmente Transparency International redige sulla base della percezione della corruzione. I più virtuosi, com’è noto sono i regni di Danimarca e Svezia, una realtà nella quale la trasparenza dei poteri pubblici è, appunto, “totale”, un aggettivo con il quale il Ministro della funzione pubblica del governo di Stoccolma spiega i motivi di quel primato, come ha riferito Raffaele Cantone nel corso di un convegno che si è tenuto qualche mese fa a Roma nell’aula delle Sezioni Riunite della Corte dei conti.

26 febbraio 2017

 

 

Renzi: arroganza continua

di Salvatore Sfrecola

 

Nella relazione introduttiva ai lavori dell’Assemblea del Partito Democratico Matteo Renzi ha mostrato ancora il volto dell’arroganza. Ha chiuso, senza esitazioni, la porta in faccia ai sui contendenti, arroganza gratuita proprio per essere quella di D’Alema, Rossi, Speranza ed Emiliano una minoranza, agguerrita ma pur sempre minoranza. E l’ha bollata, per le richieste sulle regole di funzionamento del congresso, come “ricattatrice”, un termine che esclude in radice ogni possibilità di intese. Infatti l’Assemblea si è chiusa senza una replica, giustificata con la circostanza che, nel frattempo, si era dimesso da Segretario per potersi poi ricandidare.

Arroganza che è il limite del leader del PD e che lo ha portato a definire “accozzaglia” lo schieramento di quanti si opponevano alla “sua” riforma costituzionale. Ha perso il referendum, sonoramente bocciato dagli italiani recatisi in gran numero a votare, ma non l’arroganza, e così abbiamo scoperto un politico che, invece di prendere consapevolezza dei propri errori (oltre alla riforma costituzionale, quella elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, insieme a parti della legge Madia), giorno dopo giorno, aggiungeva a slogan, oggettivamente efficaci anche se spesso dimostratisi inconsistenti, un’aggressività che ha assunto presto i toni dell’intolleranza nei confronti di chi dissentiva, dentro e fuori il Partito. Un tratto caratteriale che poco si concilia con la forza degli sbandierati consensi stimati intorno al 40%, in ragione del risultato alle elezioni europee, assolutamente poco significativo perché è noto che quella competizione appassiona poco gli italiani, ed al referendum costituzionale.

Che senso ha, dunque, questa chiusura senza appello alla minoranza se non una evidente incapacità di comprendere che il PD, come tutti i grandi partiti, ha più anime e nei confronti di alcune di esse va ammesso il dissenso, un limite grave per un politico che ambisce governare il Paese. E che lo condizionerà negativamente in futuro. Inevitabilmente.

A meno che non voglia favorire la scissione per far cadere il Governo Gentiloni addebitandone la responsabilità alla minoranza ed andare alle elezioni, come Renzi vorrebbe. Obiettivo, tuttavia, difficile da ottenere perché, in mancanza di una legge elettorale per Camera e Senato, il Capo dello Stato darebbe certamente l’incarico di formare un nuovo governo ad una personalità istituzionale con il compito di definire in Parlamento le regole con le quali andare a votare.

Uno spettacolo obiettivamente penoso.

20 febbraio 2017

 

 

 

Dopo l’Assemblea del Partito Democratico che non allontana le ipotesi di scissione

Riuscirà il Centrodestra a cogliere l’occasione della crisi del PD?

di Salvatore Sfrecola

 

Nella ricerca di un riposizionamento delle forze politiche, che interessa la Destra come la Sinistra, si sono messi in campo slogan vari, dal “Partito della Nazione” all’“Italia dei popoli” nel tentativo di andare oltre l’esperienza della prima e della seconda repubblica, un tempo nel quale, abbandonate le ideologie, abbiamo perduto anche ogni riferimento ad idee forti, quelle che indicano un progetto per la società di oggi e di domani.

La prima proposta, il “Partito della Nazione” è nata in casa del Partito Democratico, nel tentativo di abbandonare l’angusto spazio della Sinistra postcomunista che convive sempre più in difficoltà con i post democristiani a suo tempo confluiti nella Margherita. Un amalgama difficile sentenziò, profetico, a suo tempo Massimo D’Alema e si è visto che aveva ragione. Un partito che guarda al centro, dunque, che occhieggia a Berlusconi ed alla sua Forza Italia, in qualche modo visibile nel “Patto del Nazzareno” un accordo abortito quando Matteo Renzi ha mancato alla parola data proponendo la candidatura di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica senza concordare la scelta con l’ex cavaliere. Questo PD, partito di sinistra che occhieggia ai moderati, naviga oggi in cattive acque. È alla vigilia di una probabile scissione che, come segnala Bersani, è già avvenuta nell’elettorato tradizionale in occasione delle elezioni comunali e del referendum costituzionale dal quale è risultato sconfitto oltre ogni più pessimistica previsione. Stasera l’Assemblea del Partito, iniziata con un duro attacco di Renzi alle minoranze, si è chiusa senza la replica del Segretario, nonostante un accorato appello all’unità di Michele Emiliano dal tono “ultima chiamata”.

La diaspora della Sinistra, ormai difficilmente evitabile stante l’atteggiamento arrogante del Segretario, costituisce un’occasione straordinaria per il Centrodestra. E ci si chiede se sappiano approfittarne Berlusconi, la Meloni e Salvini. Il primo è in ambasce. Vorrebbe riproporre un “Nazzareno due” ad un Renzi dimezzato e comunque, come si è visto, inaffidabile anche quando non promette “sta sereno” a qualcuno. Soprattutto l’ex cavaliere non sa a chi rivolgersi per tutelare le sue aziende, la preoccupazione di sempre, quella che lo ha spinto a “scendere in politica”. Altro che ideali di Patria e liberali. Berlusconi è un imprenditore e le sue preoccupazioni sono solamente per le aziende di famiglia. Lo dimostra la fallimentare gestione dei suoi governi. Ricordo che Francesco Storace, dopo aver letto il mio “Un’occasione mancata”, mi telefonò per dirmi che il libro dimostrava “perché il Centrodestra aveva perso le elezioni del 2006 per 26mila voti quando avrebbe potuto vincere per due milioni”.

Berlusconi, quindi, è un elemento di debolezza per un’ipotetica coalizione con Giorgia Meloni e Matteo Salvini i quali non sanno se e come contare sul suo apporto.

La Meloni ha fatto molta strada, ha acquisito un profilo nazionale, è solidamente alla testa di Fratelli d’Italia un partito presente nell’agone politico e parlamentare e, pur costituendo una realtà prevalentemente romana e laziale, assicura al Centrodestra quella cultura liberal-popolare che va al di là del vecchio Movimento Sociale Italiano che la maggior parte dei suoi dirigenti ed elettori non hanno neppure conosciuto. È un ruolo delicato quello di Giorgia Meloni. Potrebbe recuperare su altre destre che soprattutto in Italia meridionale sono di ispirazione monarchica, prevalentemente sabauda, ad onta dell’affannoso e patetico agitarsi di sparuti circoli neoborbonici dediti soprattutto alla toponomastica, a cercare di eliminare strade e piazze dedicate a Giuseppe Garibaldi, a Vittorio Emanuele II ed al Conte di Cavour.

Il ruolo di Fratelli d’Italia è, dunque, essenziale nella ricomposizione del Centrodestra. Anche perché, se al Sud qualcuno rivendica le glorie di un Regno “delle due Sicilie”, nel quale a Palermo si odiavano i Borbone, dinastia straniera, c’è chi al Nord contesta i plebisciti di annessione al Regno d’Italia, propone il bilinguismo e l’autonomia, che se costituisce un passo avanti rispetto alla secessione è pur sempre un atteggiamento che fa venire l’orticaria agli eredi del Risorgimento. E parla di “popoli”, un plurale equivoco, perché l’Italia è una ed uno è il popolo anche se con esperienze e tradizioni diverse.

Matteo Salvini ha più volte fatto intendere che la sua proposta politica va al di là dell’angusta visione regionalistica tanto cara al pur bravo Zaia. E sembra riconoscere quel che la storia dice. Che l’Italia, nata da una vocazione unitaria che ha percorso i secoli da Dante in poi, dimostra una ricchezza straordinaria proprio nella varietà delle esperienze locali, nella cultura, nella storia, nell’ambiente delle valli e delle pianure nelle quali città e borghi hanno costituito un tessuto prezioso che si integra, come scriveva Camillo di Cavour nel 1846 (tenete a mente la data, ben prima della prima guerra d’indipendenza), attraverso le ferrovie e le strade che lungo lo stivale consentono il trasferimento dei prodotti del made in Italy e la circolazione delle persone, in particolare dei tanti turisti che ogni anno da secoli vengono a visitare questo nostro Paese, le sue bellezze naturali, i suoi meravigliosi musei, i Palazzi ed i Castelli nei quali si è fatta la storia.

Riusciranno Forza Italia, Fratelli d’Italia, la Lega e Noi Con Salvini, espressione centro meridionale del movimento della Lega, ad offrire una credibile proposta elettorale di stampo governativo? O sarà una nuova “occasione mancata” nonostante il fallimento di Renzi e del suo partito?

19 febbraio 2017

 

 

 

Il fallimento della “buona scuola”

Quando una buona conoscenza della lingua italiana fa la differenza

di Salvatore Sfrecola

 

Ho scritto altre volte dell’importanza della conoscenza della lingua italiana, parlata e scritta. Nel senso che una buona capacità di esprimersi, qualunque sia la professione esercitata, assicura quella marcia in più che garantisce successo nelle professioni. Da ultimo ne ho scritto a commento dell’appello dei 600 studiosi che si sono rivolti al Governo ed al Parlamento per richiamare la loro attenzione sul grave degrado della lingua italiana, accertata all’università, nella stesura delle tesi di laurea nelle quali si rilevano errori di grammatica e sintassi non tollerabili neppure in terza elementare. Eppure parlare e scrivere in un buon italiano è essenziale per ogni professionista, per l’ingegnere che redige una relazione od una perizia, per il medico che propone alla comunità scientifica una sua ricerca, per un politico che s’indirizza al corpo elettorale per ottenere voti e che sappia modulare i sui discorsi in relazione al livello dei suoi interlocutori.

Anche le sentenze un tempo erano pezzi pregiati di letteratura giuridica. Oggi è sempre più raro. E “in nome del popolo italiano” si leggono ripetizioni, assonanze, anacoluti, incisi improbabili, testi a tirar via.

È il fallimento della scuola, della sua capacità di formare nei giovani quella istruzione che nei migliori diventa cultura, solida conoscenza delle varie discipline e capacità di ragionare e di immaginare. Fallimento della scuola vuol dire innanzitutto incapacità della classe politica di comprendere che lì, dalle elementari all’università, si costruisce la società del domani, con i suoi valori e con la capacità professionale necessaria per competere nel mondo del lavoro. Insegnare è qualcosa di diverso e di più di sapere, perché si può essere preparati nella materia per la quale si è ottenuto il posto o l’incarico ma non si sa porgere, interessare, incuriosire e favorire nei giovani affidati alle proprie cure quel desiderio di apprendere e di far assumere nozioni che diventano parte di una approfondita conoscenza.

Lo Stato non si preoccupa della preparazione didattica della classe docente. Non seleziona coloro che andranno in cattedra anche in relazione alla loro capacità di trasmettere quello che sanno. E siccome va avanti da tempo questa disattenzione di Governo e Parlamento per una selezione che porti nelle scuole docenti di elevata capacità didattica, di generazione in generazione le cose vanno avanti sempre peggio in una deriva che non si riesce a fermare. E forse non si vuole perché occorrerebbe un progetto capace di rivoluzionare il mondo dell’insegnamento ripartendo dalle elementari, la scuola dove la mente dei giovani un tempo veniva formata e predisposta ad ulteriori studi cominciando con stimolare la curiosità e la fantasia inquadrandole in un metodo di apprendimento che in qualche modo i 600 studiosi nel loro appello sottolineano, richiamando la necessità di impararare, attraverso la dettatura di testi, la grammatica e la punteggiatura, scritti da riassumere perché la capacità di sintesi in taluni è innata ma in molti va sviluppata e guidata. Come l’apprendimento a memoria, rigettata come inutile se non dannosa mentre costituisce un esercizio prezioso, a parte il valore dei testi così imparati, spesso versi dei grandi della nostra letteratura.

A giovani che “si formano” soprattutto sui tablet dove insistono per ore, un tempo che noi passavamo sui libri, è precluso o, nel migliore dei casi, fortemente limitato lo studio della storia e della geografia, due materie formative della realtà delle vicende umane nel corso dei secoli fino a dare a noi, oggi, la consapevolezza di quel che siamo e le prospettive che si aprono o che si potrebbero presentare alla nostra generazione. Guardare il futuro si può fare solamente con la consapevolezza del passato che non è un tempo archiviato definitivamente ma vive in noi anche se non ce ne accorgiamo.

Occorre, dunque, un grande progetto per restituire un ruolo all’insegnamento che non è “la buona scuola”, una operazione elettoralistica costruita da Matteo Renzi per ritrovare nelle urne un maggiore consenso nell’ambito di una categoria che la Sinistra ha coltivato puntando soprattutto sulla ribellione che nasce dal disagio di un settore del mondo del lavoro che soffre una condizione retributiva vergognosa che alimenta il malessere e la disaffezione di chi sente di rivestire un ruolo importante nella società eppure si rende conto di essere emarginato. Perché è evidente che chi poco è remunerato, poco è considerato.

Per un grande progetto, come quello che è necessario mettere in campo occorre una grande idea. Ed una classe politica capace di immaginarla e di affidarla a persone capaci di intuire quel che è necessario per formare i futuri cittadini e professionisti.

Ed in chiusura il motivo di queste mie riflessioni. Ho assistito ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Sezione della Corte dei conti per la Regione Lazio ed ho ammirato la requisitoria del Procuratore Regionale, Donata Cabras, che ha presentato un testo completo, documentato, di agevole comprensione, in un italiano fluente, letto con rara efficacia. Un bell’esempio di letteratura giuridica e di notevole capacità oratoria. Le istituzioni hanno bisogno di presentarsi così.

18 febbraio 2017

 

 

 

Il Governo si sceglie giudici e generali

Tra toghe e stellette

di Salvatore Sfrecola

 

Dice bene Piercamillo Davigo, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, quando afferma che il Governo non può nominare, cioè scegliere, i giudici. Ugualmente è da dire per i generali. Ciò che viene attuato con un’abile gioco di successive modifiche dei limiti del pensionamento ridotti o prorogati praticamente ad personam. Per i magistrati, ad esempio, nel 2014 il decreto legge n. 90 ha stabilito che la proroga della permanenza in servizio dei magistrati (consentita, a richiesta, dai 70 ai 75 anni) non fosse più applicabile neppure a coloro che già si erano avvalsi di quella facoltà, accolta con provvedimento formale dai rispettivi organi di autogoverno. Pertanto, se avessero raggiunto i 70 anni avrebbero dovuto lasciare il servizio il 31 ottobre 2014, termine poi spostato, per chi già fruiva della proroga, al 31 dicembre dello stesso anno e successivamente del 2015, per tutte le giurisdizioni. Per la Corte dei conti con una ulteriore proroga al 30 giugno 2016 (il Presidente in carica sarebbe stato comunque  collocato a riposto ai primi di luglio per raggiunti limiti di età!). Poi è arrivata una proroga ulteriore per i magistrati ordinari di qualifica più elevata, si è detto perché con il limite dei 70 anni avrebbe dovuto lasciare la toga il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio.

In questo contesto, sottolinea Davigo, hanno abbandonato il servizio molte centinaia di magistrati ordinari, Presidenti di Corte d’assise e di Tribunali, Procuratori generali e Procuratori della Repubblica. Molte decine di magistrati della Corte dei conti e del Consiglio di Stato il cui Presidente, Giorgio Giovannini, ha chiesto di essere collocato a riposo anticipatamente per protesta.

Tutto questo in funzione dello sbandierato ricambio generazionale? Assolutamente no. Nessuno è entrato in servizio (i concorsi per l’accesso alla magistratura con migliaia di candidati e tre volte tante prove scritte da valutare sono necessariamente lenti). Un governo ed un Parlamento saggi, convinti di dover “ringiovanire” gli alti gradi delle magistrature, avrebbero graduato le uscite in funzione degli ingressi. Nulla da fare. Si voleva un ricambio non generazionale ma di persone che, favorite dall’esodo dei più anziani (volgarmente definito “rottamazione”), s’immaginava sarebbero state grate al potere.

L’effetto è stato negativo anche sui processi. Il cambio dei collegi ha comportato il differimento delle udienze con evidenti, ulteriori ritardi di una giustizia che già ne denuncia tanti.

Per i generali capi delle vare Forze Armate, invece, non si anticipa il pensionamento ma si proroga il servizio che, previsto di due anni, diventerà di tre, anche per la Guardia di Finanza che si è affrettata a predisporre un emendamento ad hoc. Non è in discussione, ovviamente, la valentia dei nostri vertici militari, ma la certezza delle situazioni giuridiche soggettive di carriera, cioè le legittime aspettative dei singoli, è anche una garanzia del buon andamento dell’amministrazione. Regola costituzionale fondamentale, infatti ricompresa nell’articolo 97 insieme a quella della imparzialità. Ampiamente sconosciuta in questa stagione della repubblica.

10 febbrai 2017

 

 

 

Nella Pubblica Amministrazione non solo “furbetti del cartellino”

Ma la strada del recupero dell’efficienza  è lunga e irta di ostacoli

di Salvatore Sfrecola

 

È senza dubbio giusto ed urgente che Governo e Parlamento si occupino dei “furbetti del cartellino”, che timbrano per altri, e di quanti si assentano con le più diverse motivazioni, sempre illecite. Come è giusto punire i “nullafacenti”, come li ha definiti Pietro Ichino nel titolo di un suo fortunato libro, che non lavorano con l’impegno che è loro richiesto e per il quale vengono retribuiti. Situazioni scandalose, che persistono nonostante le denunce e gli interventi della magistratura, a dimostrazione che le regole fin qui applicate non sono sufficienti. Per cui il Ministro per l’innovazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, preannuncia “una stretta”, come si esprimono i giornali, con controlli più efficaci, sanzioni severe e di immediata applicazione, fino al licenziamento.

Sono comportamenti che offendono i cittadini utenti dei servizi pubblici resi dalle amministrazioni dello Stato e degli enti locali e gettano discredito sulla stragrande maggioranza dei dipendenti che lavorano seriamente e non ricorrono a sotterfugi per garantirsi un “ponte” o un fine settimana al mare o ai monti o per allungare le vacanze.

Tuttavia l’amministrazione, la burocrazia, godono di pessima stampa tra la gente che denuncia lentezza nelle decisioni, frequente duplicazione di adempimenti e di competenze, per cui può accadere che ci si debba rivolgere a più uffici per ottenere provvedimenti spesso sovrapponibili, almeno nella sostanza.

Le iniziative del governo contro i “furbetti” tengono banco sui giornali e nelle trasmissioni televisive di approfondimento come se fosse l’unico problema della pubblica amministrazione la quale, invece, avendo come compito primario il perseguimento degli obiettivi indicati nell’indirizzo politico convalidato dal voto elettorale, vorremmo venisse agli onori della cronaca soprattutto con connotati di efficienza, quella che il cittadino e le imprese si attendono quando richiedono il rilascio di autorizzazioni o di attestazioni varie. Che pretendono anche in tempi ragionevoli. Purtroppo, invece, continuano le denunce contro il peso della burocrazia, che sottrae tempo e denaro a chi si rivolge agli uffici pubblici. Ed è uno dei motivi per i quali in Italia è difficile investire in attività imprenditoriali.

Non è stato sempre così. Un tempo il pubblico dipendente sentiva l’orgoglio di servire lo Stato. Come accade negli stati che hanno una consolidata tradizione amministrativa, dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania alla Spagna, storie di grandi regni con importanti amministrazioni. Ovunque vengono reclutati i migliori professionisti, adeguatamente retribuiti. E quando lo stipendio è inferiore a quello di un corrispondente impiego privato la differenza, leggevo in un saggio sull’amministrazione francese, è abbondantemente compensata dal prestigio che in qual Paese assicura, agli occhi dei cittadini, l’esercizio di una funzione pubblica, l’indossare “la giubba del Re”, come Piercamillo Davigo ha intitolato una sua intervista sulla corruzione, l’espressione con la quale i vecchi del suo paese indicavano appunto il “servizio di Stato”.

Un po’ di storia della pubblica amministrazione, senza negare le disfunzioni che l’hanno accompagnata negli anni, dice anche che in Italia ha svolto un ruolo essenziale. Dopo il 1861 nell’unificazione dello Stato e nella ricostruzione delle aree pesantemente danneggiate dalle guerre, dopo la prima e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale. In poco tempo. Chi ha memoria o chi ha avuto occasione di vedere i filmati che danno conto delle distruzioni, delle città e delle infrastrutture viarie, ferroviarie, aeroportuali, portuali, deve constatare che, in pochissimo tempo, quelle rovine sono state rimosse, tutto è stato ricostruito e l’Italia è tornata a crescere.

Oggi il degrado che denunciano cittadini ed imprese è in gran parte responsabilità della politica, perché al Parlamento e al Governo spetta dettare le norme che regolano le attribuzioni degli uffici e ne disciplinano i procedimenti. Ma è vero anche che quella normativa primaria e secondaria, legislativa e regolamentare, con la quale troppo spesso il cittadino si scontra, nasce essenzialmente negli uffici pubblici che sono quelli che assistono Parlamento e Governo nella stesura dei testi che hanno un rilevante contenuto tecnico quando individuano tempi e modi dell’azione amministrativa. Le responsabilità per questo stato di cose, dunque, non possono essere soltanto della politica che indubbiamente ne ha, e molte, perché spesso si rivela incapace di dare direttive amministrative adeguate e di dialogare con l’apparato definendo con i dirigenti delle amministrazioni le regole che effettivamente occorrono per assicurare legalità ed efficienza.

Spetta, dunque, ai dirigenti di più alto livello essere i garanti dell’efficienza, della corrispondenza dell’attività svolta agli interessi dei singoli e delle imprese, considerando anche che i tempi dell’azione amministrativa non sono indifferenti all’economia dei singoli e dell’intero Paese ma costituiscono costi i quali vanno messi a confronto con gli interessi dei cittadini e delle pubbliche amministrazioni. Ecco dunque che spetta all’alta dirigenza proporre e ottenere dal potere politico, governativo e parlamentare, le semplificazioni occorrenti per rendere efficiente il sistema, per fare della pubblica amministrazione un’opportunità per l’economia, non un freno allo sviluppo. In sostanza io vorrei che la pubblica amministrazione, nei suoi vertici e in tutti gli addetti, fosse orgogliosa di prestare un servizio efficiente al Paese e non continuamente additata come la causa di tutti i mali.

Purtroppo il degrado della politica trascina quello dell’amministrazione. Il reclutamento e la formazione dei funzionari, dei dirigenti e dei quadri, è assolutamente inadeguato. La politica condiziona le carriere, l’assegnazione dei posti di funzione e financo la retribuzione dei dirigenti. Lo spoil system all’italiana ha spento ogni aspirazione all’indipendenza, ad essere effettivamente “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della Costituzione.

Rimediare non è facile. Ma è necessario ed urgente.

6 febbraio 2017

 

 

 

 

Quando i professori di liceo erano pagati più dei magistrati

L’effetto: 600 studiosi denunciano all’università errori da terza elementare

di Salvatore Sfrecola

 

Non ho partecipato al coro di quanti si sono schierati sui social network e sulla stampa per stigmatizzare la scelta di Valeria Fedeli a ministro dell’istruzione senza laurea, ma con una lunga esperienza di sindacalista. E questo la dice lunga su come il governo Gentiloni intenda il ruolo di quel ministero, un’amministrazione di gestione del personale e quindi di un potenziale bacino elettorale, come, infatti, è stato fin qui per la Sinistra in una scuola nella quale i docenti delle scuole di ogni ordine e grado sono sottopagati e per questo covano un giusto risentimento per la loro condizione di pubblici dipendenti trascurati da uno Stato che pure assegna loro il ruolo essenziale di formazione dei futuri cittadini e professionisti.

Resta e si aggrava il malcontento, ma la Sinistra perde consensi dopo che uno dei tanti slogan di Matteo Renzi, la "buona scuola” si è rivelato, come altri, privo di contenuti, l’ennesima presa in giro.

A questo punto mette conto ricordare un episodio del liceo quanto il nostro professore di storia e filosofia ci disse che anni prima, giovane laureato in giurisprudenza, aveva vinto, quasi in contemporanea, due concorsi, per professore ordinario nei licei e per magistrato. Ed aveva optato per l’insegnamento perché, all’epoca, i docenti di liceo avevano uno stipendio superiore a quello dei magistrati. Basta questo per dire quale considerazione la classe politica italiana abbia oggi per l’insegnamento e il ruolo fondamentale della scuola nello sviluppo economico sociale, a fronte di altri paesi dell’Unione europea nei quali lo stato investe nella scuola e nella cultura, dopo aver prima investito nella natalità, considerata giustamente un investimento per il futuro.

Docenti meglio pagati, dunque, e più accuratamente selezionati perché va affermato il principio che i pubblici dipendenti in genere, come i docenti, vanno scelti fra i migliori professionisti nelle varie discipline. Ad essi va assicurato anche un adeguato aggiornamento, fatto di buone letture e di occasioni di stage in altri paesi dell’Unione, in modo da sperimentare altre tecniche didattiche con le quali confrontarsi.

Ma non è tutto qui, ovviamente. Migliori docenti, meglio pagati ma anche programmi adeguati perché la scuola deve formare ai livelli più elevati. Non un diplomificio in cui prevalga la regola del 6 o del 18 “politico”, come si diceva nel ’68, quando è iniziato o si è sviluppato il degrado che oggi constatiamo. Un tempo il conseguimento del titolo di studio attestava una effettiva preparazione professionale. In sostanza chi si fosse presentato per ottenere un posto di lavoro da geometra, ragioniere, ingegnere, giurista o economista si presumeva avesse la necessaria preparazione per affrontare un impegno di lavoro. Oggi quel livello è molto basso e spesso non dà certezza, a chi ha esigenza di assumere, che colui che offre la sua prestazione sia effettivamente in grado di essere impiegato con il livello del titolo di studio esibito.

È un grosso problema, perché, da un lato, chi riceve dallo Stato un diploma legittimamente pretende un posto di lavoro adeguato, dall’altro, la difficoltà di inserirsi in un ufficio pubblico o in una azienda privata ne fa un frustrato, un ribelle nei confronti della società. Certo la mancanza di lavoro non è solamente colpa della scuola che non forma come un tempo. La difficoltà della crescita e dell’economia sono dovute ad altro, a scelte politiche inadeguate, alla mancanza di prospettive di sviluppo e di occupazione, ma è certo che il livello basso degli studi non facilita l’inserimento nel mondo del lavoro. E se il giovane volonteroso va all’estero è molto probabile che ottenga una occupazione di livello inferiore a quello corrispondente al suo titolo di studio.

Quel che è certo è che in materia di istruzione non si rimedia da un anno all’altro una situazione di degrado come quella alla quale assistiamo e che è dimostrata in modo impietoso, tra l’altro, dalla scarsa conoscenza della lingua italiana, dalla banalizzazione diffusa e programmata delle regole dello scrivere, come dalla demonizzazione del congiuntivo che è espressione di un modo di parlare e di scrivere elegante ma anche efficace che è fondamentale per ogni professione. Ricordo che a mia figlia fu assegnato il compito di sostituire il congiuntivo in un brano “perché non si usa più”! Scrivere bene in italiano non è soltanto dei letterati. Anche la relazione di un ingegnere o di un medico, anche una sentenza può e deve essere scritta in un buon italiano per essere strumento efficace di conoscenza di fatti e di regole. Stavo concludendo queste mie considerazioni quando è stato diffuso dai giornali e dalle televisioni un appello, firmato da oltre 600 studiosi, i quali denunciano che sono moltissimi gli studenti universitari che non conoscono l’italiano. Di più, che fanno errori non tollerabili neppure in terza elementare. Anche la mia esperienza lo conferma. Ho dovuto correggere relazioni e tesi di laurea ricorrendo a tutta la possibile cortesia per suggerire, per non offendere il mio interlocutore, la modifica di una frase, senza segnalare apertamente che erano state violate le regole più elementari della grammatica e della sintassi.

Purtroppo recuperare anni di affievolimento dell’impegno scolastico, che si trascina, nel corso di alcuni decenni, dalle scuole elementari all’università,  non è facile. Sarebbe necessario che la classe politica, la quale rivela scarsa sensibilità in tema di istruzione, se si esclude l’interesse per le carriere dei docenti, una classe politica la cui povertà di linguaggio si nota nei comizi negli atti del Parlamento e del governo, s’impegnasse con uno sforzo economico e prima di tutto culturale per voltare pagina, per immaginare un percorso nuovo che recuperi il meglio della nostra cultura collegandola con le novità effettivamente importanti per mettere i nostri giovani in condizione di competere sul mercato del lavoro interno e internazionale. In questo quadro servirebbe un ministro che non si occupasse esclusivamente della carriera dei docenti, che pure è un elemento essenziale insieme al loro trattamento economico, ma immaginasse qualcosa di più e di diverso, perché l’Italia si forma e si fonda sulla sua cultura, sulla sua storia su quel patrimonio prezioso che all’estero è ovunque apprezzato, aggiornato come è necessario per preparare le nuove generazioni. L’Italia che ha avuto come ministri dell’istruzione Francesco De Sanctis e Giovanni Gentile deve ritrovare il percorso giusto per il tempo attuale. Rapidamente perché il degrado è già notevole.

5 febbraio 2017

 

 

 

 

Una pagina di storia poco conosciuta

5 giugno 1944- 9 maggio 1946:

due anni difficili – La Luogotenenza del Principe Umberto

di Domenico Giglio

 

L’inizio

Se il Maresciallo Badoglio, giunto a Brindisi, disse di aver ricominciato la sua azione di governo “con una matita ed un pezzo di carta”, non è che la situazione in cui si trovò il Principe Umberto, l’8 giugno 1944, arrivato a Roma, al Quirinale, fosse molto diversa. Gli angloamericani entrati a Roma il 5 giugno, avevano dato il consenso al ritorno nella capitale del Principe, nominato nella stessa data Luogotenente Generale del Re (la cui formula fu modificata senza provvedimenti di legge in “Regno”), con un Regio Decreto, nel quale il Padre lo nominava a tale carica, ritirandosi definitivamente a vita privata. Ed il Principe arrivò, praticamente solo, in un Quirinale vuoto, dovendo iniziare subito il difficile ruolo di Capo dello Stato. Come da prassi, il Maresciallo Badoglio aveva infatti presentato le dimissioni del suo governo ed era venuto anche lui a Roma per incontrare gli esponenti romani e nazionali del C.L.N.(Comitato Liberazione Nazionale ), usciti dai conventi e monasteri dove avevano vissuto nascosti e protetti nei nove mesi della occupazione tedesca, per trattare un allargamento del governo. Invece si sentì dare il benservito, in quanto il CLN, voleva tutto il potere e presentava la candidatura a Presidente del Consiglio di un vecchio uomo politico prefascista, Ivanoe Bonomi, che aveva già ricoperto tale carica nel 1921. Ed il Luogotenente dovette accettare questa indicazione, che era una imposizione, in quanto, in fondo, Bonomi, rappresentava pur sempre un uomo di stato, cresciuto ed affermatosi, nello stato monarchico, sotto il regno di Suo Padre, dove partendo da posizioni socialiste, era approdato al riformismo ed era stato uno dei tre parlamentari socialisti recatisi al Quirinale nel 1912, per esprimere al Re Vittorio Emanuele III le proprie felicitazioni, per essere scampato all’attentato dell’anarchico D’Alba, e, per tale colpa, erano stati espulsi dal partito socialista. Così, con decorrenza dal 18 giugno, veniva formato un nuovo governo, composto dagli esponenti dei sei partiti componenti il CLN, e precisamente il Partito d’Azione, il Partito Comunista, il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito della Democrazia Cristiana ed il Partito della Democrazia del Lavoro, al quale apparteneva Bonomi. Conoscete le vicende iniziali di questo governo, non molto gradito dagli angloamericani e particolarmente da Churchill che avrebbe preferito una conferma di Badoglio, per cui per più di un mese il governo dovette riunirsi a Salerno e potè ritornare a Roma, come il Luogotenente, a metà di luglio.

Abbiamo detto della solitudine del Principe, in quanto il personale della sua casa militare, non aveva logicamente esperienza e conoscenza politica, per cui era necessaria una persona che avesse queste caratteristiche, già individuata nella persona dell’avvocato Falcone Lucifero, ma che, per un insieme di motivi e di ritardi poté assumere la carica di Ministro della Real Casa solo alla fine di agosto, iniziando quella collaborazione che durò per tutta la vita del Principe, poi Re. Né a Roma in quei tre mesi, giugno, luglio, agosto, vi era stato anche un solo politico del periodo pre-fascista che si fosse avvicinato al Luogotenente, per consigliarlo nella nuova veste di Capo dello Stato. Così il Principe dovette iniziare, senza alcun supporto, una “corsa di ritorno”, e dimostrare la sua capacità di sostenere con alta competenza ed equilibrio il suo ufficio, doti che successivamente gli vennero riconosciute anche da avversari della Monarchia .

Senza scendere in troppi dettagli sulla vita di Falcone Lucifero, la cui figura meriterebbe una analisi approfondita, dobbiamo ricordare i dati essenziali: nato nel 1898 da nobile famiglia calabrese, che aveva avuto diversi suoi esponenti deputati al Parlamento nel periodo pre-fascista, volontario di guerra in artiglieria da montagna, laureato in legge, simpatizzante del socialismo riformista, consigliere comunale socialista di Crotone, logicamente antifascista, durante il ventennio si era dedicato con successo alla professione forense e nel settembre 1943, trovatosi nella natia Calabria, per il suo nome prestigioso era stato nominato Prefetto di Catanzaro, ad opera degli “alleati”, con risultati positivi, per cui il suo nome era cominciato a circolare, così che nel Ministero Badoglio, ricostituitosi nel febbraio 1944, dovette accettare la carica di Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste tenuto dall’11 febbraio al 22 aprile. Terminata questa esperienza governativa dove si distinse per energia, dimostrando notevoli doti organizzative, entrato nella vita politica ed amministrativa dello Stato, fedele alle sue istituzioni, veniva nominato Prefetto di Bari, ed al tempo stesso, proprio per le qualità dimostrate nei diversi compiti svolti e per il suo passato, si pensò al suo inserimento a fianco del Luogotenente, come Ministro della Real Casa, carica che assunse, come già detto, alla fine dell’agosto 1944. E di questa sua attività tenne un importantissimo diario, che relativamente al periodo dal 12 febbraio 1944 all’11 agosto 1946, è stato pubblicato, nel 2002, da Mondadori, con il titolo “L’ ultimo Re”, con una importante introduzione dello storico Francesco Perfetti. Diario che è fondamentale per seguire giornalmente l’opera del Ministro, ma anche, logicamente, quella del Principe Umberto, che, finalmente aveva al suo fianco persona esperta di politica e di diritto, e non un cortigiano.

L’assenza di un autorevole ed esperto consigliere ebbe infatti la sua importanza quando il governo Bonomi sottopose alla firma del Luogotenente, il 25 giugno 1944, il Decreto n. 151, che modificava la formula del giuramento dei Ministri e prevedeva la convocazione di una “Assemblea Costituente”, da eleggersi, terminata la guerra, alla quale affidare la redazione di una nuova costituzione e la forma istituzionale dello stato, ed abrogava il decreto legge del governo Badoglio, dell’agosto 1943, logicamente firmato dal Re Vittorio Emanuele III, dove invece era stabilito che, dopo quattro mesi dalla fine della guerra, si sarebbe proceduto alla elezione della nuova Camera dei Deputati del Regno, decreto importantissimo e fondamentale perché sanciva il ritorno alle istituzioni della democrazia rappresentativa, riprendendo la tradizione risalente allo Statuto del 1848. Perché ricordiamo questo decreto Bonomi? Perché in pratica, come sottolineato dai costituzionalisti, Giuseppe Menotti De Francesco, Magnifico Rettore dell’Università di Milano, e dal professore Emilio Crosa, questo Decreto, con riferimenti a leggi del 1939 (art. 18 legge 19/01/ 1939 n. 129 ) e 1943( R.D.L. 03/10/1943 n. 28) suscitava notevoli perplessità sulla sua stessa legittimità e comportava difficoltà di interpretazione per le sue intrinseche incongruenze, sì che da molti commentatori si disse, con troppa faciloneria che in pratica si era abolito lo Statuto e l’Italia, da quel momento, non era più una Monarchia anche se non era ancora repubblica.

D’altra parte il Principe Umberto stava faticosamente riprendendo le sue funzioni costituzionali e non aveva l’autorità necessaria per opporsi al governo ciellenista, né in fondo l’aveva lo stesso Bonomi, che non aveva brillato per energia nel lontano 1921 e certo non l’aveva acquistata negli anni successivi, anche se tutti gli riconoscevano oltre all’onestà, doti di competenza, di equilibrio e di moderazione, dote questa che cozzava con l’intransigenza e l’estremismo specie degli “azionisti”, presenti nel governo con tre ministri . Oltre tutto il Principe per la sua nuova carica, non poteva essere vicino più frequentemente ai soldati che combattendo risalivano l’Italia, come aveva fatto, regnando ancora il Padre, fino al 5 giugno, e come avrebbe preferito fare, perché nel suo intimo era e rimaneva sopra tutto un “soldato”, come tutti i Savoia, ed ai militari aveva indirizzato un messaggio all’atto di assumere la Luogotenenza del Regno.

A questo proposito è bene precisare, una volta per tutte, che la minore presenza tra le truppe del Regio Esercito, dopo la nomina a Luogotenente, del Principe Umberto, era dovuta alle nuove incombenze statutarie che richiedevano la sua presenza a Roma, anche se non mancarono le visite di cui accenneremo in seguito. Egualmente dicasi per chi accusa il Principe di non aver assunto il comando effettivo delle nostre unità, nomina “bloccata” dagli angloamericani, ai quali stava bene il nostro contributo di “cobelligeranti”, ma al tempo stesso tendevano a minimizzarlo, come quando chiamarono “gruppi di combattimento”, quelle che erano per numero di soldati delle vere “divisioni”, il cui insieme avrebbe costituito non solo un “Corpo d’Armata”, ma una vera “Armata Italiana di Liberazione”! Ma di questa costante presenza del Principe tra i soldati la migliore testimonianza è la lettera che il Ministro della Guerra, il democristiano Stefano Jacini inviò, il 14 settembre 1945, accompagnando il distintivo della vittoriosa campagna di liberazione 1943-1945, “….alla quale Vostra Altezza Reale. ha partecipato direttamente, insieme al primo Raggruppamento Motorizzato, al Corpo Italiano di Liberazione e coi gruppi di combattimento. Le truppe che hanno visto Vostra Altezza, sulla linea di combattimento dal Volturno a Bologna, saranno fiere di vederLa fregiarsi di questo umile segno che ricorda l’opera svolta per la rinascita della Patria”. Dobbiamo però dare atto al generale statunitense Mark W. Clark, comandante della Quinta Armata, di aver proposto la concessione al Principe della “Legion of Merit”, bloccata per motivi politici, di aver accettato con orgoglio di ricevere dalle mani del Luogotenente la Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e di aver fatto passare in rassegna dal Principe reparti statunitensi, il che, se pensiamo alla realtà italiana dell’epoca, a pochi mesi dall’armistizio, costituiva il migliore e maggiore riconoscimento al contributo del Regio Esercito e della Monarchia alla liberazione del territorio nazionale e del prestigio personale che aveva saputo conquistarsi il Principe . Eventi tutti che furono volutamente ignorati dalla stampa ciellenista perché avrebbero risollevato il nome della Casa Savoia ed avrebbero successivamente giovato alla causa dell’Italia in sede di trattato di pace, dove invece non fu fatto alcuno “sconto” alla neonata repubblica italiana, che non valorizzò questi argomenti, perché favorevoli alla memoria della Monarchia, che, invece, si cercava in ogni modo di cancellare, costante questa cancellazione anche nel periodo successivo, fino ai nostri giorni.

Uno storico, non certamente monarchico, Gianni Oliva, giudica che negli anni della luogotenenza, malgrado l’atteggiamento aprioristicamente repubblicano dei partiti politici, esclusi liberali ed in parte i democristiani, “….Umberto rivela una maturità inattesa. Egli regna …lavora con impegno e restituisce al Quirinale dignità di reggia, ostenta in ogni occasione il suo lealismo costituzionale… accoglie ministri con animo tranquillo ed imparziale, firma leggi che certamente non condivide…”, ed anche in cose ben più semplici, come sedersi in automobile vicino all’autista, dimostra la sua maturità umana perché capisce che arrivare in città o località quasi distrutte o presso reparti militari, con una macchina lussuosa e con sussiego sarebbe stata un’offesa a chi forse aveva perduto ogni sua cosa .Così pure dando la mano a tutti, con una sensibilità da vero Signore, oggi diremmo democratica, che spesso non avevano suoi accompagnatori, come aveva fatto il Re, suo Padre nelle visite al fronte durante la grande guerra 1915 -1918. Ed all’ Oliva si deve anche un importante riconoscimento sull’entità dello sforzo bellico del Regio Esercito, durante la cobelligeranza, con oltre ben 350.000 uomini mobilitati tra gruppi di combattimento e divisioni “ausiliarie”, che operavano non solo nelle retrovie, ma a ridosso del fronte, ed anche Incisa di Camerana, nel suo libro sulla Luogotenenza, dedica al Regio Esercito delle pagine bellissime di riconoscimento del loro operato, ricordando anche l’opera svolta dall’Esercito per stroncare il separatismo siciliano nel 1945, che si era reso minaccioso, anche con un suo esercito, l’EVIS, e contro il quale non potevano bastare i pur valorosi Carabinieri.

 

La vita quotidiana

Con la presenza a fianco di Lucifero il Principe imposta una giornata di lavoro che parte dalle prime ore del mattina e termina nelle tardissime ore della sera per potere ricevere quante più persone ne facessero richiesta, oltre agli incontri ufficiali ed istituzionali, e per potere recarsi al fronte, a visitare le nostre truppe e le città ed i paesi liberati. Questo partendo prestissimo in aereo, viaggi spesso pericolosi, e tornando in tempo per le altre attività sopra indicate, e per quello che riguarda la sua presenza tra i militari vi è una notevole testimonianza fotografica venuta alla luce dopo il referendum, in quanto prima era rimasta volutamente occultata, sempre allo scopo di far ignorare agli italiani, fatti che potevano giovare alla causa monarchica. Anticipando i tempi ricorderemo ad esempio il silenzio assoluto della stampa sulla presenza del Luogotenente, nel febbraio 1946, ad una udienza papale in occasione del Concistoro nel quale Pio XII aveva nominato nuovi Cardinali ed il successivo ricevimento che, in loro onore, il Principe con la Principessa avevano dato al Quirinale, presenti anche tutti gli altri Principi di Casa Savoia dal Duca d’Aosta, Aimone, ai Duchi di Genova, Bergamo e Pistoia, ricevimento di cui parlò brevemente, in una pagina interna, solamente “L’ Osservatore Romano”. Ed a proposito dei Principi di Casa Savoia, alcuni di questi, oltre tutto già anziani, poterono tornare a Roma solo nel 1945, dopo la Liberazione, per cui nel 1944 il Luogotenente avrebbe potuto contare solo sul quasi coetaneo, Aimone, Duca d’Aosta, che aveva assunto tale titolo a seguito della morte del fratello Amedeo, avvenuta il 3 marzo 1942, che però ai primi dell’aprile 1945, avendo in una cena privata a Taranto, espresso una battuta sui giudici dell’Alta Corte, che stavano processando il generale Roatta, presente alla cena la giornalista inglese Silvia Sprigge, la suddetta battuta fu dalla stessa, scorrettamente, inviata e pubblicata sui giornali, come fosse stata una vera e propria dichiarazione politica, con grande ipocrita scandalo della stampa e del governo ciellenista, il che mise fuori giuoco il Principe che dovette lasciare Taranto e ritirarsi a Napoli, per alcuni mesi, dove viveva la Duchessa d’Aosta Madre.

In questo periodo cominciano ad organizzarsi dei movimenti monarchici, con i quali i rapporti sono tenuti dal Ministro Lucifero, per cui appare un partito, il Partito Democratico Italiano, di Enzo Selvaggi e di Roberto Lucifero, cugino del Ministro, si presenta un giovane professore Alfredo Covelli, per una Concentrazione Democratica Liberale, dove era pure l’anziano senatore Bergamini, e ad ottobre del ’44 appare un manifesto dell’Unione Monarchica Italiana, sorta da pochi mesi, che dà spunto al ministro di precisare quella che era e sarebbe stata la linea tenuta (ed anche criticata), dal Luogotenente: “la Corona ed il Ministero (della Real Casa) sono estranei a ogni iniziativa del genere, giacché sono al di sopra e al di fuori di ogni partito, ma non possiamo che ben vedere tutte le iniziative che tendono alla ricostruzione del Paese, della democrazia e della libertà”.

Per le visite del Principe, solo a titolo indicativo e non certo esaustivo, ricordiamo a luglio del 1944 la visita a Firenze, quando erano ancora in corso dei combattimenti, poi ad ottobre 1944 la visita alle truppe che si apprestavano ad entrare in linea, poi a novembre la visita a Rimini liberata, ed a Grosseto colpita da un’alluvione, dopo essere stato ad Avellino per rassegna truppe. Nel 1945 a gennaio è a Pisa, dove erano truppe brasiliane alle quali si rivolge in portoghese, con meraviglia del loro comandante e dei suoi accompagnatori, ed a Lucca ed Arezzo, per recarsi il 25 febbraio ad Ascoli Piceno dove era la divisione “Nembo”, con entusiasmo della popolazione, entusiasmo che si rinnovò giorni dopo a Taranto, dove era andato a ricevere la divisione “Garibaldi”, che tornava dal Montenegro . Ad aprile del ’45 intensifica la sua presenza nelle zone appena liberate, accolto dalle popolazioni con lacrime ed abbracci e in località minori come Santo Alberto, nel Comacchio, a Cesena, dove pernottò su una brandina, a Peratello vicino Imola, e poi a Ravenna e Ferrara, con un atterraggio fortunoso ed il 28 aprile, come già a Montelungo, nel dicembre 1943, effettua un volo di guerra, con reazione della controaerea tedesca che ancora combatteva, ed infine si reca a Bologna dove erano entrate le nostre truppe, accolto molto bene dalla popolazione. Cito queste località perché anche i comunisti che già vi spadroneggiavano ebbero nei confronti del Principe un atteggiamento di rispetto ed anche ammirazione. Lo stesse accoglienze positive in altre località del Nord, compreso Veneto e Friuli, dove si era recato a maggio, con eccezione di Milano dove né il prefetto, il sindaco ed il CLN locale si erano recati a salutarlo.

Di fronte a questi avvenimenti riguardanti la guerra di liberazione, come sempre taciuti o quasi dai giornali, eccettuata la battagliera “Italia Nuova”, organo del Partito Democratico Italiano, di cui ricorderemo uno dei più importanti collaboratori, Alberto Consiglio ,”Babeuf”, ed anche in parte il “Risorgimento Liberale”, espressione del P.L.I., vi era invece a Roma nel governo e negli ambienti ciellenisti, con i loro numerosi giornali, dalla “azionista” Italia Libera, a L’Avanti, a L’Unità, al settimanale “Cantachiaro”, il consueto atteggiamento critico, pronto ad afferrare ogni occasione per mettere in cattiva luce l’operato del Luogotenente, come ad esempio protestando nel caso di una sua intervista del 31 ottobre 1944 al “New York Times” in cui aveva parlato di un “referendum”, e non della sola Costituente per risolvere il problema istituzionale, soluzione per il momento rigettata, mentre poi fu successivamente accolta, ed opponendosi alla pubblicazione di un suo messaggio agli italiani dopo la liberazione. Invece i giornalisti angloamericani modificavano in senso favorevole al Principe le loro opinioni, come il Matthews che scrisse: “Il Principe Umberto ha come meta una monarchia liberale e democratica come in Inghilterra, Svezia, Norvegia e Danimarca” e lo Schiff del “Daily Erald” che lo giudicò “pieno di tatto ed imparziale”. Giudizi questi che si uniscono a quello ben noto di Churchill che lo incontrò a lungo nel corso della sua visita in Italia e che in ogni caso ripetiamo: “La sua (del Principe Umberto) potente ed attraente personalità, la sua padronanza dell’intera situazione militare e politica erano davvero motivo di conforto ed io ne trassi un senso di fiducia più vivo di quello che avevo provato durante i colloqui con gli uomini politici . Certo speravo che avrebbe contribuito a consolidare la Monarchia in una Italia libera, forte e unita”. Ed a quello, molto meno conosciuto dell’incaricato d’affari USA, David Key che dice: “(Il Principe Umberto) mi ha parlato con acutezza dei problemi italiani. Si ha che fare con un uomo che ha un elevato senso della dignità verso il quale non esistono le riserve che aveva avanzato Roosevelt. Una monarchia con Lui a capo potrebbe costituire un elemento stabilizzatore e d’ordine”.

Parlando di uomini di stato stranieri e di diplomatici giova ricordare che dopo il riconoscimento da parte dell’ URSS del Governo Badoglio, nel marzo 1944, anche Gran Bretagna ed USA, e altri numerosi paesi avevano compiuto lo stesso passo per cui via via i loro ambasciatori venivano accreditati presso il governo italiano, presentando le credenziali al Luogotenente, in cerimonie formalmente impeccabili che non facevano pensare che l’Italia era nazione sconfitta. Ad esempio l’ 8 gennaio 1945, in occasione della presentazione dell’Ambasciatore USA, Kirk, lo stesso dopo la cerimonia si intrattenne con il Principe per una mezzora, presentandogli poi tutti i suoi collaboratori, o come il successivo 4 giugno in un ricevimento al Grand Hotel, organizzato da Myron Taylor, rappresentante USA presso il Vaticano, l’ambasciatore Kirk, dopo un brindisi al nuovo presidente americano Truman, succeduto a Roosevelt, mancato il 12 aprile, ne propose un altro per il Principe Umberto, che aveva inviato a Truman un messaggio di saluto . Sempre Kirk, in occasione di una visita a Roma del generalissimo americano, Eisenhover, il 13 settembre, organizzò una colazione, alla quale invitò il Luogotenente, consentendogli un cordiale scambio di idee con quello che sarebbe divenuto nel 1952, Presidente degli Stati Uniti, incontro di cui fu data notizia sulla stampa. E così pure in altri ricevimenti e cerimonie dove al posto d’onore è quasi sempre Falcone Lucifero, proprio in qualità di Ministro della Real Casa, e quindi rappresentante del Luogotenente, come, molto significativa, la presenza, il 19 dicembre 1945, alla Sinagoga di Roma, per l’insediamento del nuovo Rabbino Capo, il Prof. Grande Ufficiale David Prato.

 

Da Bonomi a De Gasperi ed in mezzo Parri

Se questi eventi militari e diplomatici attestavano la crescita del prestigio del Luogotenente, non altrettanto avveniva, come già detto, in sede governativa dove venivano proposte provvedimenti e leggi anche con effetti retroattivi, quali quelle sulla “epurazione”, che colpiva fra gli altri quasi tutti i Senatori del Regno, sui “profitti di regime”, sull’Alta Corte di Giustizia e successivamente la creazione di Corti d’assise straordinarie, che il Luogotenente, pur non condividendole, non poteva non sanzionare. Vi era poi una continua conflittualità anche all’interno del governo tra azionisti e socialisti da una parte e liberali e democristiani dall’altra per cui Bonomi dovette presentare, il 26 novembre 1944, le dimissioni al Principe, che così iniziò le consultazioni ripristinando la prassi del Regno del Padre. Questa prima crisi di governo ed il suo svolgimento è significativo perché da un lato rompeva il monopolio e la monoliticità del CLN e dall’altro ridava alla Corona il suo ruolo di mediazione. Bonomi ebbe il reincarico di formare il governo al quale, incredibile a dirsi, non parteciparono azionisti e socialisti, per cui vi sarebbe stata una svolta al centrodestra, se i comunisti, con l’ormai conosciuta abilità manovriera, non avessero invece rinnovato la loro partecipazione governativa, raggiungendo con Togliatti, ministro senza portafoglio, la Vice Presidenza del Consiglio. Così il 12 dicembre 1944 iniziava il secondo governo Bonomi, con la cerimonia del giuramento al Quirinale di fronte al Principe, in divisa, mentre i ministri erano correttamente vestiti di scuro. Il testo del giuramento, era ormai quello modificato, che riportiamo: “Giuro sul mio onore di esercitare la mia funzione nell’interesse supremo della Nazione e di non compiere fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione istituzionale”. Testo che i ministri sottoscrissero, senza però prima leggerlo, il che non piacque al ministro Lucifero ed anche al Luogotenente, che nel suo intimo era amareggiato di questi sgarbi minori, rispetto a quelli maggiori che doveva egualmente accettare, con il suo perfetto autocontrollo. Per cui in tutto il diario tenuto da Lucifero, solo una volta, nel maggio successivo, si legge uno sfogo del Principe: “non è divertente quello che faccio se non fosse per compiere un dovere per il Paese”, parole che confermano l’altissimo senso del “servizio” che ha contraddistinto tutta la sua vita, ma anche quella amarezza che si rivelava nel suo aspetto fisico, precocemente invecchiato, malgrado avesse appena quarant’anni.

In queste trattative per un nuovo governo, da parte di Lucifero e dello stesso Luogotenente, circostanza che si ripeté anche nelle successive crisi governative, ci fu il tentativo di inserire nella compagine ministeriali alcuni “grandi vecchi” del periodo prefascista, ma su questo punto la volontà monopolistica del CLN fu intransigente, come pure lo fu nei confronti delle altre formazioni politiche al di fuori del sei partiti e di questa attitudine prevaricatrice fu successivamente prova la composizione della Consulta Nazionale di cui parleremo più avanti. È invece da sottolineare che in questo secondo ministero Bonomi appare in un ruolo importante, di Ministro degli Esteri, il leader della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, che nel precedente governo era stato uno dei ministri senza portafoglio, il che lo porta a frequente contatto con il Ministro della Real Casa e con il Principe per la firma dei decreti e per la scelta dei nostri ambasciatori nelle principali capitali estere. E di questa collaborazione sono significativi diversi episodi come la firma di alcuni decreti il giorno di Pasqua, 1° aprile 1945, dimostrazione del reciproco alto senso del dovere che vedeva Principe e Ministro al lavoro in un giorno festivo, e quando, sempre nell’aprile del ’45, De Gasperi preoccupato per la sorte di Trieste, prega il Luogotenente di aiutarlo intervenendo sul Maresciallo Alexander, a conferma del prestigio che il Principe Umberto aveva acquisito presso i comandanti angloamericani, per cui il Principe si recò infatti a Caserta, il 22 maggio, a parlare con Alexander, che lo trattenne anche a colazione, e sempre De Gasperi, dopo un lungo colloquio parla di averlo trovato talmente preparato su tutti gli argomenti trattati da esserne rimasto colpito, mentre la stessa impressione non aveva avuto in un primo colloquio, mesi prima a Napoli. E di questa competenza e capacità del Principe sono ulteriori testimonianze le dichiarazioni di Benedetto Croce, quale questa: “ Avendo avuto occasione di vedere più volte il Principe per consultazioni politiche nel 1945 e nei primi mesi del 1946, notai la sempre più progredente sua formazione politica, l’ascoltare attento, il domandare serio, la correttezza costituzionale, il sentimento di responsabilità personale”, e, incredibile a dirsi, del conte Sforza, che pur divenuto repubblicano, si avvicinava al Principe, che, bontà sua: “mi pare proprio a posto. Molto meglio di quanto pensassi”, chiedendo ed ottenendo colloqui riservati o partecipando il 9 maggio del 1945, nella Cappella Paolina, al Quirinale, alla cerimonia in suffragio della povera Principessa Mafalda, la comunicazione ufficiale della cui tragica morte nel lager di Buchenwald era pervenuta il primo maggio, ed il Principe si era recato immediatamente a Napoli, il 2 maggio, a recare la triste notizia ai Genitori.

Nella ripresa della normale vita governativa e del completamento della liberazione della penisola vi erano anche occasioni ufficiali in cui il Luogotenente intervenne, come il 4 novembre 1944, all’Altare della Patria, senza però poter deporre una corona, ma solo un fascio d’alloro con un nastro azzurro, o il 24 marzo 1945 a Santa Maria degli Angeli, alla cerimonia in memoria dei martiri delle Fosse Ardeatine, dove alcune donne cominciarono ad urlare contro la sua presenza senza che nessuno intervenisse ed il successivo 13 maggio 1945 sempre a Santa Maria degli Angeli, per il Te Deum di ringraziamento per la fine della guerra, officiato da Monsignore Ferrero di Cavallerleone, quando non gli venne portato da baciare il Vangelo ed impartita la benedizione usuale, consuetudini alle quali il Principe, cattolico praticante, era legato particolarmente.

Ritornando alla situazione politica, la liberazione di tutta l’Italia del Nord, dove da tempo si era costituito il CLNAI, il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, di soli cinque partiti, perché la Democrazia del Lavoro, era al Nord praticamente inesistente, il predetto comitato riteneva non essere più possibile il mantenimento del governo Bonomi, almeno nella composizione di allora e pretendeva un totale cambiamento, il cosiddetto “vento del Nord”, per cui dopo diversi infruttuosi incontri di Bonomi con i rappresentanti del CLNAI, il 12 giugno 1945, lo stesso presentava la lettera di dimissioni al Luogotenente. Il successivo 13 giugno si apriva così un nuovo ciclo di consultazioni, cominciando dai Presidenti “formali” del Senato e della Camera, poi in ordine alfabetico rappresentanti dei partiti del CLN, che accettano tutti di salire al Quirinale, tranne il rappresentante del Partito d’Azione, ed anche successivamente Selvaggi per il Partito Democratico ed il senatore Bergamini per la Concentrazione Democratico-liberale. Seguivano i Collari dell’Annunziata, il grande ammiraglio Thaon di Revel, e l’ineffabile “conte” Sforza, nonché il Maresciallo Badoglio, quale ex presidente del consiglio. Poi ancora gli Alti Commissari per la Sicilia, Aldisio, e per la Sardegna, Pinna, ed i Commissari per le Associazione Reduci, Gasparotto, e la Medaglia d’Oro Cabruna per l’A.N.M.I.G.(Associazione Nazionale Mutilati e invalidi di guerra). In realtà l’unica realtà politica che, purtroppo, contava era il CLN, ma questa larghezza di interpellati dava anche all’opinione pubblica la sensazione che il Quirinale non fosse una mera facciata, dietro la quale esistesse il nulla. Anche Parri viene invitato, quale esponente della Resistenza, ma declina temporaneamente l’invito fino alla domenica 17 giugno quando sale al Quirinale per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, essendo stato indicato il suo nome dai partiti del CLN. Ci siamo soffermati su queste consultazioni e su questo incarico perché con il governo Parri avveniva una svolta a sinistra ed una accentuazione repubblicana, proprio a cominciare dallo stesso Presidente del consiglio, esponente del Partito d’Azione. Effettivamente la Democrazia Cristiana, pur mantenendo gli Esteri, con De Gasperi, arretrava come qualità di ministeri perdendo il Ministero della giustizia che andava al PCI, nella persona di Togliatti. Questa assegnazione rompeva una sia pure breve tradizione dei governi Badoglio e Bonomi in cui il Ministero di Grazia e Giustizia era stato retto da liberali (Arangio Ruiz), e poi dai democristiani (Tupini). Nel governo Parri faceva anche il suo debutto ai LL.PP., un ingegnere socialista, Romita . Il Ministero degli Interni era assunto dallo stesso Parri, come era avvenuto in precedenza con Bonomi. Per questo fondamentale ministero, vi erano state anche nelle precedenti trattative pressanti richieste socialiste, ma i liberali avevano replicato che non avrebbero mai accettato un socialista agli interni e lo stesso aveva risposto la Democrazia Cristiana, il che rende ancora più strano quanto avvenne successivamente, alla caduta del governo Parri, che sarebbe durato dal 21 giugno, data del giuramento, al 10 dicembre 1945.

Cerimonia del giuramento analoga alla precedente, ma questa volta i ministri prima di firmare leggono il testo, sia pure a bassa voce, per poi non tenerne conto, come i loro predecessori nei loro discorsi di parte chiaramente repubblicana! Parri, modesto di persona, si rivelò altrettanto modesto come Presidente del consiglio, dando così campo libero a Nenni, Ministro per la Costituente, ed allo stesso Togliatti, che iniziava a conoscere e penetrare nell’ambiente della Magistratura, sapendo già il ruolo che avrebbe dovuto svolgere in occasione delle elezioni per la Costituente, alle quali si aggiunse poi anche il referendum istituzionale . Nel frattempo si era inoltre messa in cantiere, con il Decreto del 30 aprile 1945, una assemblea “non elettiva”, da chiamarsi Consulta, inizialmente di 304 componenti, di cui 60 ex parlamentari, ante 1925, in grande maggioranza di sinistra, 156 rappresentanti dei partiti del CLN, in quote paritarie, e, bontà loro, un numero nettamente minore, di 20 rappresentanti dei partiti e movimenti fuori dal Comitato, tra i quali il Partito Democratico Italiano, e 46 esponenti sindacali, più 12 per combattenti e reduci ed infine 10 per associazioni culturali.

 

L’ultimo anno

Il Quirinale non era però solo sede di incontri politici, ma per precisa volontà del Principe Umberto, anche sede di iniziative assistenziali e benefiche o simili, quale ad esempio il 21 gennaio 1945, un pranzo offerto a 50 soldati del Battaglione “San Marco”, con il suo personale intervento, o il giorno di Pasqua del 1945, un pranzo per ben 500 bambini poveri e 100 soldati. E sempre in questa data viene aperto un ambulatorio per bambini mutilati civili di guerra, intitolato “Maria Gabriella”, come pure saranno aperti la casa “Maria Beatrice” per bambini mutilati di guerra, la colonia elioterapico “Maria Pia” per bambini dei quartieri operai, e una cucina per gli indigenti “Mafalda di Savoia” e varie altre iniziative per chiudere con un Ufficio di Assistenza, che solo nel 1945, distribuì 10 milioni di contributi, cifra rappresentante il 90% degli emolumenti del Luogotenente. Ed a proposito di queste attività è interessante un dialogo tra De Gasperi, che essendone venuto a conoscenza, ed evidentemente apprezzandole, si rivolge a Lucifero, quasi incitandolo: “le rendete note queste cose?” e Lucifero che rimane interdetto, quasi non pensando all’effetto propagandistico che avrebbero avuto. E queste azioni benefiche sarebbero proseguite particolarmente dopo il rientro a Roma, della Principessa Maria Josè, il 7 giugno 1945, e quello successivo dei giovani principi, con il pranzo di Natale per 100 bambini poveri, un altro analogo per il Capodanno ed un ulteriore per l’Epifania, dove appunto i principini più grandi aiutavano nel servizio.

Quella solitudine del Principe, cui accennammo all’inizio, si era notevolmente attenuata perché oltre, logicamente al Ministro della Real Casa, ed agli aiutanti di campo, generale Adolfo Infante e l’ammiraglio Franco Garofalo, si erano riavvicinati alla Corona, Vittorio Emanuele Orlando, al cui parere venivano sottoposti numerosi problemi giuridici, Francesco Saverio Nitti, che rientrato dall’esilio, aveva pronunciato un importante discorso al San Carlo di Napoli sottolineando la funzione stabilizzatrice e moderatrice della Monarchia, e persone più giovani quali Carlo Scialoja, esperto di diritto, e per la politica estera, Giovanni Visconti Venosta, diplomatico, entrambi discendenti da famiglie che già avevano dato importanti contributi nel Risorgimento e nel successivo Regno, nonché alcuni giornalisti fra i quali Luigi Barzini jr., Ugo D’Andrea ed il liberale Manlio Lupinacci, che troveremo nel gruppo che salutò il Principe, divenuto Re, quel triste pomeriggio del 13 giugno 1946 a Ciampino. Ebbene tutte queste attività del Principe, di cui ricorderemo fra l’altro il messaggio di Capodanno del 1946, letto alla radio, indirizzato ai nostri prigionieri di guerra, e l’accoglienza, il 17 novembre 1945, a reduci dalla Russia, presente anche la Principessa, che, a sua volta, aveva ripreso diversi contatti con personalità della cultura, in primo luogo Zanotti Bianco, non mutavano la propensione repubblicana anche di personalità lontane dai comunisti, il cui atteggiamento è perfettamente descritto dal conte Carandini in questa frase: “La Monarchia è una causa perdente e non vale sciuparsi in combattimenti di retroguardia” o in quella, ancor più cinica, di Meuccio Ruini: “Dobbiamo schierarci per la repubblica, giacché se vince la Monarchia, questa ci perdonerà e saremo sempre lo stesso ministri, Consiglieri di Stato….”. In realtà nessuno di questi politici appartenenti alla nobiltà ed all’alta borghesia, aveva effettivi contatti con il popolo, ed ignorava quanto invece la Monarchia, come si vide nel successivo referendum, malgrado la propaganda contraria, la quasi totale impossibilità di una propaganda monarchica in tutto l’Italia Centro settentrionale, gli scarsi mezzi finanziari a disposizione, avesse radici ben profonde, ed anche, specie da parte delle donne, alle quali era stata finalmente concesso il diritto di voto, un attaccamento, se non affetto, per la famiglia reale, e particolarmente per le sue Regine, che erano state esempio per i costumi morigerati ed il tenore di vita.

Quanto alla situazione politica, riunitasi finalmente la già citata Consulta Nazionale, il 25 settembre, con l’elezione di Sforza a Presidente, nel governo Parri si erano accentuate le spinte demagogiche, specie per una epurazione ancor più radicale, per cui da parte liberale cresceva l’insofferenza per questo modo di agire, così dopo un acceso dibattito interno, i liberali provocarono la crisi del governo, anche se Parri, stranamente attaccato alla poltrona avrebbe voluto continuare a governare senza i liberali, ma è la Democrazia Cristiana a dargli il “colpo di grazia”, costringendolo a presentare le dimissioni al Luogotenente il 24 novembre del ’45 .In questa occasione Parri tenne un infelice discorso, criticato dallo stesso Nenni, dove aveva spiegato le sue dimissioni come frutto di un “colpo di stato” (sic!), anche se poi si corresse chiamandolo “colpo di mano”. E queste infelici espressioni oratorie erano presenti anche nel suo discorso del precedente 26 settembre, alla Consulta, dove aveva pronunciato la frase, storicamente falsa, come lo rimbeccò Benedetto Croce, che “neppure prima del fascismo, vi era stata in Italia, una vera democrazia”.

Ripresa così delle consultazioni, con i tentativi, non riusciti, di inserire nel governo gli esponenti del liberalismo storico, affiorò il nome come possibile nuovo Presidente del Consiglio, del leader democristiano, De Gasperi, ed il Luogotenente gli affidò l’incarico di formare il nuovo governo con tutti e sei partiti dell’Esarchia, che era divenuto il termine per definire il potere del CLN. La costituzione di questo governo non si rivelò facile per le pur giuste richieste liberali che non trovavano accoglimento negli altri partiti, tanto che sembrava essere orientato De Gasperi ad un governo senza i liberali se non fosse stato proprio richiamato dal Luogotenente al rispetto dell’incarico conferitogli di un governo a sei, che, costituitosi, giurò con la solita formula, il 10 dicembre. Purtroppo in tali trattative quel Ministero dell’Interno, che in precedenza era stato negato ai socialisti da liberali e democristiani, fu concesso loro con una incredibile leggerezza, particolarmente grave specie da parte della DC che ebbe, oltre agli Esteri, confermati a De Gasperi, due ministeri minori, e per questo incarico i socialisti indicarono Romita, notoriamente repubblicano. E tale nome non trovò opposizione neanche nel Ministro Lucifero, che sottovalutò l’importanza che i due ministeri chiave, giustizia ed interni, fossero in mani socialcomuniste, e quindi repubblicani, ed anzi, riferendosi proprio a Romita, in un successivo incontro del 12 dicembre, lo definì “un galantuomo”, per cui riteneva sufficiente questa qualifica a tranquillizzare il Luogotenente. Forse sia lui che il Principe, ignoravano non solo il repubblicanesimo del Romita, ma proprio l’avversione a Casa Savoia, che sarebbe venuta fuori anni dopo nel libro di memorie, dove Romita la definisce come “la più inetta dinastia europea”, con una incredibile malafede, frutto di ignoranza storica, ingiustificabile in un piemontese che, almeno, avrebbe dovuto conoscere la storia della propria regione. Romita infatti, fin dal primo giorno del suo incarico lavorò, e lo confessa nelle memorie, per il trionfo della repubblica, con ipocrisia, sempre acquiescente stranamente la DC, come nel caso delle prime elezioni amministrative del successivo marzo del 1946 per cui uno storico, Andrea Ungari, afferma, e non mi sento di dargli torto, che la “repubblica era già fatta il martedì 11 dicembre 1945”. Così per l’eterogenesi dei fini la crisi aperta dai liberali per evitare lo scivolamento a sinistra del governo Parri, portava ad un governo, salvo il Presidente del Consiglio, maggiormente squilibrato a sinistra e per la repubblica.

In questi mesi che separano la nascita del primo governo, presieduto da un cattolico, nella storia del Regno d’Italia, il fatto più importante ed anche l’unica vittoria luogotenenziale, fu l’affidamento ad un referendum la soluzione della questione istituzionale, con il Decreto del 16 marzo 1946, n. 98, la cui firma fu accompagnata da una lettera personale del Principe al Presidente del Consiglio, che trascriviamo integralmente, rappresentando la sintesi del pensiero politico del Luogotenente e della Sua correttezza costituzionale:

“Signor Presidente,

Le restituisco, muniti della mia sanzione, i provvedimenti con i quali si indice il “referendum” sulla forma istituzionale dello Stato e si convoca l’ Assemblea Costituente che dovrà decidere sulla nuova Costituzione.

Nel compiere quest’atto sento di ricongiungermi alle gloriose tradizioni del Risorgimento nazionale, quando, attraverso eventi memorabili indissolubilmente legati alla storia d’ Italia, la Monarchia poté suggellare l’unità della Patria e i plebisciti furono l’espressione della volontà popolare ed il fondamento del nuovo stato unitario.

Questo ossequio alla volontà popolare dettò anche la decisione del mio Augusto Genitore di ritirarsi irrevocabilmente dalla vita pubblica per facilitare, come Egli stesso affermò, l’unità nazionale. Il medesimo pensiero mi indusse a sanzionar il Decreto del 24 giugno 1944, che rimetteva al popolo italiano la scelta delle forme istituzionali.

La sanzione di oggi è dunque il coronamento di una tradizione che sta a base del patto fra Popolo e Monarchia, patto che, se riconfermato, dovrà costituire il fondamento di una Monarchia rinnovata, la quale attui pienamente l’autogoverno popolare e la giustizia sociale.

In questo solenne momento non posso fare a meno di rivolgere un commosso pensiero ai nostri fratelli ancora prigionieri e internati, ai cittadini tutti di ogni terra italiana, i quali – per ragioni indipendenti dalla nostra volontà e che per rispetto della giustizia devono considerarsi contingenti – non potranno partecipare alla consultazione che dovrà decidere anche del loro avvenire.

Confido che il Governo saprà provvedere affinché le elezioni si svolgano nella massima libertà degli individui e delle coscienze, per assicurare quest’ultima, ho dato, con le disposizioni testé sanzionate, libertà di voto a quanti sono legati dal giuramento.

Io, profondamente unito alle vicende del Paese, rispetterò come ogni italiano le libere determinazioni del popolo, che, sono certo, saranno ispirate al migliore avvenire della Patria.

Voglia, signor Presidente, comunicare ai signori Ministri questa mia lettera, che considero un doveroso contributo alla serenità della consultazione popolare.

Roma ,16 marzo 1946 Aff.mo Umberto di Savoia

 

Conclusione

A questo punto necessita una riflessione: cosa aveva giovato al Luogotenente, con la sua innata signorilità, l’aver esercitato con competenza, in forma discreta, formalmente ineccepibile, la funzione di Capo dello Stato, come osserva Ludovico Incisa, quando dalla parte dei ministri e dei partiti repubblicani, nessuno si era mosso dalle sue posizioni e convinzioni aprioristiche, contrarie al mantenimento della Monarchia, pur rappresentata da questo Principe? Sempre Incisa definisce “evanescente e patetica, politicamente rassegnata” la Sua figura, dimenticando e sottovalutando quanto aveva fatto in quei mesi il Luogotenente, attività che abbiamo seguito e descritto. Non pensava che Umberto di Savoia era stato educato a fare il Re, e non poteva quindi trasformarsi in capo di un partito o di una fazione, quando il ruolo di un Re, e lo avevano ampiamente dimostrato i suoi predecessori, era quello di essere al di sopra delle parti e di rappresentare il vertice dello Stato, in cui tutti i cittadini potessero riconoscersi. O come scrivono altri storici, pure non avversi alla Monarchia, c’era in Lui una propensione ad espiare colpe non sue, ammesso che fossero colpe? Eppure la risposta, la motivazione del suo modo di agire, esisteva e ne dette prova quando partì dall’Italia, ed era quella di non acuire le tensioni tra gli italiani, di arrivare quanto prima alla pacificazione tra gli stessi, ancor oggi non raggiunta dopo 71 anni (vedi la proposta di amnistia, dopo la Sua elevazione al Trono, amnistia che Togliatti, ministro della Giustizia, ed il Governo non concessero), e sopra tutto di evitare lo scorrere ulteriore di sangue fraterno . Il pensiero regale per gli umili, come da carità cristiana, l’amore per la Patria, per il mantenimento, ad ogni costo, della unità della stessa, raggiunta per merito della sua Casa, sentimenti e valori ereditati dal Padre, Vittorio Emanuele, definito da Domenico Fisichella “l’ultimo uomo del Risorgimento”, che quando, forse tardi, abdicò, il 9 maggio 1946, prendendo la strada dell’esilio, nella sua agenda, il successivo primo gennaio 1947, scrisse “Viva l’ Italia, ora più che mai”, avrebbero fatto dire al Principe, divenuto Re, in un messaggio alla vigilia del Referendum, che se la Monarchia avesse prevalso per pochi voti, era disponibile ad un secondo referendum, perché intendeva governare con un vasto consenso popolare e non con il 51%. Questo atteggiamento da Re, mantenuto per tutta la vita, anche in esilio, spiega perché per decenni, fino al termine della Sua vita terrena, 18 marzo 1983, tantissimi italiani si recassero a visitarlo in Portogallo, altri numerosi seguissero con affetto in Italia la sua vita, leggessero con interesse le sue interviste, ancora scrittori, giornalisti e storici rivalutassero la sua figura riconoscendo il sacrificio della sua partenza dall’Italia, altri ancora combattessero democraticamente ed a viso aperto la battaglia monarchica, così che tanti volgessero lo sguardo verso Cascais, sperando, forse, in un Suo ritorno.

 

APPENDICE :

1)     Messaggio in occasione dell’assunzione della Luogotenenza Generale del Regno

“Soldati di terra di mare e dell’aria,

nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno, affidatomi dal mio Augusto Genitore, il mio pensiero va alle Forze Armate italiane, che nelle ore dolorose attraversate dalla Patria, hanno saputo mantenersi fedeli alle loro nobili tradizioni.

A tutti i soldati che in Patria ed oltre mare combattono ed operano a fianco che ne sorreggono e potenziano lo sforzo invio il mio saluto affettuoso.

Oltre le linee a decine di migliaia, i vostri compagni hanno impugnato le armi e combattono l’oppressore, esponendo se stessi ed i propri cari ad ogni rischio ed alle più barbare rappresaglie . Nei campi di prigionia i nostri fratelli chiedono e sperano di poter nuovamente impugnare le armi .

Numerosi sono i caduti, numerosi sono i martiri, immolatisi per la Patria, a loro il nostro pensiero ammirato, commosso e riconoscente e la promessa di valorizzare e vendicare il sacrificio

Il nostro popolo ha dato l’esempio più elevato di forza morale e capacità di ripresa dopo una guerra non sentita e non voluta, ma per sempre eroicamente sopportata.

Soldati di terra, di mare e dell’aria,

dure prove ancora vi attendono, ma io sono sicuro che il vostro amore per la Patria, il vostro valore ed il vostro spirito di sacrificio, non mai offuscati, sapranno vincere ogni ostacolo.

Mentre a Roma sventola di nuovo i Tricolore, sulla via che i martiri ed i caduti ci hanno tracciato, fraternamente legati alle truppe delle Nazioni Unite, continuerete e moltiplicherete i vostri sforzi e tendendo le nostre volontà, con la certezza che la Patria risorgerà per riprendere in un mondo pacificato e migliore, il posto che le compete come madre di ogni progresso e ogni civiltà.

Di questa rinascita voi sarete gli artefici più meritevoli e migliori –

Viva l’ Italia .

                                                                       UMBERTO DI SAVOIA

Roma, 8 giugno 1944

 

2)     Proclama del Luogotenente Generale alle Forze Armate nel primo annuale della Liberazione:

“Combattenti della Guerra di Liberazione

A Voi, nell’annuale della Liberazione, torna l’animo riconoscente e memore dei cittadini.

Allorché tutto sembrava perduto, voi mostraste cosa possano l’amore per la Patria e la fede nel suo avvenire.

E, con il vostro eroismo, avete arricchito l’epopea italica di nuova gesta.

Rapidamente riordinati, i soldati di una guerra pur sempre eroicamente combattuta tornarono primi all’attacco, i marinai continuarono a tenere alta sul mare la Bandiera mai ammainata, gli aviatori ripresero con l’antico sprezzo della morte i combattimenti nel cielo, a tutti affiancandosi con fraterna gara di patriottismo, di dedizione e di audacia, i partigiani che ben sapevano di coinvolgere nella lotta anche le loro famiglie.

Queste forze vive ed eroiche diedero alla vittoria delle potenti armi alleate un contributo ogni giorno più evidente e sicuro, ogni giorno più lealmente riconosciuto.

Quando un popolo in così aspro travaglio non cede di fronte alla immensità della sciagura e alla avversità del destino, ma trova nelle fibre profonde della stirpe il coraggio per non disperare e la forza per lottare ancora, quel popolo può alzare la fronte davanti a tutto il mondo e affermarsi degno di migliore avvenire.

E questo l’ Italia lo deve a Voi, soldati, marinai, avieri e partigiani.

La Patria vi ringrazia . Viva l’Italia!

                                                   UMBERTO DI SAVOIA

Roma, 25 aprile 1946

 

BIBLIOGRAFIA

1) Falcone LUCIFERO: “L’ultimo RE- diari del Ministro della Real Casa – 1944-1946”, editore Mondadori - collana “Le Scie” – 2002

2) Giovanni ARTIERI: “Umberto II e la crisi della Monarchia”, editore Mondadori – collana “Le scie”-1983

3) Luciano REGOLO: “Il Re Signore”, editore Simonelli – 1998

4) Gianni OLIVA: “Umberto II –l’ultimo RE”, editore Mondadori – 2000

5) Domenico FISICHELLA: “Dittatura e Monarchia”, editore Carocci – collana Sfere – 2014

6) Ludovico INCISA di CAMERANA: “Umberto II e l’Italia della Luogotenenza”, editore Garzanti - 2016

7) Andrea UNGARI: “In nome del RE – i monarchici italiani dal 1943 al 1948”,-editore “Le lettere” – 2004

8) Gianni OLIVA: “I vinti e i liberati – 8 settembre 1943-25 aprile 1945-Storia di due anni”, editore Mondadori – collana “Le Scie”- 1994

9) Aldo A. MOLA: “Declino e crollo della Monarchia in Italia – I Savoia dall’unità al referendum del 2 giugno 1946”, – editore Mondadori – collana “Le Scie” - 2006

10) Giovanni ARTIERI: “Cronaca del Regno d’Italia” –volume secondo, editore Mondadori – 1978

11) Aldo A. MOLA: “ Umberto II di Savoia”, editore Giunti – 1996

12) Niccolò RODOLICO - Vittorio PRUNAS TOLA: “Libro Azzurro sul Referendum”, editore “Superga” – 1963

13) Enrica LODOLO: “Savoia”,  editore Piemme - 1998

14) Silvio BERTOLDI: “Savoia – Album dei Re d’Italia”, editore Rizzoli - 1996

15) Vincenzo STALTARI: “Umberto II”, editore Istituto Teano di Cultura – 2003

16) Oreste GENTA: “S.M. Umberto II durante il periodo della Guerra di Liberazione”, edito da INGORTP – conferenza tenuta al Circolo REX - 29 gennaio 1989

17) Oreste GENTA: “S.M. Umberto II nei due anni di Regno”, edito da Ingortp - conferenza tenuta al Circolo REX – 21 gennaio 1990

18) Franco GAROFALO: “Pennello nero – La Marina Italiana dopo l’ 8 settembre 1943”, edizioni della Bussola – 1945

4 febbraio 2017

 

 

Gentiloni in pista: Matteo sta sereno che qui ci sono io

di Salvatore Sfrecola

 

“La forza dei nervi calmi”, si potrebbe dire prendendo a prestito dal Carosello degli anni ’60, la battuta della pubblicità di una nota marca di camomilla. Paolo Gentiloni, che certamente lo è per indole, appare ancor più moderato a fronte del suo predecessore, spesso inutilmente polemico, a volte volgare, come quando ha costruito parte della sua immagine di giovane innovatore, preannunciando la “rottamazione” degli anziani del partito e della società. Senza essere sfiorato dal dubbio che quella parola, che si attaglia alle cose inanimate, dalle automobili ai frigoriferi, alle lavastoviglie, superati dalla tecnica e logorati dall’uso, non va usata per le persone, le quali meritano assolutamente rispetto soprattutto se anziane. Anzi, si è sempre detto che il rispetto per i vecchi misura il grado di civiltà di quella che si ritiene effettivamente una comunità che nei senati ha costantemente riunito gli anziani, i saggi.

Ma torniamo a Gentiloni, un premier che si presenta in giacca e cravatta, eleganza sobria come deve un Presidente del Consiglio, dà l’impressione della fermezza, di stare in quel posto con la consapevolezza del ruolo, un eloquio garbato, ragionato, laddove Renzi esibiva camicie candide, presto intrise di sudore, assai spesso urlando.

Gli italiani non amano la politica urlata, soprattutto quando proveniente dal governo che, a differenza dell’opposizione, legittimata dal suo ruolo ad alzare i toni della polemica, avendo la forza della sua maggioranza, ha il potere per fare le cose che promette. Per cui la polemica della forza di governo rivela spesso l’incapacità di fare, nascosta dietro accuse agli avversari interni ed esterni che non lo consentirebbero, una sorta di excusatio non petita. E questo hanno evidentemente pensato gli italiani che, in massa, hanno detto “NO” a Renzi prima che alla sua sconclusionata riforma della Costituzione. Anche se chi l’ha capita, per dirla con Maurizio Crozza, ha presto compreso che quella proposta non avrebbe giovato alla democrazia, non avrebbe effettivamente semplificato le procedure parlamentari e di governo e ridotto i costi della politica, ma era diretta alla conquista del potere.

Quale destino, dunque, per Gentiloni? Escluso che stia lì a tenere calda la sedia a Renzi, che per rioccuparla dovrà sudare le classiche sette camicie cercando di tenere in pugno un partito dalle molte anime il più delle volte non convergenti su un’unica sponda, incurante degli inviti alla prudenza, a “riprendere fiato”, come quello che viene oggi dalle colonne del Corriere della Sera da Antonio Bassolino, intervistato da Marco Demarco, uno che ben conosce e sa interpretare quel che agita le menti ed i cuori della Sinistra. Per certi versi, infatti, la prospettiva elettorale che sollecita quotidianamente crea al leader del Partito Democratico più problemi di quanti ne possa risolvere, tra il desiderio di punire i ribelli e i tiepidi e il proposito di portare in Parlamento i fedelissimi. Mentre D’Alema il quale, ad onta della scarsa simpatia dell’uomo, soffia sul fuoco, sembra vantare un appeal elettorale stimato sul 10 - 15% in caso di scissione. Il vecchio leone, che ha scaldato i muscoli nella lunga campagna elettorale per il NO nella quale non si è risparmiato, scalda oggi il cuore della sinistra ex comunista che già in Francia ha mostrato un revival inatteso nelle primarie del partito socialista con la vittoria di Benoît Hamon sul moderato Manuel Valls, che proponeva una convergenza al centro. Sullo sfondo l’antica, difficile convivenza tra ex comunisti ed ex Margherita che si sentono orfani della Democrazia Cristiana che ancora guardano con non celata nostalgia alla stagione degli Andreotti, dei Fanfani, dei Forlani e dei Moro, uomini di valore, “cavalli di razza” come si usava dire, da tutti riconosciuti, uomini di partito e governanti che ricordano la stagione migliore dell’economia italiana, quella più favorevole alla classe media, con il benessere diffuso che l’aveva alimentato. Mentre, in fin dei conti, la successiva crisi economica sarebbe conseguenza dell’ingresso delle sinistre nei palazzi del potere, a cominciare dal Partito Socialista guidato quel Craxi, esuberante e guascone, e certamente spendaccione, con il quale il debito pubblico ha superato il milione di miliardi di lire.

Il moderato Gentiloni a Palazzo Chigi certamente “fa comodo” al PD in questo momento difficile nel quale il partito rischia di esplodere come dimostra, oltre alla ricordata posizione di D’Alema, l’iniziativa di Michele Emiliano che dalla Puglia muove la rivolta contro Renzi, al punto da minacciare il ricorso alla carta bollata se non si terrà il congresso prima delle elezioni. Un rischio che Renzi sembra non individuare o, forse, sottovaluta. O teme che tra i pericoli ci sia proprio Gentiloni che cresce nella considerazione della gente ed è guardato con simpatia dai peones, i parlamentari alla prima legislatura che attendono la pensione dopo quattro anni, sei mesi e un giorno di esercizio delle funzioni, sul finire del 2017. Gentiloni “il calmo”, che conosce le regole del potere, che così consolida la sua immagine. Il Presidente del Consiglio ha creato un clima nuovo a Palazzo Chigi. Con lui i membri del governo si sentono più liberi di proporre le iniziative che competono loro, laddove era Renzi che dettava l’agenda delle proposte che presentava all’opinione pubblica concentrando su di se l’immagine stessa del governo. Con Gentiloni si può parlare non solo ascoltare, e ci si può confrontare con i tecnici qualificati per approfondire programmi, iniziative e provvedimenti. Infatti a Palazzo Chigi tornano tecnici nuovi, conoscitori dell’amministrazione e della finanza, persone affidabili con esperienza, quella che è mancata costantemente ai giovani esuberanti del Giglio Magico. Insomma Gentiloni ha portato un clima di fattiva collaborazione nella gestione ordinaria dell’amministrazione che poi è l’effettiva forza dei governi. Che è fatta soprattutto dei provvedimenti che mandano avanti la gestione che interessa i cittadini e le imprese. Con passo felpato il nuovo inquilino di Palazzo Chigi rassicura gli animi esacerbati dallo scontro referendario condotto senza esclusione di colpi, con l’invasione degli spazi televisivi e con un linguaggio ancora una volta volgare come quando Renzi definì “accozzaglia” lo schieramento del “NO” solo per essere formato da persone provenienti da differenti orientamenti ideologici e culturali. Da questo punto di vista Gentiloni giova anche all’ex premier, più di quanto lo danneggi, il tratto moderato con il quale si presenta. In fin dei conti allontana dal ricordo degli italiani, che non l’hanno gradito come dimostrano i risultati del 4 dicembre 2016, la stagione urlata da Palazzo Chigi e dal Largo del Nazareno.

1 febbraio 2017

 

 

 

 

 


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