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AGOSTO 2017

Il caso Regeni: la verità introvabile

di Salvatore Sfrecola

 

L’unica cosa certa nel caso Regeni è che non sapremo mai la verità. Quella autentica, con nomi e cognomi dei mandanti e degli esecutori di questo orrendo delitto. Lo sanno anche i politici ed i giornalisti che dicono e scrivono, giustamente indignati perché un giovane cittadino italiano, in Egitto per motivi di studio, è stato rapito, sottoposto ad interrogatorio e torturato fino a morirne. Perché nulla, neppure il sospetto che il giovane fosse, magari inconsapevolmente, una spia, al servizio di chi lo ha incaricato delle ricerche che stava svolgendo, può giustificarne il sequestro e la morte.

La storia ci insegna che fatti di questo genere è possibile accadano ove i diritti delle persone, anche se affermati in una legge, sono soggetti a tutela variabile. Spesso a nessuna tutela effettiva, in presenza di una “ragione di stato” come potrebbe essere avvenuto nel caso di Guido Regeni, probabilmente sospettato, svolgendo un ruolo di ricercatore per conto di una università del Regno Unito, quella di Cambridge, di fornire dati sull’attività sindacale che in quel paese è presumibile non goda della stessa libertà che caratterizza i paesi occidentali.

Il governo egiziano smentisce ogni coinvolgimento nella vicenda. E questo, ovviamente, va tenuto presente, anche perché, da quanto si legge le autorità, che comunque devono indagare per fornire elementi di conoscenza alla magistratura locale ed al Governo italiano, hanno dato versioni via via contrastanti, così ingenerando il sospetto che, invece, ne sappiano, e molto.

È credibile la posizione del governo egiziano, è possibile che quel che è accaduto non sia riconducibile all’iniziativa di un servizio pubblico di sicurezza forse troppo zelante? O talmente segreto da non ricadere sotto il controllo delle autorità?

L’Italia ha risposto con un gesto forte nei rapporti internazionali, immediatamente prima della rottura delle relazioni diplomatiche, il ritiro dell’ambasciatore, e continua a chiedere di sapere con certezza documentata cos’è accaduto.

Detto questo occorre fare chiarezza riprendendo le fila degli eventi ed esaminarli sulla base di due ipotesi teoricamente possibili, quella del coinvolgimento diretto di autorità egiziane, la più probabile, probabilmente l’unica, e quella della sua estraneità agli eventi.

Secondo la prima ipotesi, il giovane Giulio Regeni sarebbe stato fermato perché sospettato di acquisire dati che avrebbero potuto essere utilizzati a danno dell’immagine dell’Egitto sotto il profilo della scarsa tutela dei diritti dei lavoratori in quel paese. Nel senso che, anche se teoricamente neutri, potevano sempre essere interpretati ad uso di chi volesse ad esempio trarne elementi di supporto all’opera critica dell’opposizione interna o dei critici esterni di un regime politico che non è propriamente liberale come noi lo intendiamo. E può essere accaduto, come si legge su alcuni giornali, che qualcuno abbia “venduto” il giovane ricercatore ai servizi di sicurezza, magari enfatizzando l’attività che andava svolgendo. Non sarebbe il primo caso che viene gonfiato il valore di una informazione trasmessa allo scopo di alzare il prezzo o per affermare l’utilità del ruolo dell’informatore.

Venduto a chi? È immaginabile ai servizi di sicurezza egiziani. Ed è altrettanto immaginabile, come accade ovunque, che la sicurezza di un paese, specie se di dubbia democrazia all’occidentale, possa essere affidata a più organismi anche informali, che magari rispondono a diverse istituzioni. Ad esempio al ministero della difesa o dell’interno o a qualche corpo militare, enti tra i quali, spesso, non si ha collaborazione ma concorrenza, a fini di lotta interna di potere o anche solamente per apparire più affidabile all’autocrate di turno.

A questo punto il giovane torturato non ha fornito le informazioni che ci si attendeva perché probabilmente non ne aveva o non ne aveva consapevolezza, nel senso che i dati singoli che poteva aver fornito all’università committente avrebbero potuto diventare importanti solamente a seguito di una elaborazione in concorso con informazioni da altri acquisite. Un passaggio ulteriore che il giovane probabilmente non era in condizioni di fare o che comunque non spettava a lui fare.

Che fare, dunque, di Regeni una volta “interrogato”? Certo non era possibile lasciarlo andare malconcio, anche se il torturatore si fosse fermato per tempo. Morto, si è scelto di abbandonarlo per strada, come se fosse stato vittima di una aggressione o di un incidente. E qui i conti non tornano, perché è evidente un errore marchiano da parte di professionisti della lotta segreta e della tortura. I quali non avrebbero potuto trascurare che un cittadino straniero, tra l’altro ricercato perché scomparso, una volta rinvenuto in quelle condizioni sarebbe stato oggetto di accertamenti medico-legali i quali avrebbero immediatamente rese palesi le ragioni della morte. Perché non far sparire il corpo o immaginare un diverso esito, ad esempio un incidente stradale con incendio del mezzo al punto da renderlo irriconoscibile, da identificare solamente attraverso l’esame del dna o di un documento rimasto miracolosamente incombusto in una borsa magari volata fuori nel mezzo al momento dell’impatto? Uno svarione inimmaginabile da parte di un servizio di sicurezza con un minimo di “professionalità”. Che potrebbe avvalorare la seconda ipotesi, quella che il cadavere di Regeni sia stato gettato lì per danneggiare il governo.

È è teoricamente possibile, infatti, che, a sequestrare e ad uccidere Regeni, sia stata qualche organizzazione nemica del regime, perché ne fosse incolpato e messo in difficoltà rispetto all’Italia e, per quanto possibile, all’opinione pubblica interna ed internazionale. Se così fosse l’obiettivo sarebbe stato pienamente raggiunto perché, in fin dei conti, l’opinione pubblica è contro il governo egiziano il quale non può altro che dire, ma non dimostrare, di non essere coinvolto nella vicenda. Sembra abbia tentato ma senza successo.

La verità, dunque, non si conoscerà mai. Ha fatto bene l’Italia a pretendere dalle autorità egiziane chiarezza, che spieghino come è stato possibile che un cittadino italiano con passaporto europeo, sia stato rapito e torturato, identificando i responsabili, chiunque siano. Fa bene la nostra magistratura ad indagare ricercando la difficile collaborazione di quella egiziana a sua volta destinataria di insufficiente collaborazione da parte governativa. Ed è comprensibile che la famiglia, sconvolta dall’orrendo delitto, abbia manifestato critiche al Governo italiano che, a suo giudizio, avrebbe di fatto attenuato l’iniziale protesta inviando nuovamente al Cairo l’Ambasciatore. Né si può pretendere dai genitori del ragazzo ucciso che comprendano le ragioni politiche che hanno indotto il Governo italiano a “normalizzare” i rapporti diplomatici, in considerazione di pressanti esigenze di collaborazione, ad esempio nella lotta al traffico di uomini.

E comunque l’Ambasciatore ha anche il compito di ricordare giorno dopo giorno al Governo egiziano l’esigenza di collaborare alle indagini della magistratura egiziana ed italiana.

Una bruttissima vicenda, che troppi, al di là ed al di qua del mare, hanno avuto difficoltà ad affrontare sul piano politico, come spesso accade a questioni obiettivamente complesse. A cominciare dall’Europa della quale Giulio Regeni era cittadino e che avrebbe potuto svolgere un ruolo forte a fianco dei quello del Governo italiano per pretendere un impegno nelle indagini dalle autorità egiziane. Le quali, diciamocelo chiaramente, non hanno dato rilievo alla vicenda né si sono preoccupate delle possibili reazioni dell’Italia, che ci sono state come abbiamo visto, né di quelle dell’Europa, che invece non ci sono state. Ma certo non potevamo attenderci molto dalla Mogherini, l’evanescente Alto Commissario per la politica estera e di sicurezza.

Resta l’angoscia della famiglia Regeni, dolorosa e crescente, alla quale dobbiamo la nostra solidarietà di cristiani e di italiani.

25 agosto 2017

 

 

Figuraccia internazionale

Il 112 non decolla

e c’è chi cerca di sabotarlo

di Salvatore Sfrecola

 

L’avvio della riforma è stata faticosa e c’è già chi lavora per affossarla, enfatizzando ogni incertezza e più di qualche disservizio, invece di spingere per superare le difficoltà che sono la dimostrazione plastica di come in Italia, purtroppo, sia arduo semplificare la vita dei cittadini in un contesto di efficienza. È la vicenda dell’attuazione del 112, il Numero unico europeo delle emergenze (NUE), che leggiamo sulle auto della polizia e sulle ambulanze europee e perfino in Turchia. Raccomandato già del 1976 dal CEPT, la Conferenza Europea delle amministrazioni delle Poste e delle Telecomunicazioni, è attivo da anni in tutti gli stati dell’Unione e in molti altri in tutto il mondo, dalla Russia alla Svizzera, dall’Ucraina all’Islanda, alla Norvegia. Ovunque, componendo il 112, si viene messi in contatto con il sistema di emergenza.

Istituito per tutta l’Unione nel 2004, perché entrasse in vigore ovunque nel 2008, il NUE prende le mosse dell’esperienza degli Stati Uniti d’America dove il 911, che abbiamo imparato a conoscere dai polizieschi made in USA, funziona benissimo. Al punto che se negli Stati Uniti o in Canada qualcuno compone il 112 le chiamate d’emergenza vengono trasferite al 911. Lo stesso avviene anche in alcuni Paesi dell’America latina, nel Costa Rica, ad esempio, e in alcune regioni dell’Oceano pacifico meridionale, a Vanuatu e in Nuova Zelanda.

Nel 2008, quando la maggior parte degli stati membri dell’Unione aveva già dato attuazione alla direttiva comunitaria, l’Italia cominciava a fare “sperimentazioni” nelle provincie di Biella, Brindisi, Modena, Pistoia, Rimini e Salerno. Tra mille difficoltà, tanto che il nostro Paese è stato sanzionato dalla Corte di Giustizia dell’UE a seguito del ricorso presentato dalla Commissione nel 2007. È del 15 gennaio 2009 la sentenza dei giudici europei i quali hanno ritenuto inconsistenti le misure sperimentali adottate dall’Italia e le “difficoltà” eccepite a giustificazione del ritardo. Sanzione inizialmente sospesa a seguito di nuove giustificazioni presentate a Bruxelles e della buona volontà dell’Arma dei Carabinieri, in atto titolare del 112, che aveva dato dimostrazione di poter in qualche modo sopperire alle esigenze, tra l’altro assicurando la presenza di operatori capaci di rispondere in varie lingue. Ma alla Commissione non si sono accontentati ed è venuto un nuovo richiamo con minaccia di sanzioni onerosissime. Eppure, con l’avvento del Giubileo del 2015 a Roma e provincia era stata disposta l’attivazione del Numero Unico. Dotato di 34 postazioni, con circa 80 addetti a conoscenza di 14 lingue, per un totale di 6 milioni di potenziali di utenti, il servizio ha dato buona prova sull’intero territorio regionale. A conferma che siamo il Paese delle emergenze, dei “grandi eventi”, nei quali, con sovrabbondante e disinvolto dispendio di risorse, si riesce a fare presto e, spesso, bene, quando non emergono gravi irregolarità negli appalti e nella esecuzione dei lavori.

Nonostante nel 2009 la Commissione europea, il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione avessero adottato una risoluzione che ha istituito l’11 febbraio la “Giornata europea del 112”, si è dovuto attendere il 20 gennaio 2016 perché il Consiglio dei ministri approvasse il decreto attuativo per lintroduzione in Italia del NUE e decollasse, sulla carta, la riforma prevista ben otto anni prima, sperimentata ma rallentata dalla tipica mentalità italiana della difesa strenua dell’orticello delle competenze. Come accade nelle amministrazioni dello Stato quando, nel concorso di più uffici in un procedimento, si ricerca un accordo nella composizione dei vari interessi intestati ai singoli. Tra chi deve adottare l’atto finale, chi assicurare il concerto, chi rilasciare un parere, per cui si deve ricorrere alle “conferenze di servizi” per conciliare i vari interessi coinvolti, ai fini della decisione finale. Difficile, difficilissimo procedere presto e bene. Ognuno difende la propria specificità, non di rado con effetti negativi sull’efficienza della stessa amministrazione e sulla tutela degli interessi primari dello Stato.

E così il 112, destinato a costituire il riferimento unico di più istituzioni, l’Arma dei Carabinieri (112), la Polizia di Stato (113), il Corpo dei vigili del fuoco (115), il soccorso sanitario (118) non poteva non subire i veti incrociati, i richiami alle diverse specificità, alle competenze, alle priorità. Nessuno vorrebbe perdere o veder declassato il proprio numero e lo fa eccependo una specifica efficienza quanto ai tempi di risposta. Intanto il sistema non decolla se non in alcune realtà (si deve dire, ancora una volta, prevalentemente al Nord, in Lombardia) per cui è inevitabile che accadano disfunzioni, le quali a volte hanno causato gravi danni alle persone. E così, in occasione di un recente ritardo in un caso di emergenza sanitaria, si è addirittura titolato: “Il 112 ha un altro morto sulla coscienza”, senza neppure una parola che individuasse le responsabilità di chi ha attuato o sta attuando e/o gestendo il servizio. Si fa demagogia a basso costo accreditando le “ragioni” di chi non vuole innovare, infischiandosi di quel che accade in Europa e della figuraccia che il nostro Paese fa ed ha fatto nei confronti dell’Unione e dei turisti che a milioni vengono in Italia. Ai quali non interessano le beghe tra i “titolari” dei vari numeri ma vogliono sapere se, come accade nel loro paese, hanno un riferimento certo ed efficiente in caso di aggressione, di incendio, di preoccupazioni per la salute. Si è letto di “Bufera sul 112” con la scusa che “l’obiettivo del 112 è ancora lontano, e in alcune regioni che l’hanno già introdotto si registrano troppi ritardi e reclami”. Ancora lontano? Siamo a dieci anni dalla data prevista nella direttiva comunitaria e da quando gli altri stati dell’Unione vi hanno dato attuazione! E nessuno si vergogna!

A dieci anni anche dalle prime sperimentazioni la riforma procede a macchia di leopardo nonostante la lunga sperimentazione che ha dimostrato possibile, senza eccessive difficoltà (che, infatti, non hanno trovato altri in Europa) l’instradamento delle chiamate tra le centrali operative di Carabinieri e Polizia di Stato (anche per le competenze territoriali dei due corpi di polizia), con la localizzazione del chiamante e il trasferimento di quelle del soccorso tecnico e sanitario alle competenti centrali operative dei Vigili del Fuoco e del Soccorso Sanitario, le quali hanno accesso al sistema di localizzazione delle chiamate anche per le telefonate ricevute sulle linee 115 e 118,

A partire dal 2017 in molte città italiane viene adottato il numero unico con standard GSM riconosciuto da tutte le reti. Le chiamate al 112 vengono indirizzate alla Centrale unica, anche se i numeri di emergenza nazionali rimangono tuttora validi.

Il modello è quello di PSAP 1 (Public safety answering point) Centrale di Primo Livello, che risponde a tutte le chiamate dirette al 112, indirizzandole, dopo la localizzazione del chiamante ed una breve intervista per accertare la veridicità e il grado del pericolo della richiesta, al PSAP di II livello (pubblica sicurezza, vigili del fuoco o emergenza sanitaria) più adatto alla situazione. Così, componendo qualsiasi numero dell’emergenza (112, 113, 115, 118) il cittadino entra in contatto con l’operatore della Centrale Unica di Risposta del Servizio Emergenza, che si posiziona tra l’utente e le centrali operative specifiche (Pubblica Sicurezza, Arma dei Carabinieri, Vigili del Fuoco ed Emergenza Sanitaria).

Riusciremo ad adeguarci al resto dell’Europa ovunque in Italia, o avremo ancora regioni a risposta differenziata? Ma quanto dura il processo di unificazione dell’Italia avviato il 17 marzo 1861?

(da La Verità del 19 agosto 2017 a pagina 12)

 

 

 

 

NO all’istruzione superiore di quattro anni.

Riflessioni del Prof. Michele D’Elia, già Preside, Direttore di Nuove Sintesi

 

In forma di comunicato stampa il Professor Michele D’Elia, già Preside in istituti di istruzione secondaria di primo e secondo grado, Direttore della Rivista Nuove Sintesi, ha manifestato il suo aperto dissenso rispetto alla proposta, avanzata dal Ministro per l’istruzione, Valeria Fedeli, di modificare la durata dei corsi della scuola media superiore, sia pure in via sperimentale.

Osserva il Prof. D’Elia:

1)              I programmi, da anni sono diventati “linee guida”, vale a dire il nulla, nel quale ciascuno propone agli studenti ciò che gli pare. In questo nulla entra a pieni titolo la sperimentazione quadriennale, già condotta alla chetichella.

2)              Sempre uguale il copione: per abolire il latino nella scuola media, il governo di allora lo rese facoltativo, nessuno lo scelse più, subito dopo fu abolito formalmente. A maggior ragione oggi nessuno studente sceglierebbe un istituto di cinque anni. I politici, Ministro in testa, grideranno al successo della sperimentazione.

3)              I quattro anni di corso sono una bufala espunta dopo la sperimentazione dello scientifico 1923-1928 portato a cinque anni, nel 1930, dallo stesso Gentile.

4)              All’estero, esperienza professionale, la scuola italiana è ancora considerata di alto livello; non c’è ragione di scopiazzare sistemi che non ci appartengono.

5)              L’ingresso anticipato nel mondo del lavoro, che nemmeno si vede all’orizzonte, è pretesto ipocrita per continuare a demolire la scuola pubblica e per disporre nell’industria di manovali con il colletto bianco.

Le sue considerazioni:

Il ministro Berlinguer elevò a cinque anni l’efficace istituto magistrale, sostenendo che quattro non erano adeguati alla società contemporanea; oggi, la stessa parte politica abbassa a quattro tutto l’impianto, connivente la cosiddetta opposizione. Chissà perché in agosto …

I docenti universitari, che già si lamentano dell’ignoranza di base dei loro studenti, saranno soddisfatti. Hanno sotto gli occhi il fallimento della laurea triennale.

17 agosto 2017

 

 

Da appunti, lontani nel tempo ma attualissimi

Passeggiando per le strade di Roma, tra disservizi e “puzza” (che è di Destra e di Sinistra). Considerazioni e prudenti suggerimenti

di Salvatore Sfrecola

 

L’articolo riproduce, con alcune integrazioni, aggiornamenti ed ampliamenti, l’articolo pubblicato ieri, 15 agosto, da La Verità a pagina 17 ed intende rappresentare un contributo obiettivo e stimolante per il Sindaco e la Giunta comunale guidata da Virginia Raggi nella considerazione che gli interessi di Roma e dei romani prevalgono rispetto agli orientamenti degli schieramenti politici che si sono confrontati nelle elezioni comunali del 2016 ed a quelli che si vanno delineando nella prospettiva (o nella speranza) che l’attuale maggioranza deluda e possa portare alla fine anticipata della Consiliatura Capitolina. L’Autore si augura che il Sindaco voglia apprezzare questo contributo e trarne insegnamento, mettendo in atto alcuni comportamenti capaci di restituire efficienza all’apparato e fiducia ai cittadini.

 

Mi colpì molto anni addietro un amico che, a proposito delle sue ferie, mi disse di averle sistematicamente trascorse a Roma nel mese di agosto. E ne spiegò le ragioni: la possibilità di riappropriarsi della Città liberata da gran parte del traffico e quindi di godere delle sue bellezze naturali e architettoniche, assaporando la frescura dei suoi parchi pluricentenari e dei viali alberati che l’attraversano. Ma anche di visitare musei e aree archeologiche mischiandosi alle comitive variopinte dei turisti italiani e stranieri che l’affollano in questi giorni più di sempre.

Roma, comunque la città più desiderata, anche se le statistiche dicono di un turismo veloce, “mordi e fuggi”.

In effetti, mai come ad agosto ci si può immergere nella Città più bella del mondo, che possiamo definire unica, perché solamente a Roma si possono ammirare monumenti della civiltà lungo quasi tremila anni, gli acquedotti, le terme, i templi che attestano la civiltà dell’accoglienza, anche dei culti, gli stadi, i palazzi del potere e, via via, fino ad oggi gli immobili della storia civile, politica e religiosa, splendide architetture in un contesto ambientale del tutto particolare, i lungotevere, i colli che l’hanno resa famosa. La Città che, come nessun’altra, possiede un patrimonio arboreo ricco e variegato, ovunque, non solamente nelle ville famose, dalla Borghese alla Doria Panfili alla Sciarra o lungo i viali della Roma Umbertina. Come nel quartiere Delle Vittorie, dove vivo e prevalentemente lavoro, con i viali dalla possente alberatura di platani centenari, Giulio Cesare e delle Milizie. E poi anche strade minori arricchite di piante fiorite, ovunque, da Via Ricciotti dagli oleandri enormi con i rami piegati dal peso dei fiori, a via Paolucci de’ Calboli ricca di HIbiscus odorosi, a Via Silvio Pellico dai Tigli profumati. E ancora gli oleandri maestosi di via Cornelio Nepote, alla Balduina.

La Città che, illuminata dal sole che rende magici gli scorci dell’antico e del moderno, mette in mostra anche le sue carenze. Che risaltano agli occhi del cittadino e del visitatore. Partendo dalla ammirata alberatura va detto, infatti, che il Servizio Giardini del Comune di Roma, un tempo fiore all’occhiello dell’Amministrazione capitolina, con il suo orto botanico straordinario ed i suoi tecnici specializzati, marcia oggi a ranghi ridotti. Molti servizi sono trascurati, altri abbandonati. Come il sistema di innaffiatura a goccia. Francesco Rutelli, da Sindaco, volle che la barriera spartitraffico di viale Cristoforo Colombo fosse abbellita da fiori e arbusti e innaffiata automaticamente. Tutti ricorderanno che percorrendo quella importante arteria in alcuni orari gli zampilli bagnavano oltre le aiuole anche la strada e le auto in transito. Oggi non più. Le aiuole spartitraffico non hanno fiori né arbusti ma mostrano in bella vista i tubi dai quali non è erogata più acqua. Rutelli lo ha denunciato qualche mese fa a Porta a Porta, ma non è accaduto nulla. I tubi sono ancora a secco. Come in viale Mazzini, anche dinanzi alla Corte dei conti che dovrebbe ricondurre la civica amministrazione nelle sue varie articolazioni ad una gestione oculata del denaro pubblico. Evidentemente al Municipio non temono che la Procura regionale chieda conto di quel servizio pagato e interrotto.

Cos’è accaduto? C’è un contratto non rinnovato o inadempiuto? O non adempiono gli uffici del Comune?

Ancora nell’afa agostana, qualche giorno fa ho affiancato al semaforo al crocevia, tra via Nomentana e viale 21 Aprile, un filobus della linea 90 nel quale i passeggeri si sventolavano alla ricerca di qualche refrigerio. Erano trascorse da poco le 16. Immagino non funzionasse l’aria condizionata, anche perché il conducente teneva il finestrino aperto. O forse non voleva attivare l’impianto, come mi hanno riferito più volte passeggeri dei mezzi ATAC. Come i conducenti dei taxi che sfrecciano con i finestrini aperti, incuranti di quella ospitalità che dovrebbero dimostrare nei confronti degli utenti, non solamente degli stranieri abituati a ben altro confort. Il risultato è che una corsa anche di dieci minuti si trasforma in una sauna intollerabile, in un mezzo con alla guida un conducente spesso maleodorante.

Poi c’è il problema della pulizia della Città e dei cassonetti.

Ne avevo scritto più volte in passato. Così mi è capitato in questi giorni, nel mettere ordine tra i miei libri ed i miei articoli, con l’aiuto del mio bibliotecario di fiducia, come si è definito il mio nipotino Leonardo, di ritrovare alcuni pezzi del 2008, attualissimi perché scritti a proposito delle “maleodoranti strade di Roma”. Firmavo, per questo Giornale con lo pseudonimo di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che, da cavallo, osserva ancora oggi la Città dalla piazza del Campidoglio, immaginavo senza molta soddisfazione, quanto al traffico e alla pulizia. E mi chiedevo se la “puzza”, come diciamo noi romani, cioè il fetore che proviene dalle strade e dai cassonetti, sia di Destra o di Sinistra, per concludere che è responsabilità di entrambi gli schieramenti, considerato che gli uni e gli altri hanno indegnamente amministrato la Capitale d’Italia.

Più articoli tra aprile e settembre di quell’anno. Iniziavano con un ricordo, neppure molto lontano, quando con i primi caldi facevano la comparsa nelle strade di Roma le autobotti che irroravano l’asfalto, eliminando lo sporco che si accumula giornalmente, la polvere grassa e appiccicosa, i residui oleosi delle autovetture. Quell’acqua attenuava in qualche modo anche la sensazione dell’afa. Un tempo, dicevo, perché oggi quei mezzi, tra l’altro immortalati in un celebre film di Totò, non si vedono più e noi romani dobbiamo pazientemente attendere che a pulire la nostra Città ci pensi il Padreterno. Il quale, evidentemente commosso dalle preghiere dei Quiriti, quell’anno vi aveva provveduto già ai primi di aprile, in modo egregio, anche eccessivo, quando Roma si era allagata in più punti, a dimostrazione che non viene attuata neppure la manutenzione degli scarichi delle strade, le caditoie, quell’elemento del sistema di drenaggio urbano che serve ad intercettare le acque meteoriche (o di lavaggio delle strade) che scorrono in superficie. Queste, se non liberate dalle foglie, non consentono il deflusso delle acque. Anche ai margini dei ponti sul Tevere, dove sarebbe facilissimo fare una canaletta che porti l’acqua piovana al fiume. A lungotevere Flaminio, ad esempio, all’angolo di ponte del Risorgimento, in direzione Stadio Olimpico sulla riva sinistra, si forma sistematicamente una pozza che arriva quasi al centro della strada. Nel 2008 (anche d’inverno ovviamente). Ugualmente nel 2017. Segno che nessuno delle migliaia di vigili, funzionari, amministratori della città che passano di lì tutti i giorni si è dato carico di una segnalazione a chi di dovere. Un lavoretto di quelli che si fanno “in economia”, spesso senza una gara, neppure informale, perché affidato all’impresa aggiudicataria dell’appalto della manutenzione delle strade.

Incuria, disattenzione, incapacità di gestire, presunzione di una classe politica municipale modestissima (oggi sono in vena di complimenti!) ma arrogante. E non è questione di Destra o di Sinistra perché questo giudizio negativo coinvolge comune e municipi, chi ha governato e chi sta o è stato all’opposizione, in ogni caso incapaci di farsi portavoce del disagio della gente. Modesta anche la classe amministrativa.

Governare significa assumersi responsabilità rispetto alle molteplici e diverse esigenze di una comunità. Esigenze di lungo periodo, che corrispondono a progetti “politici” nello sviluppo e nell’assetto di una città, che esprimono la “filosofia” di una politica del territorio e del sociale. Poi vi sono richieste “minori”, ma essenziali per la cittadinanza, la viabilità, la sicurezza nelle strade, l’illuminazione, i marciapiedi. Perché le autovetture devono poter circolare agevolmente, trovare un parcheggio, quanto più possibile in tempi brevi, ad evitare il girovagare con effetti inquinanti evidenti. La gente deve poter camminare sui marciapiedi, spesso ridotti in condizioni che impediscono la deambulazione di chi ha difficoltà motorie, o spinge carrozzine, come le mamme o le nonne, o le carrozzelle. I marciapiedi sono sconnessi, coperti a tratti con asfalto sovrapposto a precedenti interventi, le classiche “toppe”, o con pietre che si muovono sotto i piedi perché non fissate o rotte. Un esempio, tra tanti, il marciapiede prospicente il cinema Adriano a piazza Cavour. Ho chiesto ad un mio amico ingegnere se fosse un problema di materiali scadenti e di messa in opera. Mi ha risposto “l’uno e l’altro”. Mi chiedo da sempre chi abbia collaudato quei lavori e chi abbia disposto la liquidazione della spesa.

Strade ingombre di foglie che, alle prime piogge diventano trappole, micidiali con l’imbrunire in assenza di adeguata illuminazione. Qualche anno fa, in una serata buia e piovosa, all’incrocio tra viale delle Milizie e Via Carlo Alberto Dalla Chiesa un anziano con impermeabile nero fu urtato da un autobus. Il conducente non se ne accorse e l’uomo, rimasto a terra privo di sensi, fu travolto da altri mezzi pubblici perché chi era alla guida, tra mucchi di foglie e pozzanghere in un fondo stradale sconnesso, non aveva notato quel fagottone, neppure sotto le ruote.

Strade poco o per nulla illuminate, come i tunnel di Corso d’Italia o quello al quale si accede da via di Porta Cavalleggeri. Pericolosissimi anche per le pozze d’acqua lungo i bordi.

Tornando all’estate, nella lettura dei miei articoli del 2008 e degli appunti che avevo preparato i vista di quei pezzi ritrovo altre annotazioni. Ormai siamo a settembre. C’è ancora la speranza che Giove Pluvio voglia donare ai Quiriti un po’ di refrigerio con gli acquazzoni autunnali, di quelli tipici dell’Urbe, violenti ed abbondanti, quando piove “a goccioloni”, come si dice qui. Anche nel 2008 arrivarono, come sempre, in barba ai cultori delle variazioni climatiche, e le strade diventarono fiumi di schiuma giallastra maleodorante. Che non fu in grado di defluire rapidamente perché le famose caditoie a settembre sono ancor più intasate che in primavera dalle foglie cadute tra giugno e agosto, che nessuno raccoglie.

Diciamo la verità, Roma è una delle città più sporche del mondo. Ovunque, non solo le capitali, le città storiche sono oggetto di quell’attenzione alla quale il cittadino tiene molto, che marca la differenza, e che ha influito negativamente sull’esito di alcune competizioni elettorali. All’indomani della vittoria di Giorgio Guazzaloca a Sindaco di Bologna si è letto che la Giunta di sinistra era caduta sulle cacche dei cani. Animali meravigliosi, che amo tantissimo, che spesso hanno padroni maleducati, irrispettosi dei loro concittadini. Nei loro confronti fu minacciata anni fa una severa sanzione se non avessero avuto sacchetto e paletta per rimuovere gli escrementi del loro “Fido”. Mi piacerebbe sapere quante multe sono state elevate. Azzardo un numero, “zero” o vicino allo zero! Anni fa AMA aveva acquistato una serie di motociclette, mi sembra venti, per la raccolta delle deiezioni canine. Indagò la Procura della Corte dei conti perché sembra non fossero state mai utilizzate.

Nel 2008, quando scrivevo, si era appena insediata la nuova Giunta presieduta da Gianni Alemanno. Era logico nutrire qualche speranza, pensare ad una iniziativa straordinaria del Sindaco della Destra romana, ad una sorta di lavacro che avrebbe potuto assumere un significato simbolico, un cambio di passo, la rigenerazione dell’Urbe.

Niente da fare. Una non piccola delusione! La prima di tante altre che hanno avuto un esito scontato, la sconfitta del Sindaco e dei partiti che incautamente l’avevano appoggiato.

Sembra che gli amministratori capitolini non riescano a percepire quali sono i problemi veri dei cittadini. Eppure sono pochi, anche se non sempre è facile risolverli: il traffico, il servizio pubblico di trasporto, e la manutenzione delle strade, la pulizia. Cominciando dalle buche. Abituati a muoversi con auto di servizio dalle robuste sospensioni, che sfrecciano veloci, con i finestrini rigorosamente chiusi per non disperdere l’effetto dell’aria condizionata, gli amministratori capitolini non percepiscono lo stato del manto stradale e il cattivo odore che ammorba la Città. La classe politica di Destra e di Sinistra si rivela sempre più lontana dai problemi veri della gente.

“Pulizia, soddisfatto solo un romano su 3”, titolava il Corriere della Sera del 13 settembre 2008 nella cronaca di Roma. Gli altri due evidentemente hanno difficoltà di olfatto. Intanto Franco Panzironi, appena nominato nuovo amministratore delegato di AMA, dichiarava che “la situazione dei servizi di igiene a Roma è difficile e l’azienda versa in una condizione organizzativa confusa”. A fare chiarezza è stata la magistratura che ha individuato i responsabili di fatti di gestione illeciti, anche in questo carrozzone mangiasoldi. E su Panzironi si è abbattuta la scure della giustizia. Pochi giorni fa.

Oggi a Sindaco di Roma (mi perdoni, ma a me quel “Sindaca” proprio non va giù) è Virginia Raggi, del Movimento 5 Stelle, votata a larghissima maggioranza in un ballottaggio che nel 2016 le opponeva lo scialbo e triste Roberto Giachetti, uno “di prima”. Su Facebook scrissi in quei giorni che i romani non avevano bisogno di “giacchetti” in presenza di “raggi di sole”, un post che ebbe molto successo. E così, disgustati dalle precedenti esperienze, hanno avuto fiducia in lei, nel giovane avvocato che aveva svolto un ruolo di opposizione alla Giunta di Ignazio Marino. L’hanno votata ad occhi chiusi. A scatola chiusa, come si sentiva dire a Carosello nella pubblicità di un noto prodotto alimentare.

Nessuno la conosceva ma, devono aver pensato i romani, non potrà fare peggio dei suoi predecessori. Tanto che le perdonano ancora oggi incertezze, mancanza di uno staff già pronto all’uso, più volte integrato con qualche imbarazzo, le difficoltà che naturalmente incontra chi non conosce l’amministrazione, una struttura complessa, poco affidabile e difficile da guidare. Più di qualcuno non la rivoterebbe, ma prevale ancora in molti l’aspettativa che riesca a mettere in moto la macchina. “Famola lavorà porella. Damole tempo”, sentenziava giorni fa al mercato una arzilla romana “de Roma” rispondendo a chi criticava il Sindaco (non cambio!).

Ma almeno la “puzza” riuscirà ad eliminarla?

Il Movimento 5 Stelle, che l’ha candidata e l’appoggia, sembra aver trascurato di considerare che a Roma si gioca la speranza del Movimento di prevalere alle elezioni legislative del 2018, che la capacità di governare la Capitale sarebbe stata agli occhi dei più un momento di verifica dell’attitudine ad assumere maggiori responsabilità. Per loro fortuna Matteo Renzi ha talmente deluso che il Partito Democratico è in caduta libera nei sondaggi.

Tornando ad esempi di gestione della Città, nei giorni scorsi sono state eliminate un po’ di foglie accatastate lungo viale delle Milizie, un po’, solo un po’, per carità, di quelle accumulate nelle precedenti settimane. Lo avevo segnalato su Facebook con tre foto di vari punti dell’importante arteria che costeggia tre tribunali con notevole, continuo flusso di cittadini. È accaduto, infatti, che intorno alle 14 di venerdì 11 un buon numero di uomini e mezzi di AMA sia stato impegnato nella raccolta delle foglie la cui presenza minacciava la funzionalità delle caditoie al primo acquazzone.

Bene dunque AMA in questo caso. Ma male anche i privati, ad esempio il ristorante all’angolo tra viale delle Milizie e Via Silvio Pellico non si è peritato di togliere le foglie che si erano accumulate in quell’angolo, dinanzi alle colonnine che delimitano il marciapiede. Non aveva l’obbligo di farlo? Forse. Ma certamente sarebbe stato apprezzato dai clienti.

E mi chiedo se esiste o no una disposizione che imponga agli operatori economici con accesso sul marciapiede o ai condomini di tenere pulito il marciapiede antistante? Se non esiste questa regola sarebbe il caso fosse introdotta perché i cittadini devono contribuire alla pulizia della città e questa loro partecipazione al decoro delle strade è intuitivo che potrebbe contribuire al contenimento dei costi dell’azienda municipalizzata e, quindi, della tassa sui rifiuti.

Un invito al Sindaco agli assessori. Perché di tanto in tanto, ma senza preannunciarlo, non salgono su un autobus, sulla metro o si mettono in fila dinanzi ad uno sportello di un ufficio comunale? Perché, alla vista di una buca di quelle che più propriamente andrebbero chiamate voragini, non chiamano la manutenzione e rimangono sul posto fino all’arrivo dei tecnici? E della stampa. Così per altre disfunzioni.

Federico II di Svevia il Re e Imperatore che, ai suoi tempi, ha fatto stupire il mondo (fu definito, appunto, Stupor Mundi) amava andare al porto di Palermo o al mercato, la Vucciria, ed ascoltare, camuffato nel vestire, cosa dicevano i cittadini del suo governo e dei suoi funzionari. Se accertava disfunzioni nella sua amministrazione provvedeva immediatamente a rimediare e se scopriva che qualcuno usava la prepotenza o prendeva la classica mazzetta lo convocava e gli chiedeva conto del suo operato. E lo invitava a dimettersi. Spesso lo dimetteva lui stesso e, tenuto conto delle usanze del tempo, quelle dimissioni a volte non erano proprio incruente.

Infine Sindaco Raggi, Roma è stata devastata da incendi, come a Castelfusano. Alcuni dei piromani sono stati individuati ed arrestati. Li attende una pena lieve, come insegna l’esperienza. E assolutamente non dissuasiva. Perché l’Amministrazione non si costituisce parte civile nei processi penali chiedendo il risarcimento del danno? Si sente dire che è inutile perché i danni sono milionari, l’intervento degli uomini e dei mezzi per spegnere l’incendio costa molto, e nessuno degli imputati potrebbe risarcirli. Ma se fossero condannati a sborsare una somma significativa sulla base di una sentenza assistita da un sequestro, della casa, dell’automobile, del conto in banca, certamente la sanzione sarebbe maggiore e maggiormente dissuasiva rispetto all’evanescente e ipotetica condanna penale, lieve e il più delle volte sospesa. E se ad appiccare il fuoco è un minorenne deficiente (a sentire la stampa e l’avvocato difensore) o un disturbato mentale il sequestro si fa a carico dei genitori e di chi è responsabile della tutela. Il questo modo chi ha un minore deficiente o la responsabilità di un disturbato l’anno prossimo lo terrà chiuso a casa, almeno per il periodo estivo. E lo Stato e le Istituzioni recupereranno credibilità agli occhi del cittadino.

16 agosto 2017

 

 

 

Grande Guerra,

quarta dell’indipendenza italiana

di Michele D’Elia

 

Aspre sono le guerre. Aspra è la Prima Guerra Mondiale. Questa nasce da un groviglio di interessi economici e coloniali, di errori diplomatici e di egoismi politici, di pesi e contrappesi nazionali ed internazionali e di guerre locali. Concetti dei quali non aveva idea Gravilo Princip, assassino per caso di Francesco Ferdinando e della sua consorte Sofia Chotek il 28 giugno 1914, dopo il fallito primo tentativo nella stessa mattinata. L’Attentatore pensava che la morte dell’Arciduca, peraltro aperto alle richieste degli slavi, avrebbe liberato la Serbia e gli slavi meridionali dal dominio austriaco. Ne nacque, invece, un infernale domino, con la seguente scansione temporale:

23 luglio, ultimatum dell’Austria alla Serbia; 28 luglio, l’Austria dichiara guerra alla Serbia;

30 luglio, lo zar Nicola II, protettore degli slavi meridionali, ordina la mobilitazione generale;

31 luglio, Guglielmo II intima alla Russia e alla Francia di interrompere la mobilitazione entro12 ore; 1 agosto, dichiara guerra alla Russia e il 2 invade il Lussemburgo; il 3 dichiara guerra alla Francia; nella notte tra il 3e il 4 invade il Belgio, il 7 i tedeschi entrano a Liegi.

Lo stesso 3 agosto, l’Italia dichiara la propria neutralità, in forza dell’art. VII del Trattato della Triplice Alleanza. 4 agosto, l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania; il 6 anche l’Austria dichiara guerra alla Russia; il 9 e il 13 rispettivamente Francia e Regno Unito dichiarano guerra all’Impero austro-ungarico. Il 27, il Giappone interviene a fianco dell’Intesa; il 5 ottobre, la Bulgaria dichiara la propria alleanza con gli Imperi Centrali; il 31, la Turchia si schiera con l’Austria e la Germania.

Secondo una tesi propria anche di personalità come il Premio Nobel Thomas Mann, la Germania aggredisce per non essere aggredita, come Federico II ai tempi della Grande Coalizione.

L’esercito tedesco il 20 agosto occupa Bruxelles, il 3 settembre giunge Senlis a 35 Km da Parigi. Il Governo francese si era già trasferito a Bordeaux.

Anche questa sconosciuta velocità delle armate tedesche prelude e simboleggia le profonde trasformazioni dell’assetto tecnico, geopolitico, sociale ed economico, e soprattutto mentale, del vecchio continente e delle sue colonie. Infatti, la Grande Guerra sarà anche un conflitto coloniale; o, secondo Lenin, l’ultima frontiera del capitalismo.

Per tutti i Paesi europei la dichiarazione di guerra è quasi un automatismo; non così per l’Italia.

 

Il giovane Regno, vincolato agli Imperi Centrali dall’Alleanza firmata nel 1882 e confermata nel 1902, dovrebbe intervenire, ma non lo fa; motivo ufficiale: il patto è difensivo e non offensivo.

Nei fatti le cose stanno diversamente: l’Italia è un Paese di recente costruzione, ancora geograficamente incompleto, perché privo di alcune sue vaste regioni, sintetizzate, nella memoria collettiva, nei nomi di Trento e Trieste, perle dell’Impero. Le popolazioni della Penisola non sono amalgamate; milioni di cittadini, nonostante l’impegno della Monarchia, non sanno nemmeno leggere e scrivere. Gli italiani sono cattolici e rifiutano lo spargimento di sangue, anche se tra i cattolici emergono frange interventiste, che fanno capo a don Romolo Murri. La diplomazia è delusa dall’altalenare del Governo Salandra. Questa amarezza è manifesta in molta corrispondenza tra i vari Ambasciatori; un esempio: l’ambasciatore a Vienna Avarna il 5 ottobre 1914 rispondendo al collega di Berlino, Bollati, che gli aveva scritto il 25 settembre, lamenta che il Corpo Diplomatico “sia tenuto interamente all’oscuro del vero pensiero del Governo” e preannuncia l’intenzione di voler lasciare l’incarico “… non volendo rendermi complice dell’atto di slealtà che sta maturando”, ovviamente verso l’Austria-Ungheria. (Documenti Diplomatici Italiani)

Violente fibrillazioni scuotono il mondo politico: i socialisti e le Sinistre in generale pensano prima ad uno sciopero contro la guerra, poi si dividono in interventisti democratici e tradizionali. Benito Mussolini cambierà fulmineamente idea e campo: espulso dal P.S.I. fonda il Popolo d’Italia il 14 novembre 1914 e lancia una specie di grido di battaglia con l’articolo “Audacia!”. Il mondo operaio si riunirà a Zimmerwald, presso Berna, tra il 5 e l’8 settembre 1915; con un proprio Manifesto, detto appunto di Zimmerwald, contesterà la scelta dei socialisti europei di partecipare alla guerra ciascuno per il proprio Paese, in nome del sacro egoismo nazionale; ma il loro grido: “Proletari di tutti i paesi unitevi!”, cadde nel vuoto.

I socialisti italiani, in tale consesso, sono rappresentati da Lazzari, Serrati, nuovo direttore dell’Avanti! e Modigliani. I Futuristi, primo fra tutti Marinetti, ma anche Papini, Curzio Malaparte, le riviste La Voce, Lacerba, … i pittori Carrà, Carlo Erba, i matematici come Eugenio Elia Levi, architetti come Antonia Sant’Elia, scrittori come Serra, che cadranno in battaglia; gli irredenti Battisti ed i fratelli Filzi, si schierarono per l’intervento. Quasi superfluo ricordare Giuseppe Ungaretti e l’indigesto D’Annunzio. Tanti altri ancora come Monelli, Papini, Omodeo, Pertini, Lombardo Radice, Parri, Calamandrei, Pieri, Cecchi, Rebora, Volpe, l’anziano Bissolati, Amendola … non tutti futuristi e neanche nazionalisti, per dovere civico o libera scelta, parteciparono al conflitto, con diverse funzioni . Anche i repubblicani mazziniani sono per la guerra. Ogni nome rappresenta una storia diversa, ma un ideale comune: quello di Patria, pur diversamente declinato.

A fronte di queste minoranze più che vivaci, la classe politica liberale, che fa capo a Giovanni Giolitti, tiene un contegno molle ed incerto, segno di decadenza. Il Re tace. La Camera, contraddicendo un suo precedente e recente atto, il 20 maggio 1915 vota l’intervento contro l’Austria-Ungheria con 407 sì e 74 no; ma solo il 28 agosto 1916 dichiareremo guerra all’Impero germanico, segno che il secolare nemico è uno solo. Antonio Salandra, che si era dimesso il 13, viene riconfermato Presidente del Consiglio ed ottiene i pieni poteri. Il 22 maggio il Re firma il decreto di mobilitazione generale, il 23 l’ambasciatore a Vienna Avarna, consegna la dichiarazione di guerra al ministro Burian. Il 26 il Re, dal quartier generale Martignacco di Udine, lancia il suo primo Proclama ai soldati. Vittorio Emanuele III lascerà il fronte solo per risolvere le crisi di governo.

Il giovane Regno ha un’occasione ed una speranza: accreditarsi tra le potenze continentali ed intercontinentali anche e proprio perché fu presto chiaro, forse non a tutti, che l’eurocentrismo stava scomparendo e che il conflitto ne avrebbe accelerato la fine.

La guerra fu luogo di scontro e d’incontro, per l’Italia, di uomini di regioni, civiltà, costumi e lingue diverse. I nostri soldati analfabeti cominciarono ad imparare a leggere e scrivere in una lingua sino ad allora sconosciuta: l’italiano (De Mauro).

La guerra è una costante del genere umano: da Socrate a Karl von Clausewitz i conflitti armati sono la continuazione della politica, quando questa e la diplomazia non hanno più niente da dire.

Guerra e pace sono intimamente connesse. Solo dallo scontro cruento nascono nuove realtà sociopolitiche, anche se a volte peggiori di quelle soppiantate.

Aree di frizioni geopolitiche divennero, lentamente e poi sempre più rapidamente, origine di frattura ideologica e sociale. Ozioso è chiedersi se un conflitto sia giusto o ingiusto, morale o immorale. Pungente ed equilibrata la tesi di Benedetto Croce in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra ha scritto: “… quando la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale e immorale quanto un terremoto o altro assestamento tellurico) i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della Patria … Solo a questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, giusto sia anche l’avversario e, per questa via giusto sarà per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra”.

Tra questa tesi e quella di von Clausewitz si dispiega una serie quasi infinita di livelli e di interpretazioni polemologiche. Sta di fatto che la Grande Guerra è il displuvio tra il nuovo e l’antico, processo di trasformazione al quale l’Italia non poteva sottrarsi.

I belligeranti respinsero con fastidio l’appello di Benedetto XV, dell’1 agosto 1917, concordato con l’imperatore Carlo, per porre fine all’inutile strage, tanto si erano identificati nei propri interessi e nelle proprie ragioni, e pure, proprio in agosto a Torino era scoppiata la sanguinosa ‘rivolta del pane’.

Caporetto e Vittorio Veneto sono due metafore che rappresentano l’Italia, sempre caricate di significati estranei alla loro natura di fatti bellici. Mercoledì 24 ottobre 1917 alle ore 2 del mattino gli austro-tedeschi investono, con i gas, gli avamposti della conca tra Plezzo a Tolmino. Hanno in mente un’operazione di ordine tattico, condotta su tre colonne che attaccano contemporaneamente sulla destra e sulla sinistra dell’Isonzo. Il progetto divenne via via strategico, quando il nemico si rese conto che i nostri Comandi al più alto livello nelle prime ore non riuscivano ad organizzare alcun contrasto in profondità, poiché la loro filosofia era sempre stata solo di attacco e non anche di difesa in profondità. La 14ª Armata austro-tedesca, 15 divisioni, investì tre nostre divisioni prive di riserve. In sintesi, il nemico avanzò lungo la linea Isonzo-Tagliamento-Udine- Belluno- Piave nel vuoto, per tutta la prima giornata. Il piano di contrasto fu preparato da Cadorna tra il 28 e il 30 ottobre. I reparti in linea, nel frattempo, si ritiravano combattendo. Pochi esempi: il 24 stesso alle ore 14 nel comune di Idersko si combatte casa per casa e solo alle 16 i battaglioni slesiani occuperanno Caporetto.

il 25 ottobre: “… ufficiali della brigata Napoli, 75° reggimento, che si trovavano verso Monte Piatto videro al mattino del 25 i battaglioni della brigata Firenze, che salivano a plotoni affiancati l’erta ripida verso la cima del Podklabuk … L’artiglieria nemica rivolse il tiro contro di essi. Si videro i plotoni colpiti scomporsi, ricomporsi subito e ritentare la salita; ed i fanti della brigata Firenze salivano sempre più in alto, mentre vuoti continui si osservavano nelle loro file”. Così Guido Sironi, I vinti di Caporetto.

Il Diario del LI Corpo d’Armata tedesco conferma: “Gli italiani difesero lo Jeza con straordinario valore”.

Il 27 ottobre il Bollettino austriaco afferma: “ Gli italiani hanno difeso la Bainsizza a passo a passo”.

E ancora: “Le intercettazioni telefoniche ci facevano conoscere le maledizioni alla nostra artiglieria, il numero dei morti e dei feriti, le proteste degli ufficiali perché fosse data un’altra sistemazione alle loro truppe” (Generale Enrico Caviglia in La dodicesima battaglia – Caporetto pag 93).

La travolgente avanzata dopo le prime 24 ore andò gradatamente rallentando sino a spegnersi del tutto sulle rive del Piave il 9 novembre; tra il 10 e l’11 dicembre 1917, si spensero anche le ultime spallate di Conrad.

L’arretramento sulla linea del Piave era previsto sin dai tempi di Odoacre, di Napoleone e del generale Cosenz. Cadorna il 27 ottobre giunge a Treviso e predispone il rischieramento dell’esercito sulla riva destra del Piave; il 30 il nuovo progetto è pronto. Sarà attuato da Diaz. Purtroppo, alle ore 13 del 28 il Generalissimo aveva emanato l’infelice Bollettino n.° 887, che accusava di viltà la II Armata. Cadorna avrebbe spiegato la sua accusa nel volume Pagine polemiche Garzanti 1951. (D. D. I.) Un po’ tardi!

Sul fronte politico il Re, tornato a Roma il 26, risolve la crisi di governo sostituendo Boselli con Orlando e nominando, poi, il generale Diaz al posto di Cadorna. Il 5 e il 6 novembre si svolse a Rapallo la riunione preparatoria del convegno dell’8 a Peschiera. Qui Vittorio Emanuele III sostenne le ragioni del soldato italiano e la sua capacità di resistenza. Non sbagliò. Il Piave, quindi, fu un disegno netto e meditato, che riduceva la linea del fronte da 650 a 300 km, e ci consentiva un rafforzamento fondamentale nell’immediato e nella prospettiva.

 

L’altra metafora è Vittorio Veneto. Per taluni è modesta battaglia enfatizzata dalla propaganda governativa. Falso. Le tre battaglie del Piave, che a Vittorio Veneto si conclusero il 31 ottobre, ci costarono 36.000 perdite, delle quali 7.000 morti accertati. Vero è, invece, che l’implosione dell’Impero asburgico non aveva intaccato la capacità di resistenza e offesa dell’esercito, fedele all’Imperatore.

Non possiamo descrivere l’andamento degli scontri sul Piave e sul Grappa, dove già il 24 eravamo partiti all’attacco e dove i combattimenti saranno più sanguinosi che sulle rive del Piave e sugli Altipiani, ma la montagna non ebbe un Cantore; diremo soltanto che il nemico organizzò la propria manovra su tre momenti: a. superare il Piave; b. prendere Venezia; c. dilagare nella Pianura Padana.

La massima penetrazione del nemico si ferma sull’ansa tra Zenson e la Grave di Papadopoli. Lo storico londinese Erbert A. L. Fisher nella sua Storia d’Europa, a pag 401, aveva scritto: “Che, dopo simile disfacimento del morale militare,[Caporetto ndr] il fronte italiano fosse solidamente ricostruito, dimostra la grande abilità di Cadorna e l’enorme forza di reazione italiana. Il Piave fu tenuto e fu salvata Venezia. Ma al sopraggiungere dell’inverno era ancora incerto se l’esercito italiano, benché sotto il nuovo comandante Diaz e rafforzato da divisioni francesi e inglesi, sarebbe stato in grado di respingere vittoriosamente il nuovo attacco”. Purtroppo l’illustre storico dimentica che prima della battaglia di Caporetto gli Alleati avevano ritirato dal fronte alpino ben 99 medi calibri ed avevano sospeso l’invio, già iniziato, di altri 102 bocche di fuoco, il 19 settembre 1917, non credendo all’imminente attacco degli Imperiali. Non solo, ma le divisioni promesse non saranno 11 e le poche arrivate si attesteranno oltre il Mincio. Gli Stati Uniti entrati un guerra il 6 aprile del 1917, ci manderanno un solo reggimento. Astuti!

Epitome della guerra italiana è il passaggio del Piave. Sera del 26 ottobre 1918: “Appena fu notte, cominciarono le operazioni sulla fronte delle armate schierate lungo il fiume, fra Pederobba e Le Grave. La 12ª e l’8ª armata potevano agire per sorpresa; la 10ª, avendo già sfruttato la sorpresa, doveva passare di viva forza. Verso le ore 21 le truppe erano raccolte ai posti prestabiliti; ed i pontieri erano pronti. Cominciò subito il traghetto con le barche. Gli Austriaci tacevano, ed il rumore delle barche sul terreno e dei carri era soffocato da quello della turbinosa piena del fiume. Essa ci rendeva un buon servizio, pur essendo in quel momento la nostra principale avversaria. La 12ª armata, dopo vari tentativi di gittamento del ponte, era riuscita a far passare al di là il 107° fanteria francese, i battaglioni alpini Bassano e Verona, nonché due compagnie mitragliatrici e due compagnie della brigata Messina (XII corpo d’armata – Di Giorgio). Ma tutti i lavori per gittare un ponte e tre passerelle furono distrutti dalla piena e dalla reazione nemica. Al mattino del 27 le truppe passate erano isolate al di là del fiume”. Le tre battaglie del Piave (pagg. 174-175) Così il Generale Enrico Caviglia, comandante l’VIII Armata, che condusse la manovra.

Da questo momento le truppe italiane proseguiranno in profondità riprendendo uno per uno tutti i centri occupati dal nemico. Il 3 novembre alle 15,15, i nostri primi reparti entrano a Trento. Alle 16,30 dal caccia “Audace”, i bersaglieri sbarcano a Trieste. Sempre il 3 novembre, alle 18,20, i generali Badoglio e Webenau, a Villa Giusti, firmano l’armistizio. Questo atto stroncò la nostra avanzata verso Vienna. Nessuno, amici ed alleati, voleva che l’Italia andasse oltre.

Tuttavia, l’esperienza bellica modifica le coscienze e testimonia l’esaltazione della storia di un popolo, ignaro, sino a quel momento, di quanto sapesse fare e sconosciuto a se stesso. I nostri giovani chiusero un’epoca e ne iniziarono un’altra. Diedero prova di virtù civiche prima ancora che militari. Si identificarono nello Stato Nazionale. Cianciare di “generazione perduta” significa negare noi stessi.

14 agosto 2017

 

 

Napolitano ha spadroneggiato

Grazie a un Parlamento complice

Re Giorgio ha benedetto la legislatura bocciata dalla Consulta.

In cambio, ha regnato lui

Di Salvatore Sfrecola

 

Monta la polemica sull’operato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell’intervento militare in Libia nel 2011. Né si placherà presto, perché la critica nei confronti di questo Presidente ha accompagnato l’intero suo settennato nel quale egli, a giudizio di molti, si è atteggiato non da arbitro, come vuole la Costituzione, ma da giocatore in una delle squadre in campo, tanto che sulla stampa ricorre l’espressione “Re Giorgio”, proprio a sottolineare il suo protagonismo, in versione presidenzialista. Che ha raggiunto il suo acme in occasione della proposta di riforma costituzionale che egli si è intestato ed ha posto come obiettivo dell’agenda del Governo. Lo ha ripetutamente affermato, durante la campagna referendaria, l’allora Ministro per le riforme Maria Elena Boschi, insieme al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, un altro che non ha saputo stare al suo posto, perché la riforma costituzionale è del Parlamento e non del Governo.

Tornando a Giorgio Napolitano, il suo impegno per le riforme del Governo Renzi è stato rilevante e continuo, fino all’ultimo giorno del suo secondo mandato terminato il 14 gennaio 2015, tanto da rivendicarne apertamente la paternità, con interventi, ripetuti e pressanti, non consueti ad un Capo dello Stato in una Repubblica parlamentare. Ed ha continuato, da Presidente emerito, a difendere la riforma durante la lunga campagna referendaria, come quando ha affermato che, se avesse prevalso il NO, avrebbe considerato il risultato una sua personale sconfitta, un disconoscimento della sua iniziativa (“col referendum, a rischio la mia eredità” Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2016), aggiungendo che in tal caso “per le riforme è finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi”(Corriere della Sera, 3 maggio 2016).

È così che la lettura “presidenzialista” che Napolitano ha impresso alla sua presidenza è stata al centro del dibattito politico e dell’attenzione dei costituzionalisti la maggior parte dei quali ha ritenuto che il Presidente fosse fuori della Costituzione. Un comportamento entrato nel mirino di Gustavo Zagrebelsky, ordinario di diritto costituzionale a Torino e Presidente emerito della Corte costituzionale, che, nell’accusare il Governo  di “arroganza”, ha ripetutamente sottolineato come “queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di chi, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione” (Loro diranno, noi diciamo, Laterza, Bari, 2016).

Se facciamo un passo indietro la responsabilità di Giorgio Napolitano è ancora maggiore, con riguardo alla legittimità del Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 1 del 2014 la quale ha anche delimitato i poteri delle Camere, consentendo loro, per un principio di continuità delle istituzioni, di restare in carica per attività di ordinaria amministrazione. Come si deduce dal riferimento, che si legge nella sentenza, a due disposizioni della Costituzione, l’art. 61, il quale prevede che “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti” e l’art. 77, comma 2, sulla base del quale le Camere, “anche se sciolte” si riuniscono per esaminare decreti legge che devono essere convertiti entro sessanta giorni, pena la decadenza. Due riferimenti che delimitano fortemente l’ambito di operatività delle Camere.

Chi avrebbe dovuto presidiare il rispetto della sentenza se non Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica e pertanto garante della legalità costituzionale? Invece il Capo dello Stato non si è preoccupato di tenere sotto controllo il rispetto della sentenza ed anzi ha consentito al governo, non solamente di farsi promotore di una serie di disegni di legge approvati a colpi di maggioranza, ma addirittura di promuovere la riforma della Costituzione, la legge fondamentale dello Stato. Insomma un Parlamento eletto sulla base di una legge incostituzionale che modifica la Costituzione. Ne scriveranno per anni nei libri di storia costituzionale.

Un Presidente sopra le righe, dunque, le cui iniziative gli italiani hanno dimostrato di non gradire respingendo con un voto senza appello, il 4 dicembre 2016, la riforma costituzionale che Matteo Renzi aveva proposto anche su sua indicazione. Quella riforma, quel testo – lo si legge nelle conclusione del documento dei fautori del SI – che “non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate”. Ed io mi sono sempre chiesto se sia possibile proporre una riforma radicale della Costituzione, la legge delle leggi, nella consapevolezza che il testo “non è privo di difetti”.

La Verità, 6 agosto 2017, pagina 11

 

 

 

Nello sport l'immagine

dell’unità d’Italia

di Domenico Giglio

 

Già in occasione delle recenti Olimpiadi di Rio, del 2016, avevo scritto compiacendomi per il risultato raggiunto, come numero di medaglie, dalla rappresentativa italiana, confermando un andamento positivo che può farsi risalire al record di 30 medaglie, ottenuto alle Olimpiadi del 1932 tenute a Los Angeles (che dopo il bis del 1984 farà il tris nel 2028!), ed avevo sottolineato che questo risultato era uno dei frutti della unità nazionale, in quanto il medagliere aveva premiato atleti di tutte le regioni italiane.

Adesso, luglio 2017, i campionati mondiali di nuoto e di scherma hanno confermato l’Italia nei primi posti di queste specialità per cui non posso che confermare il precedente giudizio altamente positivo, che riguardava inoltre la presenza di numerose donne campioni. E questo apprezzamento delle nostre atlete si rinnova per questi campionati mondiali e quale maggiore soddisfazione vedere le vittorie nella scherma della squadra femminile, sport dove l’Italia aveva sempre primeggiato, a livello maschile, con schermitori di livello mondiali che sono entrati nella leggenda dai Nedo Nadi ai Mangiarotti.

Fortunatamente da anni le ipotesi secessioniste che erano state avanzate qui in Italia, per il Nord, sono rientrate, ma ancora oggi vi sono invece scrittori che scavano fossati ed incitano a sentimenti quasi di rivolta, questa volta nel Sud, ed ai quali invio queste considerazioni sportive, pensando cosa sarebbe stato il medagliere di un’Italia divisa, in più stati e staterelli, quale era prima del 17 marzo 1861.

1° agosto 2017

 

 

 

 

 

 

 


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